Bilanciamento tra diritto della collettività all’informazione e diritto all’oblio dell’interessato: analitica pronuncia di legittimità

Cass. sez. I del 27/12/2023 n. 36.021, rel. Iofrida.

Premesse:

<<<3.1. Va premesso, richiamandosi quanto sancito da Cass. n. 15160 del 2021, che, nel disegno personalistico – lo Stato è a servizio della persona, non viceversa – e pluralista prefigurato dalla Costituzione, l’art. 2 non può che essere interpretato se non come una norma di apertura, fonte e catalogo – come è stato incisivamente affermato da autorevole dottrina – di una “Costituzione culturale”, e ad essa vanno, pertanto, ricondotti una serie di diritti della persona, sia che essi siano previsti da norme di legge ordinaria, sia che debbano enuclearsi dal sistema, come per i diritti – in considerazione nella vicenda oggetto di esame – all’identità personale ed all’oblio. Al soggetto giuridico, quale destinatario neutro ed indifferenziato della regola giuridica, astratto centro di imputazione di situazioni giuridiche (la capacità giuridica di ciascuno soggetto si acquista con la nascita, recita l’art. 1 c.c.), subentra, dunque, nel sistema, la persona, quale fonte primaria di valori; ma la persona intesa non astrattamente, bensì nella individualità delle sue qualità soggettive e sociali (cfr. Cass., SU, n. 3677 del 2009, secondo cui nel danno non patrimoniale rientra qualsiasi ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, garantito dall’art. 2 Cost.).

3.1.1. Orbene, la persona si individua, anzitutto, per certe caratteristiche esteriori. Viene, pertanto, in considerazione, in primis, il “diritto all’immagine”, enucleabile dall’art. 10 c.c. e dagli artt. 96 e 97 Legge sul diritto di autore, che prevedono il diritto al ritratto, che può essere pubblicato solo con consenso della persona ritratta (cfr. Cass. n. 10957 del 2010; Cass. n. 1748 del 2016).

3.1.2. Viene in rilievo, poi, il cd. “diritto all’identità personale”, il cui fondamento normativo è ravvisabile sempre nell’art. 2 Cost., e che risulta costruito – nelle elaborazioni della dottrina e nelle decisioni della giurisprudenza – come immagine sociale del soggetto, e non come idea meramente soggettiva che ciascuno abbia del proprio io; immagine costituita da quel coacervo di valori (intellettuali, politici, religiosi, professionali, ecc.) che caratterizzano una determinata persona e che questa non vuole vedere alterato o travisato all’esterno. Tale diritto confluisce (insieme a quelli all’immagine, alla riservatezza, al nome ed alla reputazione) nella previsione dell’art. 2 Cost., ossia nel valore unitario della persona, ed ha il proprio apparato di tutela negli artt. 6,7,10 e 2059 c.c. e nelle previsioni della legge sul diritto di autore, applicabili in via diretta e non analogica, in virtù di un’interpretazione adeguatrice di tali norme al precetto costituzionale (cfr. Cass. n. 16222 del 2015).

3.1.3. Nel valore “persona”, protetto dall’art. 2 Cost., confluisce, quindi, il “diritto alla riservatezza”. Conosciuto dagli ordinamenti anglosassoni da tempo (fin dalla fine dell’800), nella forma della cd. privacy, o right to be let alone, la tutela del riserbo trova oggi un fondamento normativo in un reticolo di testi legislativi nazionali ed internazionali: la L. n. 339 del 1958, art. 6 (obbligo di riservatezza del lavoratore domestico); le L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 6, con riferimento alla riservatezza del lavoratore, e L. 22 aprile 1941, n. 633, artt. 93 e 95 (legge sul diritto di autore), che tutelano l’intimità delle corrispondenze epistolari; la L. 22 maggio 1978, n. 194, art. 5, con riferimento alla riservatezza della donna in caso di interruzione della gravidanza; l’art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU), che tutela il “rispetto della vita privata e familiare”; gli artt. 2,14 e 15 Cost.; gli artt. 614 c.p. e ss..

3.1.4. Ciò posto, non può revocarsi in dubbio che il problema fondamentale che si pone con riferimento a tali diritti è costituito dal contemperamento tra libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost., art. 10 CEDU e art. 10 Carta di Nizza) ed il diritto alla privacy ed all’identità personale (art. 2 Cost. ed art. 8 CEDU), poiché vengono in considerazione – al riguardo – atti non ingiuriosi o diffamatori, bensì attività informative che comunque invadono la libertà altrui. Al riguardo, si è affermato che tra il diritto all’informazione ed i diritti della persona alla reputazione ed alla riservatezza, il primo, se correlato ad un effettivo interesse pubblico all’informazione, tendenzialmente prevale sui secondi, attesa, ex art. 1 Cost., comma 2, la funzionale correlazione dell’informazione con l’esercizio della sovranità popolare, che solo in presenza di una opinione pubblica compiutamente informata può correttamente dispiegarsi, ed alla luce anche della legislazione ordinaria (in particolare il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 12) che, appunto, riconduce reputazione, identità e privacy nell’alveo delle eccezioni rispetto al generale principio di tutela dell’informazione (cfr. Cass. n. 16236 del 2010).

3.1.5. Tuttavia, non si è mancato di osservare che, nelle controversie in cui si configura una contrapposizione tra due diritti, aventi entrambi copertura costituzionale, e cioè tra valori ugualmente protetti, va applicato il cd. criterio di “gerarchia mobile”, dovendo il giudice procedere di volta in volta, ed in considerazione dello specifico thema decidendum, all’individuazione dell’interesse da privilegiare a seguito di un’equilibrata comparazione tra diritti in gioco, diretta ad evitare che la piena tutela di un interesse finisca per tradursi in una limitazione di quello contrapposto, capace di vanificarne o ridurne il valore contenutistico (cfr. Cass. n. 18279 del 2010).

3.1.6. Sul versante opposto a quello dei diritti di informare e di essere informati (art. 21 Cost. e art. 10 CEDU) in relazione a fatti e notizie di pubblico interesse, si colloca, per vero, già prima dell’avvento delle Costituzioni moderne, il diritto dei singoli al riserbo ed all’oblio per quel che concerne le vicende passate. Sotto tale profilo, la norma dell’art. 2 della nostra Costituzione crea immediatamente, con riferimento alla persona, una distanza da ogni astrazione, propria del soggetto di diritto, per la rilevanza attribuita al legame sociale, alla realtà delle “formazioni sociali” nelle quali si realizza la costruzione della personalità, in modo tale che sia garantita la “pari dignità sociale” della persona ed il suo libero sviluppo, anche in una prospettiva evolutiva. La dignità presuppone, invero, innegabilmente, il rispetto, da parte delle formazioni sociali (prima fra tutte lo Stato), della sfera personale riservata della persona, del diritto di ciascuno ad essere lasciato solo, a non essere menzionato in pubblico, ad essere dimenticato.

3.1.7. Se la nozione giuridica di personalità, implicita nell’art. 2 Cost., dà luogo, dunque, ad un concetto dinamico, è evidente che il diritto all’oblio, strettamente connesso a quello alla riservatezza ed al rispetto della propria identità personale, ma in una prospettiva evolutiva, si traduce nell’esigenza di evitare che la propria persona resti cristallizzata ed immutabile in un’identità legata ad avvenimenti o contesti del passato, che non sono più idonei a definirla in modo autentico o, quanto meno, in modo completo. Il diritto all’oblio “pensato” e definito dalla giurisprudenza come diritto a non subire gli effetti pregiudizievoli della ripubblicazione, a distanza di tempo, pur legittimamente diffusa in origine, ma non più giustificata da nuove ragioni di attualità, deve scontare oggi, sul piano applicativo, e segnatamente su quello del bilanciamento degli interessi, la possibilità di conservare in rete notizie, anche risalenti, spesso superate da eventi successivi, e perciò inattuali.

3.1.8. In tal senso, lo strumento della “deindicizzazione” – sul quale si ritornerà – è divenuto, nella prassi giurisprudenziale (oggi espressamente avallata dalla previsione del “diritto alla cancellazione”, denominato nel titolo anche “diritto all’oblio”, previsto dall’art. 17 del Regolamento UE 2016/679, non applicabile, tuttavia, ratione temporis alla fattispecie concreta, come si è già anticipato), lo strumento applicabile ogni qual volta l’interesse all’indiscriminata reperibilità della notizia mediante motore di ricerca sia recessivo rispetto all’esigenza di tutela dell’identità personale, nel senso dinamico suindicato. In tal modo, viene evitato il rischio di quella che è stata definita in dottrina la “biografia ferita”, ossia il rischio della “cristallizzazione della complessità dell’Io in un dato che lo distorce o non lo rappresenta più”.

3.1.9. Il tutto si gioca, dunque, sul tavolo del bilanciamento tra valori che si fronteggiano. Ed in tale prospettiva di “gerarchia mobile”, che vede – a seconda del contesto fattuale – prevalere ora l’una ora l’altra esigenza di tutela, si è posta, da ultimo, anche autorevole dottrina, che ha elaborato, al riguardo, una quadripartizione di tipi di casi – “una sorta di scansione per Fallgruppen” – evidenziando, del tutto opportunamente, che “la decisione di bilanciamento va presa alla luce di un solerte apprezzamento di tutte le circostanze allo stato significative”. In via di estrema sintesi, si è rilevato che può accadere, in concreto, che: a) in assenza di un interesse pubblico attuale, debba prevalere l’aspirazione del soggetto interessato al controllo dei propri dati personali; b) il conflitto coinvolga, invece, un interesse pubblico specifico ed attuale, ed allora troverà spazio l’opposta soluzione di pubblicare o ripubblicare i dati del soggetto; c) ci si trovi in presenza di un dataset documentario, inteso a raccogliere informazioni a fini di ricerca, per esigenze storiografiche, o altro, ed allora il diritto alla rimozione dei dati diventa recessivo, ma l’interessato avrà a diposizione l’opportunità di coltivare una istanza di contestualizzazione, volta all’aggiornamento del dato; d) la notizia diffusa sia inequivocabilmente falsa (fake news), ed allora – fatta salva in alternativa, ove concretamente percorribile, una possibilità di smentita – la cancellazione dall’archivio informatico potrà essere inevitabile.

3.2. Con riguardo, poi, al concreto atteggiarsi del diritto all’oblio nel contesto digitale, con specifico riguardo ai limiti del diritto individuale alla rimozione di taluni contenuti dai risultati forniti da un motore di ricerca a partire dal proprio nome, è opportuno, per il corretto inquadramento della questione, muovere dalla nota sentenza della Corte di Giustizia, Grande Sezione, del 13.5.2014- C-131/12, usualmente ricordata come “(Omissis)”.

3.2.1. Secondo questa pronuncia, l’art. 2, lett. b) e d), della direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, deve essere interpretato nel senso che, da un lato, l’attività di un motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, nell’indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di Internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come “trattamento di dati personali”, ai sensi del citato art. 2, lett. b), qualora tali informazioni contengano dati personali, e che, dall’altro lato, il gestore di detto motore di ricerca deve essere considerato come il “responsabile” del trattamento summenzionato, ai sensi dell’art. 2, lett. d), di cui sopra.

3.2.2. Inoltre gli artt. 12, lett. b), e 14, comma 1, lett. a), della direttiva 95/46 suddetta devono essere interpretati nel senso che, al fine di rispettare i diritti previsti da tali disposizioni, e sempre che le condizioni da queste fissate siano effettivamente soddisfatte, il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, i links verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a quest’ultima anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita.

3.2.3. Si deve verificare, quindi, in particolare, se l’interessato abbia diritto a che l’informazione in questione riguardante la sua persona non venga più, allo stato attuale, collegata al suo nome da un elenco di risultati che si palesino a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome, senza per questo che la constatazione di un diritto siffatto presupponga che l’inclusione dell’informazione in questione in tale elenco arrechi un pregiudizio a detto interessato.

3.2.4. Quest’ultimo, sulla scorta dei suoi diritti fondamentali derivanti dagli art. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (cd. “Carta di Nizza“), – il primo dei quali, rubricato “Rispetto della vita privata e della vita familiare”, proclama che “Ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle sue comunicazioni”; il secondo, invece, recante “Protezione dei dati di carattere personale”, afferma che “1. Ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano. 2. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni individuo ha il diritto di accedere ai dati raccolti che lo riguardano e di ottenerne la rettifica. 3. Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente” – può chiedere che l’informazione in questione non venga più messa a disposizione del grande pubblico in virtù della sua inclusione in un siffatto elenco di risultati.

3.2.5. I diritti fondamentali di cui sopra prevalgono, in linea di principio, non soltanto sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse del grande pubblico ad accedere all’informazione suddetta in occasione di una ricerca concernente il nome di questa persona. Fa eccezione l’ipotesi in cui risulti, per ragioni particolari, come il ruolo ricoperto dalla stessa nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, in virtù dell’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi.

3.3. Infatti, il diritto di ogni persona all’oblio, strettamente collegato, come si è già anticipato, ai diritti alla riservatezza ed all’identità personale, deve essere bilanciato con il diritto della collettività all’informazione, sicché, qualora sia pubblicato sul web un articolo di interesse generale ma lesivo dei diritti di un soggetto che non rivesta la qualità di personaggio pubblico, noto a livello nazionale, può essere disposta la deindicizzazione dell’articolo dal motore ricerca, al fine di evitare che un accesso agevolato, e protratto nel tempo, ai suoi dati personali, tramite il semplice utilizzo di parole chiave, possa lederne il diritto a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica diversa da quella reale e costituente oggetto di notizie ormai superate (cfr. anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 2893 del 2023; Cass. n. 15160 del 2021). Una tale conclusione – valevole anche anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 17 Regolamento (UE) 2016/679 – si spiega proprio perché il diritto all’oblio consiste nel non rimanere esposti senza limiti di tempo ad una rappresentazione non più attuale della propria persona con pregiudizio alla reputazione ed alla riservatezza, a causa della ripubblicazione, a distanza di un importante intervallo temporale, di una notizia relativa a fatti del passato, ma la tutela del menzionato diritto va posta in bilanciamento con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e, quindi, di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica, sicché, nel caso di notizia pubblicata sul web, il medesimo può trovare soddisfazione anche nella sola deindicizzazione dell’articolo dai motori di ricerca (cfr. Cass. n. 9147 del 2020).

3.3.1. Anche le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di interloquire, precisando che la menzione degli elementi identificativi delle persone protagonisti di fatti e vicende del passato è lecita solo nell’ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito. In caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva (cfr. Cass., SU, n. 19681 del 2019)>>.

Andando al caso sub iudice:

<<3.4. Tanto premesso, la fattispecie oggi all’attenzione del Collegio, sempre più frequentemente sottoposta al vaglio giudiziale, è quella del diritto dell’interessato a richiedere al gestore di un motore di ricerca la rimozione (deindicizzazione) di taluni risultati connessi al proprio nome e concernenti articoli già legittimamente pubblicati nell’esercizio del diritto di cronaca giornalistica per l’interesse pubblico che circondavano alcune vicende che lo avevano interessato: si tratta, cioè, dell’aspirazione di una persona coinvolta in quelle vicende, una volta cessato il clamore e l’interesse pubblico per il decorso del tempo, a non vedersi consegnata al ricordo collettivo in quei termini. Rischio, questo, amplificato dalla potenza evocatrice dei motori di ricerca nell’ambiente internet che, tramite il collegamento alle sue generalità, permette con estrema facilità di rinvenire in rete, anche molti anni dopo, la traccia di quelle notizie e di quegli articoli.

3.4.1. Come opportunamente rimarcatosi in dottrina, peraltro, l’attività dei motori di ricerca si è progressivamente affrancata da schemi di mera intermediazione tecnica e neutrale elencazione delle informazioni reperite online, affiancandovi attività di organizzazione e posizionamento delle informazioni in base a vari criteri, di guida dell’utente, nella navigazione e di generazione di copie (le cache) delle pagine indicizzate, a formare un vero e proprio archivio, più o meno duraturo, dei contenuti della rete. Il gestore del motore di ricerca ha assunto, così, un ruolo sempre meno “passivo” nella erogazione del servizio. Tanto che – come si è già anticipato – l’attività del motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate online da terzi, indicizzarle, memorizzarle temporaneamente e metterle a disposizione degli utenti secondo un ordine di preferenza deve essere qualificata come “trattamento di dati personali” del quale il gestore del search engine è il titolare; trattamento, questo, distinto e diverso da quello posto in essere dal gestore del sito sorgente sul quale il dato è stato originariamente pubblicato. L’intermediazione del motore di ricerca, inoltre, è suscettibile anche di mutare lo stesso contenuto comunicativo delle informazioni fornite all’utente, ottenendo, mediante l’aggregazione di differenti fonti in un unico elenco strutturato, un messaggio complessivo diverso rispetto a quello che sarebbe veicolato dai singoli contenuti ove separatamente consultati accedendo ai relativi siti sorgente. In particolare, come ricordato da Cass. n. 3952 del 2022, l’elenco dei risultati fornito dal motore di ricerca in corrispondenza del nome di una persona è idoneo a veicolare “una rappresentazione dell’identità che quella persona ha in internet”, offrendo una visione complessiva delle informazioni ad essa relative reperibili online e definendone un “profilo” più o meno dettagliato ma sicuramente “originale” quanto all’aggregazione delle informazioni stesse.

3.5. Orbene, nella ricerca di un rimedio idoneo a neutralizzare questi rischi, è stato osservato che ad offendere il protagonista della notizia non è la sua mera permanenza in rete, ma le modalità con le quali ciò avviene. Il diritto all’oblio, quindi, è posto in rilievo rispetto alla lesione risentita dal protagonista dell’informazione dall’accesso generalizzato ed indistinto consentito agli utenti del web ai contenuti della notizia che – presente nella pagina di un giornale in formato digitale ed inserita in un archivio giornalistico online – riemerge, in seguito alla digitazione sulla query del motore di ricerca del nominativo dell’interessato, per l’intervenuta sua indicizzazione, operazione con cui il gestore di un motore di ricerca include nel proprio data base i contenuti di un sito web che viene in tal modo acquisito e tradotto all’interno del primo.

3.5.1. Un siffatto esito interpretativo ben può essere condiviso, oltre che per l’autonoma dignità riconosciuta ad una memoria storica collettiva integrata dai fatti di cronaca di rilievo storico-sociale, anche quando declinata in formato digitale, pure in ragione di quanto, negli anni più recenti, si è venuto ad affermare dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea sui rapporti tra motori di ricerca, protagonisti del contesto digitale e della diffusione dell’informazione in siffatto ambito, loro operatività e diritto all’oblio, inteso, appunto, come imperitura esposizione delle informazioni relative al singolo agli utenti di Internet.

3.5.2. Tutto ciò ha portato a concludere che, in materia di diritto all’oblio, là dove il suo titolare lamenti la presenza sul web di una informazione che lo riguardi – appartenente al passato e che egli voglia tenere per sé a tutela della sua identità e riservatezza – e la sua riemersione senza limiti di tempo all’esito della consultazione di un motore di ricerca avviata tramite la digitazione sulla relativa query del proprio nome e cognome, la tutela del menzionato diritto va posta in bilanciamento con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica, e può trovare soddisfazione, fermo il carattere lecito della prima pubblicazione, nella deindicizzazione dell’articolo sui motori di ricerca generali, o in quelli predisposti dall’editore.

3.5.3. In quest’ottica, dunque, si inquadra Cass. n. 15160 del 2021, secondo cui il diritto di ogni persona all’oblio, strettamente collegato ai diritti alla riservatezza e all’identità personale, deve essere bilanciato con il diritto della collettività all’informazione, sicché (anche prima dell’entrata in vigore dell’art. 17 del Regolamento UE 2016/679), qualora sia pubblicato sul web un articolo di interesse generale ma lesivo dei diritti di un soggetto che non rivesta la qualità di personaggio pubblico, noto a livello nazionale, può essere disposta la deindicizzazione dell’articolo dal motore ricerca, al fine di evitare che un accesso agevolato, e protratto nel tempo, ai dati personali di tale soggetto, tramite il semplice utilizzo di parole chiave, possa ledere il diritto di quest’ultimo a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica, diversa da quella reale e costituente oggetto di notizie ormai superate.

3.5.4. Altrettanto dicasi circa la già menzionata Cass. n. 3952 del 2022, nella cui motivazione si legge, tra l’altro (cfr. pag. 14 e ss.), che: i) “le Sezioni Unite di questa Corte hanno ricondotto la deindicizzazione al “diritto alla cancellazione dei dati” nel quadro di una classificazione che considera il medesimo come una delle tre possibili declinazioni del diritto all’oblio: le altre due sono individuate nel diritto a non vedere nuovamente pubblicate notizie relative a vicende in passato legittimamente diffuse, quando è trascorso un certo tempo tra la prima e la seconda pubblicazione e quello, connesso all’uso di internet ed alla reperibilità delle notizie nella rete, consistente nell’esigenza di collocare la pubblicazione, avvenuta legittimamente molti anni prima, nel contesto attuale (cfr., in motivazione, Cass., SU, n. 19681 del 2019). Sia la contestualizzazione dell’informazione che la deindicizzazione trovano ragione in un dato che innegabilmente connota l’esistenza umana nell’era digitale: un dato che si riassume, secondo una felice espressione, nella “stretta della persona in una eterna memoria collettiva, per una identità che si ripropone, nel tempo, sempre uguale a sé stessa” (cfr., in motivazione, Cass. n. 9147 del 2020)”; ii) “(…) nel mondo segnato dalla presenza di internet, in cui le informazioni sono affidate ad un supporto informatico, le notizie sono sempre reperibili a distanza di anni dal verificarsi degli accadimenti che ne hanno imposto o comunque suggerito la prima diffusione e che la deindicizzazione si è venuta affermando come rimedio atto ad evitare che il nome della persona sia associato dal motore di ricerca ai fatti di cui internet continua a conservare memoria. In tal senso, la deindicizzazione asseconda il diritto della persona a non essere trovata facilmente sulla rete (si parla in proposito di right not to be found easily): lo strumento vale, cioè, ad escludere azioni di ricerca che, partendo dal nome della persona, portino a far conoscere ambiti della vita passata di questa che siano correlati a vicende che in sé – si badi – presentino ancora un interesse (e che non possono perciò essere totalmente oscurate), evitando che l’utente di internet, il quale ignori il coinvolgimento della persona nelle vicende in questione, si imbatta nelle relative notizie per ragioni casuali o in quanto animato dalla curiosità di conoscere aspetti della trascorsa vita altrui di cui la rete ha ancora memoria (una memoria facilmente accessibile, nei suoi contenuti, proprio attraverso l’attività dei motori di ricerca)”; iii) “Come ricordato dalla Corte di Lussemburgo, l’inclusione nell’elenco di risultati – che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona – di una pagina web e delle informazioni in essa contenute relative a questa persona, poiché facilita notevolmente l’accessibilità di tali informazioni a qualsiasi utente di internet che effettui una ricerca sulla persona di cui trattasi e può svolgere un ruolo decisivo per la diffusione di dette informazioni, è idonea a costituire un’ingerenza più rilevante nel diritto fondamentale al rispetto della vita privata della persona interessata che non la pubblicazione da parte dell’editore della suddetta pagina web (Corte giust. (Omissis) e (Omissis), cit., 87)”; iii) “La deindicizzazione ha, così, riguardo all’identità digitale del soggetto: e ciò in quanto l’elenco dei risultati che compare in corrispondenza del nome della persona fornisce una rappresentazione dell’identità che quella persona ha in internet. E’ stato in proposito sottolineato, sempre dalla Corte di giustizia, che “l’organizzazione e l’aggregazione delle informazioni pubblicate su internet, realizzate dai motori di ricerca allo scopo di facilitare ai loro utenti l’accesso a dette informazioni, possono avere come effetto che tali utenti, quando la loro ricerca viene effettuata a partire dal nome di una persona fisica, ottengono attraverso l’elenco di risultati una visione complessiva strutturata delle informazioni relative a questa persona reperibili su internet, che consente loro di stabilire un profilo più o meno dettagliato di quest’ultima” (Corte giust. UE, (Omissis) e (Omissis), cit., 37). L’attività del motore di ricerca si mostra, in altri termini, incidente sui diritti fondamentali alla vita privata e alla protezione dei dati personali (cfr., in particolare, Corte giust. UE, (Omissis) e (Omissis), cit., 38): e tuttavia, poiché la soppressione di links dall’elenco di risultati potrebbe avere, a seconda dell’informazione in questione, ripercussioni sul legittimo interesse degli utenti di internet potenzialmente interessati ad avere accesso a quest’ultima, occorre ricercare un giusto equilibrio tra tale interesse e i diritti fondamentali della persona di cui trattasi, derivanti dagli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Corte giust. UE, (Omissis) e (Omissis), cit., 81; il tema è affrontato anche da Corte giust. UE, Grande sezione, 24 settembre 2019, G.C. e altri, 66 e 75, ove è precisato che il gestore del motore di ricerca deve comunque verificare – alla luce dei motivi di interesse pubblico rilevante di cui all’art. 8.4, della dir. 95/46/CE o all’art. 9.2, lett. g), del reg. (UE) 2016/679, e nel rispetto delle condizioni previste da tali disposizioni – se l’inserimento del link, verso la pagina web in questione, nell’elenco visualizzato in esito a una ricerca effettuata a partire dal nome della persona interessata, sia necessario per l’esercizio del diritto alla libertà di informazione degli utenti di internet potenzialmente interessati ad avere accesso a tale pagina web attraverso siffatta ricerca, libertà protetta dall’art. 11 della Carta suddetta)”; iv) “Occorre però considerare che questa esigenza di bilanciamento tra l’interesse del singolo ad essere dimenticato e l’interesse della collettività ad essere informata – cui si correla l’interesse dei media ad informare – permea l’intera area del diritto all’oblio, di cui quello alla deindicizzazione può considerarsi espressione; va rammentato, in proposito, quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nel campo della rievocazione storica, a mezzo della stampa, di fatti e vicende concernenti eventi del passato: rievocazione rispetto alla quale è stato affermato l’obbligo, da parte del giudice del merito, di valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale, alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti (in tal senso Cass. Sez. U. 22 luglio 2019, n. 19681, cit.). Nello stesso senso, la giurisprudenza della Corte EDU è ferma, da tempo, nel postulare un giusto equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata di cui all’art. 8 CEDU e il diritto alla libertà d’espressione di cui al successivo art. 10, che include “la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee” e ha individuato, a tal fine, precisi criteri per la ponderazione dei diritti concorrenti: il contributo della notizia a un dibattito di interesse generale, il grado di notorietà del soggetto, l’oggetto della notizia; il comportamento precedente dell’interessato, le modalità con cui si ottiene l’informazione, la sua veridicità e il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione (si vedano, ad esempio: Corte EDU 19 ottobre 2017, Fuchsmann c. Germania, 32; Corte EDU 10 novembre 2015, Couderc et Hachette Filipacchi c. Francia, 93: sulla necessità del giusto equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata, da un lato, e la libertà di espressione e la libertà di informazione del pubblico, dall’altro, cfr. pure Corte EDU 28 giugno 2018, M.L. e W.W. c. Germania, 89)”.

3.5.5. Come è evidente, allora, la deindicizzazione dei contenuti presenti sul web rappresenta, il più delle volte, l’effettivo punto di equilibrio tra gli interessi in gioco. Essa integra, infatti, la soluzione che, a fronte della prospettata volontà, da parte dell’interessato, di essere dimenticato per il proprio coinvolgimento in una vicenda del passato, realizza il richiamato bilanciamento escludendo le estreme soluzioni che sono astrattamente configurabili: quella di lasciare tutto com’e’ e quella di cancellare completamente la notizia dal web, rimuovendola addirittura dal sito in cui è localizzata.

3.5.6. Va rimarcato, del resto, che attraverso la deindicizzazione l’informazione non viene eliminata dalla rete, ma può essere attinta raggiungendo il sito che la ospita (il cosiddetto sito sorgente) o attraverso altre metodologie di ricerca, come l’uso di parole-chiave diverse: ciò che viene in questione e’, infatti, per usare le parole della Corte di giustizia, il diritto dell’interessato “a che l’informazione in questione riguardante la sua persona non venga più, allo stato attuale, collegata al suo nome da un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome” (così Corte giust. UE, (Omissis) e (Omissis), cit., 99). In altri termini, con la deindicizzazione viene in discorso la durata e la facilità di accesso ai dati, non la loro semplice conservazione su internet (Corte EDU, 25 novembre 2021, Biancardi c. Italia, 50).

3.5.7. La neutralità della deindicizzazione operata a partire dal nome dell’interessato rispetto ad altri criteri di ricerca è stata, del resto, sottolineata dalle Linee-guida sull’attuazione della sentenza della Corte di giustizia nel caso C-131/12, elaborate dal Gruppo di lavoro “Art. 29”: in dette Linee-guida viene ricordato come la citata pronuncia non ipotizzi la necessità di una cancellazione completa delle pagine dagli indici del motore di ricerca e che dette pagine dovrebbero restare accessibili attraverso ogni altra chiave di ricerca. Tale avvertenza non è difforme da quella contenuta nelle Linee-guida 5/2019 che dettano “criteri per l’esercizio del diritto all’oblio nel caso dei motori di ricerca, ai sensi del RGPD” (Reg. 2016/679), adottate il 7 luglio 2020: è ivi evidenziato che la deindicizzazione di un particolare contenuto determina la cancellazione di esso dall’elenco dei risultati di ricerca relativi all’interessato, quando la ricerca e’, in via generale, effettuata a partire dal suo nome; in conseguenza, il contenuto deve restare disponibile se vengano utilizzati altri criteri di ricerca e le richieste di deindicizzazione non comportano la cancellazione completa dei dati personali, i quali non devono essere cancellati né dal sito web di origine né dall’indice e dalla cache del fornitore del motore di ricerca (punti 8 e 9).

3.5.8. In tal senso, questa Corte ha avuto modo di ritenere che il bilanciamento tra il diritto della collettività ad essere informata ed a conservare memoria del fatto storico, con quello del titolare dei dati personali a non subire una indebita compressione della propria immagine sociale, possa essere soddisfatto assicurando la permanenza dell’articolo di stampa relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di cronaca giudiziaria nell’archivio informatico del quotidiano, a condizione, però, che l’articolo sia deindicizzato dai siti generalisti (cfr. Cass. n. 7559 del 2020). Similmente, si è reputato che la tutela del diritto consistente nel non rimanere esposti senza limiti di tempo a una rappresentazione non più attuale della propria persona con pregiudizio alla reputazione ed alla riservatezza, a causa della ripubblicazione sul web, a distanza di un importante intervallo temporale, di una notizia relativa a fatti del passato, possa trovare soddisfazione – nel quadro dell’indicato bilanciamento del diritto stesso con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica – anche nella sola deindicizzazione dell’articolo dai motori di ricerca (cfr. Cass. n. 9147 del 2020).

3.5.9. In definitiva, quindi, il Collegio ritiene, in armonia con gli orientamenti giurisprudenziali finora illustrati, che la tutela dell’oblio dell’interessato in relazione ad articoli che lo riguardino e pubblicati, a suo tempo, legittimamente, nell’esercizio del diritto di cronaca e/o di critica e /o di satira, da una testata online, deve essere bilanciata con il diritto della collettività all’informazione e, ove non recessiva rispetto a quest’ultimo, è adeguatamente assicurata, innanzitutto, dalla deindicizzazione degli indirizzi URL relativi a tali articoli, quale rimedio atto ad evitare che il nome della persona sia associato dal motore di ricerca ai fatti di cui internet continua a conservare memoria, così assecondando il diritto della persona medesima a non essere trovata facilmente sulla rete (right not to be found easily).

3.5.10. E’ doveroso puntualizzare, peraltro, che, come già sancito da Cass. n. 2893 del 2023, all’interessato può essere riconosciuto, a certe condizioni, anche il diritto a rimedi più incisivi della deindicizzazione suddetta, ma, sul punto, non è necessario indugiare oltre attesa la richiesta originaria del P. volta ad ottenere, appunto, la sola deindicizzazione suddetta, oltre al risarcimento del lamentato danno.

4. Venendo, allora, allo scrutinio dei formulati motivi di ricorso, che può essere unitario in ragione della evidente connessione che li caratterizza, gli stessi si rivelano complessivamente inammissibili alla stregua dei principi suddetti e delle dirimenti considerazioni di cui appresso.

4.1. Giova ricordare che, come si è riferito al p. 1.2.1. dei “Fatti causa”, il tribunale capitolino, richiamati alcuni passaggi motivazionali di Cass. n. 20861 del 2021 e di Cass. n. 9147 del 2020, ha accertato (cfr. pag. 3 della sentenza oggi impugnata) che: i) “Nel caso di specie, le notizie per cui è causa risalgono al (Omissis) e il ricorso manca di censure in merito alla loro falsità o racconto inveritiero”. A supporto di tale conclusione, ha richiamato la pagina 4 del ricorso del P., recante l’affermazione “in questa sede (…) non si intende entrare nel merito della veridicità dei fatti narrati”; ii) “Non è contestato, inoltre, che P.A. abbia ricoperto e ricopra attualmente ruoli di dirigente d’azienda nel settore delle telecomunicazioni, come specificamente dedotto dalla resistente (“sia presso primarie aziende di rilievo nazionale come (Omissis) e (Omissis) sia come attuale Dirigente della (Omissis)” – vedi pag. 5 comparsa (Omissis)), né che le informazioni di cui ai link oggetto di causa si riferissero agli “studi universitari e (alla) carriera professionale svolta dal Dott. P.” (vedi pag. 5 comparsa (Omissis))”.

4.1.1. Successivamente, ha ritenuto (cfr. pag. 3-4 della medesima sentenza) che “la natura delle informazioni per cui è causa e il fatto che il ricorrente sia un noto dirigente nel settore della telecomunicazioni e che all’epoca del presente ricorso fosse un dirigente (Omissis), evidenzia la sussistenza dell’interesse della collettività alla conoscenza del suo percorso di studi e professionale, che non può ritenersi limitato ad un contesto specifico, ovvero la risalente appartenenza “allo staff dirigenziale del Dott. G.”, sussistente all’epoca delle pubblicazioni per cui è causa. Notorio, inoltre, è il fatto che attualmente P.A. ricopra un ruolo dirigenziale nel (Omissis), del quale amministratore delegato è G.L.. Per tale ragione, ingiustificata è la richiesta di deindicizzazione, tanto che nel caso di specie neppure rileverebbe il fattore tempo, persistendo l’attuale interesse pubblico alla conoscenza di queste informazioni, relativamente alle quali neppure è stata allegata la necessità di aggiornamento o la falsità. Il diritto all’oblio, infatti, non è soltanto una questione di tempo, ma sostanzialmente una questione concernente la proporzionalità con il contrapposto interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica che non affievolisce, come nel caso di specie, nel momento in cui persista un interesse pubblico specifico ed attuale, come recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione (Cass. 15160/21 (…))”.

4.2. E’ palese, dunque, che, così argomentando, il giudice di merito ha proceduto al bilanciamento tra la tutela dell’oblio invocata dal P. in relazione agli articoli predetti ed il diritto della collettività all’informazione, ritenendo la prima recessiva rispetto a quest’ultimo in forza di una motivazione che, pur nella sua sinteticità, si rivela essere sicuramente in linea con il minimo costituzionale richiesto da Cass., SU, n. 8053 del 2014.

4.2.1. Il tribunale, peraltro, – diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente nella prima delle sue doglianze – ha inteso riferirsi proprio alla specifica richiesta di deindicizzazione di quegli articoli, e non, invece, a quella di cancellazione dei loro contenuti, e la sua motivazione tiene chiaramente conto pure della notorietà dell’odierno ricorrente, considerata tale, in rapporto anche all’attività da lui attualmente svolta, da giustificare la permanenza, malgrado il tempo trascorso, dell’interesse della collettività a conoscere i fatti di cui ai menzionati articoli (riguardanti la carriera professionale svolta dal Dott. P. sia presso primarie aziende di rilievo sia come Dirigente (Omissis)) relativamente ai quali neppure era stata allegata la necessità di aggiornamento o la falsità.

Ciò in considerazione dell’indubbio ruolo svolto dal P. nella vita pubblica e nel sistema industriale e delle telecomunicazioni di questo Paese.

E il fattore tempo – oggetto di doglianza nel terzo motivo -e’ stato dal tribunale correttamente contestualizzato all’interno del giudizio di necessario bilanciamento di interessi tra il diritto all’oblio del ricorrente e l’interesse della collettività a conoscere le vicende della vita professionale di uno dei top manager pubblici italiani.

4.2.2. In altri termini, reputa il Collegio che la realtà concreta – così come ricostruita dall’esame compiuto dal tribunale, in base alla sua prudente valutazione circa l’eseguito bilanciamento tra le contrapposte pretese delle parti – sia stata correttamente sussunta nei principi tutti in precedenza esposti, di cui, dunque, quel giudice ha fatto esatta applicazione, mentre, invece, ciò di cui si duole il P. e’, in realtà, proprio l’esito del predetto bilanciamento effettuato da quest’ultimo>>.

L’invito della senatrice Warren ad Amazon di oscurare un libro covid19-negazionista non è soppressivo della libertà di parola degli autori

Interessante lite sul diritto della senatrice Elizabeth Warren di chiedere ad Amazon di togliere/oscurare dal suo marketplace un libro negazionista del covid 19 (prefato da Robert Kennedy, notorio  no-vax)

Tale richiesta non è coercitiva verso gli aa. del libro , non violando il 1 emendamento (che riguarda condotte pubbliche, anzi dello Stato)

Si tratta dell’appello del 9 circuito 4 maggio 2023, No. 22-3545m, Robert Kennedy , Mercola e altri c. E. Warren.

Il rigetto della domanda di inibitoria (They sought a preliminary injunction requiring Senator Warren to remove the letter from her website, to issue a public retraction, and to refrain from sending similar letters in the future) è confermato in appello.

Era assai improbabile un risultato diverso: è impossibile vedere nella mossa di Warren una coercizione anzichè un mera persuasione vs. Amazon.

Dal Summary iniziale:

Turning to the merits, the panel held that because the plaintiffs did not raise a serious question on the merits of their First Amendment claim, the district court did not abuse its discretion by denying a preliminary injunction. The crux of plaintiffs’ case was that Senator Warren engaged in conduct prohibited under Bantam Books, Inc. v. Sullivan, 372 U.S. 58 (1963), by attempting to coerce Amazon into stifling their protected speech. Following Bantam Books, lower courts have drawn a sharp line wherein a government official’s attempt to persuade is permissible government speech, while an attempt to coerce is unlawful government censorship.
The panel applied a four-factor framework, formulated by the Second Circuit, and agreed with the district court that Senator Warren’s letter did not cross the constitutional line between persuasion and coercion. First, concerning the government official’s word choice and tone, the panel held that Senator Warren’s words on the page and the tone of the interaction suggested that the letter was intended and received as nothing more than an attempt to persuade.

Second, concerning whether the official had regulatory authority over the conduct at issue, the panel held that this factor weighed against finding impermissible coercion. Elizabeth Warren, as a single Senator, had no unilateral power to penalize Amazon for promoting the book. This absence of authority influenced how a reasonable person would read her letter. Third, concerning whether the recipient perceived the message as a threat, the panel held that there was no evidence that Amazon changed its algorithms in response to Senator Warren’s letter, let alone that it felt compelled to do so. Fourth, concerning whether the communication referred to any adverse consequences if the recipient refused to comply, the panel held that Senator Warren’s silence on adverse consequences supported the view that she sought to pressure Amazon by calling attention to an important issue and mobilizing public sentiment, not by leveling threats. Senator Warren never hinted that she would take specific action to investigate or prosecute Amazon.
The panel concluded that the plaintiffs had not raised a serious question as to whether Senator Warren’s letter constituted an unlawful threat in violation of the First Amendment. Accordingly, the panel held that the district court did not abuse its discretion in denying the plaintiffs’ request for a preliminary injunction.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Nuovo accurato esame (e rigetto) della tesi per cui Twitter è state actor quando censura i post

Altro caso di seguace di Trump circa la tesi della frode elettorale nelle elezioni 2020   ,  in cui Twitter flaggò con frasi cautelative (e poi sospese)  i post ritenuti estremisti e quindi contrari alla propria policy.

Questi ad es. (persona di una certa cultura, peraltro):

<Audit every California ballot Election fraud is rampant nationwide and we all know California is one of the culprits Do it to protect the integrity of that state’s elections>

L’appello del 9 circuito, 10 marzo 2023, n° 22-15071, R. O’Handley c. Twitter e altri, rigetta la strampalat tesi che mira a ripristinare i post flaggati/account sospesi  in base al 1 emendamento, considerando Twitter strumento pubblicistico.

Sono analizzati tutti i soliti argomenti e la corte conferma il 1 grado. Sentenza chiara ed istruttiva come ripasso sul tema.

Riporto solo questo passaggio:

<<As a private company, Twitter is not ordinarily subject to the Constitution’s constraints. See Prager University v. Google LLC, 951 F.3d 991, 995–99 (9th Cir. 2020). Determining whether this is one of the exceptional cases in which a private entity will be treated as a state actor for constitutional purposes requires us to grapple with the state action doctrine. This area of the law is far from a “model of consistency,” Lebron v. National Railroad Passenger Corp., 513 U.S. 374, 378 (1995) (citation omitted), due in no small measure to the fact that “[w]hat is fairly attributable [to the State] is a matter of normative judgment, and the criteria lack rigid simplicity,” Brentwood Academy v. Tennessee Secondary School Athletic Association, 531 U.S. 288, 295 (2001).     Despite the doctrine’s complexity, this case turns on the simple fact that Twitter acted in accordance with its own content-moderation policy when it limited other users’ access to O’Handley’s posts and ultimately suspended his account. Because of that central fact, we hold that Twitter did not operate as a state actor and therefore did not violate the Constitution.>>

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Diritto di parola e punizione dell’alunno, che in ambiente extrascolastico offende i suoi compagni di scuola

Interessante decisione dell’appello del 2° circuito sul se sia invocabile il diritto di parola ex First Amendment verso la punizione inflitta a due alunni , colpevoli di condotta gravemente offensiva sui social della dignità di altri alunni (per ragioni di discriminazione razziale)

Si tratta US 9th circuit Chen ed altri c. Albany Schhol District+ altri, No. 20-16541, dep. il 27.12.2022.

Il punto interessante è capire 1) se la condotta (aver postato foto  di loro compagni su social ritoccate e con riferimenti razzistici), in quanto tenuta off campus, non sia più soggetta a punizione da aprte della Scuola e 2) come si atteggi il diritto di parola degli studenti nel campus .

Circa il punto 1, la corte conferma la decisione di 1 grado: la condotta va ritenuta soggetta al potere disciplinare delle autorità scolastiche, essendo strettamente connessa con il buon andamento delle attività .

<<On November 29, 2017, the district court held in
Defendants’ favor with respect to Epple’s, Chen’s, and four
other plaintiffs’ free speech claims. The district court
reasoned that under C.R. v. Eugene School District 4J, 835
F.3d 1142 (9th Cir. 2016), these six plaintiffs’ speech was
susceptible to regulation by the school because (1) the
speech had a sufficient nexus to the school; and (2) it was
reasonably foreseeable that the speech would reach the
school and create a risk of a substantial disruption. The
district court then found that under the Supreme Court’s
decision in Tinker v. Des Moines Independent Community
School District, 393 U.S. 503 (1969), these six plaintiffs
were properly disciplined because their speech caused or
contributed to a substantial disruption at AHS and “clearly
interfered with ‘the rights of other students to be secure and
to be let alone’” (quoting Tinker, 393 U.S. at 508). The
court held that the four remaining plaintiffs—none of
whom are involved in this appeal—could not be disciplined
under Tinker because they had not “create[d] a substantial
risk of disruption,” nor had they “interfered with the rights
of other students.” >>, p. 17.

cionferma in apppello del ragionamento:

<<Although the Supreme Court in Mahanoy declined to
articulate “a broad, highly general First Amendment rule
stating just what counts as ‘off campus’ speech” or
identifying when “a school’s special need[s]” as recognized
in Tinker might justify regulating such speech, see 141
S. Ct. at 2045, our caselaw has set forth additional
standards that address that issue. Prior to Mahanoy, we
devised a three-factor test for “determin[ing], based on the
totality of the circumstances, whether [off-campus] speech
bears a sufficient nexus to the school” to allow regulation
by a school district. McNeil, 918 F.3d at 707. “This test is
flexible and fact-specific, but the relevant considerations
will include (1) the degree and likelihood of harm to the
school caused or augured by the speech, (2) whether it was
reasonably foreseeable that the speech would reach and
impact the school, and (3) the relation between the content
and context of the speech and the school.” Id. (citations
omitted)>>, p. 26.

L’emento soggettivo (intention, o meglio la carenza del medesimo) è irrilevante, p. 27: ci pare ovvio. Infatti era <reasonably foreseeable> la diffusione (pur caricata su account “chiuso” Instagram di 13 persone) (p. 29 ss interssanti osservazioni sul perchè era <reasonably foreseeable>  nel casospecififco.

Sul punto 2) diritto di parola degli studenti di un campus ha latitudine minore di quello di un adulto, pp. 19/20

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Libertà di parola verso pubblico funzionario, titolare di account Twitter

Secondo la Eastern District Court del Missouri – easter division, 9 dicembre 2022, Case: 4:20-cv-00821-JAR, Felts v. Vollmer, l’account Twitter di unpubblico cuindionario è designated public forum e quindi la censura non è ammessa.

Per le osservazioni critiche ricevute, infatti, il funzionario aveva bloccato una cittadina.

In particolare il tweet e il suo contesto, § 10: << Plaintiff responded to Action St. Louis’ tweet stating: “What do you mean by ‘change the messaging around #CloseTheWorkhouse,’ @PresReed? #STLBOA #aldergeddon2019 #WokeVoterSTL. (Pltf.’s Ex. 27). The issue of closing the St. Louis Workhouse, a medium security institution and one of two jails in the City, was a subject of political debate in January 2019. Plaintiff was among those advocating for the Board of Aldermen to take action to close the Workhouse, as was Action St. Louis. (Trial Tr. at 69:15-25)>>.

E’ public forum , sempre che non sia account totalmente privato: <<“not every social media account operated by a public official is a government account,” and instructed that courts should look to “how the official describes and uses the account,” “to whom features of the account are made available,” and “how others … regard and treat the account.” Id>> , p. 14, dice la corte citando il noto precedente Knight First Amendment Inst. at Columbia Univ. v. Trump del 2019.

Il dettaglio sull’uso pubblico sta al §§ 37-40.

E’ rigettata l’allegazione del blocco per rischio di violenze, non riscontrato, § 45

Sintesi finale: <<At all relevant times, Reed was the final decisionmaker for communications, including the use of social media, for the Office of the President of the Board of Aldermen. At or near the time Plaintiff was initially blocked, Reed’s public Twitter account had evolved into a tool of governance. In any event, by the time the Account was embedded into the City’s website in April 2019, while Plaintiff remained blocked, the Account was being operated by Reed under color of law as an official governmental account. The continued blocking of Plaintiff based on the content of her tweet is impermissible viewpoint discrimination in violation of the First Amendment. Thus, Plaintiff is entitled to judgment in her favor on her remaining claim for declaratory relief. The Court will also award Plaintiff the sum of $1.00 in nominal damages for the constitutional violation >>

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Le etichette poste da Facebobok sopra i post degli utenti, a seguito di fact checking, non sono diffamatorie ma esercizio del diritto di parola

Facebook pone due etichette a due post (video) di un giornalista leggermente negazionsta circa il surriscaldamento globale:

  1. Missing Context” e sotto “Independent fact-checkers say the information could mislead people.” e sotto ancora a button with the words “See Why” (premendo il quale si aprono ulteriori finestre spiegatorie)
  2. “Partly False Information” s ttto “Checked by independent fact-checkers.”, sotto ancora appare il button with the words “See Why.” (premendo il quale si aprono ulteriori finestre spiegatorie)

Il giornalista cita Fb per diffamazione.

La corte del distretto nord della California con sentenza 11 ottobre 2022 Case 5:21-cv-07385-VKD , Stossel v. Meta, però rigetta perchè, stante la disciplina anti SLAPP (mirante ad evitare inibizioni o intimidazioni della libera espressione del pensiero su temi di pubblico interesse) , l’attività di Fb è coperta dal Primo Emendamento.

E’ veo che questo si applica a espressioni di giudizi e non di fatti, p. 12 righe 10-11: però l’attività di etichettatura da fact checking consiste proprio in giudizi.

Direi che la sentenza è esatta: ci mancherebbe che la piattaforma non potesse suggerire avvertenze di possibile falsità dei post dei suoi utenti.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

“Trump too small”: incostituzionale il rifiuto di registrazione di marchio denominativo evocante l’ex presidente Trump

La domanda di registrazione del marchio denominativo <TRUMP TOO SMALL> per magliette era stata respinta dall’USPTO, perchè non c’era il consenso del titolare del nome e perchè indicava falsamente un’associazione con lui.

La frase si riferisce al noto scambio di battute “fisico-dimensionali” tra Trump e Marc Rubio, di qualche anno fa.

L’impugnazione fondata sulla violazione del diritto di parola venne respinta dal Board amministrativo.

Ma la corte di appello federale 24.02.2022, n° 2020-2205, in re: Steve Elster, rifroma: il rifiuto di registrazione è incostituzionale perchè contrastante appunto col diritto di parola del Primo Emendamento.

Irrilevanti sono sia l’eccezione di privacy (assente per un personagigo pubblico, sub IV, p. 11),  che di right of publicity , non essendoci nè uno sfruttamento della notorietà di Trump (qui è però difficile veder quale legittimazione abbia il Governo) nè un’induzione del pubblico a pensare che egli abbia dato il suo endorsement al prodotto (su cui avrebbe legittimazione il Governo: sub V, p. 12/4).

Del resto la domanda di marchio e il suo uso costituiscono private speech, p. 5, che può invocare il 1° Emend., anche se per uso commerciale, p. 9.

In conclusione il rifuto di registrazione è annullato.

Mi pare in realtà trattarsi di uso parodistico o meglio satirico.

In UE è discusso se possa invocarsi l’uso parodistico di un marchio altrui, magari rinomato.

In prima battuta potrebbe rispondersi positivamente sulla base di un diritto di parola o di critica (da un lato l’art. 21 cpi e .art. 14 dir. UE 2015/2436 sono muti sul punto ; dall’altro il diritto di manifestazione del pensiero,  se ravvisato nel caso specifico, non sarebbe inibito dalla mancanza di espressa sua previsione).

A ben riflettere, però,  la cosa non è semplice, potendo l’operazione nascondere uno sfruttamento abusivo della notorietà altrui.

Sospensione/rimozione da parte di Facebook e diritto di critica ex art. 21 Cost. dell’utente

Stimolante sentenza (ex art. 702 ter cpc) da parte di Tib. Varese 02 agosto 2022 n° 1181/2022, RG 2572/2021 , rel. M.M. Recalcati, circa la lite promossa dall’utente censurato da Facebook (suo account nonchè gruppo) sostanzialmente per attività disinformativa.

Il Tribunale dà torto alla ricorrente e ragione a Fb.

Bene su giurisdizione , legge applicabile e contrattualità sinallagmatica del rapporto Fb / utente (cosa ormai scontata):

Meno bene laddove ritiene non vessatoria ex art. 34 cod. cons. il diritto unilaterale di “sospendere a suo insindacabile giudizio la propria prestazione conservando il diritto di fruire della controprestazione”: ci pare evidente uno significativo squilibrio di diritti e obbligjhi.

Punto assai interssate è la precisazione sulla distinzione giudizio in astratto e in concreto: << Il Tribunale non può però limitarsi a tale astratta valutazione, essendo chiamato a
verificare se, tenuto conto della natura del servizio oggetto del contratto, come indicato
dall’art. 34 cod. consumo, la tipizzazione delle condotte dell’utente giustificanti la
limitazione/sospensione del servizio non comporti uno squilibrio tra i diritti e gli
obblighi delle parti.
In particolare, poiché Facebook propone il proprio servizio a tutti gli utenti, senza
alcuna distinzione o limitazione all’ingresso), e poiché il servizio offerto consiste nel
consentire all’utente di incontrare altri soggetti, di esprimere la propria personalità e,
quindi, anche e soprattutto, di manifestare il proprio pensiero, la previsione di
limitazioni a questa libertà di espressione non comporta uno squilibrio contrattuale, in
danno dell’utente, nella misura in cui tali limitazioni non si risolvono in una lesione
dell’art. 21 Cost
>>

Il giudizio va dato in astratto o solo al singolo tema volta per volta sub iudice? opta per la seconda , ma non pare corretto: la clausola va giudicata in astratto.

Il Trib. invece la ritiene vessatoria quando inibisca l’esewrcizio di diritto fondamentali come il diritto di espressione del lensiero ex 21 Cost.

IMportante l’affermazione di applicaizone di tale diritto -in sostanza.- verso qualunque privato che possa -per la sua posizione.- inibirlo in modo significativo.

Ritiene però che un’eccessiva compressione  da parte delle clausole di Fb (applicate al tema specifico) non ci sia, dato che è a fronte di altri dirtti di pari valore (sicurezza e tranquillità degli altri utenti).

Esclusa la vessatorietà , nel caso concreto (era un post riportante intervento in aula della parlametnare Cunial contrario fortemente ai vaccini anticovid) la rimozione è stata valutata “giustificata” sotto il profilo della disinformazione. IL punto è importante, stante il ruolo pubblico della persona il cui video è censurato: << 5.3 Ciò posto, non si ritiene che il carattere composito del discorso pubblicato dalla ricorrente valga a rendere illegittima la rimozione del post e il blocco del profilo della stessa per 30 giorni, attesa l’impossibilità di scindere il contenuto del discorso, nonché in ragione del fatto che la critica espressa dalla parlamentare alla politica del c.d. green pass si fonda sostanzialmente sui dati relativi ai vaccini dalla stessa riportati e contrari agli Standard >>

Il punto è: anche si concordasse che il discorso della parlamentare contrastava ideologicamente con le regole di Fb, conta qualcosa il fatto che sia espresso in sede parlametnare? Oppure è soggetto allo stesso trattamento contrattuale cui sarebbe soggetto il medesimo discorso fatto però dal quisque de populo?

Ancora sul diritto di parola vs. Facebook: non c’è State action , per cui è censurabile

Altra, ennesima, decisione che conferma la privatezza di Facebook , per cui la sua censura sui post degli utenti (qui relativi al Covid) è legittima, stante la base contrattuale.

Il Primo Emendamento quindi non è invocabile.

Si tratta di corte del nord California 9 agosto 2022, Case No. 22-cv-02482-CRB., Rogalinsky c. Meta.

La corte esamina il proprio recente precedente Hart. .v Facebooh , in cui pure aveva rigettata domanda basata sul 1 Emendamento, e poi la teoria del nexus test e joint action (tesi strampalatissima). Ma alla fine rigetta.

(notizia e link alal sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Il divieto di usare social media non è troppo vago in relaizone al Primo Emendamento

Circa la c.d. probation di un minore (sospensione condizionale della pena, suppergiù) , la condizione <<that he “not knowingly post, display or transmit on social media or through his cell phone any symbols or information that [he] knows to be, or that the Probation Officer informs [him] to be, gang-related.”>>  non è troppo vaga e quindi eccessiavamente limitativa del diritto di parola ex Primo Emendamento

Così L?appello della California 21 luglio 2022 H048553, H048979 (Santa Clara County Super. Ct. No. 19JV43778), in re J.T..

In particolare sul concetto di <social media>:

<< As minor acknowledges, the dictionary provides a definition of the term “social
media.” According to the Oxford English Dictionary, “social media” constitutes
“websites and applications which enable users to create and share content or to
participate in social networking.” (Oxford English Dict. Online (2022)
<https://www.oed.com/view/Entry/183739?redirectedFrom=social+media#eid272386371
> [as of July 21, 2022], archived at: <https://perma.cc/S6WV-Q3SK>.) Thus, a
practical, acceptable, and common-sense definition of the term exists, which is what a
probation condition needs to pass constitutional muster.

In determining the adequacy of the notice provided by a probation condition, we
are guided by the general principle that the condition’s language must only have
“ ‘ “
reasonable specificity,” ’ ” not “ ‘mathematical certainty.’ ” (Sheena K., supra,
40 Cal.4th at p. 890.) And, a probation condition is sufficiently specific “ ‘ “if any
reasonable and practical construction can be given its language or if its terms may be
made reasonably certain by reference to other definable sources.” ’ ” (
People v. Lopez
(1998) 66 Cal.App.4th 615, 630 (Lopez).)
Here, the term “social media” has a reasonably certain definition: websites where
users are able to share and generate content, and find and connect with other users of
common interests. Moreover, the condition’s purpose—to deter minor from engaging in
street gang activity—lends the needed clarity. A trial court’s reasons for imposing a
probation condition can cure a vagueness problem because “ ‘abstract legal commands
must be applied in a specific
context. A contextual application of otherwise unqualified
legal language may supply the clue to a law’s meaning, giving facially standardless
language a constitutionally sufficient concreteness.’ ” (
Lopez, supra, 66 Cal.App.4th at
p. 630.)
For example, in
In re Malik J. (2015) 240 Cal.App.4th 896 (Malik J.), the
appellate court considered whether a probation condition requiring the minor to
“ ‘provide all passwords to any electronic devices, including cell phones, computers or
[notepads], within [the probationer’s] custody or control’ ” was unconstitutionally vague
or overbroad. (
Id. at p. 900.) The minor argued that the phrase “ ‘any electronic
devices’ ” could be interpreted to include Kindles, PlayStations, iPods, the codes to his
car, home security system, or even his ATM card. (
Id. at p. 904.) The appellate court
observed that the search condition was imposed in response to the trial court’s concern
that the minor would use items such as his cell phone to coordinate with other offenders
and because he had previously robbed people of their iPhones. (
Id. at pp. 904-905.)
Therefore, the appellate court concluded that it was reasonably clear that the condition

was meant to encompass “similar electronic devices within [minor’s] custody and control
that might be stolen property, and not, as [minor] conjectures, to authorize a search of his
Kindle to see what books he is reading or require him to turn over his ATM password.”
(
Id. at p. 905.)
As in
Malik J., the condition’s purpose here—to deter minor from engaging in
street gang activity—provides guidance to minor and clarifies what types of “social
media” the condition intends to target. When deciding to impose gang conditions, the
juvenile court noted that the probation report disclosed that minor “wore red clothing
[and] seemed to hang out with Norte[ñ]o street gang guys,” and that there were “various
photos posted and included in the probation report as well as the Instagram issues and
tattoo issues.” The court’s statements render it “reasonably clear” that the condition was
intended to prohibit street gang-related activity on websites where users are able to share
and generate content. (
Malik J., supra, 240 Cal.App.4th at p. 905.)
Minor relies on
Packingham v. North Carolina (2017) 137 S.Ct. 1730
(
Packingham) for his vagueness claim, but that case is inapposite here. Unlike this case,
Packingham did not involve a probation condition; it involved a law that made it a felony
for registered sex offenders, including those who had completed their sentences, to
“access . . . a number of websites, including commonplace social media websites like
Facebook and Twitter.” (
Id. at p. 1733.) The Supreme Court held that the law violated
the First Amendment because it “ ‘burden[ed] substantially more speech than is necessary
to further the government’s legitimate interests’ ” in protecting children from sexual
abuse. (
Id. at p. 1736.) Packingham does not address the issue before us—whether the
term “social media,” as used in a probation condition that forbids gang-related postings,
displays, or transmissions, is unconstitutionally vague. “ ‘ ‘ “[C]ases are not authority for
propositions not considered.’ ” ’ ” (
People v. Baker (2021) 10 Cal.5th 1044, 1109.)
For all of these reasons, we do not find the term “social media” to be
unconstitutionally vague as used in the challenged probation condition
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