42 Stati adottano tramite l’OECD una Raccomandazione sull’Intelligenza Artificiale

Il 22 maggio 2019 quarantadue paesi (tra cui l’Italia) tramite l’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development)  hanno adottato una Raccomandazione sulla policy inerente l’Intelligenza Artificiale.

Ne dà notizia il sito dell’OECD ove si legge: <<OECD and partner countries formally adopted the first set of intergovernmental policy guidelines on Artificial Intelligence (AI) today, agreeing to uphold international standards that aim to ensure AI systems are designed to be robust, safe, fair and trustworthy>>.

Qui il testo.

V.  ora il sintetico ma chiaro saggio di Borsari sui profili penalistici dell’AI nel caso -in realtà, l’unico oggi interessante- funzioni con la caratteristica di machine learning: Borsari, Intelligenza artificiale e responsabilità penale: prime considerazioni, Riv. dir. dei media, 2019/3, §§ 4-5.

Sulla postergazione del rimborso dei finanziamenti erogati dal socio di SRL alla soceità: precisazioni utili dalla Cassazione

La S.C. (sez. I civ., 15.05.2019, n. 12994, rel. Nazzicone) interviene sulla postergazione del rimborso dei finanziamenti concessi dal socio di SRL alla società (art. 2467 c.c.).

E’ chiamata a rispondere a due quesiti:

1)  se la postergazione operi automaticamente e quindi sempre oppure solo in occasione di procedura concorsuale;

2) se nel corso del giudizio di recupero del credito, promosso dal socio, l’eccezione di postergazione costituisca eccezione in senso stretto  oppure lato.

Circa il quesito sub 1), la SC risponde in senso affermativo : la postergazione opera automaticamente (concezione “sostanziale”). La ratio legis dell’art. 2467 cc <<consiste (..) nell’intento di contrastare la non infrequente sottocapitalizzazione delle società, quale tecnica di traslazione sui creditori e sui terzi del rischio da continuazione dell’attività in regime di crisi, con eventuale profitto dei soci ed aggravamento del dissesto a scapito dei creditori: fenomeno determinato dalla convenienza dei soci a ridurre l’esposizione al rischio d’impresa, apportando nuove risorse a disposizione dell’ente collettivo nella forma del finanziamento, anzichè in quella appropriata del conferimento (cfr. Cass. 20 maggio 2016, n. 10509; Cass. 7 luglio 2015, n. 14056)>> (§ 3.3).

Ne segue che il credito del socio, <<in presenza di un finanziamento concesso nelle condizioni di eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto o laddove sarebbe stato ragionevole un conferimento, subisce una postergazione legale, la quale non opera una riqualificazione del prestito da finanziamento a conferimento con esclusione del diritto al rimborso, ma incide sull’ordine di soddisfazione dei crediti. Il legislatore, tra le tecniche disponibili al riguardo, ha escluso invero la riqualificazione del prestito ed optato per la postergazione: non muta ex lege la causa della dazione, che resta quella del mutuo (art. 1813 c.c.) e non diventa causa di conferimento (art. 2343 c.c.). I finanziamenti de quo, pertanto, costituiscono prestiti e non apporti di capitale, alla cui disciplina – rimborsabilità solo all’esito della liquidazione e, quindi, dopo la restituzione anche dei prestiti anomali – non sono soggetti>> (§ 3.4).

Dato tale contesto, <<l’effetto della postergazione è automatico, non dipendendo da una conoscenza effettiva dello stato della società o dall’intenzione delle parti, ed impone al giudice, richiesto del rimborso, di accertare, sulla base delle risultanze processuali in atti, se la situazione sociale ricada in una delle fattispecie ex art. 2467 c.c., comma 2.  Ne deriva che l’integrazione delle fattispecie indicate nel comma 2 dell’art. 2467 c.c., produce effetti negoziali sul diritto del socio alla restituzione della somma finanziata: il credito restitutorio, sebbene eventualmente sia anche scaduto il termine previsto per l’adempimento ex art. 1813 c.c., non è esigibile. La postergazione prevista dalla norma finisce, così, per operare come una condizione legale integrativa del regolamento negoziale circa il rimborso, la quale statuisce l’inesigibilità del credito in presenza di una delle situazioni previste dall’art. 2467 c.c., comma 2, con un impedimento (solo temporaneo) alla restituzione della somma mutuata.>> (§ 3.4).

Ne segue ancora <<l’ulteriore conseguenza che la società e, per essa, l’organo amministrativo può, ed anzi deve rifiutare il rimborso del prestito, sino a quando non siano venute meno le predette condizioni: evento, quest’ultimo, che rende nuovamente la società immediatamente tenuta al pagamento al socio di quanto dovutogli in restituzione. Quando, invero, sia stato superato lo squilibrio patrimoniale e, quindi, la situazione di rischio per i creditori sociali che ne discende e che la norma pone a fondamento della regola di postergazione – il credito del socio ritorna ordinariamente esigibile, sebbene non fossero stati a quel momento adempiuti tutti gli altri debiti sociali: potendosi allora ritenere realizzata una situazione di soddisfazione, sia pure “astratta”, dei creditori esterni e dunque esistente uno status di regolare esigibilità. Se, pertanto, la situazione di squilibrio sia venuta meno al momento in cui alla società sia richiesto il rimborso da parte del socio (ovvero al momento in cui il giudice del merito sia chiamato a decidere, come si dirà), essa è tenuta a provvedervi, non attenendo la postergazione all’esistenza in sè del credito, ma alle condizioni per l’esazione, onde il venir meno di detta situazione, dapprima esistente e quindi atta a rendere il credito non esigibile, comporta il superamento dello stato di inesigibilità>> (§ 3.5).

La risposta dovrebbe ragionevolmente essere uguale per la fase di liquidazione: non è necessario attenderla perchè l’art. 2467 diventi  applicabile.

Utile infine la precisazione processuale: <<Occorre aggiungere come, nel giudizio avente ad oggetto la condanna della società renitente alla restituzione del prestito in favore del socio, il giudice dovrà accertare se sussista, in concreto, una delle situazioni ex art. 2467 c.c., comma 2: non solo al momento del prestito (dies storico statico), ma anche al momento della richiesta di rimborso e sino alla pronuncia, trattandosi di una condizione di inesigibilità del credito.>> In altre parole l’esigibilità, come condizione dell’azione, <<può maturare in corso di causa e fino al momento della sentenza, chiamata ad accertare se si sia ripristinata, sia pure solo in pendenza del giudizio, la condizione di piena esigibilità del credito azionato in giudizio per l’inattualità della situazione di crisi>> (§ 3.7) (ciò entro i c.d. limiti cronologici del giudicato).

Circa il quesito sub 2), la Corte risponde che si tratta di eccezione in senso lato, rilevabile pure dal giudice.

Ricorda infatti che <<secondo principio consolidato, costituiscono eccezioni in senso stretto, rilevabili ad istanza di parte, quelle che possono essere sollevate soltanto dalle parti per espressa disposizione di legge, ovvero quelle il cui fatto integratore corrisponda all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio dal titolare e, quindi, presupponga una manifestazione di volontà di quest’ultimo>> (§ 4).

E dunque <<l’eccessivo squilibrio nell’indebitamento o la situazione finanziaria in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento, quali situazioni previste dal comma 2, della norma in esame – da verificare sia al momento del prestito, sia della richiesta di rimborso e, quindi, in caso di controversia, della decisione giudiziale costituiscono fatto impeditivo del diritto al rimborso oggetto di eccezione in senso lato, non risultando, con riguardo ad esse, nessuna delle fattispecie, che possano fondarne la qualificazione come eccezione in senso proprio. La qualificazione di “credito postergato” discende dalla sussistenza di oggettive circostanze previste dalla legge e non dall’esercizio di un diritto potestativo della società finanziata, con la conseguenza che si deve escludere la sussistenza di un’eccezione in senso proprio.>> (§ 4, p. 12).

Infine si noti il passaggio sull’onere della prova: tocca alla società, richiesta del rimborso, eccepire (fatto impeditivo) l’esistenza delle condizioni giustificanti la postergazione.

Infedeltà patrimoniale e vantaggi compensativi di gruppo (art. 2634 c.c.) : spetta all’amministrare provarli, alla società basta provare la distrazione/lesione

Secondo l’art. 2634 (rubricato Infedelta’ patrimoniale) c. 3, c.c., <<non e’ ingiusto il profitto della societa’ collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo>>

La Corte di Cassazione (sez. I penale, n. 20494-2019, 12.06.2018, dep. 13.05.2019, rel. Vannucci) sul tema ha  precisato che, per invocare questa norma, l’amministratore deve (allegare) e provare gli ipotizzati benefici indiretti derivanti dall’appartenenza al gruppo. Aggiungerei che deve trattarsi di benefici specifici, cioè aventi una loro individualità e calcolabilità economica.

E’ vero secondo la S.C. che la razionalità delle operazioni economiche va accertata non in modo atomistico, ma tenendo conto della realtà del gruppo in cui la singola società è inserita. Va senz’altro ammessa <<la possibilità di tener conto di valutazioni afferenti alla conduzione del gruppo nel suo insieme, purché non vengano in tal modo pregiudicati ingiustificatamente gli interessi delle singole società. E, nel valutare se un siffatto pregiudizio in concreto sussista, è doveroso tener conto che la conduzione di un’impresa di regola non si estrinseca nel compimento di singole operazioni, ciascuna distaccata dalla precedente, bensì nella realizzazione di strategie economiche destinate spesso a prender forma e ad assumere significato nel tempo attraverso una molteplicità di atti e di comportamenti. Sicché è perfettamente logico che anche la valutazione di quel che potenzialmente giova, o invece pregiudica, l’interesse della società non possa
prescindere da una visione generale: visione in cui si abbia riguardo non soltanto
all’effetto patrimoniale immediatamente negativo di un determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente derivati in conseguenza della partecipazione della singola società ai vantaggi che
quell’atto abbia arrecato al gruppo di appartenenza.>> (p. 6).

La Corte aggiunge però che il vantaggio non può essere posto in termini ipotetici. Dopo che la società ha dimostrato il danno cagionatole da una certa condotta distrattiva o lesiva dell’amministratore (anche questa allegazione -aggiungo- deve essere specifica), la prova di suoi paralleli effetti positivi tocca all’amministratore: in particolare, non può essere ritenuta presente per la mera appartenenza al gruppo. Questo è il passaggio più significativo della sentenza.

Precisamente si legge così: <<In un simile contesto, tuttavia, l’eventualità che un atto lesivo del patrimonio  della società trovi compensazione nei vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo non può essere posta in termini meramente ipotetici. Se si accerta che l’atto non risponde all’interesse diretto della società il cui amministratore lo ha compiuto e che ne è scaturito nell’immediato un danno al  patrimonio sociale, potrà ben ammettersi che il medesimo amministratore deduca e dimostri l’esistenza di una realtà di gruppo alla luce della quale anche quell’atto è destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi; ma occorre che una tal prova egli la dia. Non può, viceversa, sostenersi (…) che la mera appartenenza della società ad un gruppo renda plausibile l’esistenza dei suddetti “benefici compensativi” e che, pertanto, competa alla società, la quale abbia agito contro il proprio amministratore, l’onere di dimostrarne l’inesistenza. Viceversa, la società attrice esaurisce il proprio onere probatorio dimostrando l’esistenza di comportamenti dell’amministratore, che ledono il patrimonio dell’ente e perciò appaiono contrari al suo obbligo di perseguire lo specifico interesse sociale. È il medesimo amministratore, se del caso, che deve farsi carico di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta>> (p. 6-7).

La Corte riassume così: <<In definitiva, anche in riferimento alla disciplina del  diritto delle società di capitali anteriore alla riforma alla stessa recata dal d.lgs. n. 6 del 2003, l’esistenza di rapporti di controllo ovvero di collegamento fra società non comporta in astratto un vantaggio, derivante dall’appartenenza al gruppo,  che compensi il pregiudizio arrecato al patrimonio sociale della società controllata o collegata,da atto dannoso posto in essere dal relativo amministratore ovvero che collochi l’atto a contenuto negoziale da questi posto in essere nei limiti dell’oggetto sociale proprio di tale società: l’esistenza in concreto di tale vantaggio, di natura compensativa del pregiudizio sofferto dalla società controllata ovvero collegata, deve essere allegata e provata da parte dell’amministratore che il fatto specifico deduca>>.

Il tenore della norma (“conseguiti o fondatamente prevedibili”) conforta tale conclusione.

La quale è confermata pure dalla norma civilistica corrispondente (art. 2497 c.1 ult. periodo, cc): <<Non vi e’ responsabilita’ quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attivita’ di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a cio’ dirette>>. Una volta provato il danno alla società, per affermare la mancanza di esso (sin da subito o dopo specifiche operazioni) bisogna analogamente individuare e provare specifici vantaggi: come avviene con l’istituto della compensazione civilistica. Si tratta infatti di un caso di compensatio lucri cum damno.

Individuazione che, secondo la regola generale dell’art. 2697 cc, costituisce fatto estintivo della pretesa risarcitoria avanzata dalla società: quindi gravante sull’amministratore.

La norma penale (il c. 3 cit. ) però non è ben formulata . Da un lato pare riferire il profitto alla società collegata o al gruppo, invece che  all’amminstratore (o a terzi generici) ,  come avviene nel c. 1. Dall’altro lato, compensa questo fine di profitto per altra società (o gruppo) col danno della società da lui amministrata. Invece, stante l’autonomia delle società appartenenti al gruppo (ribadita dalla SC in esame), la compensazione, per escludere l’infedeltà patrimoniale, dovrebbe avvenire tra poste passive e attive riferite esclusivamente alla società da lui amministrata (come avviene nella formulazione della norma civilistica)