Ancora liti sulla responsabilità del provider per contenuti illeciti postati dai suoi utenti

Trib. Roma sent. n. 11672/2022 del 21 luglio 2022, RG 86854/2016, rel. G. Russo, caso Rojadirecta, affronta la ormai risalente questione relativa alla fornitura di link a siti web ove son presenti illecite riproduzioni di programmi Mediaset (per lo più partite di calcio nazionali o europee).

Fa valere il diritto d’autore , quale licenziatario,  e diritti connessi, tra cui art. 79 l. aut., oltre a marchi e conccorenza sleale.

I convenuti invocano il safe harbour ex artt. 13-17 d. lgs. 70 del 2003.

Sul server sub iudice ci sono solo link di utenti, non contenuti postati dai titolari stessi: però con link organizzati in modo preciso, come riferisce il ctu:

<< Nel dettaglio si tratta di “un motore di ricerca di diversi eventi
sportivi con la possibilità di visualizzare gli eventi stessi secondo
un ordine cronologico”
. Il gestore del portale organizza tali
informazioni, inclusi i
link ai contenuti illeciti, secondo un ordine
cronologico e quindi compiendo un’attività di indicizzazione e
catalogazione su base cronologica degli eventi, che necessariamente
presuppone un controllo diretto su tutte le informazioni così
indicizzate ed organizzate. Tanto è confermato dal fatto che il CTU
riconosce che la gestione tecnica della piattaforma consente di
“organizzare il calendario eventi mediante controllo della corretta
esecuzione degli script automatici garantendo la completezza dello
stesso”
(cfr. pag. 12).
Lo stesso CTU poi riferisce (cfr. ancora pag. 12) che
“nella
versione corrente del sito l’utente visualizzatore può: 1) Visionare
eventi sportivi in diretta; 2) Scaricare o guardare interi eventi
passati (si viene girati su di un thread del forum); 3) Visionare
degli spezzoni più importanti di eventi passati; 4) Andare sul forum
http://forum.rojadirecta.es”
.
Il “forum di discussione”, che i convenuti dichiarano di
gestire/controllare direttamente, è tutt’altro che uno spazio
neutrale: tramite questo
forum, infatti, vengono condivisi “le
pratiche di utilizzo e i siti di file sharing per scaricare eventi
passati”
(cfr. pag. 11 Relazione Tecnica del CTU).
Per quanto evidenziato dal consulente d’ufficio (cfr. pag. 84 della
Relazione Tecnica)
“pur non essendo presenti i contenuti sul sito
Rojadirecta, il calendario giornaliero degli eventi sportivi è da
sempre caratterizzato da un estrema completezza”
e “la
caratteristica di esaustività della lista degli eventi … è proprio
alla base del successo del portale e dei “cloni” attualmente in
circolazione”>>
.

La sentenza è poco rigorosa.

Liquida la questione del link in due parole ritenendolo illecito ex sentenze Corte di Giustizia UE Renckoff, C-161/2017, che nulla c’entra, e Stichting Brein contro Jack Frederik Wullems, C-527/17.  Ignora però il dibattito teorico per cui il link è solo un indicazione e non può essere ritento compartecipe dell’illecito.

Poi, non è chiara sull’interpretazione delle due ipotesi di esimente ex art. 16.1 d. lgs. 70 del 2003 (<< Sul punto è bene precisare che le due ipotesi prese in
considerazione dalla disposizione di legge sono tra loro
alternative, nel senso che è sufficiente che non ricorra anche una
sola di esse affinché il
provider non sia esente da responsabilità >>):  è vero che sono legate da una disgiuntiva implicita (esplressa nella dir. UE: v. art. 14 dir. 31-2000) ma regolano due fattispecie concrete diverse.

Ancora , erra laddove osserva: << Ebbene la CGUE ha affermato che, anche
in riferimento al semplice prestatore di un servizio
dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni
fornite da un destinatario del servizio medesimo (cd.
hosting
passivo), va esclusa l’esenzione di responsabilità prevista
dall’art. 14 della Direttiva, 31/2000 quando lo stesso
“dopo aver
preso conoscenza, mediante un’informazione fornita dalla persona
lesa o in altro modo, della natura illecita di tali dati o di attività
di detti destinatari abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati
o disabilitare l’accesso agli stessi”
, così sancendo il principio
secondo il quale la conoscenza, comunque acquisita (non solo se
conosciuta tramite le autorità competenti o a seguito di esplicita
diffida del titolare dei diritti) dell’illiceità dei dati
memorizzati fa sorgere la responsabilità civile e risarcitoria del
prestatore di servizi (sentenza del 23.03.2010, relativa alle Cause
riunite da C-236/08 a C-238/08 – Google cs. Louis Vuitton)
>>.   Erra perchè non distingue in modo chiaro tra perdita (non invocabilità) dell’esimente e affermazione di responsabilità.-

Infine, superficialmente segue la linea della rilevanza giuridica del concetto di hosting attivo, che invece è assai poco rigoroso (ns. critica in Albertini, LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEGLI INTERNET SERVICE PROVIDER PER I MATERIALI
CARICATI DAGLI UTENTI (CON QUALCHE CONSIDERAZIONE SUL RUOLO DI
GATEKEEPERS
DELLA COMUNICAZIONE, §§ 6 segg.), parlando di <cooperazione mediante omissione>.

Interessante per i pratici è però il calcolo del lucro cessante, basato sul numero di accessi , però ridotto (al 35 % ) passando al numero di ipotizzabili acquisti di diritti di visione di singoli eventi (stimati in euro 9 cadauno).

E’ liquidato pure un danno non patrimoniale equitativo di euro 50.000, non meglio motivato se non tramite il rif. al combinato disposto degli art. 185 c. pen. e art. 171 ter l. aut. (il reato)  e alla affermazine <<tenuto conto del tempo di protrazione della condotta e della natura della lesione che ha senz’altro compromesso l’immagine commerciale di parte attrice introducendo un elemento di forte dissuasione alla stipula od al rinnovo degli abbonamenti con evidenti ricadute anche sulla capacità di attrarre investimenti pubblicitari>>. Questo però ha a che fare con un pregiudizio totalmente patrimoniale! La questione del danno non patrimoniale per gli enti , commerciali soprattutto, è complicata ….

Le pagine Facebook e Twitter dei Trustees di una scuola pubblica sono “public forum” e devono rispettare il Primo Emendamento

Aprofondita sentenza di appello sull’oggetto, resa dal 9° Circuito, 27 luglio 2022, Nos. 21-55118 e 21-55157, D.C. No. 3:17-cv-02215-BEN-JLB, Garnier v. O’Connor-Ratcliff  e Zane.

Alcuni Trustees del Poway Unified School District (“PUSD” or the “District”) Board of Trustees (scuola pubblica, parrebbe: non si potrebbe ravvisare public forum per una scuola privata) bannarono due genitori dalla pagina Facebook (F.) per le loro critiche continue e estese , anche se non offensive

I genitori agirono per violazione del Primo  Emendamento (libertà di parola)  in relazione al 42 U.S. Code § 1983 – Civil action for deprivation of rights.

L’appello conferma il primo grado dicendo che ricorre State Action (color of state law) e che il Primo Emendamento va rispettato anche sui social media, se usati nel dialogo con i cittadini: essi infatti diventano Designated Public Fora.

Succo: << The Garniers’ claims present an issue of first impression
in this Circuit: whether a state official violates the First
Amendment by creating a publicly accessible social media
page related to his or her official duties and then blocking
certain members of the public from that page because of the
nature of their comments. For the following reasons, we
hold that, under the circumstances presented here, the
Trustees have acted under color of state law by using their
social media pages as public fora in carrying out their official
duties. We further hold that, applying First Amendment
public forum criteria, the restrictions imposed on the
Garniers’ expression are not appropriately tailored to serve
a significant governmental interest and so are invalid. We
therefore affirm the district court judgment
>>, p. 6.

Si v. poi:

– i quattro criteri per ravvisare State Action, p. 18.

– il concetto di <designated public forum> e di <limited public forum>, p. 35.

– non è spam giustificativo della censura la continuata rieptizione di post critici, p. 39 ss

– l’usare i filtri Word, permesso da F., non fa diventare chiuso quello che altrimenti  è un public forum, p,. 15 ss

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Confondibilità tra marchi nel settore dei cosmetici (Rejeneusse v. Revanesse)

Secondo il  Tribunale UE con sentenza 13.07.2022, T-543/21, Purasac v. EUIPO-Prommenium, i due termini, per i medesimi prodotti, hanno notevole somiglianza visiva e fonetica.

Ecco il marchio posteriore (l’anteriore REVANESSE  era solo denominativo):

Il TRib. non dà importanza alla differenza (presente nella parte centrale delle parole) ma alla uguaglianza della parte iniziale e finale.

Nè da importanza al logo stilizzato che accompagna il marchio posteriore, ritenendolo privo di distintività e rivestente un ruolo solo decorativo (§§ 36 e 45)

Conclude nel senso che il rischio di confusione c’è.

Sulla distintività del marchio UNI per matite e strumenti per scrittura

Il Tribunale UE con sentenza 13 luglio 2022, T-369/21, Unimax c. Mitsubishi Pencil, rigetta la domanda di nullità del (noto, forse <rinomato>) marchio denominativo UNI (scritto un pò schiacciato e in grassetto) per penne e strumenti di scrittura.

Il contestante allegava che il marchio , quale prefisso, ricordava le parole <university> e/o <unicolore> (monocromatico), il che rimandava a caratteristiche del prodotto o al suo uso.

Giustamente però il Tribunale conferma le decisioni amminsitrative e rigetta la domanda

L’avvallamento stradale è un’insidia che porta alla responsabilità del Comune ex art. 2051 cc?

L’avvallamento stradale , essendo ben visibile di giorno, esclude la responsabilità del custode (Comune) in quanto la condotta del ciclista costituisce caso fortuito? Dice di no Cass, ord. 02 maggio 2022 n. 13.729, rel. Moscarini, sez. 6, cassando la contraria Corte di appello de L’Aquila.

Premette della giurisprudenza: <<Si consideri Cass., 6-3 ord. 23 gennaio 2019 n. 1725, secondo la quale il custode comunque deve predisporre quanto necessario per prevenire danni attinenti alla cosa custodita; il caso fortuito, pertanto, sarà integrato dalla condotta del terzo o del danneggiato soltanto se si traduca in una alterazione imprevista e imprevedibile dello stato della cosa.

A sua volta Cass., 3, ord. 29 gennaio 2019 n. 2345 rileva che è necessario tenere conto della natura della cosa per cui quanto meno essa è intrinsecamente pericolosa, quanto di più il possibile pericolo è prevedibile e superabile dal danneggiato con normali cautele, e quindi quanto più è l’efficienza causale della sua condotta imprudente che giunge, eventualmente, a interrompere il nesso causale tra la cosa e il danno ovvero a espungere la responsabilità del custode.

Cass., 3, ord. 12 maggio 2020 n. 8811 rileva ancora che la responsabilità ex art. 2051 c.c., impone al custode, presunto responsabile, di provare l’esistenza del caso fortuito, considerato comunque che i suoi obblighi di vigilanza, controllo e diligenza gli impongono di adottare tutte le misure idonee per prevenire e impedire la produzione di danni a terzi.

Cass., 2, n. 456 del 2021 da ultimo conferma che il danneggiato deve limitarsi a provare il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, spettando al custode la prova cd. liberatoria mediante dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia avente impulso causale autonomo e carattere di assoluta imprevedibilità ed eccezionalità>>.

Poi entra nei fatti di causa;:

<< A questo indirizzo giurisprudenziale, cui il Collegio intende dare continuità, la sentenza non appare conforme in quanto la Corte di merito ha ritenuto che la condotta del danneggiato integrasse di per sé il caso fortuito perché l’avvallamento era percepibile per la sua dimensione e per l’orario in cui era avvenuto il sinistro.

Ciò non toglie che, alla luce appunto della giurisprudenza sopra indicata, il Comune avrebbe dovuto prevenire l’avvallamento certamente presente ed intrinsecamente pericoloso, non avendo provato che si fosse appena creato.

Ragionando diversamente, tutti i custodi di strade potrebbero permettersi di lasciarle non riparate a tempi indefiniti, ovvero astenersi dalla custodia, perché gli avvallamenti possono essere percepiti materialmente da chi passa nelle ore luminose del giorno, soltanto negli orari notturni “risorgendo” la custodia.

Si nota ad abundantiam che il giudice di merito non si è neppure avvalso del rilievo tipico della notevole precedente frequentazione del luogo – da parte del danneggiato – che lo rende ben noto a chi lo percorre>>.

Soluzione condivisibile , tranne che per l’inciso finale (precedente frequentazione dei luoghi), il cui ruolo motivatorio la SC non spiega ma che -in quanto non discusso nel merito- pare nullo (da inquadrare nel fortuito e/o assenza di nesso di causa? I due commi dell’art. 1227 cc regolano due fattispecie assai diverse circa la condotta del danneggiato: sua incidenza sul nesso di causa nel c.1 e incidenza a valle sulla produzione delle conseguenze dannose DOPO la produzine dell’evento di danno nel c. 2; lo ricorda Franzoni, La causalità nella responsabilità civile, Danno e resp., 2022/3, 299).

Contratto di spedalità ed efficacia protettiva per i terzi

Un soggetto affetto da morbo di Parkinson si ricovera in ospedale per un percorso di riabilitaizone motoria ma , dopo tre giorni, scompare nel nulla.

La moglie agisce contro l’ospedale per violazione dell’obbligo di vigilanza e proteizone.  FA valere l’estensione a sè dei doveri contrattuali , sulla base della teoria degli effetti protettivi per il terzo (poi: e.p.) .

La Cassazione con sentenza 11.320 , sez. 3, del 7 aprile 2022, rel. Spaziani, confermando l’appello, rigetta la domanda giudiziale. Dice che eventualmente c’è spazio per danno aquiliano ma non per danno ex contractu: l’estensione protettiva a favore di terzi è ammessa infatti solo nel caso di danno al feto in caso di prestazione di assistenza al parto resa alla gestante e in nessun altro, pena il vanificare il principio della relatività del contratto ex art. 1372 cc.

Dettagliata analisi di cui riporto il passo centrale, §§ 4.3-4.5:

<<4.3. Il principio secondo il quale nell’ambito delle prestazioni sanitarie il perimetro del contratto con efficacia protettiva dei terzi deve essere circoscritto alle relazioni contrattuali intercorse tra la gestante e la struttura sanitaria (o il professionista) che ne segua la gestazione e il parto, già enunciato in più risalenti decisioni di questa Corte (Cass. n. 6914 del 2012 e Cass. n. 5590 del 2015), è stato di recente reiteratamente ribadito, ora sul presupposto che solo in questa fattispecie vi sarebbe identità tra l’interesse dello stipulante e l’interesse del terzo (Cass. n. 19188 del 2020), ora sulla considerazione del carattere “relazionale” della responsabilità contrattuale (in base al quale l’estensione soggettiva dell’efficacia del contratto potrebbe ammettersi solo nei casi limite in cui i terzi siano portatori di un interesse strettamente connesso a quello “regolato già sul piano della programmazione negoziale”: Cass. n. 14258 del 2020), ora, infine, sulla base del dato sistematico desunto dalla disciplina di altre fattispecie di responsabilità civile nelle quali, come in quella sanitaria, si può determinare l’eventualità che dall’inadempimento dell’obbligazione dedotta nel contratto possano derivare, in via riflessa o mediata, pregiudizi in capo a terzi estranei al rapporto contrattuale (Cass. n. 14615 del 2020); tra queste ipotesi, quella più rilevante concerne l’infortunio subito dal lavoratore per inosservanza del dovere di sicurezza da parte del datore di lavoro (art. 2087 c.c.), in relazione alla quale non si dubita che l’azione contrattuale spetti unicamente al lavoratore infortunato, mentre i suoi congiunti, estranei al rapporto di lavoro, ove abbiano riportato iure proprio danni patrimoniali o non patrimoniali in seguito all’infortunio medesimo, sono legittimati ad agire in via extracontrattuale (tra le più recenti, cfr. Cass. n. 2 del 2020).

4.4. All’orientamento in esame, progressivamente consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte, occorre dare in questa sede ulteriore continuità, aggiungendo agli argomenti surricordati ulteriori rilievi, fondati sulla struttura e sui limiti del vincolo obbligatorio.

Sotto il profilo strutturale, deve rilevarsi che la già evidenziata “relazionalità” della responsabilità contrattuale trova fondamento nel carattere relativo degli elementi costitutivi soggettivi del rapporto obbligatorio (la posizione di credito e la posizione di debito) quali posizioni strumentali che danno luogo ad una relazione intersoggettiva dinamica (rapporto giuridico) non propriamente ravvisabile al cospetto delle situazioni finali, proprie dei diritti assoluti. Il carattere strumentale della posizione passiva di debito, correlativa ad una posizione soggettiva attiva avente natura di diritto relativo, conferisce l’attributo della relatività anche agli elementi costitutivi oggettivi del rapporto obbligatorio (l’interesse e la prestazione): la prestazione, pertanto, deve corrispondere all’interesse specifico del creditore (art. 1174 c.c.) e non a quello di terzi, salvo che questi ultimi non siano portatori di un interesse assolutamente sovrapponibile a quello del primo; la circostanza che il contenuto della prestazione sia soggetto a criteri legali (oltre che contrattuali) di determinazione, costituiti in primo luogo dalla buona fede (art. 1175 c.c.) e dalla diligenza (art. 1176 c.c.), non vale a configurare obbligazioni ulteriori aventi ad oggetto prestazioni di salvaguardia dei terzi (secondo la teoria dei cc.dd. “obblighi accessori di protezione” – Schutzpflichten e Nebenspflichten – che costituisce la premessa concettuale, nell’ambito della disciplina generale dell’obbligazione, della teoria del “contratto con effetti protettivi di terzi”) ma solo a conformare l’oggetto dell’obbligazione in funzione della realizzazione dell’interesse concreto dedotto nel contratto. Sussiste, in altre parole, una corrispondenza biunivoca tra l’interesse creditorio (art. 1174 c.c.) e la causa del contratto, intesa quale causa concreta: l’interesse creditorio, per un verso, concorre ad integrare la causa concreta del contratto; per altro verso, è da quest’ultima determinato, quando l’obbligazione ha titolo nel contratto medesimo.

Sotto il profilo dei limiti del vincolo obbligatorio, non va sottaciuto che secondo il diffuso intendimento sociale, recepito dal diritto positivo, esso è improntato a criteri di normalità, i quali, da un lato, sul piano oggettivo, impongono di individuare limiti di ragionevolezza al sacrificio del debitore (esonerandolo, ad es., salvo che l’inadempimento non dipenda da dolo, dal risarcimento del danno imprevedibile: art. 1225 c.c.), mentre, dall’altro lato, sul piano soggettivo, inducono ad escludere, di regola, che la tutela contrattuale possa essere invocata dai soggetti terzi rispetto al contratto che abbiano riportato un pregiudizio in seguito all’inadempimento, ancorché siano legati al creditore da rapporti significativi di parentela o dal rapporto di coniugio.

Deve pertanto ribadirsi che, mentre il paziente, in quanto titolare del rapporto contrattuale di spedalità, è legittimato ad agire per il ristoro dei danni cagionatigli dall’inadempimento della struttura sanitaria con azione contrattuale, al contrario, fatta eccezione per il circoscritto ambito dei rapporti afferenti a prestazioni inerenti alla procreazione, la pretesa risarcitoria vantata dai congiunti per i danni da essi autonomamente subiti, in via mediata o riflessa, in conseguenza del medesimo contegno inadempiente, rilevante nei loro confronti come illecito aquiliano, si colloca nell’ambito della responsabilità extracontrattuale ed è soggetta alla relativa disciplina.

4.5. Per aver fatto corretta applicazione di tale principio, traendone le dovute implicazioni in ordine alla ripartizione dell’onere della prova tra le parti del rapporto controverso, la sentenza impugnata appare, dunque, perfettamente conforme a diritto.

Giuridicamente corretta, infatti, alla luce di tali premesse, si mostra l’affermazione secondo la quale l’attrice avrebbe dovuto fornire la prova di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale della struttura, vale a dire il fatto colposo (consistente nel contegno omissivo conseguente alla violazione di un dovere di sorveglianza giustificato da una minorazione cognitiva del paziente, rimasta indimostrata), il pregiudizio che da questo fatto sarebbe conseguito alla ricorrente e il nesso causale tra il fatto colposo e il danno.

Dinanzi al rilievo che, alla luce della corretta ripartizione dell’onere probatorio nell’ambito di una fattispecie inquadrabile nella responsabilità aquiliana, quello spettante alla ricorrente non era stato affatto assolto, del tutto aspecificamente nel ricorso viene formulata, poi, la censura di mancata applicazione del criterio di vicinanza della prova; questo criterio, infatti, quale mezzo di definizione della regola finale di giudizio di cui all’art. 2697 c.c., trova applicazione nel processo quando una delle parti sia in condizione di avere una più compiuta conoscibilità delle circostanze da provare e una migliore accessibilità ai mezzi per dimostrarne la sussistenza (Cass. n. 7023 del 2020), sicché l’uso di tale canone è bensì consentito quando sia necessario dirimere un’eventuale sovrapposizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, impeditivi o modificativi (Cass. n. 7830 del 2018) ma esso non può essere invocato al fine di sollevare integralmente la parte dall’onere di provare i fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio>>.

Due osservazioni.

1) sarebbe cambiato qualcosa, se fosse andata la moglie ad accompagnarlo e a concordare la prestazione curativa con l’ente, anzichè il paziente da solo (come parrebbe)?

2) per Castronovo, in una pregevole nota alla sentenza (Effetti di protezione per i terzi al contrario, Foro it., 202276, 2067 ss) , sostenitore del concetto di origine tedesca degli e.p. ,  il caso de quo non può rientravi perchè esso riguarda il caso di interessi occasionalmente vicini a quelli del creditore, che siano messi a repentaglio dall’esecuzione della prestazione resa a quest’ultimo (caso di scuola: l’artigiano che, riparando una res del proprietario di casa, ferisca la colf che stia pure ivi lavorando). Invece nel caso de quo gli interessi (del creditore e del terzo) <non sono sullo stesso piano> :  la lesione dell’interesse connesso (quello della moglie) dipende dall’inadempimento dell’obbligo principale. E’ vero che una differenza c’è : nel primo caso (quello di scuola) si può ledere l’interesse connesso ancbe se quello principale viene perfettamente sodddisfatto , mentre nel caso inesame la lesione di quello secondario (del terzo, cioè della moglie) è possibile solo se c’è inadempimento di quello principale.

Mi domando però se la ratio di estensione della protezione al terzo non ricorra anche nel nostro caso: e la risposta potrebbe essere positiva. Il debitore può immaginarsi con facilità l’esistenza di interessi familiari connessi a quello in capo al paziente. Non sfugge però che potrebbe dirsi lo stesso in molti altri casi, il che rischierebbe di vanificare la relatività dell’effaciacia contrattuale. Bisognerebbe allora trovare un elemento limitante: ma non nel caso de quo, ove qualunque debitore di prestazioni mediche/di vigilanza sa che solitamente un  paziente ha dei parenti conviventi.

Onere della prova e vicinanza alla prova in un’interessante sentenza di due anni fa

In tema di individuazione del soggetto onerato di provare la qualità di erede del debitore, Cass. sez. 3 n. 13.851 del 6 luglio 2020, rel. Graziosi, offre interessanti spunti di riflessione.

Ne ho notizia da Sassani, L’onere della prova al tornante del mezzo secolo. Rapsodia su un tema di Giovanni Verde, Riv. dir. proc. 2022/2, p. 425.

La sentenza di appello aveva onerato i non accettanti l’eredità materna di dare prova della mancanta acccettazione.

La SC concorda e osserva così sul spunto rilevante (in generale):

<<3.7 Invero, il principio della prossimità o vicinanza della prova (principio ormai pienamente generale, che viene applicato nei più diversi settori: cfr., da ultimo, Cass. sez. 6-3, ord.9 gennaio 2020 n. 297, Cass. sez. 3, 11 novembre 2019 n. 28985, Cass. sez. 5, 17 luglio 2019 n. 19190 e Cass. sez. L, 29 marzo 2018 n. 7830) è il parametro della relatività, in riferimento ai principi costituzionali e sovranazionali, dell’automatismo insito nell’art. 2697 c.c.: non, quindi, un mezzo per eluderlo, bensì un presidio sistemico per impedirne l’abuso, id est la trasformazione del dispositivo processuale in un’inaccettabile ostacolo alla tutela dei diritti sostanziali. Il che, infatti, si correla all’intervenuto inserimento dell’art. 24 Cost., identificante gli strumenti processuali garantiti ai litigatores – nel paradigma del giusto processo riconducibile (soprattutto) al novellato art. 111 Cost. e all’art. 6 CEDU: non vale la forma dei suddetti strumenti se non è coerente e compatibile con lo scopo del processo, e ciò significa integrale orientamento teleologico delle strutture di rito per conseguire nella maggiore misura raggiungibile la decisione di merito (v. p. es., Cass. sez. 3, 11 febbraio 2009 n. 3362, per cui il principio del giusto processo impone “di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte ovvero ispirate ad un formalismo funzionale non già alla tutela dell’interesse della controparte ma piuttosto a frustrare lo scopo stesso del processo, che è quello di consentire che si pervenga ad una decisione di merito”; e cfr. Cass. sez. L, 1 agosto 2013 n. 3362). Allora la prossimità/vicinanza della prova trae le conseguenze dalla peculiare natura di fattispecie in cui di una ordinariamente agevole possibilità di fornire la prova fruisce una parte soltanto, svincolando dall’usuale canone di ripartizione degli oneri probatori delineato dall’art. 2697 c.c.. Ma il condizionante inserimento, appunto, dell’art. 2697 c.c., nel sistema rende insito nella norma il limite al suo dettato letterale, nel senso che la ripartizione come letteralmente prevista deve attuarsi soltanto laddove non generi una disparità tra i litigatores che conduca lo strumento processuale a fuoriuscire dalla necessaria parità funzionale, il rito dunque ostacolando il conseguimento del merito.

Il relativismo in tal senso delle singole norme non può, infatti, essere negato e respinto, pena la strumentalizzazione di queste a favore del fenomeno antigiuridico dell’abuso, la cui ipotizzabile configurabilità vale “a contrario” come parametro interpretativo nel settore del rito, in quanto costituisce l’inverso del “giusto processo”.>>.

Applicando ciò al caso sub iudice:

<< 3.8 Applicando allora l’art. 2697 c.c., nella sua pregnanza sistemica, non può negarsi che la parte, per così dire, vocata alla prova del passaggio o meno del chiamato alla qualità di erede è il chiamato stesso, l’esercizio della sua volontà opzionale generando la stretta prossimità alla prova nonchè semplificando e accelerando il fenomeno processuale in rapporto a quello che diverrebbe se non venisse adeguato e sintonizzato ad esso anche l’ulteriore fenomeno successorio (in termini di prescrizione e di procedimenti “esterni” specifici).

In conclusione, consono ai valori sistemici è l’orientamento più recente, fondato sulla prossimità della prova e al quale questo collegio ritiene di aderire così come ulteriormente chiarito, non apparendo neppure – si nota ad abundantiam – necessario investire il più elevato giudice nomofilattico in quanto proprio la sussistenza di tali valori inibisce con evidenza l’impostazione dell’ulteriore orientamento, insorto in epoca ben anteriore alla loro introduzione, costituzionale e sovranazionale, appunto nel sistema.

In considerazione, allora, del principio della prossimità della prova – presidio ontologicamente sistemico che apporta al canone dell’art. 2697 c.c., una specifica tutela dal suo abuso deve affermarsi che spetta ai chiamati all’eredità di un soggetto deceduto nelle more di un processo, e conseguentemente convenuti in riassunzione, in primis allegare e quindi dimostrare di non esserne divenuti eredi.>>

Però la vicinanza alla prova è un criterio per applicare l’art. 2697 e cioè per categorizzare i fatti in cost. imped. estint. , quando ciò non sia chiaro. Se invece la disposizione è chiara e si lede il diritto di difesa, la soluzione è la dichiarazione di incostituzionalità.

Il divieto di usare social media non è troppo vago in relaizone al Primo Emendamento

Circa la c.d. probation di un minore (sospensione condizionale della pena, suppergiù) , la condizione <<that he “not knowingly post, display or transmit on social media or through his cell phone any symbols or information that [he] knows to be, or that the Probation Officer informs [him] to be, gang-related.”>>  non è troppo vaga e quindi eccessiavamente limitativa del diritto di parola ex Primo Emendamento

Così L?appello della California 21 luglio 2022 H048553, H048979 (Santa Clara County Super. Ct. No. 19JV43778), in re J.T..

In particolare sul concetto di <social media>:

<< As minor acknowledges, the dictionary provides a definition of the term “social
media.” According to the Oxford English Dictionary, “social media” constitutes
“websites and applications which enable users to create and share content or to
participate in social networking.” (Oxford English Dict. Online (2022)
<https://www.oed.com/view/Entry/183739?redirectedFrom=social+media#eid272386371
> [as of July 21, 2022], archived at: <https://perma.cc/S6WV-Q3SK>.) Thus, a
practical, acceptable, and common-sense definition of the term exists, which is what a
probation condition needs to pass constitutional muster.

In determining the adequacy of the notice provided by a probation condition, we
are guided by the general principle that the condition’s language must only have
“ ‘ “
reasonable specificity,” ’ ” not “ ‘mathematical certainty.’ ” (Sheena K., supra,
40 Cal.4th at p. 890.) And, a probation condition is sufficiently specific “ ‘ “if any
reasonable and practical construction can be given its language or if its terms may be
made reasonably certain by reference to other definable sources.” ’ ” (
People v. Lopez
(1998) 66 Cal.App.4th 615, 630 (Lopez).)
Here, the term “social media” has a reasonably certain definition: websites where
users are able to share and generate content, and find and connect with other users of
common interests. Moreover, the condition’s purpose—to deter minor from engaging in
street gang activity—lends the needed clarity. A trial court’s reasons for imposing a
probation condition can cure a vagueness problem because “ ‘abstract legal commands
must be applied in a specific
context. A contextual application of otherwise unqualified
legal language may supply the clue to a law’s meaning, giving facially standardless
language a constitutionally sufficient concreteness.’ ” (
Lopez, supra, 66 Cal.App.4th at
p. 630.)
For example, in
In re Malik J. (2015) 240 Cal.App.4th 896 (Malik J.), the
appellate court considered whether a probation condition requiring the minor to
“ ‘provide all passwords to any electronic devices, including cell phones, computers or
[notepads], within [the probationer’s] custody or control’ ” was unconstitutionally vague
or overbroad. (
Id. at p. 900.) The minor argued that the phrase “ ‘any electronic
devices’ ” could be interpreted to include Kindles, PlayStations, iPods, the codes to his
car, home security system, or even his ATM card. (
Id. at p. 904.) The appellate court
observed that the search condition was imposed in response to the trial court’s concern
that the minor would use items such as his cell phone to coordinate with other offenders
and because he had previously robbed people of their iPhones. (
Id. at pp. 904-905.)
Therefore, the appellate court concluded that it was reasonably clear that the condition

was meant to encompass “similar electronic devices within [minor’s] custody and control
that might be stolen property, and not, as [minor] conjectures, to authorize a search of his
Kindle to see what books he is reading or require him to turn over his ATM password.”
(
Id. at p. 905.)
As in
Malik J., the condition’s purpose here—to deter minor from engaging in
street gang activity—provides guidance to minor and clarifies what types of “social
media” the condition intends to target. When deciding to impose gang conditions, the
juvenile court noted that the probation report disclosed that minor “wore red clothing
[and] seemed to hang out with Norte[ñ]o street gang guys,” and that there were “various
photos posted and included in the probation report as well as the Instagram issues and
tattoo issues.” The court’s statements render it “reasonably clear” that the condition was
intended to prohibit street gang-related activity on websites where users are able to share
and generate content. (
Malik J., supra, 240 Cal.App.4th at p. 905.)
Minor relies on
Packingham v. North Carolina (2017) 137 S.Ct. 1730
(
Packingham) for his vagueness claim, but that case is inapposite here. Unlike this case,
Packingham did not involve a probation condition; it involved a law that made it a felony
for registered sex offenders, including those who had completed their sentences, to
“access . . . a number of websites, including commonplace social media websites like
Facebook and Twitter.” (
Id. at p. 1733.) The Supreme Court held that the law violated
the First Amendment because it “ ‘burden[ed] substantially more speech than is necessary
to further the government’s legitimate interests’ ” in protecting children from sexual
abuse. (
Id. at p. 1736.) Packingham does not address the issue before us—whether the
term “social media,” as used in a probation condition that forbids gang-related postings,
displays, or transmissions, is unconstitutionally vague. “ ‘ ‘ “[C]ases are not authority for
propositions not considered.’ ” ’ ” (
People v. Baker (2021) 10 Cal.5th 1044, 1109.)
For all of these reasons, we do not find the term “social media” to be
unconstitutionally vague as used in the challenged probation condition
>>

Domanda di annullamneto di delibera societaria per abuso di maggioranza: altro caso di rigetto

Sono rari gli accoglimenti di domande di annullameno di delibere societarie per abuso di maggioranza, sopratutto per il requisito di un intento soggettivo pravo (ma sarebbe da esplorare se bastasse l’assenza di un -qualunque- giovamento prospettico all’attività sociale).

Il Trib. di Milano con sent. 804/2022 del 31.0’1.2022 , RG 50629/2018, rel. MaRCONI, rientra tra i rigetti.  E a ragione, se si condivide l’accertamento fattuale e delle ragini di business alla base dello stesso.

Così accerta e motiva il giudice:

<<Come noto la fattispecie di creazione giurisprudenziale dell’abuso del diritto di voto da parte del socio di maggioranza che determina l’annullabilità della deliberazione assembleare si configura allorché ilsocio eserciti consapevolmente il suo diritto di voto in modo tale da ledere le prerogative degli altri soci senza perseguire alcun interesse sociale, in violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nell’esecuzione del contratto sociale.

La ravvisabilità dell’interesse sociale all’adozione delle delibera esclude, quindi, in radice laconfigurabilità dell’abuso di potere dei soci di maggioranza, fermo restando che, in ogni caso, ilsindacato sull’esercizio del potere discrezionale della maggioranza, reputata dall’ordinamento migliore interprete dell’interesse sociale in considerazione dell’entità maggiore del rischio che corre nell’esercizio dell’attività imprenditoriale comune, deve arrestarsi alla legittimità della deliberazione attraverso l’esame di aspetti all’evidenza sintomatici della violazione della buona fede senza spingersi acomplesse e retrospettive valutazioni di merito in ordine all’opportunità delle scelte di gestione eprogramma dell’attività comune sottese alla delibera adottata.

Nel caso in esame come risulta dal verbale dell’assemblea del 20 luglio 2018 la deliberazione di aumento di capitale da € 400.000 a € 800.000 “ a pagamento e alla pari, nel pieno rispetto del diritto diopzione spettante ai Soci” è stata adottata allo scopo di consentire alla società di sottoscrivere e liberare azioni ordinarie ed uno strumento finanziario partecipativo della Cooperativa EditorialeLariana per consentirle a sua volta di sottoscrivere l’aumento di capitale della Editoriale s.r.l., il tutto finalizzato, previa revoca dello stato di liquidazione delle due società, allo sviluppo di nuove iniziative imprenditoriali nel mondo dell’editoria sfruttando le sinergie fra le due società ( v. doc. 2 di parteattrice a pag. 4).

Come chiaramente spiegato dalla difesa della società convenuta la delibera tendeva a realizzare l’interesse sociale alla ripresa della piena attività ed al salvataggio della società partecipata Editoriale s.r.l., che era stata posta in liquidazione ed iscritta a bilancio al valore simbolico di € 1, con uninvestimento attuato indirettamente, attraverso l’aumento di capitale nella Cooperativa EditorialeLariana, che ne era già socia di maggioranza, finalizzato ad assicurarle la possibilità di godere anche in futuro del contributo governativo riconosciuto, a partire dal 2021, alle società editrici di quotidiani eperiodici solo se integralmente partecipate da una società cooperativa.La ripresa dell’attività della Editoriale s.r.l. avrebbe, poi, consentito alla società convenuta non solo ilrecupero di valore e redditività della partecipazione che diveniva indiretta all’esito dell’operazione ma anche la migliore tutela del suo patrimonio immobiliare, costituito dalla porzione dell’edificio di prestigio in cui esercita l’attività di impresa adiacente alla porzione di proprietà di Editoriale s.r.l., scongiurando il rischio dell’impatto negativo della materiale separazione fra le due porzioni, utilizzate promiscuamente, conseguente alla vendita in sede di liquidazione della parte di proprietà di Editoriales.r.l.

La complessa operazione di finanziamento sottesa alla deliberazione di aumento di capitale era, quindi,chiaramente concepita in funzione dell’evidente interesse della società alla ripresa dell’attività della partecipata Editoriale s.r.l. e la circostanza è sufficiente ad escludere la stessa configurabilità dell’abusodella maggioranza senza che rilevi in alcun modo l’esito negativo dell’operazione, constatato ex post, corrispondente alla realizzazione del normale rischio di impresa che si è, peraltro, risolto in pregiudizioeconomico solo per i soci che hanno partecipato alla ricapitalizzazione.

La diluizione della partecipazione dei soci di minoranza, dunque, costituisce l’effetto naturale dellegittimo esercizio del potere discrezionale della maggioranza di deliberare l’aumento di capitale nell’interesse della società e della libera scelta di non sottoscriverlo degli altri soci che, del resto, neanche hanno mai dedotto in giudizio di essersi trovati nell’impossibilità nota alla maggioranza di far  fronte al relativo impegno finanziario.

Né contrariamente a quanto sostenuto dagli attori la previsione dell’aumento di capitale “alla pari” cioè senza la previsione del sovrapprezzo corrispondente al maggior valore del patrimonio sociale rispetto alcapitale nominale può costituire sintomo di abuso della maggioranza, in presenza della previsione del diritto di opzione a favore di tutti i soci ( v. Tribunale di Milano 6.8.2015 n. 9296).>>