L’applicabilità della business judgement rule alle scelte organizzative (più un cenno alla pretesa rinuncia al credito ravvisabile nella cancellazione della società creditrice)

Un provvedimento cautelare romano esamina i due temi in oggetto. Si tratta della odinanza cautelare 08.04.2020, RG 8159/2017-8159-1/2017, giudice Guido Romano, relativa all’azione di responsabilità contro gli amministratori di Enpam Sicura srl (di cui socio unico era Enpam, cassa di previdenzxa dei medici).

L’ordinanza  è leggibile in  www.giurisprudenzadelleimprese.it con massime di P.F. Mondini.

1°  – Circa il primo profilo il tribunale si adegua all’orientamento dominante, secondo cui la richiesta di cancellazione di una società di capitali, in presenza di posti attive, comporta tacita rinuncia ai crediti relativi.

<<dunque, la giurisprudenza distingue, nell’ambito delle posizioni attive residue, non definite o sopravvenute, a seconda che si tratti di posizioni «gestite» da parte del liquidatore prima di richiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese, oppure di mere pretese rispetto alle quali il mancato espletamento di un’attività di gestione delle medesime, da parte del liquidatore, fa presumere un disinteresse e, quindi, una tacita rinunzia da parte della società, poi estinta. Con riferimento alle prime, invece, l’effetto «rinunziativo» è impedito da una attività – «ulteriore» rispetto alla sola cancellazione della società dal registro delle imprese – del liquidatore, consistente in una «espressa» gestione della posizione, attraverso, ad es., la cessione del credito (ancorché litigioso) a terzi e l’inclusione del corrispettivo nel bilancio di liquidazione (e, dunque, nella distribuzione del ricavato) ovvero ancora nella attribuzione di un diritto già azionato ad un determinato socio (con menzione nella nota integrativa)>> p. 8/9

Nel caso specifico il giudice rigetta la domanda di accertamento di tacita rinuncia, dal momento che il giudizio introdotto da Enpam andava qualificato come rapporto giuridico “coltivato” prima di procedere a chiedere la cancellazione. Per questo il credito non  è ritenuto abbandonato e nella suta titolarità sono subentrati i soci (socio unico) della società cancellata. Tuttavia Il tribunale dichiara in generale di attenersi all’orientamento dominante.

Qui mi limito a dire che tale tesi, del tutto dominante, non persuade. Infatti l’atto di rinuncia comportante l’abdicazione ad un proprio diritto per poter essere ravvisato nella modalità tacita richiede fatti del tutto significativi, inequivocabilmente concludenti: certo tale non è una semplice condotta omissiva, quale la non menzione nel bilancio di liquidazione e/o nella delibera di assegnazione ai soci subentranti uti singuli.

La remissione del debito (art.1236 cc), che per i più è un negozio unilaterale, può sì consistere in condotte diverse dalla dichiarazione ad hoc: purchè, tuttavia, si tratti di fatti concludenti e non equivoci. La legge stessa ne ipotizza uno: restituzione volontaria del titolo originale ex art. 1237/1.

La posizione maggioritaria cennata, dunque, non trova rispondenza nell’ordinamento-.

2° – E’ invece condivisibile l’affermazione, secondo cui -in tema di responsabilità degli amministratori- la business judgment rule si applica non solo alle scelte gestionali in senso stretto ma anche a quelle (per così dire a monte) di tipo organizzativo.

La tesi è da molti contestata; a me pare invece esatta.

Il tribunale dà per scontati profili importanti come la natura contrattuale dell’azione sociale (rectius della responsabilità fatta valere con l’azione sociale), e come la natura colposa della responsabilità, trascurando che questo tema -al netto di molta confusione terminologico/concettuale- è molto controverso nella responsabilità contrattuale generale (forse proprio per la confusione).

A parte ciò però (e una certa imprecisione da dove a pagina 15 chiede la riconducibilità della lesione- invece che del danno-  al fatto dell’amministratore), le successive considerazioni in tema di business Judgement rule convincono. Vale la pena di riportarle.

Il tribunale procede dicendo che<<il principio della insindacabilità delle scelte di gestione non è assoluto, avendo la giurisprudenza elaborato due ordini di limiti alla sua operatività. La scelta di gestione è insindacabile, in primo luogo, solo se essaè stata legittimamente compiuta (sindacato sul modo in cui la scelta è stata assunta) e, sotto altro aspetto, solo se non è irrazionale (sindacato sulle ragioni per cui la scelta compiuta è stata preferita ad altre)>>Pagina 15/16.

Ricordato il dovere di curare l’adetguatezza dell’assetto ex art. 2381 cc (p. 16 in fine), il tribunale così osserva:

<<Ebbene, sebbene debba darsi atto di un orientamento dottrinario che  ritiene che  on sia possibile traslare i principi che sorreggono la regola sopra evidenziata alle scelte non gestorie, ma organizzative, ritiene il Tribunale che sia condivisibile la conclusione favorevole. In tale prospettiva, in estrema sintesi, si evidenzia che la funzione organizzativa rientra pur sempre nel più vasto ambito della gestione sociale e che essa deve necessariamente essere esercitata impiegando un insopprimibile margine di libertà, per cui le decisioni relative all’espletamento della stessa vengono incluse tra le decisioni strategiche. In altre parole, la predisposizione di un assetto organizzativo non costituisce l’oggetto di un obbligo a contenuto specifico, ma al contrario, di un obbligo non predeterminato nel suo contenuto, che acquisisce concretezza solo avuto riguardo alla specificità dell’impresa esercitata e del momento in cui quella scelta organizzativa viene posta in essere.  E va da sé che tale obbligo organizzativo può essere efficacemente assolto guardando non tanto a rigidi parametri normativi (non essendo enucleabile dal codice un modello di assetto utile per tutte le situazioni), quanto ai principi elaborati dalle scienze aziendalistiche ovvero da associazioni di categoria o dai codici di autodisciplina.  Così, come è stato efficacemente affermato, l’esistenza di un ambito discrezionale entro il quale gli amministratori possono compiere le loro scelte aventi carattere organizzativo deriva dal fatto che il legislatore ha utilizzato come criterio di condotta, a cui essi devono attenersi nella configurazione e nella verifica degli assetti societari, la clausola generale dell’adeguatezza e, dunque, una clausola elastica, al pari, della clausola di diligenza dovuta nel realizzare una scelta imprenditoriale. In definitiva, la scelta organizzativa rimane pur sempre una scelta afferente al merito gestorio, per la quale vale il criterio della insindacabilità e ciò pur sempre nella vigenza dei limiti sopra esposti e, cioè, che la scelta effettuata sia razionale (o ragionevole), non sia ab origine connotata da imprudenza tenuto conto del contesto e sia stata accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta dalla natura dell’incarico>>

Nulla da aggiungere, tutto esatto (tranne, volendo sottilizzare: l’adeguatezza non è clausola elastica, al pari della diligenza: l’adeguatezza è proprio la diligenza, applicata al profilo organizzativo della prestazione gestoria).

Del resto a ben vedere non può che essere così: dovunque ci sia discrezionalità e cioè pluralità di scelte tutte ex-ante razionalmente giustificabili, non si può che lasciare libero l’amministratore. Ci si deve infatti sempre mettere nell’ottica ex ante e curando al massimo (con specifico sforzo psicologico)  di non farsi depistare dal senno di poi, c.d.  hindsight bias

Questa affermazione di applicabilità della b.i.r. alle scelte organizzative è stata successivamente condivisa da Trib. Roma sez. spec. decr. 24.09.2020, rel. Bernardo, Giuffrida e aa. c. Prandi e aa., Foro. it., 2020/12, 3965 (che richiama il precedente “concittadino” di aprile).

Questa pronuncia del 2020, però, limita il concetto di <gestione>, quando il cocnetto sia quello di cui all’art. 2409 cc (gravi irregolarità), osservando:  <<La nuova formulazione della norma, che fa riferimento all’esistenza del fondato sospetto di «gravi irregolarità nella gestione» — a differenza della precedente formulazione dell’art. 2409 c.c. che richiedeva il «fondato sospetto di gravi irregolarità nell’adempimento dei doveri degli amministratori e dei sindaci» — consente di affermare come non assuma rilievo qualsiasi violazione di doveri gravanti sull’organo amministrativo, ma soltanto la violazione di quei doveri idonei a compromettere il corretto esercizio dell’attività di gestione dell’impresa e a determinare pericolo di danno per la società amministrata o per le società controllate, con esclusione di qualsiasi rilevanza, invece, dei doveri gravanti sugli amministratori per finalità organizzative, amministrative, di corretto esercizio della vita della compagine sociale e di esercizio dei diritti dei soci e dei terzi estranei.>>

Il punto è interessante e merita approfondimento.    A prima vista però pare arbitrario restringere il concetto di gestione nell’art. 2409 mentre lo si allarga nell’art. 2392. Nè giova la differenza di dettato tra la precedente (gr. irr. nell’adempimento dei doveri) e l’attuale versione (gr. irr. nella gestione) dell’art. 2409, come opina il Tribunale: anche nell’art. 2392, infatti,  si parla indirettamente ma sicuramente di doveri <gestionali>, dato che per l’art. 2381/1 agli amministratori incombe proprio la gestione dell’impresa (è irrilevante che la disposizione, sotto il profilo letterale, non menzioni <obblighi>) (ma non cambierebbe nulla anche considerando solamente l’art. 2392 cc).

Riproduzione non autorizzata di opera fotografica in una collezione di vestiti (Antonio Marras c. Daniel J. Cox)

Il tribunale di Milano decide sulla lite promossa dal fotografo naturalista Daniel J Cox nei confronti un’impresa da abbigliamento e del suo distributore per riproduzione non autorizzata di una suo scatto nella collezione autunno-inverno 2014-2015 e commercializzazione su piattaforma on-line di abbigliamento di lusso.

Si tratta della sentenza 2539/2020 del 23.04.2020, RG 14054/2018, pres. rel. Marangoni, scaricabile da questo link offerto da ipkat.com / darts-IP.

La fotografia è la seguente:

© Daniel J. Cox-NaturalExposures.com

(tratta da qui).

L’abito è il seguente:

(qui la foto del lupo è meno nitida).

Ma l’immagine dell’abito più significativa (perchè a sfondo blu, come nella fotografia dell’animale)  è quella presente in ipkat.com :

Nella sentenza il nome dell’attore è oscurato ma in molti siti internet il nome viene invece diffuso: v. ad es. qui e qui.  In ogni caso la diffusione integrale è ammessa dalla legge, non ricorrendo le eccezionali ipotesi contrarie previste dall’art. 52 cod. priv.

L’attore aveva chiesto la condanna in solido delle due convenute.

IDENTITà O DIVERSITà DI FOTOGRADIA?  La prima difesa di Antonio Marras è quella per cui non si tratterebbe della stessa fotografia.

L’impresa aveva peraltro  ammesso <<di avere effettivamente, nel corso dell’attività di studio e progettazione della collezione donna 2014/2015, reperito sul web la fotografia scattata dall’attore (peraltro priva di indicazioni circa il titolare dello scatto e resistenza di privativa autorale), ma di non averla poi direttamente utilizzata, limitandosi a inserirla nel moodboard della collezione, quale fonte di ispirazione per la successiva creazione dei capi da parte dello stilista.>>, p. 7

Ammissione che ricorda la condotta di Jimmy Page nella lite Skidmore v. Led Zeppelin circa le canzoni Taurus (degli Spirit) e Stairway to heaven. Pure il chitarrista inglese aveva infatti ammesso di possedere nella propria collezione privata una copia del disco degli Spirit contenente Taurus,  in un ordinamento come quello americano in cui è decisiva la prova dell’accesso all’opera.

V. il mio post sulla sentenza statunitense 9 marzo 2020.

Il giudice milanese però rigetta questa difesa e afferma che l’immagine è la stessa. Qui è interessante a livello probatorio il ragionamento condotto per giungere alla conclusione:

<<tale convincimento è suffragato innanzitutto dall’oggettiva sovrapponibilità tra l’immagine riprodotta sul lato sinistro dell’abito femminile realizzato dalla convenuta e lo scatto rivendicato dal fotografo, come fedelmente rappresentato nel doc. 26 di parte attrice, reperto non contestato dalle convenute. Segnatamente, dall’attento esame della predetta immagine si percepisce chiaramente la perfetta coincidenza tra le due figure, e, in particolare, di alcuni loro elementi caratterizzanti, quali: la posizione del cranio del lupo, avente la medesima rotazione e inclinazione rispetto all’asse del corpo; le fauci del canide, che mostrano la medesima apertura e dalle quali spunta un canino avente uguale posizione e dimensione in entrambe le immagini; la perfetta sovrapponibilità dell’occhio del lupo; le identiche cromature, macchie e pieghe del pelo presente sul collo dell’animale.

Tali riscontri obiettivi assumono particolare significato anche alla luce della fotografia sub doc. 25 prodotta da parte attrice – anch’essa non contestata dalle convenute – nella quale è ritratto lo stilista Antonio Marras intento a studiare il mainboard della collezione, dove risulta ben visibile, tra le altre immagini, anche lo scatto in questione>>, p. 8.

Non è chiaro come l’attore sia riuscito a procurarsi una fotografia dello stilista mentre esamina la propria collezione

Non inficia il ragionamento , dice il Tribunale, il fatto che la Antonio Marras abbia maldestramente tentato di sviare la percezione del giudice, riproducendo negli atti di causa solo un lato dell’abito, in modo che l’immagine del lupo fosse diversamente orientata (pagina 8/9). Il tribunale poi ritiene che questo tentativo, di dare una diversa rappresentazione della realtà, sia contrario ai doveri di lealtà processuale e irroga la sanzione ex articolo 96/1 CPC, pagina 9

PATERNITA’ –  la paternità dell’Opera non viene contestata e comunque dal tribunale viene affermata anche sulla base del certificato di protezione, concesso dall’ufficio statunitense e dalla pubblicazione in una monografia nella quale la paternità viene appunto attribuita a Daniel Cox. Quest’ultimo andrà inteso come fatto indiziario, anche se ultroneo, visto che nel caso specifico -come detto-  non ce ne era bisogno, stante la non contestazione.

TIPO DI TUTELA – Circa l’oggetto della tutela il dubbio è tra la tutela piena come opera dell’ingegno (art. 2 n. 7 l. aut.) e la tutela “dimezzata” come diritto connesso ex articolo 87 seguenti l. aut. (v. paragrafo 3).

Secondo i giudici milanesi, è esatta la prima alternativa (§ 3.1) e spiega perchè.

Premesse alcune considerazioni consuete circa i criteri  astratti per avvisare opera fotografica, il tribunale procede ad applicarli al caso specifico: anche qui, si tratta della parte più interessante  dell’iter motivatorio, perché si capisce cosa sta in mente iudicis per arrivare a formulare il giudizio:

<<orbene, nel caso di specie, l’attore ha innanzitutto dedotto in giudizio come la [1] scelta del soggetto da rappresentare (nello specifico, un lupo nel suo ambiente naturale), sia stata frutto di studio e d’attenta analisi del campo fotografico. professionista ha altresì colto l’animale [2] mentre lo stesso era intento a ululare – indice sintomatico di una precisa volontà creativa – scegliendo di rappresentarlo in primo piano, attraverso una [3] sapiente sfocatura dell’ambiente circostante, esaltando così l’espressione del soggetto rappresentato, pur facendo emergere i fiocchi di neve che, copiosamente, cadevano nell’ambiente circostante ed evocando, in questo modo, peculiari suggestioni nell’osservatore tali da travalicare la mera rappresentazione grafica deH’animale. E altresì evidente [4] un sapiente uso del chiaroscuro e l’utilizzo, con finalità creative, dei giochi di luce e ombre distinguibili sullo sfondo blu dell’immagine e, soprattutto, [5] dal contrasto generato tra i fiocchi di neve rispetto alla cromatura del pelo del lupo.

Avvalorano inoltre la natura artistica della fotografia sia [6] lo specifico riconoscimento autorale in territorio statunitense (doc. 6 attore), sia [7] la sua collocazione all’intemo di un’opera monografica alla quale è stata data dignità di pubblicazione e stampa (docc. 2, 2a attore), nonché [8] la sostanziale identità, sul piano della qualità creativa, della predetta immagine rispetto ad altre rappresentazioni naturalistiche scattate dallo stesso apparse su prestigiose riviste di settore, quali «National Geographic» e «Nikon Leam&Explore» (docc. 3, 3a, 3b, 3c e 3d attore).

Infine, è significativo, in punto di qualificazione dei diritti connessi all’immagine, che essa sia stata [9] particolarmente apprezzata dagli operatori commerciali, a riprova dell’oggettiva e intrinseca capacità di evocare particolari suggestioni nei consumatori (docc. 33 e 34 attore). [10] Anche il noto motore di ricerca Google pone la fotografia oggetto di causa tra le prime immagini associate alla stringa «holwing wolj» o «lupo ululante» (cfr. docc. 22 – 24 attore).>> pp.10-11

Ho scomposto il ragionamento in unità logiche mimime, che tutte assieme portano a ravvisare la creatitivà nella fotografia de qua.  Si notino quelle sub 6 (riconoscimento autorale in USA) e sub 7-9-10 (riconoscimento sul mercato)

LA LICEITA’ PER ESSERE REPERIBILE SU GOOGLE IMAGES – Il tribunale affronta poi di eccezione di Marras secondo cui lo scatto era lì era legittimamente utilizzabili essendo reperibile sul motore di ricerca Google. Il tribunale ha buon gioco nel rispondere che, secondo lo stesso Google Images, l’immagine può essere oggetto di copyright.

Aggiunge poi la mera <<disponibilità sul web di una foto non costituisce presunzione di assenze di privative, gravando semmai sull’intemauta l’onere di accertare l’esistenza, o meno, di diritti in capo a soggetti terzi>>, p. 11. Infatti <<appartiene al bagaglio nozionistico del medio professionista, in particolar modo se operatore del c d. fashion business, il noto principio secondo il quale l’utilizzo di una fotografia senza richiedere la liberatoria dell’autore o senza comunque sincerarsi che l’immagine sia di libera riproduzione costituisce, pacificamente, ipotesi di contraffazione (Trib. Milano, 1.03.2004).>>p. 12.

In effetti anche se non ci fosse la dichiarazione cautelativa di Google Images, sarebbe comunque condotta colposo il non tentare di verificare la libera riproducibilità dell’immagine, potendo essere stata illecitamente messa on line da terzi.

RISARCIMENTO DEL DANNO – Circa il  risarcimento, il tribunale accetta il criterio del prezzo del consenso suggerito dall’attore, ma ne rigetta il quantum proposto.

 il tribunale si limita infatti a prendere per buono l’importo che lo stesso attore sembrava disposto a concedere in un tentativo stragiudiziale conciliativo, secondo un documento prodotto in causa dalla Antonio Marras: € 16.000,00.

Ll’attore aveva invece chiesto un prezzo molto più elevato, pari a € 188.000,00, sulla base di  precedenti atti dispositivi: questi però sono giudicati da un lato  mal documentati e dall’altro relativi ad utilizzi molto più ampi di quello per cui era causa.

Il tribunale concede anche il danno non patrimoniale che liquida in euro 9’000,00. Qui non è chiaro il cenno secondo cui in tal modo aderisce agli ordinari canoni di responsabilità civile <<informati a un criterio compensativo>>: in materia di danno non patrimoniale, parlare di <compensazione> richiederebbe qualche spiegazione. Ma l’affermazione non è ratio decidendi, essendo la lqiudaizione certgamente equitativa.

Sulla risarcibilità del danno non patrimoniale, sarebbe stato utile qualche passaggio argomentativo, data la sua tipicità e dato che l’art. 168 l. aut. si limita a rinviare ai diritti patromoniali col limite della compabilità, senza prevedere espressamente il risarci,mento. A parte ciò, la disciplina generale del risarcimento del danno non patrimonale (nelle sue due componenti del pretium doloris, danno morale, e della compromissione delle abitudini di vita: distinzione non menzionata dal giudice) prevede che vada allegato e provato, potendo l’equità solo servire alla traduzione monetaria.

LA POSIZIONE DELL’IMPRESA  DISTRIBUTRICE – Interessante poi è il giudizio sulla posizione del distributore Drexcode srl . Questa si era difesa dicendo di non aver potuto esercitare alcuna attività di controllo sul produttore.

Ma per il tribunale ciò non rileva, visto che <<non ha dato alcuna dimostrazione di avere ottenuto, da parte dell’ANTONIO MARRAS S.R.L., specifica attestazione circa la piena titolarità dei diritti di sfruttamento commerciale dei capi d’abbigliamento e delle immagini sugli stessi riprodotte, sussistendo pertanto evidenti profili di colpevolezza in capo al distributore, quantomeno sub specie di culpa in vigilando, rispetto all’attività posta in essere dalla casa di moda. Ritiene pertanto il Collegio di doversi conformare, nel caso di specie, al consolidato orientamento pretorio secondo il quale il distributore di merce contraffatta è chiamato a rispondere, in solido con il produttore secondo lo schema di cui all’art. 2055 c.c., dell’attività da quest’ultimo posta in essere, concorrendo sul piano causale alla commissione dell’illecito e all’aggravamento dello stesso (Trib. Milano, 1 luglio 2004), fatta salva la possibilità di agire in manleva per avere confidato nella liceità del comportamento altrui (Trib. Milano, 30 giugno 2004).>>, p. 14-15.

Per vero l’elemento soggettivo richiesto ai compartecipanti legati in solidarietà ex art. 2055 non è chiaramente desumibile dall’ordinamento e ci sono opinioni discordanti.

E’ poi importante l’affermazione per cui il distributore ha ogni volta l’onere di farsi consegnare dal cliente documentazione probatoria della legittimità di uso di tutti i segni presenti sul prodotto: pare che simili liberatorie, anche se diventassero dichairazioni di stile, varrebbero ad esentare dalla responabilità esterna ex art. 2055 cc.

Questo, appunto, nei rapporti esterni cioè verso i terzi (=le vittime dell’illecito).

Nei rapporti interni invece il tribunale accoglie la domanda di manleva, proposta dal distributore Drexcode nei confronti di Antonio Marras: condanna infatti quest’ultimo a rifondere al primo ogni somma che fosse costretto a pagare verso l’attore (vedi punto 5 del dispositivo)

SPESE – infine  il tribunale, come anticipato, condanna Antonio Marras ex articolo 96 comma 1 CPC a pagare all’attore una somma di euro 6000 sia per la accennata sleale condotta processuale sia perché ante causam aveva dimostrato un chiaro intento conciliativo e un’inclinazione a transigere ad una somma inferiore a quella riconosciuta dal tribunale in sentenza (p. 16).

Non è chiaro però quale sia la pertinenza di quest’ultimo ragionamento. La disponibilità a transigere non significa disponibilità riconoscere la propria violazione , dato che anzi il proprium della transazione è quello di prescindre da ogni accertamento sul diritto e sul torto intorno ai fatti di causa. E’ cioè solo prospettica, non retrospettiva. Per lo stesso motivo la somma a suo tempo ipotizzata ante causam e quella liquidata dal giudice non hanno alcuna relazione logico-cocnettuale: quindi non è traibile alcun elemenot di slealtà processuale, inmancanza di norma ad hoc (come avviene ad es. per la mediazione: art. 13 d. lgs. 28/2010).

Contraffazione di opera musicale: la Corte d’Appello USA del nono circuito sul caso Skidmore v. Led Zeppelin

Da molto tempo pende la lite tra Skidmore e i Led Zeppelin.

Secondo l’allegazione del primo,  rappresentante del Trust Randy Craig Wolfe (creato alla sua morte dalla madre di Randy Wolf, già chitarrista di quel grandissimo gruppo che sono stati gli Spirit: v. voce in Wikipedia), i Led Zeppelin con la canzone Stairway to Heaven avrebbero copiato la canzone Taurus, scritta dal citato Randy Wolfe. Precisamente Skidmore non allega la copia dell’intera composizione Taurus, ma afferma solo <<that the opening notes of Stairway to Heaven are substantially similar to the eight-measure passage at the beginning of the Taurus deposit copy>>  (p.10, ove anche precisazioni musicali).:

Decide la lite la United States Court of Appeals del 9° circuito con sentenza (ormai divenuta molto nota) del 9 marzo 2020, processo (docket number) 16-56057.

La prima parte della sentenza riguarda l’individuazione della legge applicabile. Dopo ampia analisi storica, 15 ss, si afferma che questa è il Copyright Act del 1909 e non quello del 1976 e ciò nonostante il primo non proteggesse il sound recording. L’opera sub-judice era stata registrata nel 1967. Per i lavori non pubblicati il copyright è limitato alla deposit copy, che nel caso specifico consisteva di una sola pagina (p.7 e 18; fatti descritti a p. 8/9 ove anche il cenno ai contatti reciproci avuti dalle due band, al fine di provare l’access, su cui v. sotto). A p. 19 ss è esaminata la deposit copy.

La seconda parte della sentenza tratta dei requisiti secondo il diritto statunitense per aversi contraffazione. Sono due (p. 22):

1° l’attore deve aver un valido diritto sull’opera (Taurus, qui);

2° i Led Zeppelin devono aver copiato aspetti protetti dell’opera

Il requisito 2° a sua volta consiste di due componenti autonome:

A) coping

B) unlawful appropriation

Circa A) Poichè la independent creation è un’eccezione totale (complete defense, cioè eccezione che può far rigettare per intero la domanda) , l’attore , se non sa dare prova diretta, può provare il coping in via indiretto/presuntiva, dimostrando i) l’accesso e ii) significative somiglianze : profili che costituiscono il profilo nevralgico della decisione, p. 11-15.

Circa B) , le opere devono avere substantial similarities, p. 23 . Affinchè ciò avvenga, devono essere soddisfatti sia il test estrinseco che il test instrinseco : il primo compara le somiglianze ogggettive di specifici elementi espressivi, il secondo invece valuta <<from the standpoint of the ordinary reasonable observer”, with no expert assistance>>, p.23

Il requisito A (copying e, direi, nella forma del’access) è esaminato a p. 24 ss. Skidmore voleva provare il copying facendo suonare l’opera mentre testimoniava Page: affermava che osservarlo mentre ascolta, avrebbe reso possibile per la giuria capire le sue reazioni e quindi il suo atteggiamento circa la questione dell’accesso. La Corte ritiene non pertinente la prova richiesta, p. 24 (la richiesta era stravagante assai, sia in generale sia in presenza di un consumato uomo di mondo come Page). Il problema dell’accesso però è stato superato radicalmente, poichè Jimmy Page ammise di avere avuto una copia contenente Taurus anche se … negò di conoscere la canzone, p. 25  (cosa per vero sorprendente e in ogni caso interessante giuridicamente: se veramente non l’avesse mai sentita, è dubbio si sarebbe realizzato l’access all’opera, a meno di applicare una presuzione di conoscenza del tipo di quella prevuista per le dichiarazioni  recettizie dal nostro art. 1335 c.c.)

Nella parte 4 sono esaminate le istruzioni a suo tempo date alla giuria, che Skidmore contesta.

La più interessante è la prima, circa l’onere probatorio, p. 26 ss

I casi di copyright infringements spesso si riducono alla cruciale questione delle substantial similarities. In passato era opinione diffusa che questo profilo fosse legato a quello dell’accesso, per cui <<“a lower standard of proof of substantial similarity when a high degree of access is shown.” … . That is, “the stronger the evidence of access, the less compelling the similarities between the two works need be in order to give rise to an inference of copying.”>>, p.26

Regola invero poco comprensibile: ed infatti la Corte dichiara espressamente di abrogarla con un overruling , p. 26

Del resto il concetto di accesso non ha più molto senso nel mondo digitale, dice la Corte, visto che < increasingly diluted in our digitali interconnected World>> , p.  31

In ogni caso, nei limiti in cui il concetto di access ha ancora significato , <<the inverse ratio rule unfairly advantages those whose work is most accessible by lowering the standard of proof for similarity. Thus the rule benefits those with highly popular works, like The Office, which are also highly accessible. But nothing in copyright law suggests that a work deserves stronger legal protection simply because it is more popular or owned by better-funded rights holders>>. Infine, la inverse ratio rule <<improperly dictates how the jury should reach its decision. The burden of proof in a civil case is preponderance of the evidence. Yet this judge-made rule could fittingly be called the “inverse burden rule>>, p. 32 (v. anche il prosieguo importante nella seconda parte di p. 32).

Circa la seconda istruzione alla giuria (sull’originalità), la Corte ricorda la giurisprudenza sulla soglia minima di originalità richiesta: in particolare ricorda la notissima sentenza Feist ed altre successive: <<Even in the face of this low threshold, copyright does require at least a modicum of creativity and does not protect every aspect of a work; ideas, concepts, and common elements are excluded….Authors borrow from predecessors’ works to create new ones, so giving exclusive rights to the first author who incorporated an idea, concept, or common element would frustrate the purpose of the copyright law and curtail the creation of new works.>>, p. 33 (e p.38: <<originality requires at least “minimal” or “slight” creativity—a “modicum” of “creative spark”—in addition to independent creation>>).

Poi entra nel merito di teoria musicale, introducendo concetti come chords, arpeggio  o broken chord etc.. Infatti l’istruzione contestata diceva: <<that copyright “does not protect ideas, themes or common musical elements, such as descending chromatic scales, arpeggios or short sequences of three notes.>>, p. 35

La terza istruzione riguarda l’omissione di avere dato specifica istruzione alla giuria circa la <selection and arrangement theory>, p. 39 ss e spt. 43 ss: cioè un’istruzione circa la teoria per cui è proteggibile anche un’originale combinazione di elementi di per sè non originali. L’istanza è però respinta per motivi processuali cioè per non averla presentata in modo esplicito e autonomo (dunque con negligenza professionale dei difensori, direi).

E’ vero che Skidmore aveva evidenziato e invocato cinque elementi combinati, ma non li aveva invocati come originalità della combinazione: <<Skidmore and his expert underscored that the presence of these five musical components makes Taurus unique and memorable: Taurus is original, and the presence of these same elements in Stairway to Heaven makes it infringing. This framing is not a selection and arrangement argument. Skidmore never argued how these musical components related to each other to create the overall design, pattern, or synthesis. Skidmore simply presented a garden variety substantial similarity argument.>>, p. 44.        In altre parole Skidmore e i suoi esperti <<never argued to the jury that the claimed musical elements cohere to form a holistic musical design. Both Skidmore’s counsel and his expert confirmed the separateness of the five elements by calling them “five categories of similarities.” These disparate categories of unprotectable elements are just “random similarities scattered throughout [the relevant portions of] the works.”>>, p. 45.

Tale istanza dunque va rigettata <<because a copyright plaintiff “d[oes] not make an argument based on the overall selection and sequencing of. . similarities,” if the theory is based on “random similarities scattered throughout the works.”>>, 45/6. Infatti <<presenting a “combination of unprotectable elements” without explaining how these elements are particularly selected and arranged amounts to nothing more than trying to copyright commonplace elements.>>, p. 46. Solo una <<“new combination,” that is the “novel arrangement,” … and not “any combination of unprotectable elements . . . qualifies for copyright protection,”>>, p. 46

La mancanza di elementi originali e proteggibili in Taurus era la tesi centrale della difesa Led Zeppelin (dissenting opinion Ikuta, p. 60)

In sintesi, l’insegnamento sta qui: <<a selection and arrangement copyright is infringed only where the works share, in substantial amounts, the “particular,” i.e., the “same,” combination of unprotectable elements. …..A plaintiff thus cannot establish substantial similarity by reconstituting the copyrighted work as a combination of unprotectable elements and then claiming that those same elements also appear in the defendant’s work, in a different aesthetic context. Because many works of art can be recast  as compilations of individually unprotected constituent parts, Skidmore’s theory of combination copyright would deem substantially similar two vastly dissimilar musical compositions, novels, and paintings for sharing some of the same notes, words, or colors. We have already rejected such a test as being at variance with maintaining a vigorous public domain>>, pp. 46/7

A conclusione, la Corte così sintetizza così la propria posizione: <<This copyright case was carefully considered by the district court and the jury. Because the 1909 Copyright Act did not offer protection for sound recordings, Skidmore’s one-page deposit copy defined the scope of the copyright at issue. In line with this holding, the district court did not err in limiting the substantial similarity analysis to the deposit copy or the scope of the testimony on access to Taurus. As it turns out, Skidmore’s complaint on access is moot because the jury found that Led Zeppelin had access to the song. We affirm the district court’s challenged jury instructions. We take the opportunity to reject the inverse ratio rule, under which we have permitted a lower standard of proof of substantial similarity where there is a high degree of access. This formulation is at odds with the copyright statute and we overrule our cases to the contrary. Thus the district court did not err in declining to give an inverse ratio instruction. Nor did the district court err in its formulation of the originality instructions, or in excluding a selection and arrangement instruction. Viewing the jury instructions as a whole, there was no error with respect to the instructions. Finally, we affirm the district court with respect to the remaining trial issues and its denial of attorneys’ fees and costs to Warner/Chappell>> , p. 53 (in italiano, traduzione Google: <<Questo caso sul copyright è stato attentamente valutato dal tribunale distrettuale e dalla giuria. Poiché il Copyright Act del 1909 non offriva protezione per le registrazioni audio, la copia di deposito di una pagina di Skidmore ha definito l’ambito del copyright in questione. In linea con questa azienda, il tribunale distrettuale non ha commesso errori nel limitare la sostanziale analisi di somiglianza con la copia del deposito o la portata della testimonianza sull’accesso al Toro. A quanto pare, la denuncia di Skidmore sull’accesso è discutibile perché la giuria ha scoperto che i Led Zeppelin avevano accesso alla canzone. Affermiamo le contestate istruzioni della giuria del tribunale distrettuale. Cogliamo l’occasione per respingere la regola del rapporto inverso, in base alla quale abbiamo consentito uno standard inferiore di prova di sostanziale somiglianza in presenza di un elevato grado di accesso. Questa formulazione è in contrasto con lo statuto del copyright e noi annulliamo i nostri casi al contrario. Pertanto, il tribunale distrettuale non ha commesso errori nel rifiutare di impartire un’istruzione di rapporto inverso. Né il tribunale distrettuale ha commesso un errore nella sua formulazione delle istruzioni di originalità o nell’escludere un’istruzione di selezione e disposizione. Osservando le istruzioni della giuria nel loro insieme, non si sono verificati errori rispetto alle istruzioni. Infine, affermiamo il tribunale distrettuale per quanto riguarda le rimanenti questioni processuali e la sua negazione delle spese legali e dei costi per Warner / Chappell>>)

Come anticipato, cè una opinione (parzialmente) dissenziente del giudice Ikuta: il dissenso verte soprattutto sulla mancata istruzione data dalla Corte distrettuale circa l’originalità della combinazione di elementi di per sè non originali, scelta confermata dalla maggioranza e contestata da Ikuta, p. 63 ss (per altri profili di dissenso v. 69 ss.)

ora v. la nota anonima alla sentenza in Harvard law review https://harvardlawreview.org/2021/02/skidmore-v-led-zeppelin/

Marchi di forma: forme tecniche e valore sostanziale in un intervento della Corte di Giustizia

La Corte di Giustizia con sentenza 23 aprile 2020, causa C 237/19, relativa all’oggetto prodotto dalla impresa Gomboc, affronta la questione della tutela di un marchio di forma sia sotto il profilo della forma necessaria per ottenere un risultato tecnico sia sotto il profilo della forma che attribuisce un valore sostanziale.

Si tratta di questioni pregiudiziali non particolarmente difficili, a ben vedere, anche se magari in prima battuta possono generare qualche dubbio (come spesso succede nella non facile materia dei marchi tridimensionali).

La forma sub iudice è costituita da un oggetto che ha la peculiare caratteristica di avere un unico punto di equilibrio e di essere strutturato per tornare sempre in tale punto equilibrio. Precisamente: <<Un gömböc è un solido convesso di densità uniforme che, se poggiato su una superficie piana, ha un solo punto di equilibrio stabile e un solo punto di equilibrio instabile. Ha la proprietà di tornare da solo nella posizione stabile quando viene appoggiato in ogni altra posizione. Un oggetto con questa proprietà è detto anche “mono-monostabile”>> (voce Gomboc in Wikipedia Italia).

Maggiori dettagli scientifici nella voce inglese di Wikipedia.

Si veda dalla foto tratta da Wikipedia (dovrebe essere la stessa sub iudice):

La normativa pertinente è la direttiva 2008/95 e in particolare l’articolo 3 paragrafo 1 lettera E.ii) (forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico) e lettera E.iii) (forma che dà un valore sostanziale al prodotto).

Con la prima questione pregiudiziale la Corte deve decidere sulla forma tecnica e in particolare se <<ci si deve limitare all’esame della rappresentazione grafica di detto segno o se occorre anche tener conto di altri elementi di informazione, come la percezione del pubblico di riferimento>>, § 23 ss.

Qui la risposta non è difficile, se si va alla ratio della norma, la quale è ricordatga dalla CG:  <<l’obiettivo dell’impedimento alla registrazione previsto dall’articolo 3, paragrafo 1, lettera e), ii), della direttiva 2008/95 consiste nel fatto di evitare che il diritto dei marchi sfoci nel conferimento a un’impresa di un monopolio su soluzioni tecniche o caratteristiche utilitarie di un prodotto, che possono essere ricercate dall’utilizzatore nei prodotti dei concorrenti. Tale impedimento alla registrazione intende in tal modo evitare che la tutela conferita dal diritto dei marchi si estenda oltre i segni che permettono di distinguere un prodotto o servizio da quelli offerti dai concorrenti, impedendo a questi ultimi di offrire liberamente prodotti che incorporano dette soluzioni tecniche o dette caratteristiche utilitarie in concorrenza con il titolare del marchio>>, § 25.

Inoltre <<la presenza di uno o più elementi arbitrari minori in un segno tridimensionale i cui elementi essenziali sono tutti dettati dalla soluzione tecnica che tale segno esprime non intacca la conclusione che detto segno è costituito esclusivamente dalla forma del prodotto necessaria ad ottenere un risultato tecnico>>, § 26 (precisazione importante a fini operativi, dato che spesso ci saranno elementi arbitrati).

Infatti <<le imprese non possano avvalersi del diritto dei marchi per perpetuare, senza limiti nel tempo, diritti esclusivi vertenti su soluzioni tecniche>>, § 27.

Inoltre  <<l’impedimento alla registrazione previsto dall’articolo 3, paragrafo 1, lettera e), ii), della direttiva 2008/95, può trovare applicazione quando la rappresentazione grafica della forma del prodotto consente di percepire solo una parte di tale forma, a condizione che tale parte visibile di detta forma sia necessaria ai fini del conseguimento di un risultato tecnico di questo prodotto, non essendo, di per sé, sufficiente per ottenere un siffatto risultato>>, § 32.

Il che signifca -parrebbe-  che  se la parte visibile della forma è necessaria a produrre il risultato tecnico, il divieto opera anche se non è l’unica, dal momento che ce ne sono altre non visibili. Questa interpretazione parrebbe confermata dall’ultima parte del paragrafo 32 <<In tal senso, come indicato dalla Commissione nelle sue osservazioni scritte, detto impedimento alla registrazione è applicabile a un segno costituito dalla forma del prodotto interessato che non evidenzia tutte le caratteristiche essenziali richieste per ottenere il risultato tecnico ricercato, purché almeno una delle caratteristiche essenziali richieste per conseguire tale risultato tecnico sia visibile sulla rappresentazione grafica della forma di detto prodotto>>.

Concludenso, stanti questi presupposti teorici, è chiaro che il giudizio va dato in base ad elementi di informazione obiettivi e affidabili (§ 34),  non alle percezioni del pubblico. Queste ultime infatti <<ricadono in una valutazione che comporta necessariamente elementi soggettivi, che sono potenzialmente fonte di incertezze quanto alla portata e all’esattezza delle conoscenze di questo pubblico, circostanza che rischia di pregiudicare l’obiettivo perseguito dall’impedimento alla registrazione previsto dall’articolo 3, paragrafo 1, lettera e), ii), della direttiva 2008/95, che consiste nell’evitare che il diritto dei marchi conferisca a un’impresa un monopolio su soluzioni tecniche o caratteristiche funzionali di un prodotto.> § 35

Con la seconda questione pregiudiziale il giudice chiede se sia possibile far operare il divieto del valore sostanziale ex lettera iii)  quando è solo in ragione della percezione del pubblico che può essere attribuito al prodotto detto valore sostanziale, § 38. La domanda non è molto comprensibile

La risposta è positiva, perché il valore sostanziale non può che essere quello attribuito dal pubblico di riferimento cioè dei consumatori

Nel caso specifico poi il valore sostanziale sembra sia costituito non tanto dal fattore estetico, quanto del fatto che l’oggetto concretizza precedenti scoperte matematiche, § 45. Questo aspetto (che il valore sostanziale non derivi da un fattore estetico) è però irrilevante: la Direttiva chiede solamente che la forma attribuisca un valore sostanziale, qjuindi per qualunque ragione.

Pertanto anche qui la risposta è abbastanza semplice: quello che conta è solo che la forma sia motivo di acquisto per i consumatori (§§  41 e 47), a prescindere dalla ragione di ciò. Il punto è importante dato che in passato c’erano state interpretazioni diverse della disposizione: ma questa è ora diventata quella prevalente.

La terza questione pregiudiziale si divide in due parti . La prima riguarda il rapporto con la tutela da disegni e modelli: il giudice a quo chiede se il divieto di registrare forme dotate di valore sostanziale operi quando il prodotto è già tutelato come disegno un modello

La risposta, anche qui non è particolarmente difficile, è positiva, purché siano rispettate le norme dei rispettivi istituti: i quali quindi in sostanza operano autonomamente e cioè in via indipendente, §§ 51-54

Meno chiara è la seconda parte della terza questione: parrebbe riguardare il rapporto tra divieto di forme attributive di valore sostanziale e oggetti dotati di valore (o di destinazione) artistico-ornamentale. La risposta è senz’altro che si applica anche a questi oggetti : in particolare che il divieto non opera automaticamente solo perché questi oggetti siano merceologicamente classificati come <<decorativi di cristallo e ìceramica > e compresi i compresi nelle classi 14:21 dell’accordo di Nizza.

La precisazione parrebbe abbastanza ovvia

Marchi di colore nel diritto statunitense

La United States Court of Appeals per il circuito federale si pronuncia su un caso di marchio di colore: si tratta della sentenza 8 aprile 2020, in re: Forney OIndustries , Inc., caso n° 2019-1073: testo della sentenza qui e database della Corte qui .

Il segno era costituito da una fascia superiore nera e da una inferiore gialla, che scandeva degradando verso il rosso. Era applicato sul packaging di prodotti per la saldatura.

La descrizione fatta da Forney in sede di domanda è stata dapprima la seguente: <<“[t]he mark consists of a solid black stripe at the top. Below the solid black stripe is the color yellow which fades into the color red. These colors are located on the packaging and or labels.”>>, p. 2; successivamente questa : <<“The mark consists of the colors red into yellow with a black banner located near the top as applied to pack-aging for the goods. The dotted lines merely depict place-ment of the mark on the packing backer card.”>>, p. 3

In sede amministrativa era andata male a Forney, sia in prima che in seconda  istanza, p. 3.

La Corte di Appello federale ritiene che l’Appeal Board dell’United States Patent and Trademark Office (USPTO) abbia sbagliato sotto due profili nel negare la registrazione: <<we find that the Board erred in two ways: (1) by con-cluding that a color-based trade dress mark can never be inherently distinctive without differentiating between product design and product packaging marks; and (2) by concluding (presumably in the alternative) that product packaging marks that employ color cannot be inherently distinctive in the absence of an association with a well-defined peripheral shape or border>>, p. 6 (colore rosso aggiunto).

Circa (1)

La Corte ritiene che il marchio possa essere distintivo quando usato sul packaging: quello che conta, secondo la giurisprudenza della corte suprema, è verficare se il pubblico ricolleghi o meno un messaggio di indicazione d’origine, pagina 6

Nelle pagine seguenti La Corte dice che non ci sono precedenti specifici, ma ciononostante ne indica alcuni che possono essere utili

Tornando al caso specifico, ritiene che il marchio di Forney <<comprises the color red fading into yellow in a gradient, with a horizontal black bar at the end of the gradient. It is possible that such a mark can be perceived by consumers to suggest the source of the goods in that type of packaging. Accordingly, rather than blanketly holding that “[c]olors>>, p. 9.

Pertanto l’ufficio avrebbe dovueto accertare <<whether Forney’s mark satisfies this court’s cri-teria for inherent distinctiveness>>, p. 9.

Le disposizioni rilevanti sono il § 1051, § 1052 e § 1127 del 15 US Code (section 1, 2 e 43 del Lanham Act), p. 3.

Si tratta di aspetto pacifico nel diritto europeo, art. 4 reg. 2017/1001 e art. 3 dir. 2015/2436 (è più preciso il nostro art. 7 c.p.i.).

Circa (2)

Poi la corte passa al secondo profilo (necessità di localizzazione del segno sul prodotto) e ritiene che questa statuizione non sia compatibile con il precedente insegnamento.

Infatti, il cosiddetto trade dress (istituto paragonabile al nostro marchio di forma),<<“involves the total image of a product and may include fea-tures such as size, shape, color or color combinations, texture, graphics, or even particular sales techniques.”>>, p. 5. E’ registrabile <<if it serves the same source-identifying function as a trademark. Marks are entitled to protection if they are inherently distinctive, i.e., “their intrinsic nature serves to identify a particular source of a product.”>>, p. 5/6.

Ebbene, per il trade dress le questioni da valutare per concedere tutela sono le seguenti : <<(1) whether the trade dress is a “common” basic shape or design; (2) whether it is unique or unusual in the particular field; (3) whether it is a mere refinement of a commonly-adopted and well-known form of ornamentation for a par-ticular class of goods viewed by the public as a dress or or-namentation for the goods; or, inapplicable here, (4) whether it is capable of creating a commercial impression distinct from the accompanying words. Id. (collecting cases)>> (riferendosi alla sentenza Seabrook Foods del 1977).

Il giudice/l’ufficio deve valutare se il trade dress venga percepito come indicatore di origine, pagina 10 11

Pertanto , anche nella seconda questione, ciò che il Board deve valutare è semplicemente <<whether, as used on its product packaging, the combination of colors and the design those colors create are sufficiently indicative of the source of the goods contained in that packaging. And the Board must assess that question based on the overall impression created by both the colors employed and the pattern created by those colors>>Pagina 11.

Il Board ha allora sbagliato  nell’affermare <<that a multi-color product packaging mark can never be inher-ently distinctive. To the extent the Board’s decision sug-gests that a multi-color mark must be associated with a specific peripheral shape in order to be inherently distinctive, that too, was error>>  pagina 11

Di conseguenza viene annullata la sua decisione amministrativa e gli viene rimandata  affinché accerti in relazione agli usi proposti se <<Forney’s proposed mark is inherently distinctive under the Seabrook factors, considering the impression cre-ated by an overall view of the elements claimed>>, p.11

In sintesi , entrambe le questioni ( se il marchio di colore sia intrinsecamente non distintivo; se -presumibilmente, in caso di risposta negativa alla prcedente-  debba essere localizzato su una porzione specifica del packaging)  trovano risposta negativa: nel senso che l’unico criterio è quello di accertare se vengano percepiti come distintivi cioè come portatori di un indicazione d’origine dal pubblico (dai consumatori, diremmo noi) secondo i quattro fattori della sentenza Seabrook cit..

Ingannevolezza e malafede in un marchio denominativo/figurativo davanti all’EUIPO

La Commissione di Ricorso allargata dell’EUIPO il 2 marzo 2020 (procedimento R1499/2016-G, marchio n° 012043436) ha deciso su un’istanza di nullità relativa al marchio <<La Irlandesa 1943> qui riprodotto

I motivi di nullità sono due : ingannevoleezza del segno e malafede al momento del deposito. Ciò secondo l’articolo 59 Paragrafo 1 , lett .a-b, del reg. 1001 del 2017 (naturalmente per l’ingannevolazza il riferimento è poi all’art. 7 lett. g) del medesimo reg.)

L’ingannevolezza

Per la commissione tale nullità presuppone <<l’accertamento di un inganno effettivo o di un rischio sufficientemente grave di inganno del consumatore>> § 25

La commissione poi richiama la Direttiva sulle pratiche commerciali sleali e la definizione Ivi presente di ingannevolezza, paragrafo 26. Non è però spiegato il motivo del richiamo, probabilmente per recepire questa nozione nel diritto dei marchi. Sarebbe stato meglio però un passaggio argomentativo specifico.

la Commissione poi precisa che, una volta accertato un inganno effettivo o un rischio sufficientemente grave di inganno del consumatore, <<diventa irrilevante che il marchio richiesto possa essere percepito in un modo che non sia ingannevole. In effetti, in seguito, il marchio può indurre in ogni caso in errore il pubblico e non è pertanto in grado di assolvere il proprio ruolo, ossia quello di garantire la provenienza dei prodotti e dei servizi cui esso fa riferimento. (..) Come confermato dal Tribunale, l’articolo 7, paragrafo 1, lettera g), RMUE, può applicarsi anche quando è possibile un uso non ingannevole del marchio in questione>> § 27-28

Nel caso specifico si trattava di latticini di provenienza dell’Irlanda e venduti in Spagna. Il rapporto di distribuzione commerciale era proseguito per molti anni ma era poi cessato. Nonostante ciò, l’ex distributore spagnolo aveva chiesto la registrazione del marchio europeo in questione.

Il marchio è descritto ai paragrafi 29-33 (v. anche la foto riprodotta sopra) e la commissione conclude al paragrafo 33 che c’è un richiamo diretto tra il marchio e l’origine geografica (difficilmente contestabile).

 La Corte conclude che il marchio è ingannevole e che lo era già al momento del deposito, paragrafo 34.

La prova sta nel fatto che le merci non provengono dall’Irlanda, come si desume dal fatto che nel catalogo complessivo dell’imprenditore spagnolo non c’è alcun prodotto di origine irlandese, paragrafo 36/39

La commissione aggiunge che il titolare del marchio contestato poteva utilizzare i prodotti in modo ingannevole (probabilmente si riferisce la dichiarazione integrative), ma che però non ha compiuto alcuno sforzo in tal senso (paragrafo 42).

A nulla del resto vale invocare precedenti dell’ufficio, paragrafo 46. Da un lato infatti bisogna che siano pertinenti e, dall’altro, <<l’applicazione dei principi della parità di trattamento e di buona amministrazione deve, però, essere conciliata con il rispetto del principio di legalità. Pertanto, la persona che chiede la registrazione di un segno come marchio non può invocare a suo vantaggio un’eventuale disparità commessa a suo favore o a beneficio altrui al fine di ottenere una decisione identica>>, § 46. In breve, eventuali errori passati non possono essere invocati per ottenerne la ripetizione.

Il marchio è quindi ingannevole e va dichiarato Nullo, paragrafo 48

Per curiosità si possono vedere le difese del titolare ai paragrafo 5 e 9.

La malafede

L’art. 59 § 1 recita così: <<Su domanda presentata all’Ufficio o su domanda riconvenzionale in un’azione per contraffazione, il marchio UE è dichiarato nullo allorché: a) …….; b) al momento del deposito della domanda di marchio il richiedente ha agito in malafede>>

La commissione ricorda che la legge non definisce il concetto e dunque va ricostruito dal decidente. Malafede va allora ravvisata <<laddove emerga da indizi pertinenti e concordanti che il titolare di un marchio dell’Unione europea ha presentato la domanda di registrazione di tale marchio, non con l’obiettivo di partecipare in maniera leale al gioco della concorrenza, ma con l’intenzione di pregiudicare, in modo non conforme alle consuetudini di lealtà, gli interessi di terzi, o con l’intenzione di ottenere, senza neppur mirare ad un terzo in particolare, un diritto esclusivo per scopi diversi da quelli rientranti nelle funzioni di un marchio, in particolare la funzione essenziale di indicare l’origine»>>Paragrafo 51

Si noti che, sebbene la malafede consista nel precedere il titolare del diritto alla registrazione e quindi costituisca illecito nei confronti di un soggetto determinato,  si tratta però di nullità assoluta, paragrafo 50 (v. anche in fine).

Inoltre <<l’intenzione del richiedente al momento pertinente è un elemento soggettivo che deve essere determinato con riferimento alle circostanze oggettive del caso di specie>>Paragrafo 51 e 55

Il giudizio richiesto sulla malafede prevede che si debbano valutare <<tutti i fattori pertinenti propri del caso di specie esistenti al momento del deposito della domanda di registrazione di un RMUE, in particolare: i) il fatto che il richiedente sapeva o avrebbe dovuto sapere che un terzo utilizzava, in almeno uno Stato membro, un segno identico o simile per un prodotto o servizio identico o simile e confondibile con il segno di cui è stata chiesta la registrazione; ii) l’intenzione del richiedente di impedire a detto terzo di continuare a utilizzare un siffatto segno e iii) il grado di tutela giuridica di cui godevano il segno del terzo ed il segno di cui veniva chiesta la registrazione>>, § 52 .

Inoltre si può anche tenere conto <<dell’origine del segno contestato e del suo utilizzo a partire dalla sua creazione, della logica commerciale nella quale si inserisce il deposito della domanda di registrazione del segno come marchio dell’UE nonché della cronologia degli avvenimenti che hanno caratterizzato la sopravvenienza di detto deposito>>, paragrafo 54

L’intenzione del richiedente può dedursi anche dalla situazione oggettiva di conflitto di interessi in cui la richiedente il marchio si è trovata adoperare paragrafo 56. Nel caso specifico può infatti essere dedotta dal concreto operato del titolare del marchio prima del deposito dalle relazioni contrattuali precontrattuali o postcontrattuali in vigore con la controparte oppure da altri doveri di lealtà scaturenti dall’aver ricoperto cariche particolari all’interno dei rapporti commerciali , paragrafo 56

In sintesi la malafede <<è connessa … ad una motivazione soggettiva della persona che presenta una domanda di registrazione di marchio, vale a dire a un’intenzione fraudolenta o ad altro motivo ingannevole. Essa implica un comportamento che si discosta dai principi riconosciuti come caratterizzanti un comportamento etico o dalle leali consuetudini in materia industriale o commerciale>>Paragrafo 57

Il richiedente sapeva bene che il Marchio era ingannevole, avendo subito già decisioni sfavorevoli all’inizio degli anni 2000 per marchi sostanzialmente uguali a quello sub judice, paragrafo 63. Inoltre gioca anche il fatto che c’è stato un rapporto di distribuzione commerciale per oltre 30 anni, paragrafo 65.

Pertanto <<in considerazione della summenzionata cronologia degli eventi, è chiaro che il primo marchio (spagnolo) «LA IRLANDESA» della titolare del MUE ha avuto origine dal rapporto contrattuale tra le parti. Non si tratta di un marchio che nasce indipendentemente da questa relazione commerciale, ma è direttamente associato all’origine irlandese dei prodotti che la titolare del MUE era stata autorizzata a vendere in Spagna dalla seconda richiedente la nullità. Si può pertanto concludere, come sostenuto dalle richiedenti la nullità, che il marchio contestato è stato inizialmente creato e depositato dalla titolare del MUE nell’ambito della relazione commerciale tra le parti e che il suo scopo iniziale era pertanto quello di distinguere gli alimenti venduti dalla titolare del MUE aventi origine irlandese>>, paragrafo 67

Le prove hanno evidenziato che non c’è più legame con l’origine irlandese § 68: per cui era irragionevole commercialmente depositare il marchio sub-judice paragrafo 69

Visto poi che la richiedente non ha giustificato sotto il profilo economico commerciale quel tipo di marchio, emerge dagli atti <<che la titolare del MUE abbia intenzionalmente chiesto la registrazione del marchio contestato per generare un’associazione con l’Irlanda e continuare a beneficiare dall’attività svolta durante la loro relazione commerciale, con l’intenzione e allo scopo di ottenere un indebito vantaggio dall’immagine di cui godono i prodotti irlandesi>>Paragrafo 70.

E dunque, ricordando che l’intenzione di Malafede va desunto anche da Fattori oggettivi, nella fattispecie i fattori oggettivi <<derivano dall’utilizzo, in modo ingannevole, del marchio contestato e dalle decisioni pronunciate in precedenza dalla corte spagnola e dall’EUIPO, nonché dalla pregressa relazione commerciale, ora conclusa, con la seconda richiedente la nullità. In considerazione di queste circostanze particolari, è possibile concludere che la titolare del MUE, nel depositare il MUE contestato, intendeva continuare a ingannare il pubblico circa l’origine geografica dei prodotti e trarre vantaggio dalla buona immagine dei prodotti irlandesi, così come faceva quando la relazione con la seconda richiedente la nullità era ancora in corso>> § 72.

Una siffatta condotta falsa misura rilevante il comportamento economico dei consumatori paragrafo 73.

In conclusione dunque <<è possibile accertare l’intenzione fraudolenta della titolare del MUE al momento del deposito del marchio contestato, ossia che esso è stato depositato deliberatamente allo scopo di generare un’associazione con l’Irlanda e, quindi, è stato depositato in malafede >> § 74

Il punto più interessante di questa decisione riguarda il rapporto tra malafede ingannevolezza. Il motivo della malafede, pur essendo sostanzialmente direzionato verso un concorrente determinato, è causa come detto di nullità assoluta e quindi dovrebbe trovare la sua ragione nella tutela dell’interesse generale (soprattutto dei consumatori).

Tuttavia di per sé la malafede (l’intenzione prava) non può essere semplicemente il voler frodare il pubblico, dal momento che questa fattispecie è meglio è governata da dal motivo di nullità della ingannevolezza. L’intenzione prava/malafede sembra proprio quella direzionata verso uno o più soggetti determinati, poer cui dovrebbeessere sanzionata da nullità relativa: ma il dato testuale è inequivoco.

La commissione accenna implicitametne a questo aspetto nel passaggio appena riportato: <<l’intenzione di pregiudicare (…) gli interessi di terzi, o con l’intenzione di ottenere, senza neppur mirare ad un terzo in particolare, un diritto esclusivo>> (§ 51). Se ne desume che la mala fede copre ogni caso di intenzione “fraudolenta”, sia che pregiudichi in via diretta un concorrente determinato (anzi, forse non necessariamente un concorrente: a ben vedere è un’appropriazione di pregi), sia che non ne pregiuridichi alcuno in via diretta.  Certo che nel secondo caso pare avere la medesima area concettuale dell’ingannevolezza.