Il blocco dell’account Twitter per post ingannevoli o fuorvianti (misleading) è coperto dal safe harbour ex § 230 CDA

Il distretto nord della California con provv. 29.04.2022, No. C 21-09818 WHA, Berenson v. Twitter, decide la domanda giudiziale allegante un illegittimo blocco dell’account per post fuorvianti (misleading) dopo la nuova Twitter policy five-strike in tema di covid 19.

E la rigetta, riconoscendo il safe harbour ex § 230.c.2.a del CDA.

A nulla valgono le allegazioni attoree intorno alla mancanza di buona fede in Twitter: << With the exception of the claims for breach of contract and promissory estoppel, all claims in this action are barred by 47 U.S.C. Section 230(c)(2)(A), which provides, “No provider or user of an interactive computer service shall be held liable on account of — any action voluntarily taken in good faith to restrict access to or availability of material that the provider or user considers to be obscene, lewd, lascivious, filthy, excessively violent, harassing, or otherwise objectionable, whether or not such material is constitutionally protected.” For an internet platform like Twitter, Section 230 precludes liability for removing content and preventing content from being posted that the platform finds would cause its users harm, such as misinformation regarding COVID-19. Plaintiff’s allegations regarding the leadup to his account suspension do not provide a sufficient factual underpinning for his conclusion Twitter lacked good faith. Twitter constructed a robust five-strike COVID-19 misinformation policy and, even if it applied those strikes in error, that alone would not show bad faith. Rather, the allegations are consistent with Twitter’s good faith effort to respond to clearly objectionable content posted by users on its platform. See Barnes v. Yahoo!, Inc., 570 F.3d 1096, 1105 (9th Cir. 2009); Domen v. Vimeo, Inc., 433 F. Supp. 3d 592, 604 (S.D.N.Y. 2020) (Judge Stewart D. Aaron)>>.

Invece non  rientrano nella citata esimente (quindi la causa prosegue su quelle) le domande basate su violazione contrattuale e promissory estoppel.

La domanda basata sulla vioalzione del diritto di parola è pure respinta per il solito motivo della mancanza di state action, essendo Tw. un  ente privato: <<Aside from Section 230, plaintiff fails to even state a First Amendment claim. The free speech clause only prohibits government abridgement of speech — plaintiff concedes Twitter is a private company (Compl. ¶15). Manhattan Cmty. Access Corp. v. Halleck, 139 S. Ct. 1921, 1928 (2019). Twitter’s actions here, moreover, do not constitute state action under the joint action test because the combination of (1) the shift in Twitter’s enforcement position, and (2) general cajoling from various federal officials regarding misinformation on social media platforms do not plausibly assert Twitter conspired or was otherwise a willful participant in government action. See Heineke v. Santa Clara Univ., 965 F.3d 1009, 1014 (9th Cir. 2020).  For the same reasons, plaintiff has not alleged state action under the governmental nexus test either, which is generally subsumed by the joint action test. Naoko Ohno v. Yuko Yasuma, 723 F.3d 984, 995 n.13 (9th Cir. 2013). Twitter “may be a paradigmatic public square on the Internet, but it is not transformed into a state actor solely by providing a forum for speech.” Prager Univ. v. Google LLC, 951 F.3d 991, 997 (9th Cir. 2020) (cleaned up, quotation omitted). >>

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric goldman)

Altra conferma (d’appello) che Facebook non è “state actor” e che dunque l’arbitraria rimozione di post non viola il Primo Emendamento

SEcondo l’orientamento dominante il diritto di parola non ha la tutela costituzionale del 1 Emendamento quando la sua inibizione provenga da soggetto privato, quale il filtraggio operato dalle piattaforme digitali.

A tale orientameno si adegua l’Appello del secondo circuito 27.04.2022, Brock v. Zuckerberg e altri, 21-1796-cv .

Motivazione leggera e non particolarmente interessante.

Di fronte alla duplice causa petendi <<two principal arguments as to why the removal of his Facebook posts constituted state action: (1) Facebook was a publicly held company [sic!]; and (2) Facebook was the equivalent of a “public square” or “public forum.” >>, la Corte rigetta.

In particolare osserva:

<< Although Brock alleged some facts, construed liberally, as to his first argument, it clearly fails as a matter of law.   “The management of a corporation is not a public function; and a state’s permission for a corporation to organize itself in a particular manner is not the delegation of governmental authority.” Cranley v. Nat’l Life Ins. Co. of Vt., 318 F.3d 105, 112 (2d Cir. 2003).

As to Brock’s assertion that Facebook is a public square, he failed to make any non-conclusory factual allegations to support that claim.   Instead, the amended complaint merely repeats the legal conclusion that Facebook is a public forum and public square. While we construe pro se complaints liberally, legal conclusions “must be supported by factual allegations,” Ruston v. Town Bd. for Town of Skaneateles, 610 F.3d 55, 59 (2d Cir. 2010) (internal quotation marks omitted). None of Brock’s conclusory allegations “nudged” his claims “across the line from conceivable to plausible.” Bell Atlantic Corp. v. Twombly, 550 U.S. 544, 570 (2007).
In his opposition to the motion to dismiss, Brock conclusorily asserted for
the first time that Facebook is a state actor because it performs the traditional public function of delivering mail. Brock did not raise this argument on appeal or challenge the district court’s conclusion that he cannot “avoid the state action
question” by analogizing “Facebook’s provision of an online messaging service to

the government’s traditional provision of mail services through the United States
Postal Service,” App’x at 188–89.

It is well settled in the Second Circuit “that issues not discussed in an appellate brief will normally be deemed abandoned.” Beatty v. United States, 293 F.3d 627, 632 (2d Cir. 2002); see also Cruz v. Gomez, 202 F.3d 593, 596 n.3 (2d Cir. 2000) (“When a litigant – including a pro se litigant – raises an issue before the district court but does not raise it on appeal, the issue is abandoned.”).  And although “[a]n abandoned claim may nevertheless be considered if manifest injustice would otherwise result,” Ocean Ships, Inc. v. Stiles, 315 F.3d 111, 117 (2d Cir. 2002), such circumstances are not present here; Brock’s complaint and opposition below is devoid of any facts that would support a conclusion that Facebook has assumed a heretofore exclusively public function>>.

E’ assorbita la censura sul § 230 CDA ,.

E’ noto che da noi, invece, la tutela dei diritti fondamentali ex art. 2 Cost. opera anche nelle relazioni tra soggetti privati.

(notizia e link alla sentenza dal sito del prof. Eric Goldman)

La corte europea rigetta la domanda di annullamento dell’art. 17 § 4 lett. b)-c) della direttiva copyright

Con la sentenza 26.04.2022, C-401/19,  la Corte di Giustizia UE  rigetta la domanda di annullamento dell’art. 17 § 4 (eventualmente dell’intero art. 17, se non separabile) della direttiva c.d. copyright 2019/790 , avanzata dalla Polonia.

In breve , secondo la ricorrente, le disposizioni censurate inibiscono eccessivamente la libertà di parola  con i nuovi doveri di filtraggio: <<39 La Repubblica di Polonia sostiene che, imponendo ai fornitori di servizi di condivisione di contenuti online l’obbligo di compiere i massimi sforzi, da un lato, per assicurare che non siano disponibili contenuti protetti specifici per i quali i titolari di diritti abbiano fornito le informazioni pertinenti e necessarie e, dall’alto, per impedire che i contenuti protetti oggetto di una segnalazione sufficientemente motivata da parte di tali titolari siano caricati in futuro, l’articolo 17, paragrafo 4, lettera b) e lettera c), in fine, della direttiva 2019/790 limiterebbe l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e d’informazione degli utenti di tali servizi, garantito all’articolo 11 della Carta.>>

La CG rigetta, come prevedibile.

Infatti da un lato sarebbe stato uno scossone enorme alla proprietà intellettuale armonizzata UE.  Dall’altro, l’iter legislativo era stato lungo e tormentatissimo , avendo affrontato sin da subito le stesse oiezioni qui sollevate dalla Polonia: erano dunque state prese nel testo finale delle contromisure ad hoc (id est misure a tutela dei diritti antagonisti al diritto di autore e cioè a tutela della liberà di espressione).

La sentenza è importante e andrà studiata con attenzione.

Si badi che la restrizione al diritto di free speech è ravvisata (ad es. §§ 55 e 68). Però le cit contromisure fanno si che il bilanciAmento finale (art. 52.1 Carta dir. fondam. UE) ammetta tale restrizione.

Il cuore del’iter argomentativo sta nei sei aspetti esaminati nei §§ 72-97 ed è sintetizzabile così: “una lesione al diritto di parola apparentemente c’è: ma la direttiva ha adottato adeguate contromisure a sua tutela”.

Resta allora da vedere se i singoli Stati (da noi, se l’Italia) abbiano  attuato la dir. (d. lgs. 177 del 08.11.2021 – G.U. n. 283 del 27.11.2021) secondo i principi ora dettagliati dalla CG.

Quando il conducente non è responsabile nel caso di scontro con il pedone

Cass. 28.03.2022 n. 9.856, rel. Dell’Utri, ripete alcuni insegnamenti circa l’oggetto : <<secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, in materia di responsabilità civile da sinistri derivanti dalla circolazione stradale, in caso di investimento di pedone la responsabilità del conducente è esclusa quando risulti provato che non vi era, da parte di quest’ultimo, alcuna possibilità di prevenire l’evento, situazione ricorrente allorché il pedone abbia tenuto una condotta imprevedibile ed anormale, sicché l’automobilista si sia trovato nell’oggetbva impossibilità di avvistarlo e comunque di osservarne tempestivamente i movimenti. Tanto si verifica quando il pedone appare all’improvviso sulla traiettoria del veicolo che procede regolarmente sulla strada, rispettando tutte le norme della circolazione stradale e quelle di comune prudenza e diligenza (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 4551 del 22/02/2017, Rv. 643134 – 01);

sul punto, varrà sottolineare come l’accertamento del comportamento colposo del pedone investito da veicolo non sia sufficiente per l’affermazione della sua esclusiva responsabilità, essendo pur sempre necessario che l’investitore vinca la presunzione di colpa posta a suo carico dall’art. 2054 c.c., comma 1, dimostrando di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno e tenendo conto che, a tal fine, neanche rileva l’anomalia della condotta del primo, ma occorre la prova che la stessa non fosse ragionevolmente prevedibile e che il conducente avesse adottato tutte le cautele esigibili in relazione alle circostanze del caso concreto (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 8663 del 04/04/2017, Rv. 643838 – 01);>>.

Quindi nel caso di specie <<il giudice a quo, sulla base degli elementi di prova complessivamente acquisiti al giudizio, ha accertato che il Mi., in occasione del sinistro in esame, ebbe ad uniformare la propria condotta stradale al rispetto di tutte le misure idonee ad evitare l’impatto con la vittima, essendo emerso come lo stesso procedesse ad una velocità adeguata, rispetto alle concrete condizioni di tempo e di luogo in cui il sinistro ebbe a verificarsi, tenendo accese le luci anabbaglianti (in coerenza con lo stato e le condizioni dei luoghi) e mantenendo la propria autovettura entro la mezzeria di pertinenza (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata);

correlativamente, la corte territoriale ha sottolineato come gli elementi di prova acquisiti avessero confermato che la condotta della vittima fosse stata piuttosto connotata da assoluta imprevedibilità e abnormità (con la conseguente inevitabilità dell’impatto con il mezzo condotto dal Mi.), essendo emerso che il M. procedesse a piedi contromano (rispetto al senso di marcia dell’autovettura antagonista), senza giubbotto catarifrangente (nonostante l’assenza di illuminazione pubblica in condizioni di buio), e nonostante la presenza di una curva destrorsa che parzialmente limitava la visuale degli automobilisti provenienti nel senso di marcia del Mi., con la conseguente mancata adozione di alcuna misura che potesse effettivamente segnalare la propria presenza in loco, sì da indurre a ritenere l’imprevedibilità di detta presenza della vittima sulla sede stradale e, dunque, l’inevitabilità dell’impatto, una volta attestata l’assoluta irreprensibilità della condotta stradale dell’automobilista>>.

Il cognome del figlio non è più automaticamente quello del padre : interviene la Corte Costituzionale

Il comunicato di oggi 27.04.2022 della Corte costituzionale fa sapere che è stato dichiarata <<discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre>>.
Pertanto, ora la regola diventa che <<il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due.

In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico.

La Corte ha, dunque, dichiarato l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre, con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi>>
(v. comunicato nel sito della Corte).

La cosa notevole è che l’attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo non era stabilita da alcuna norma espressa ma solo dalla consuetudine (per quelli naturali invece dispone l’art. 262 cc).

Si tratta di modifica da tempo suggerita da più parti.

Onere della prova nella richiesta (stragiudiziale) di deindicizzazione e necessità o meno di tener conto del contesto circa la riproduzione di fotografie miniaturizzate: due questioni importanti sul diritto all’oblio

Due questioni importanti sono affrontate dall’avvocato generale Pitruzzella nelle Conclusioni 07.04.2022, causa C-460/20:

1° se e quale prova debba dare al motore di ricerca chi domanda la deindicizzazione, basandosi sulla pretesa falsità delle notizie divulgate dal sito terzo di cui si chiede la deindizzazione stessa;

2° se il motore di ricerca debba tener conto o meno del contesto in cui sono pubblicate le fotografie, di cui si chiede la cessazione dell’abbinameno ad una ricerca per nome (e che son visualizzate nell’elenco risultati come miniature/thumbnails).

Importanti sia in teoria che in pratica, affrontate con buona analisi dall’AG.

Circa 1, la risposta è che l’istante deve dare un minimo di prova al motore di ricerca: <<44.      Un privato ha, in base al RGPD, il diritto di chiedere la deindicizzazione di una pagina web contenete dati che lo riguardano e che egli considera non veritieri. L’esercizio di tale diritto comporta tuttavia, a mio avviso, l’onere di indicare gli elementi su cui si basa la richiesta e di fornire un principio di prova della falsità dei contenuti di cui si richiede la deindicizzazione, ove ciò non risulti, in particolare in relazione alla natura delle informazioni di cui trattasi, manifestamente impossibile o eccessivamente difficile (41). L’imposizione di un tale onere appare coerente con la lettera e all’economia del RGPD, in cui i diversi diritti di rettifica, cancellazione, limitazione del trattamento e opposizione, riconosciuti all’interessato sono sottoposti a condizioni specifiche e spetta a chi intende avvalersene allegare l’esistenza delle relative condizioni.

45.      A fronte di una tale richiesta di deindicizzazione, il gestore del motore di ricerca, in virtù del ruolo che svolge nella diffusione dell’informazione e delle responsabilità che ne derivano, è tenuto a effettuare le verifiche dirette a confermare o meno la fondatezza della domanda e che rientrano nelle sue concrete possibilità. Tali verifiche potranno effettuarsi sui dati che ospita e che si riferiscono alla persona in questione e all’editore della pagina web ove è pubblicato il contenuto contestato, dati che il gestore del motore di ricerca può analizzare rapidamente ricorrendo agli strumenti tecnologici di cui dispone. Inoltre, purché possibile, il gestore del motore di ricerca dovrà attivare rapidamente un contraddittorio con l’editore web che ha diffuso inizialmente l’informazione, che sarà in tal modo messo nella condizione di esporre le ragioni a sostegno della veridicità dei dati personali trattati e della liceità del trattamento. Infine, il gestore del motore di ricerca dovrà decidere sull’accoglimento o meno della domanda di deindicizzazione, dando conto succintamente delle ragioni della decisione.

46.      Solo nel caso in cui permangano dubbi consistenti sulla veridicità o falsità delle informazioni in questione o qualora il peso delle informazioni false nel contesto della pubblicazione di si tratta è manifestamente poco rilevante e tali informazioni non hanno un carattere sensibile, il gestore del motore di ricerca potrà rigettare la domanda. La persona interessata potrà allora rivolgersi all’autorità giudiziaria, che ha il potere di fare le verifiche del caso, o all’autorità di controllo di cui all’articolo 51 del RGPD, nel quadro di un reclamo contro la decisione del gestore del motore di ricerca.

47.      Se il contenuto riguarda una persona che ha un ruolo pubblico, secondo l’accezione precedentemente indicata, poiché il diritto all’informazione ha, in linea di principio, un peso maggiore di quelli enunciati agli articoli 7 e 8 della Carta, la scelta di deindicizzare dovrà fondarsi su dei riscontri particolarmente pregnanti circa la falsità delle informazioni. In casi del genere, ove residui un ragionevole dubbio sulla veridicità o falsità dell’informazione, la deindicizzazione dovrà, a mio avviso, escludersi. In ogni caso, a maggior ragione quando il contenuto controverso riguarda una persona in virtù del ruolo che essa riveste nella vita pubblica, non potrà accordarsi la deindicizzazione ove si esprimano solo opinioni, sia pure fortemente critiche e anche dai toni molto vivaci e irriverenti, o si tratti di satira (42). La rettifica dei dati non veritieri riguarda, infatti, informazioni sui dati e non opinioni, che contribuiscono comunque allo sviluppo del dibattito pubblico in una società democratica, purché non scivolino nella diffamazione. È chiaro, invece, che, anche in caso di iniziale rigetto della domanda, il gestore del motore di ricerca sarà tenuto a procedere alla deindicizzazione ove la falsità dell’informazione sia ulteriormente accertata giudizialmente.

48.      Infine, qualora le circostanze del caso lo consiglino al fine di evitare un pregiudizio irreparabile per la persona interessata, il gestore del motore di ricerca potrà procedere ad una sospensione temporanea dell’indicizzazione (43), oppure all’indicazione, nei risultati della ricerca, che la veridicità di talune delle informazioni che figurano nel contenuto cui rinvia il link in questione è contestata (44), fermo restando, comunque, il diritto, in primis, dell’editore web di contestare una tale iniziativa dinanzi all’autorità giudiziaria>>.

Circa la questione 2, la risposta è negativa: non si tiene conto del contesto. In particolare: <<56.      Risulta, a mio avviso, da quanto precede che, nel quadro del bilanciamento tra diritti fondamentali confliggenti da condurre in base alle pertinenti disposizioni della direttiva 95/46 e del RGPD ai fini dell’esame di una domanda di rimozione di fotografie che raffigurano una persona fisica dai risultati di una ricerca per immagini effettuata a partire dal nome di tale persona, si deve tener conto unicamente del valore informativo delle fotografie in quanto tali, indipendentemente dal contenuto nel quale queste ultime sono inserite nella pagina web da cui sono tratte. Viceversa, nel caso in cui fosse contestata, nel quadro di una domanda di deindicizzazione del link che rinvia a una pagina web, la visualizzazione di fotografie nel contesto del contenuto di tale pagina, sarebbe il valore informativo che tali fotografie rivestono nell’ambito di tale contesto a dover essere preso in considerazione ai fini di tale bilanciamento>>.

Sanzionato in via amministrativa l’ambush marketing di Zalando

Il Garante della concorrenza ritiene che la campagna di Zalando abbia indebitamente fruito della notorietà dei Giochi invernali Milano Cortina 2026, laddove ha creato  <<nella stessa piazza di Roma in cui era allestita dalla UEFA l’area Football Village ufficiale dell’evento calcistico internazionale “UEFA Euro 2020”, [di] una affissione di grandi dimensioni, di seguito riprodotta, in cui era presente l’espressione “Chi sarà il vincitore?”, era indicato il nominativo di Zalando ed erano raffigurate le 24 bandiere delle Nazioni partecipanti all’evento ed una maglia calcistica bianca in cui compariva il logo distintivo di Zalando >>.

Sono disposizioni specificamente introdotte per l’evento (art. 10 DL 11.03.2020 n. 16 divieto di attività parassitarie).

Si tratta del provvedimento 29.03.2020  proced. PV16 Zalando Cartello euro 2020.(ove riproduzione a colori).

La disposizione violata è quella del c. 1 e del c.2 lettera a) (v. sotto).

Naturalmente potrebbe costituire anche concorrenza sleale (art. 2598 n.3 cc) e/o pratica commerciale scorretta decettiva (illecito amministrativo di cui si dovrebbe studiare il rapporto con quello qui accertato dall’AGCM: concorso solo apparente?)

 1.   Sono   vietate   le   attivita'   di   ((pubblicizzazione    e
commercializzazione   parassitarie,   fraudolente,   ingannevoli    o
fuorvianti)) poste in essere ((in relazione  all'organizzazione))  di
eventi sportivi o fieristici di rilevanza nazionale o  internazionale
non autorizzate dai soggetti organizzatori e aventi la  finalita'  di
ricavare un vantaggio economico o concorrenziale. 
  2.    Costituiscono    attivita'    di     ((pubblicizzazione     e
commercializzazione parassitarie)) vietate ai sensi del comma 1: 
    a) la creazione di un collegamento  ((anche))  indiretto  fra  un
marchio o altro segno distintivo e uno degli eventi di cui al comma 1
((,)) idoneo a indurre in errore  il  pubblico  sull'identita'  degli
sponsor ufficiali; 
    b) la falsa ((rappresentazione o))  dichiarazione  nella  propria
pubblicita' di essere sponsor ufficiale di un evento di cui al  comma
1; 
    c) la promozione del proprio marchio  o  altro  segno  distintivo
tramite qualunque azione, non autorizzata dall'organizzatore, che sia
idonea ad attirare l'attenzione del  pubblico,  posta  in  essere  in
occasione di uno degli eventi di cui al comma 1, e idonea a  generare
nel pubblico l'erronea impressione che l'autore  della  condotta  sia
sponsor dell'evento sportivo o fieristico medesimo; 
    d) la vendita e la pubblicizzazione  di  prodotti  o  di  servizi
abusivamente contraddistinti, anche soltanto in parte, con il logo di
un evento sportivo o fieristico di cui al comma 1  ovvero  con  altri
segni distintivi idonei a indurre in errore ((il pubblico)) circa  il
logo medesimo e a ingenerare l'erronea percezione di un  qualsivoglia
collegamento con l'evento ovvero con il suo organizzatore ((o  con  i
soggetti da questo autorizzati)).

 

Chiusura immotivata dell’account ma nessuna responsabilità in capo a Facebook

Secondo il diritto californiano la chiusura immotivata dell’account, con distruzione di tutto il materiale ivi caricato, non viola alcun diritto contrattuale dell’utente di Facebook: così la corte del distretto nord della California, 20.04.2022, King v. Facebook, Case 3:21-cv-04573-EMC .

Negata la violazione del contratto (breach of contract) e respinsta l’istanza di rimessione in pristino (specific perfornance), restano in piedi le istanze connesse alla violazione della buona fede  per carenza di motivazione e/o di indicazione di quali sarebbero state le condizioni generali (Terms of service) violate.

Anche queste , però , sono rigettate perchè, come che sia, non è dalla violazione della b.f. che discende il danno della perdita dei materiali.

INoltre Facebook non poteva sapere il danno che avrebbe potuto generare in capo al’utente:

<< Here, Ms. King has failed to show that either the subjective or objective test has been satisfied. Ms. King did not actually communicate to Facebook that she was using her account as a photo repository and that she did not otherwise retain her photos elsewhere as one normally would. Nor is there any indication that Facebook actually knew that Ms. King was using her account as a photo repository. Finally, Ms. King’s suggestion that Facebook should have known
that she was using her account as a photo repository – because it “was more convenient and permanent and did not involve storing photo albums and preserving physical photographs,” SAC ¶
24 – strains credulity. Arguably, Facebook should have known that Ms. King would post photos on her account. However, nothing suggests Facebook should have known that she would not
maintain her photos elsewhere (whether as hard copies or digital copies saved onto a hard drive, on a phone, flash drive, or in the cloud), especially given that the photos were of great personal value to her (so much so that she planned on compiling them into a memoir of her life).
See SAC ¶ 24. Certainly, there is no suggestion that Facebook markets itself as a photo repository. And the fact that Facebook has a “memorialization” feature for people who have died can hardly be considered the same thing as a photo storage.
Accordingly, Ms. King’s special damages are not recoverable as a matter of law. The Court also notes that, even if the damages were theoretically recoverable, Ms. King would run into another obstacle – namely, the limitation of liability provision in the TOS. That provision states as follows:

We work hard to provide the best Products we can and to specify
clear guidelines for everyone who uses them. Our Products,
however, are provided “as is,” and we make no guarantees that they
always will be safe, secure, or error-free, or that they will function
without disruptions, delays, or imperfections. To the extent
permitted by law, we also DISCLAIM ALL WARRANTIES, WHETHER EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING THE IMPLIED WARRANTIES OF MERCHANTABILITY, FITNESS FOR A PARTICULAR PURPOSE, TITLE, AND NONINFRINGEMENT. We do not control or direct what people and others do or say, and we are not responsible for their actions or conduct (whether online or offline) or any content they share
(including offensive, inappropriate, obscene, unlawful, and other
objectionable content). [¶] We cannot predict when issues might
arise with our Products. Accordingly, our liability shall be limited to
the fullest extent permitted by applicable law, and
under no
circumstance will we be liable to you for any
lost profits,
revenues, information, or data, or
consequential, special, indirect,
exemplary, punitive, or incidental damages arising out of or
related to these Terms or the Facebook Products, even if we
have been advised of the possibility of such damages
. Our
aggregate liability arising out of or relating to these Terms or the
Facebook Products will not exceed the greater of $100 or the
amount you have paid us in the past twelve months.

TOS ¶ 3 (emphasis added). The limitation of liability provision expressly bars Ms. King’s claim for special damages, and Ms. King has not challenged the validity of that provision. See, e.g., Food Safety Net Servs. v. Eco Safe Sys. USA, Inc., 209 Cal. App. 4th 1118, 1126 (2012) (“With respect to claims for breach of contract, limitation of liability clauses are enforceable unless they are unconscionable . . . .”)>>.

Decisione criticabile, almeno se fosse così stata decisa secondo il nostro diritto:

1° un dovere di buona fede impone almeno di dare un preavviso;

2° la b.f. fa parte dei doveri contrattuali;

3° la chiusura immotivata è illegittima;

4° la mancanza di preavviso è illegittimo;

4° i dannni conseguenti ad essa sono illegittimi.

5° la comunicazione preventiva del motivo avrebbe  permesso all’utente di cautelarsi facendo copia dei file. Ovvio che la comunicazione successiva, a distruzione avvenuta, non possa essere causa dei relativi danni.

6° FB sa benissimo che files ospita e quindi quale danno può generare: i suoi filtri automatizzati   non hanno alcuna difficoltà in tale senso . Basti pensare al newsfeed e alla pubblicitòà tarata sull’utente che costantemente lo assilla (microtargeting): è il cuore del business di FB sapere il più possibile tramite i materiali caricati , gli amici presenti, i link inseriti  etc..

La limitazione di responsabilità , in caso di consumatore, come pare nel caso, sarebbe nulla ex art. 33.2.b) cod. cons.

(notizia della sentenza dal blog di Eric Goldman ove anche link alla precedente decisione 12.12.2021 nel medesimo caso).

Riduzione del capitale per perdite, scioglimento della società e quantificazione del danno nell’azione di responsabilità contro gli amministratori

Due insegnamenti da Cass. sez. 1 n. 4347 del 10.02.2022, rel. Vannucci:

1°  la caduta in scioglimetno ex 2448 n. 4 (oggi rt. 2484 n.4) , in relazione all’rt. 2447 presuipopibne sia la perdita oltre il terzo che l’abbassamento sotto al minimo:

<<L’interpretazione dell’art. 2448 c.c., comma 1, n. 4), non può dunque prescindere dall’intero contenuto del precedente art. 2447, sì che:

fino a quando la perdita di esercizio si contiene entro i limiti del terzo della misura di capitale scelta dai soci al momento in cui tale evento si verifica, anche se tale misura è quella (minima) imposta dalla legge per il modello societario adottato, non vi è obbligo per gli amministratori di convocare senza indugio l’assemblea per l’adozione di una delle decisioni indicate dall’art. 2447 c.c., e tale inerzia, ovvero una decisione assembleare diversa da quelle prescritte da tale articolo, non comporta conseguenze negative di sorta quanto alla vita della società;

e’ solo la perdita di esercizio superiore al terzo del capitale e incidente sul suo ammontare minimo che determina, per volontà della legge (il citato art. 2448 c.c.), lo scioglimento della società.>>

E poi sul concetto giuridico di “perdita”: <<La sentenza impugnata afferma in primo luogo che la perdita di capitale sociale rilevante ai fini dell’applicazione degli artt. 2446 e 2447 c.c. (aventi la funzione di assicurare il rispetto del principio della corrispondenza fra capitale nominale e capitale reale) è solo quella che si determina detraendo da essa la riserva legale, le riserve statutarie, i fondi appostati al passivo, gli utili degli esercizi precedenti e quelli c.d. “di periodo”; così conformandosi alla costante interpretazione, data dalla giurisprudenza di legittimità (citata dalla stessa sentenza impugnata), del concetto di perdita rilevante per il compimento di una delle operazioni prescritte da tali disposizioni del codice civile (in questo senso, cfr: Cass. n. 12347 del 1999; Cass. n. 5740 del 2004, in tema di computabilità dei c.d. “utili di periodo” ai fini della determinazione della perdita; Cass. n. 23269 del 2005; Cass. n. 8221 del 2007). In conseguenza di tale interpretazione, in questa sede da ribadire,>>

2° sulla determinazione del danno cagionato dall’amministratore (principio di diritto per il rinvio):

Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore di fallimento ai sensi della L. Fall., art. 146, comma 2, contro l’ex amministratore di una società, poi fallita, che abbia violato il divieto di compiere nuove operazioni sociali dopo l’avvenuta riduzione, per perdite, del capitale sociale al disotto del minimo legale (art. 2449 c.c., nel testo anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ratione temporis applicabile al caso di specie), il giudice, ove, nella quantificazione del danno risarcibile, si avvalga, ricorrendone le condizioni, del criterio equitativo della differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, temperato dalla espunzione da tale differenza del passivo formatosi successivamente al verificarsi dello scioglimento della società, deve indicare le ragioni per le quali, da un lato, l’insolvenza sarebbe stata conseguenza delle condotte gestionali dell’amministratore e, dall’altro, l’accertamento del nesso di causalità materiale tra queste ultime e il danno allegato sarebbe stato precluso dall’insufficienza delle scritture contabili sociali; e ciò sempre che il ricorso a tale criterio equitativo sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo“.

Due importanti precisazioni della Cassazione sul contratto autonomi di garanzia: sull’art. 1938 cc e sulla soggezione al codice del consumo

Le due precisazioni contenute in Cass. 5423 del 18.’02.2022, rel. Frasca, sono importanti sia a livello teorico che pratico.

1° l’obbligazione restitutoria, a seguito di risoluzione del contratto stipulato dal debitore princupale,  non costituisce obbligazione futura ex art. 1938 :

<<L’art. 1938 c.c., quando allude alla prestazione della garanzia per un’obbligazione futura non intende fare riferimento ad eventuali obbligazioni che lo stesso contratto preveda possano nascere a carico del debitore come conseguenza dell’inadempimento dell’obbligazione garantita, sia essa già esistente al momento della prestazione della garanzia, sia essa sorta coevamente ad essa, bensì ad una obbligazione la cui fattispecie costitutiva il rapporto preveda che si possa verificare sulla base del concorso fra un fatto del debitore ed un fatto del creditore (per esempio, richiesta di concessione di un nuovo credito ulteriore e diverso rispetto a quello esistente al momento del rilascio della garanzia) oppure di un fatto unilaterale del debitore, nell’uno e nell’altro caso verificabili in un momento successivo e determinativi di una nuova obbligazione senza alcun collegamento un’obbligazione esistente al momento della prestazione della garanzia.

Se il contratto garantito prevede la possibile insorgenza di obbligazioni a carico del debitore per il caso di inadempimento da parte sua dell’obbligazione che è oggetto della garanzia, dette obbligazioni, in quanto assunte anch’esse come oggetto della garanzia, non si connotano come obbligazioni future, giacché originano dal concorso fra gli eventi futuri rispetto al contratto che sono assunti come determinativi della nuova obbligazione e un evento che esisteva già al momento della stipula del contratto garantito e di quello di garanzia, cioè l’obbligazione del debitore rimasta inadempiuta.

In definitiva, si deve sottolineare che la previsione nel contratto della garanzia di pagamento del debito che a carico del debitore insorga per effetto dell’inadempimento da parte sua dell’obbligazione garantita esistente al momento della stipula della garanzia, in quanto dipendente da un fatto costitutivo ricollegato all’inadempimento di essa, non può mai considerarsi relativa ad un’obbligazione futura in quanto consegue all’inadempimento della detta obbligazione esistente. Inoltre, poiché la legge, all’art. 1218 c.c., prevede che per il caso di inadempimento il debitore sia tenuto al risarcimento del danno, si deve avvertire che anche l’obbligazione risrcitoria che discende dall’inadempimento di ciò che prevede il contratto garantito non si connota, se assunta come oggetto di garanzia, come obbligazione futura e ciò sempre perché la sua fattispecie costitutiva non può ritenersi interamente verificata in futuro rispetto all’assunzione della garanzia: invero, nel momento in cui viene prestata la garanzia dell’adempimento della prestazione del debitore, costui è ex lege obbligato, in forza del vincolo contrattuale che lo vincola a tenere la prestazione, anche a risarcire il danno derivante dall’inadempimento di essa e, dunque, l’obbligazione risarcitoria, sebbene ricollegata al verificarsi dell’inadempimento e dei danni da esso conseguenti, è un’obbligazione che non si connota come obbligazione la cui fattispecie costitutiva sia composta interamente da eventi futuri.>>

2° il contratto autonomi di garenzia è soggetto al codice del consumo e quindi pure al divieto di limitare la facoltà di oppore eccezioni ex art. 33.t) cod. cons. Nè vi osta il fatto che l’inopponibilità delle stesse costituisca il proprium del contratto e cioè la sua causa :

<<4.4. Il Collegio ritiene, tuttavia, che si debba privilegiare una seconda opzione interpretativa, la quale, ferma la generale applicabilità della tutela consumeristica alla garanzia autonoma o a prima richiesta, porta a giustificare l’applicabilità dell’art. 33, lett. t) anche al divieto di proposizione di eccezioni relative al rapporto garantito, cioè alla clausola stessa che connota ed individua l’atipicità di detto contratto.

(…)  La disciplina degli artt. 33,34,35 e 36 Codice del Consumo trova applicazione anche ai contratti atipici e ciò, quanto alla previsione dell’art. 36, comma 1, anche là dove la clausola accertata come abusiva esprima il profilo di atipicità del contratto.

In relazione al contratto atipico di garanzia a prima richiesta e senza eccezioni, l’accertamento dell’eventuale posizione di consumatore del garante deve avvenire con riferimento ad esso e non sulla base del contratto garantito e nel caso di riconoscimento al garante della posizione di consumatore è applicabile a sua tutela la disciplina degli artt. 33,34,35 e 36 Codice del Consumo ed in particolare la previsione dell’art. 33, lett. t) e ciò, quanto alla clausola di limitazione della proponibilità di eccezioni, sia con riferimento alle limitazioni inerenti ad eventuali eccezioni relative allo stesso contratto di garanzia, sia con riferimento all’esclusione della proponibilità di eccezioni relative all’inadempimento del rapporto garantito da parte del debitore garantito, con la conseguenza che in quest’ultimo caso, ove la clausola venga riconosciuta abusiva, il contratto conserverà validità ai sensi del citato art. 36, comma 1 ed il garante potrà opporre dette eccezioni.”.>