Utente Youtube “demonetizzato” si lamenta in corte ma perde la causa

la divisione San Josè della district court californiana decide l’8 luglio 2021, Case 5:20-cv-04687-VKD , Marshall Daniels. c. Alphabet, la lite promossa da utente Youtube che aveva lamentato sia la rimozione di suoi video che la demonetizzaione delle donazioni già maturate tramite la funzione SuperChat , che permette di pagare per avere Chat in primo piano durante una esecuzione in diretta: <<The SuperChat function “allows third parties to donate monies to content creators such as Mr. Daniels during a live stream.” Id.¶ 13.Any viewer watching a YouTube livestream can purchase a “SuperChat,” which is a highlighted chat that remains pinned to the top of the chat stream for up to five hours. Id.19. According to Mr. Daniels, “Google represents to its users that ‘SuperChat and Super Stickers are ways to monetize your channel through the YouTube Partner Program.’” Id. ¶ 13. SuperChat revenue is separate and apart from YouTube Partner advertising revenue.” Id.¶ 13 n.4>>, p. 2.

Sulle funzioni SuperChat e Super Sticker v. la pagina guida di Youtube.

Notiamo che è data per scontata la qualifica contrattuale del rapporto tra utente e Youtube, anche se il primo  nulla deve monetariamente alla seconda.

In precedenza la corte aveva rigettato per quattro ragioni la domanda di Daniels e qui le ricorda:

<<First, with respect to Mr. Daniels’s allegation that defendants breached YouTube’s Terms of Service by failing to inform him when one of his videos was flagged or removed, the Court found that Mr. Daniels did not plead any facts suggesting that defendants were required to notify him of the specific reasons for the removal of his content or that YouTube’s alleged failure to provide advance notification was inconsistent with the highly discretionary policy described in the Terms of Service. SeeDkt. No. 31 at 14; Dkt. No. 182 at 4.

Second, with respect to Mr. Daniels’s allegation that defendants breached the Terms of Service by failing to provide an appeals process, the Court found that the Terms of Service did not guarantee an appeals process in any particular form, andeven if it did, Mr. Daniels had acknowledged that he engaged in an appeals process for both of his removed videos. Dkt. No. 31 at 14.

Third, with respect to Mr. Daniels’s allegation that defendants breached the Terms of Service by failing to permit Mr. Daniels to post his videos, the Court found that theexpress terms of theTerms of Service contradicted Mr. Daniels’s claim that the Terms of Service permit YouTube to remove content only in the event that that content violates the Community Guidelines. SeeDkt. No. 31 at 1415; Dkt. No. 182 at 4(“YouTube is under no obligation to host or serve Content” and “may remove or take down that Content in our discretion”).

Fourth, with respect to Mr. Daniels’s allegation that defendants failed to pay him based on SuperChat views and donations, the Court found that Mr. Daniels had failed to adequately allege apromise that was breached because theTerms of Service on which Mr. Danielsrelies do not address any kind of arrangement to pay users based on SuperChat views and donations. SeeDkt. No. 31 at 15. However, the Court observed that Mr. Daniels might be able to plead a proper breach of contract claim based on a different agreement, such as the YouTube Partner Program agreement.>>.

La domanda modificata contempla il denaro che Y. aveva promesso di girargli tramite le donazioni su SuperChat ma che non gli girò. Secondo l’attore viola il contratto dato che l’unica ragione per cui avrebbe potuto non girarglielo era la clausola sui sei mesi di inattività (six months  dormant), però non operante nel caso specifico.

La corte rigetta: <<Defendants argue, and Mr. Daniels concedes, that the Terms of Service do not contain any provisions regarding the SuperChat function.Seeid.¶ 20; Dkt. No. 33 at 5. Mr. Danielsrespondsthat Defendants’ posted SuperChat policies are incorporated into and/or governed by YouTube’s Terms of Service. Dkt.No. 34 at 34. Essentially, he suggests that the Terms of Service encompass any statements about the SuperChat function posted elsewhere by Defendants.In the FAC, Mr. Daniels alleges that“YouTube has promised the users of the SuperChatfunction that there is one situation in which the SuperChat may be demonetized: if the creator has been dormant for six months.” Dkt. No. 32 ¶20. In opposing dismissal, Mr. Daniels identifies the source of this alleged promiseas a document already of record in this proceeding: Exhibit 122to the declaration of Lauren White. Dkt. No. 1813.

That document, titled “YouTube Partner Program overview & eligibility,” includes the following statement: “We updated this article to provide more transparency thatYouTube may disable monetization for channels that haven’t uploaded a video or posted to the Communitytab for 6 months or more.” Id.

Mr. Daniels’s assertion that this statement constitutes a promise by Defendants to pay Mr. Daniels for SuperChat donations so long as his channel is not dormant from six months or more is simply implausible.3

The statement does not refer to the SuperChat function, nor does it contain a promise that the only circumstancein which monetization will be disabled is if a channel is dormant for six months.

Mr. Daniels describes no other basis for Defendants’ purported breach of a promise to pay him for SuperChat donations already earned.

In sum, Mr. Daniels’s FAC does not state a claim for breach of contract because,as before,he fails to identify any contractual obligation that Defendants breached>>

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Risarcimento del danno antitrust da intesa vietata in base alla nuova normativa (d. lgs. 3 del 2017)

Trib. Napoli 06.07.2021, n. 6319/2021, RG 4754/2019, affronta il tema in oggetto toccando più punti, interssanti sia in pratica che in teoria.

Si tratta forse del primo provvedimento sull’oggetto, come ritiene pure il Tribunale, p. 8

la richeista danni derivava dall’acquisto a prezzo sovracompetitivo di un autocarro da un distributgore di una nota casa  europea, partecupe di un’intesa collusiva accertata dalla Commissione UE nel 2016.

Ricordo alcuni punti:

1 – prescrizione: decore da quanto l’istruttoria ammkinistrativa si  èconclusa <<L’eccezione di prescrizione, ad avviso del Tribunale, non è fondata. Essa trascura il fatto che solo nel 2016, con la definizione della procedura attraverso il suo concordato esito (settlement), si è potuto avere contezza dell’ingiustizia del danno (che è requisito fondamentale senza il quale non può radicarsi alcun diritto risarcitorio) e, pertanto, solo da tale data, deve ritenersi che l’attrice abbia avuto piena contezza dell’illecito in questione. Giova, inoltre, evidenziare che, negli stessi resoconti di stampa depositati dalla convenuta, si riporta l’originario comunicato della Commissione che afferma che l’inizio dell’indagine non significa necessariamente che le imprese siano “colpevoli”.>>

2 – il settlment  tra Commissione a imprese indagate: è equiparabile alla sanzione quanto ad accertamento dell’illecito: <<Non pare, però al Collegio, che dall’esito negoziale della vicenda sanzionatoria possano discendere le conseguenze auspicate dalla convenuta. Invero, il settlement è strumento assurto a dignità di normazione europea (art. 10 bis Regolamento CE 773/2004, come modificato dal Reg.622/2008, già in precedenza ricordato) e costituisce un esito transattivo della controversia connotato dall’accettazione completa, da parte dei soggetti colpiti da procedura di accertamento di illecito anticoncorrenziale, dell’esistenza di questo e della ritenuta sua efficacia lesiva della concorrenza. Da questo punto di vista, il settlementcostituisce uno strumento agile, un modo alternativo di risoluzione delle dispute, che vede la partecipazione delle società incolpate in colloqui e trattive prolungate (come successo nel caso di specie e come è dato leggere nel relativo provvedimento della Commissione europea in atti) e con conseguente accettazione delle sanzioni pecuniarie proposte.>>.

Qui il trib. è impreciso, a rigore: nella transazione -in sensocivilistico e secondo la concezione nazionale- non esiste alcun accertamento/riconoscimento dei diritti pregressi e solo si pattuisce sul futuro.

E poi: <<Va quindi concluso che la intesa sanzionata che costituisce prova della esistenza di una condotta violativa delle regola della concorrenza comporta la presunzione del trasferimento dei danni da sovraprezzo da monte a valle con fondatezza della domanda attorea, perché manca la prova contraria cui era onerata la parte convenuta che si è limitata, nella subordinata, a sostenere che la parte attrice non avrebbe comunque diritto al rimborso dell’intero sovrapprezzo sostenuto per l’acquisto dell’autocarro per cui è causa, ma solo di una parte dello stesso cioè di quella parte calcolata al netto di quanto già risparmiato in termini di imposte e nulla più>>, p. 15.

3 – c’è legittimazione ade agire dell’acquirente indiretto, p. 12.

4 –  è illecito di natura aquiliana, p. 14

5 – quantificazione: il sopvraprezzo costituente danno era stato stimato nel 20 % dall’attore (forse sulla base di precedenti giudiziali o amministrativi), ma stabilito nel 15 per cento in via equitativa dal Trib.

Profili processuali sul risarcimento del danno da illecito trattamento dati ex art. 15 cod. privacy

Qualche spunto processuale sul risarcimento del danno ex art. 15 cod. privacy (testo allora vigente) in Cass. ord. 14.618 del 26.5.2018, PF c. Comune di Cellara CS.

Oggi analoga disposizione sta nell’art. 82 del reg. _UE GDPR.

<<2.3. Risulta decisivo osservare che l’illegittimo trattamento di dati sensibili D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 4 configurabile come illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c., non determina un’automatica risarcibilità del danno poichè il pregiudizio (morale e/o patrimoniale) deve essere provato dal danneggiato secondo le regole ordinarie, quale ne sia l’entità e la difficoltà di assolvere l’onere probatorio, trattandosi di un danno-conseguenza e non di un danno-evento, senza che rilevi in senso contrario il suo eventuale inquadramento quale pregiudizio non patrimoniale da lesione di diritti costituzionalmente garantiti (Cass. n. 15240 del 03/07/2014). Tuttavia, poichè i danni cagionati per effetto del trattamento dei dati personali, in base al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15 sono assoggettati alla disciplina di cui all’art. 2050 c.c., il danneggiato è tenuto solo a provare il danno e il nesso di causalità con l’attività di trattamento dei dati, mentre incombe al danneggiante la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno stesso (Cass. n. 10646 del 26/06/2012; Cass. n. 18812 del 05/09/2014).

2.4. La ricorrente opera una non condivisibile sovrapposizione tra i rispettivi oneri probatori e confonde l’onere della prova del danno e del nesso di causalità, che gravava su di lei, con l’onere di provare la condotta scriminante ex art. 2050 c.c., che gravava sull’autore del fatto illecito, senza cogliere la ratio decidendi focalizzata proprio sulla mancata prova dell’assunto costituito dalla avvenuta pubblicazione on cine della delibera in versione integrale, posto che dalle deposizioni dei testi ( F. e M., oltre che C., padre della amministrata) non era emerso che gli stessi avessero visionato il testo integrale della delibera on line>>

I fatti storici sottostanti:

<<P.F., nella qualità di amministratrice di sostegno di C.A., aveva chiesto al Tribunale di Cosenza la condanna del Comune di Cellara al risarcimento dei danni subiti dall’amministrata a causa della pubblicazione sull’albo pretorio on-line del Comune di Cellara della (OMISSIS) con la quale era stata accolta la richiesta di ricovero della stessa presso un centro socio-riabilitativo diurno per disabili, contenente informazioni sul suo stato di salute. Il Comune aveva resistito.>>

Diritto all’oblio, diritto di informazione, cancellazione e deindicizzazione

Il sig. CF chiede al Garante privacy provedimenti affinhcè siano cancellati gli URL  o siano deinidiczzate pagine reperite da Google che lo connettono a fatti di mafia.

Non ottiene ragione nè in quella sede nè in Tribunale.

La Cassazione gli dà invece ragione con sentenza n° 15.160 del 31.05.2021 , CF c. Google Italy srl, Google Inc. e Garante Privacy.

la SC prima ricorda la giurisprudenza propria ed europea intema.

Poi procede ad esporre il proprio pensiero: <<orbene, dal complessivo quadro giurisprudenziale e normativo di riferimento si evince – in maniera inequivocabile – che il diritto all’oblio va considerato, atteso il comune fondamento nell’art. 2 Cost., in stretto collegamento con i diritti alla riservatezza ed all’identità personale. Nel bilanciamento tra l’interesse pubblico all’informazione, anche mediante l’accesso a database accessibili attraverso la digitalizzazione di una parola chiave, ed i diritti della personalità suindicati, il primo diviene recessivo allorquando la notizia conservata nell’archivio informatico sia illecita, falsa, o inidonea a suscitare o ad alimentare un dibattito su vicende di interesse pubblico, per ragioni storiche, scientifiche, sanitarie o concernenti la sicurezza nazionale. Tale ultima esigenza presuppone, peraltro, la qualità di personaggio pubblico del soggetto al quale le vicende in questione si riferiscono. In difetto di almeno uno di tali requisiti, la conservazione stessa della notizia nel database è da reputarsi illegittima, e lo strumento cui l’interessato può fare ricorso è la richiesta di “cancellazione” dei dati, alla quale il prestatore di servizi, nella specie Google, è tenuto a dare corso, anche in forza delle menzionate sentenze delle Corti Europee.

Nelle ipotesi in cui sussiste, invece, un interesse pubblico alla notizia, l’interessato, i cui dati non siano indispensabili – non rivestendo il medesimo la qualità di un personaggio pubblico, noto a livello nazionale – ai fini della attingibilità della notizia sul database, può richiedere ed ottenere la “deindicizzazione”, in tal modo bilanciandosi il diritto ex art. 21 Cost., della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico, con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita compressione della propria immagine sociale (Cass., n. 7559/2020).

In siffatta ipotesi, sussiste, invero, un diritto dell’interessato ad evitare che la possibilità di un accesso agevolato, protratto nel tempo, ai dati personali, attraverso il mero uso di una parola chiave possa ledere il suo diritto all’oblio, inteso in correlazione al diritto all’identità personale, come diritto a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica diversa da quella reale, e costituente oggetto di notizie ormai archiviate e superate.>>, § 2.4.14.

Nel caso di specie, il Tribunale ha dato atto che il C. <<aveva chiesto in giudizio, sia la “cancellazione” di determinati URL dal risultato dei motori di ricerca, sia la “deindicizzazione”, che impedisce – come detto – che, digitando una parola chiave, affiorino dal motore di ricerca i dati da questo attinti dai “siti sorgente”, che possono pregiudicare il diritto dell’interessato a non vedersi attribuite certe frequentazioni o certe qualità deteriori. E tuttavia, pur considerando la domanda di cancellazione “sproporzionata ( ) rispetto all’obiettivo perseguito dal ricorrente che si sostanzia nell’eliminazione dell’automatica emersione degli articoli all’inserimento del suo nome”, non ha poi contraddittoriamente ed incongruamente – considerato la non essenzialità, ai fini dell’interesse pubblico alla conoscenza di fatti criminosi commessi nella realtà calabrese, del permanere dell’indicizzazione degli URL, partendo dal nome dell’interessato, combinato con termini come “‘ndrangheta”, “massoneria”, “boss”. Tanto più che dalla riproduzione degli articoli contenuta nella sentenza impugnata, non si evince – sebbene i fatti ivi riportati siano stati accertati come veritieri – alcun coinvolgimento concreto ed effettivo del C. in procedimenti penali per fatti di criminalità organizzata.

2.4.16. La sentenza, pertanto, non si sottrae neppure alla censura – al di là dell’impropria intestazione del motivo che fa riferimento a parametri non più contenuti nel novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – di vizio di motivazione, apparendo la decisione in esame anche fortemente carente sul piano motivazionale. Ed invero, oltre ai rilievi che precedono, va soggiunto che la notorietà del C., peraltro esclusivamente a livello locale, è stata utilizzata dal Tribunale fondandosi su elementi, come le attività filantropiche e di beneficenza che, ben al contrario, avrebbero dovuto essere logicamente valorizzati ai fini di escludere la necessità del permanere dell’indicizzazione dei documenti in questione, che mettevano in luce – senza alcun positivo elemento di – riscontro aspetti della personalità del soggetto interessato in contrasto con le qualità del medesimo emerse nel giudizio.

1.4.17. Al riguardo, il Tribunale si è, altresì, limitato a considerare esclusivamente il diritto all’oblio – che nella specie riguardava il diritto del C. a non vedersi reiteratamente associato, semplicemente digitando il proprio nome, a fatti ai quali si considerava estraneo – sotto il mero profilo temporale, non ponendolo in raccordo con il diritto alla riservatezza e con quello all’identità personale, al quale è strettamente collegato, e comunque non tenendo conto – del tutto incongruamente – che le intercettazioni, dalle quali gli articoli avevano desunto la fonte delle notizie riferite, risalivano comunque a cinque anni prima della decisione assunta>>, § 2.4.15.

I giudici europei sul marchio sonoro

Il suono dell’apertura di una lattina per bevande (di vario tipo) è registrabile? No, secondo Trib. 07.07.2021, T-668/19, Ardagh Metal Beverage Holdings GmbH & Co. KG c. EUIPO.

 Il marchio di cui è stata chiesta la registrazione è un segno sonoro che ricorda il suono che si produce all’apertura di una lattina di bevanda, seguito da un silenzio di circa un secondo e da un gorgoglio di circa nove secondi. Un file audio è stato prodotto dalla ricorrente al momento del deposito della domanda di registrazione, § 2.

E’ importante ricordare le classi domandate: v. § 3.

La fase amministrativa è andata male per l’istante e così pure ora in Tribunale UE.

il T. critica la decisione della Commissione dei ricorsi di avvalersi del criterio per la distntività proprio dei marchi di forma : <<solo un marchio che si discosti in modo significativo dalla norma o dagli usi del settore e che, di conseguenza, assolva la sua funzione essenziale d’indicatore d’origine non è privo di carattere distintivo ai sensi di detta disposizione (sentenza del 7 ottobre 2004, Mag Instrument/UAMI, C‑136/02 P, EU:C:2004:592, punto 31).>>,  § 29.

Infatti non  è trasportabile nemmeno per analogia ai marchi non di forma (§ 33; su questo punto, immotivato, ci sarebbe  però molto da dire). Si tratta comunque  l’errore che viziatur se non viziat , dato che la decisione aveva anche altre basi motivatorie, § 34

Quanto al merito della distintività, nonostante non si tratti solo di bevande gassate (in primis richaimate dal tipo di suono) , la distinvità  è ugualmente carente per tutte le classi:

<<Infatti, da un lato, il suono emesso al momento dell’apertura di una lattina sarà considerato, alla luce del tipo di prodotti di cui trattasi, come un elemento puramente tecnico e funzionale, dato che l’apertura di una lattina o di una bottiglia è intrinseca ad una soluzione tecnica determinata nell’ambito della manipolazione di bevande ai fini del loro consumo, indipendentemente dal fatto che siffatti prodotti contengano gas carbonico o meno.

41      Orbene, qualora un elemento sia percepito dal pubblico di riferimento come elemento che soddisfa principalmente un ruolo tecnico e funzionale, esso non sarà percepito come un’indicazione dell’origine commerciale dei prodotti interessati [v., per analogia, sentenza del 18 gennaio 2013, FunFactory/UAMI (Vibratore), T‑137/12, non pubblicata EU:T:2013:26, punto 27 e giurisprudenza ivi citata].

42      D’altro lato, il suono del gorgoglio delle bollicine sarà immediatamente percepito dal pubblico di riferimento come richiamo a bevande.

43      Inoltre, gli elementi sonori e il silenzio di circa un secondo che compongono il marchio richiesto, considerati nel loro insieme, non possiedono alcuna caratteristica intrinseca che consenta di ritenere che, oltre alla loro percezione come indicazione di funzionalità e come richiamo ai prodotti di cui trattasi per il pubblico di riferimento, questi potrebbero anche essere percepiti da tale pubblico come un’indicazione dell’origine commerciale.

44      È vero che il marchio richiesto presenta due caratteristiche, vale a dire il fatto che il silenzio duri circa un secondo e che il suono del gorgoglio delle bollicine ne duri circa nove.

45      Tuttavia, tali sfumature, rispetto ai suoni tipici prodotti dalle bevande all’apertura, nel caso di specie non possono essere sufficienti per respingere l’obiezione fondata sull’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), del regolamento 2017/1001, in quanto esse saranno percepite dal pubblico di riferimento, come indicato ai precedenti punti 19 e 21, solo come una variante dei suoni abitualmente emessi da bevande al momento dell’apertura del loro contenitore, e non conferiscono quindi al marchio sonoro richiesto alcuna facoltà di identificazione tale da renderlo riconoscibile come marchio.

46      Pertanto, come giustamente rilevato dall’EUIPO, il silenzio dopo il suono di apertura di una lattina e la lunghezza del suono del gorgoglio, di circa nove secondi, non sono abbastanza pregnanti per distinguersi dai suoni comparabili nel settore delle bevande. La mera circostanza che un gorgoglio di breve durata immediatamente successivo all’apertura di una lattina sia più usuale nel settore delle bevande rispetto a un silenzio di circa un secondo seguito da un lungo gorgoglio non è sufficiente affinché il pubblico di riferimento attribuisca a tali suoni un qualsiasi significato che gli consenta di identificare l’origine commerciale dei prodotti di cui trattasi.

47      Contrariamente a quanto sostiene la ricorrente, la combinazione degli elementi sonori e dell’elemento silenzioso non è quindi inusuale nella sua struttura, in quanto i suoni di apertura di una lattina, di un silenzio e di un gorgoglio corrispondono agli elementi prevedibili e usuali sul mercato delle bevande.

48      Tale combinazione non consente quindi al pubblico di riferimento di identificare detti prodotti come provenienti da una determinata impresa e di distinguerli da quelli di un’altra impresa.

49      Da quanto precede risulta che la commissione di ricorso ha correttamente concluso che il marchio richiesto era privo di carattere distintivo per tutti i prodotti compresi nelle classi 29, 30, 32 e 33>>.

Il T. richiama come precedente per marchio sonoro la propria sentenza 13.09.2016, T-408/15, Globo Comunicação e Participações S/A c. EUIPO, che aveva negato la retgistraezione per carenza di distintività (banalità del suono).

Azione in corte di Trump contro i colossi digitali che lo esclusero dai social (ancora su social networks e Primo Emendamento)

Techdirt.com pubblica l’atto di citazione di Trump 7 luglio 2021 contro Facebook (Fb)   che nei mesi scorsi lo bannò.  E’ una class action.

Il link diretto è qui .

L’atto è interessante e qui ricordo solo alcuni punti sull’annosa questione del rapporto social networks/primo emendamento.

Nella introduction c’è la sintesi di tutta l’allegazione, pp. 1-4.

A p. 6 ss trovi descrizione del funzionamneot di Fb e dei social: interessa spt. l’allegazione di coordinamento tra Fb e Tw, § 34 e la piattaforma CENTRA per il monitoraggio degli utenti completo cioè  anche circa la loro attività su altre piattaforme ,  § 36 ss. .

 Alle parti III-IV-V l’allegazione sul coordinamenot (anche forzoso, sub III, § 56)  tra Stato  Federale e piattaforme.  Il che vale a preparare il punto centrale seguente: l’azione di Fb costituisce <State action> e dunque non può censurare il free speech:

<<In censoring the specific speech at issue in this lawsuit and deplatforming Plaintiff, Defendants were acting in concert with federal officials, including officials at the CDC and the Biden transition team. 151.As such, Defendants’ censorship activities amount to state action. 152.Defendants’ censoring the Plaintiff’s Facebook account, as well as those Putative Class Members, violates the First Amendment to the United States Constitution because it eliminates the Plaintiffs and Class Member’s participation in a public forum and the right to communicate to others their content and point of view. 153.Defendants’ censoring of the Plaintiff and Putative Class Members from their Facebook accounts violates the First Amendment because it imposes viewpoint and content-based restrictions on the Plaintiffs’ and Putative Class Members’ access to information, views, and content otherwise available to the general public. 154.Defendants’ censoring of the Plaintiff and Putative Class Members violates the First Amendment because it imposes a prior restraint on free speech and has a chilling effect on social media Users and non-Users alike. 155.Defendants’ blocking of the Individual and Class Plaintiffs from their Facebook accounts violates the First Amendment because it imposes a viewpoint and content-based restriction on the Plaintiff and Putative Class Members’ ability to petition the government for redress of grievances. 156.Defendants’ censorship of the Plaintiff and Putative Class Members from their Facebook accounts violates the First Amendment because it imposes a viewpoint and content-based restriction on their ability to speak and the public’s right to hear and respond. 157.Defendants’ blocking the Plaintiff and Putative Class Members from their Facebook accounts violates their First Amendment rights to free speech. 158.Defendants’ censoring of Plaintiff by banning Plaintiff from his Facebook account while exercising his free speech as President of the United States was an egregious violation of the First Amendment.>> (al § 159 ss sul ruolo di Zuckerberg personalmente).

Ne segue che il safe harbour ex § 230 CDA è incostituzionale:

<<167.Congress cannot lawfully induce, encourage or promote private persons to accomplish what it is constitutionally forbidden to accomplish.” Norwood v. Harrison, 413 US 455, 465 (1973). 168.Section 230(c)(2) is therefore unconstitutional on its face, and Section 230(c)(1) is likewise unconstitutional insofar as it has interpreted to immunize social media companies for action they take to censor constitutionally protected speech. 169.Section 230(c)(2) on its face, as well as Section 230(c)(1) when interpreted as described above, are also subject to heightened First Amendment scrutiny as content- and viewpoint-based regulations authorizing and encouraging large social media companies to censor constitutionally protected speech on the basis of its supposedly objectionable content and viewpoint. See Denver Area Educational Telecommunications Consortium, Inc. v. FCC, 518 U.S. 727 (1996).170.Such heightened scrutiny cannot be satisfied here because Section 230 is not narrowly tailored, but rather a blank check issued to private companies holding unprecedented power over the content of public discourse to censor constitutionally protected speech with impunity, resulting in a grave threat to the freedom of expression and to democracy itself; because the word “objectionable” in Section 230 is so ill-defined, vague and capacious that it results in systematic viewpoint-based censorship of political speech, rather than merely the protection of children from obscene or sexually explicit speech as was its original intent; because Section 230 purports to immunize social media companies for censoring speech on the basis of viewpoint, not merely content; because Section 230 has turned a handful of private behemoth companies into “ministries of truth” and into the arbiters of what information and viewpoints can and cannot be uttered or heard by hundreds of millions of Americans; and because the legitimate interests behind Section 230 could have been served through far less speech-restrictive measures. 171.Accordingly, Plaintiff, on behalf of himself and the Class, seeks a declaration that Section 230(c)(1) and (c)(2) are unconstitutional insofar as they purport to immunize from liability social media companies and other Internet platforms for actions they take to censor constitutionally protected speech>>.

Come annunciato, ha fatto partire anche analoghe azioni verso Twitter e verso Google/Youtube e rispettivi amministratori delegati (rispettivi link  offerti da www.theverge.com) .

Società di fatto holding personale occulta: indici rivelatori

Qualche indicazione sul sempre complesso argomento in oggetto si trova in Cass. 14.365 del 25.05.2021, rel. Amatore.

La corte di appello aveva  ricordato la <<ricostruzione fattuale posta dal tribunale a sostegno dell’estensione del fallimento alla predetta società di fatto (s.d.f.): i) i coniugi T.C. e S.E., con i figli El. e S., avevano creato una società di fatto holding occulta la cui funzione era quella di esercitare l’attività di direzione e coordinamento rispetto alle quattro “società di famiglia”: l’impresa S. s.r.l. (il cui fallimento era il creditore istante del fallimento oggi contestato), la Costruzioni S. s.a.s. di T.C., la Essetivi s.r.l. e la Impianti sportivi s.r.l., tutte società i cui soci erano i membri della famiglia S.; ii) il fallimento istante aveva invero affermato, quale titolo legittimante la richiesta di fallimento, il credito risarcitorio ex art. 2497 c.c., nascente dai danni conseguenti dalla predetta illegittima attività di direzione e di controllo che aveva arrecato pregiudizio economico alla società controllata anch’essa fallita>>

Gli indici rivelatori della società di fatto occulta sono stati dai giudici di merito così individuati (con motivazione approvata dalla SC): <<la doglianza non è meritevole di accoglimento posto che la corte di merito ha spiegato, in modo esaustivo e con valutazioni in fatto qui non più censurabili, quali fossero gli indici rivelatori di una società di fatto svolgente funzione di direzione e di controllo delle altre società del gruppo familiare S., e ciò con particolare riferimento alle due operazioni “rivelatrici”:

1) la prima relativa all’effettuazione di prelievi, dal 2004 al 2011, da parte dei soci della impresa s. s.r.l. di liquidità senza l’effettiva produzione di utili (per un importo complessivo pari ad Euro 2.300.000), con successivo accollo dei relativi debiti dei soci da parte delle altre due società Esseviti e Costruzioni S. s.a.s., senza alcuna giustificazione economica e con l’ulteriore conseguenza che i crediti non venivano soddisfatti ma solo registrati con una operazione di “giroconto” contabile e con la successiva operazione di trasferimento immobiliare in favore della impresa S. s.r.l. da parte della Costruzioni S. s.a.s. che doveva considerarsi corrispondente ad un valore economico nullo;

2) la seconda operazione posta in essere nel 2008 che, per effetto della scissione societaria, aveva visto la impresa S. s.r.l. trasferire alla neocostituita Costruzioni S. s.a.s. alcuni immobili tra cui il capannone industriale in cui si svolgeva l’attività sociale e nel 2013 la S. s.r.l. trasferire alla neocostituita S. Impianti Sportivi s.r.l. il principale ramo d’azienda per un canone di affitto non congruo. Con la conseguente valutazione secondo cui le predette operazioni di accollo dei debiti personali dei soci da parte delle società del gruppo e la vendita dell’immobile ad un valore pari al doppio del valore di mercato evidenziano la commissione di operazioni prive di significato economico ed anzi mettevano in luce l’esistenza di una società occulta volta alla direzione e al controllo economico delle società del gruppo societario familiare.>>, § 13.3.1.

Sulla necessità della partecipazione di tutti i soci: <<Invero, è stato affermato che la mancata esteriorizzazione del rapporto societario costituisce il presupposto indispensabile perchè possa legittimamente predicarsi, da parte del giudice, l’esistenza di una società occulta, ma ciò non toglie che si richieda pur sempre la partecipazione di tutti i soci all’esercizio dell’attività societaria in vista di un risultato unitario, secondo le regole dell’ordinamento interno, e che i conferimenti siano diretti a costituire un patrimonio “comune”, sottratto alla libera disponibilità dei singoli partecipi (art. 2256 c.c.) ed alle azioni esecutive dei loro creditori personali (artt. 2270 e 2305 c.c.), l’unica particolarità della peculiare struttura collettiva “de qua” consistendo nel fatto che le operazioni sono compiute da chi agisce non già in nome della compagine sociale (vale a dire del gruppo complessivo dei soci) ma in nome proprio (cfr. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 17925 del 12/09/2016).>>, § 1.3.2.

Ci sono poi intressanti considerazioni sul profilo processuale (contraddittorio e censurabilità in cassazione della violazione del termine libero ex art .15 l.f.)

Acquisto di immobile, vizi (infiltrazioni) del medesimo e non risolubilità ex art. 1491 cc

Se l’immobile è vetusto , il venditore ha ammesso che c’erano stati problemi con infiltrazioni in passato che avevano richiesto intervento manutentivo  e se in sede di tratattive è stato concessa una riduzione di prezzo (per le condizioni di vetustà, par di capire) , l’acquirente, se ugualmente ha acquistato, se ne è assunto consapevolmetne il rischio e non può invocare la garanzia contro i vizi ex art. 1491 cc.

Così Cass. 16.06.2021 n. 17.058, rel. Falaschi.

Così osserva in particolare: <<Rileva la Corte che, in caso di vendita di un bene appartenente ad un edificio condominiale di costruzione molto risalente nel tempo, i difetti materiali conseguenti al concreto ed accertato stato di vetustà ovvero alla risalenza nel tempo delle tecniche costruttive utilizzate, non integrano un vizio rilevante ai fini previsti dall’art. 1490 c.c. La garanzia in esame, infatti, è esclusa tutte le volte in cui, a norma dell’art. 1491 c.c., il vizio era facilmente riconoscibile, salvo che, in quest’ultimo caso, il venditore non abbia dichiarato che la cosa era immune da vizi.

Nel caso di specie, la corte d’appello, con apprezzamento di fatto sottratto a sindacato in sede di legittimità (Cass. n. 24731 del 2016), ha incontestatamente accertato non solo che la venditrice non aveva dato alcuna assicurazione circa l’inesistenza dei difetti poi riscontrati, ma anzi che la medesima aveva reso edotto l’acquirente della effettuazione di alcuni interventi sull’immobile per ovviare al problema dell’umidità (v. deposizione dei testi Balducci e Arcangeli). Ha, inoltre, aggiunto che si trattava di appartamento inserito in un fabbricato risalente agli anni ’60, con caratteristiche costruttive non propriamente eccellenti, come poi emerso dalla c.t.u. D’altro canto era stata dalla Aquilani Pelagalli accordata una riduzione del prezzo nel corso delle trattative proprio per le condizioni dell’immobile e dello stabile, in generale, per cui il compratore avrebbe dovuto attentamente esaminarlo, secondo il principio che colui che acquista un immobile di non recente costruzione ha l’onere di verificare con cura le condizioni di manutenzione, facendo uno sforzo di diligenza, onde riscontrarne, se non i vizi che si sono in seguito manifestati, quanto meno le cause della loro possibile verificazione, le quali, pertanto, sebbene in fatto ignorate, erano dall’acquirente, con un minimo sforzo di diligenza (e, quindi, “facilmente”), conoscibili: l’esclusione della garanzia nel caso di facile riconoscibilità dei vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1491 c.c., consegue all’inosservanza di un onere di diligenza del compratore in ordine alla rilevazione dei vizi che si presentino di semplice percezione, sebbene il grado della diligenza esigibile non possa essere predicato in astratto, ma debba essere apprezzato in relazione al caso concreto, avuto riguardo alle particolari circostanze della vendita, alla natura della cosa ed alla qualità dell’acquirente (richiamata in sentenza Cass. n. 24343 del 2016, ma già in tal senso Cass. n. 2981 del 2012). In altri termini, questa Corte ha chiarito che l’esclusione della garanzia nel caso di facile riconoscibilità dei vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1491 c.c. (che costituisce, come accennato, applicazione del principio di autoresponsabilità, e consegue all’inosservanza di un onere di diligenza del compratore in ordine alla rilevazione dei vizi che si presentino di semplice percezione), non consenta di predicare in astratto il grado della diligenza esigibile, dovendo essere apprezzato in relazione al caso concreto, avuto riguardo alle particolari circostanze della vendita, alla natura della cosa ed alla qualità dell’acquirente, essendo la garanzia in esame esclusa tutte le volte in cui, a norma dell’art. 1491 c.c. il vizio era facilmente riconoscibile salvo che il venditore abbia dichiarato che la cosa era immune da vizi. La sentenza impugnata risulta avere fatto puntuale applicazione di tali principi, sottolineando come un onere di diligenza più elevato fosse esigibile dal compratore in ragione delle condizioni non rassicuranti dello stabile nel suo complesso, evidenziando anche come la presenza di tali anomalie costruttive, il cui riscontro non richiedeva competenze tecniche particolarmente elevate, fosse evincibile anche dall’esterno del bene, di tal che la critica complessivamente mossa dal ricorrente mira piuttosto a contestare l’apprezzamento di fatto in punto di riconoscibilità del vizio operato dal giudice di merito.>>

Spese condominiali e loro riparto tra venditore ed acquirente

Messa a punto sull’oggetto da parte di Cass. 11.199 del 28.04.2021, rel. Scarpa:

<<alla stregua dell’art. 63, comma 2, disp. att. c.c. (nella formulazione antecedente alla modificazione operata dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo, al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente. Come già ricordato, occorre a tal fine distinguere tra spese necessarie alla manutenzione ordinaria, alla conservazione, al godimento delle parti comuni dell’edificio o alla prestazione di servizi nell’interesse comune, ovvero ad impedire o riparare un deterioramento, e spese attinenti a lavori che consistano in un’innovazione o che comunque comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere rilevante, superiore a quello inerente alla manutenzione ordinaria dell’edificio e cagionate da un evento non evitabile con quest’ultima. Nella prima ipotesi, l’obbligazione si ritiene sorta non appena si compia l’intervento ritenuto necessario dall’amministratore, e quindi in coincidenza con il compimento effettivo dell’attività gestionale. Nel caso, invece, delle opere di manutenzione straordinaria e delle innovazioni, la deliberazione dell’assemblea, chiamata a determinare quantità, qualità e costi dell’intervento, assume valore costitutivo della relativa obbligazione in capo a ciascun condomino. Da ciò si fa derivare che, verificandosi l’alienazione di una porzione esclusiva posta nel condominio in seguito all’adozione di una delibera assembleare, antecedente alla stipula dell’atto traslativo, volta all’esecuzione di lavori consistenti in innovazioni, straordinaria manutenzione o ristrutturazione, ove non sia diversamente convenuto nei rapporti interni tra venditore e compratore, i relativi costi devono essere sopportati dal primo, anche se poi i lavori siano stati, in tutto o in parte, effettuati in epoca successiva, con conseguente diritto dell’acquirente a rivalersi nei confronti del proprio dante causa, per quanto pagato al condominio in forza del principio di solidarietà passiva ex art. 63 disp. att. c.c. Dunque, tale momento di insorgenza dell’obbligo di contribuzione condominiale rileva anche per imputare l’obbligo di partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, ma sempre che gli stessi (come qui si assume avvenuto dalla ricorrente) non si fossero diversamente accordati, rimanendo, peraltro, inopponibili al condominio i patti eventualmente intercorsi tra costoro>>.

Amazon non è soggetta alla responsabilità da prodotto difettoso venduto da un venditore terzo tramite il suo market place

La corte suprema del Texas , 25.06.2021, n° 20-0979 , Amazon c. Mc Millan, nega la qualificabilità di Amazon e dei titolari di marketplace come produttori (anzi, seller) ai fini della legislazione sulla responsabilità da prodotto difettoso.

Così sintetizza la questione: <<Texas law imposes strict liability on manufacturers and some sellers of defective products. In the first few decades after we recognized commonlaw strict products liability, the people and entities held liable were typically part of a conventional distribution chain: upstream manufacturers, midstream distributors, and downstream retailers.1Today, thirdparty ecommerce platformssuch as Amazon, eBay, Etsy, and Alibabaprovide many of the services traditionally performed by distributors and retailers, enabling merchants from all over the world to reach consumers directly. But are such online marketplaces strictly liable for defective products manufactured and owned by third parties? The Fifth Circuit asks whether Amazon.com is a “seller” under Texas law when it does not hold title to thirdparty products sold on its website but controls the process of the transaction and delivery>>.

Riposta: <<We answer no. The Legislature’s definition of “seller” in Chapter 82 of the Civil Practice and Remedies Code is consistent with and does not expand the commonlaw definition. Under that definition, when the ultimate consumer obtains a defective product through an ordinary sale, the potentially liable sellers are limited to those who relinquished title to the product at some point in the distribution chain. Therefore, Amazon is not a “seller” of thirdparty products under Texas law>>

In particolare: <<Although the extent of seller liability is different under the common law and Chapter 82, the definition of who constitutes a seller is similar. The statute defines a seller as “a person who is engaged in the business of distributing or otherwise placing, for any commercial purpose, in the stream of commerce for use or consumption a product or any component part thereof.” Id. §82.001(3). To decide whether Amazon is a seller under Chapter 82, we must determine whether Amazon’s role in the distribution chain amounts to “distributing or otherwise placing” a product in the stream of commerce.>>

In breve Amazon non è <seller>.

Nel caso specifico il terzo aveva usato il servizio completo logistico <Fulfillment by Amazon (FBA)>

Il fatto dannoso era questo: il figlio di due anni dell’acquirente aveva ingoiato una batteria del remote control acquistato dal padre. Nonostante l’estrazione cbnirurgica dell’oggetto, i liquidi della batteria avevano causato danno permamente all’esofago del bimbo.

La quetione però è aperta, essendoci stata una dissenziente opinione di minoranza: <<Applying the statute’s definition and the common, ordinary meaning of its language when the statute was enacted, I would answer the Fifth Circuit’s certified question by holding that Amazon.com is a seller under section 82.001(3) when it “controls the process of the transaction and delivery” of a product through its FBA program, regardless of whether it ever holds title to the product. Because the Court holds otherwise, I respectfully dissent>>.

Sul punto  ci sono già diverse pronunce negli USA: vedremo nel diritto UE, ove al momento il tema non gode di particolare attenzione.

(notizie e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)