Responsbilità del solo direttore della testata on line e minimizzazione dei dati (rectius: del trattamento) in un caso di illecita pubblicazione dell’indirizzo di residenza

Cass. sez. III del 25/07/2023 n. 22.338, rel. Dell’Utri:

<<21. Osserva il Collegio come, conformemente a quanto rilevato in corrispondenza della decisione relativa ai primi due motivi del ricorso principale, secondo il più recente insegnamento della giurisprudenza di questa Corte (che il Collegio condivide integralmente e fa proprio, al fine di assicurarne continuità), la responsabilità dei danni determinati dall’illecita divulgazione dei dati personali, ai sensi del d. lgs. n. 196 del 2003, art. 15, comma 1 (applicabile ratione temporis), dev’essere ascritta a carico di chiunque, con la propria condotta, li abbia provocati, indipendentemente dalla qualifica rivestita (cfr. Sez. 1, Ordinanza n. 11020 del 26/04/2021, Rv. 661185 – 01).

22. In breve, l’attribuzione della responsabilità per l’illecita divulgazione dei dati personali chiede d’essere declinata secondo il criterio della contribuzione causale (conformemente alla ratio che ispira la disciplina dell’art. 2050 c.c., richiamato dal d. lgs. n. 196 del 2003, art. 15, comma 1, applicabile ratione temporis, secondo cui “Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’art. 2050 del codice civile”), nel senso che ciascun soggetto che, con la propria condotta (in qualunque modo interferente con il trattamento di dati personali), abbia contribuito causalmente alla divulgazione illecita di tali dati, deve ritenersi responsabile (o corresponsabile) di detta divulgazione; e tanto, indipendentemente dalla qualifica formale eventualmente rivestita in relazione alla titolarità, alla responsabilità del trattamento, alla relativa conservazione o al relativo controllo concreto.

23. Nel caso di specie, rispetto al fatto dannoso dedotto in giudizio dal G. (consistito nell’illecita divulgazione online, nel dicembre del 2007, anche dei dati relativi alla relativa residenza personale, non giustificata dalla pubblicazione delle fonti informative contenenti tali dati), l’accertamento dell’eventuale contributo causale fornito da tutte le parti convenute in giudizio non avrebbe dovuto essere trascurata dai giudici del merito, non potendo certamente escludersi, in via di principio, che ciascuno di essi potesse avere, in qualche misura, concorso o contribuito, sul piano causale, a tale illecita divulgazione.

24. Ciò posto, l’avvenuta limitazione della condanna pronunciata dalla corte territoriale a carico del solo (ritenuto) responsabile della testata online per l’illecito trattamento dedotto in giudizio deve ritenersi in tal senso ingiustificata: da un lato, per essersi il giudice d’appello sottratto all’obbligo di pronunciare sulla domanda proposta nei confronti degli altri convenuti e, dall’altro, per avere il giudice d’appello escluso (sia pure implicitamente) la responsabilità di questi ultimi nell’operazione di divulgazione dei dati personali, limitandosi immotivatamente a pronunciare la condanna del solo Z.V. in ragione della mera qualifica formale rivestita.

25. Nel rimettere al giudice del rinvio il compito di procedere all’indagine concreta sull’eventuale responsabilità risarcitoria di ciascuno dei convenuti nei confronti del G., varrà peraltro ribadire come la statuizione di rigetto pronunciata dalla corte territoriale in relazione alla domanda risarcitoria proposta dal G. nei confronti di M.E. non sia stata specificamente contestata dall’odierno ricorrente principale, essendosi quest’ultimo limitato in questa sede a censurare in modo espresso la limitazione della pronuncia di condanna nei confronti del solo Z.V. per non averla estesa nei confronti della GEDI Gruppo Editoriale s.p.a.; ciò che impone di ritenere come sul rigetto della domanda risarcitoria avanzata dal G. nei confronti di M.E. si sia definitivamente formato il corrispondente giudicato interno, con definitiva preclusione di ogni ulteriore questione sul punto specifico.

26. Con il secondo motivo, i ricorrenti incidentali censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 137 e 139, nonché del c.d. codice deontologico dei giornalisti, per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto illecito il trattamento dei dati personali relativi al G., essendosi i giornalisti del sito Internet de ‘(Omissis)’ nella specie limitati alla mera trascrizione integrale dell’informativa di reato elaborata dalla polizia giudiziaria su delega della magistratura inquirente, senza alcun intervento correttivo, nella sua integralità, senza ritocchi, rimaneggiamenti o censure, con la conseguente insussistenza di alcuna lesività di detta pubblicazione, trattandosi di informazioni annotate dagli stessi inquirenti (poiché ritenuti di evidente rilevanza ai fini dell’indagine) e, conseguentemente, dell’informazione di interesse pubblico relativa ai fatti narrati.

27. Il motivo è infondato.

28. Osserva il Collegio come i principi di diritto che governano il giudizio di liceità del trattamento dei dati personali impongano che tale trattamento avvenga sul presupposto della responsabilizzazione dell’autore del trattamento (sia esso titolare o responsabile) in relazione alle modalità di esecuzione di tale trattamento.

29. Fra tali principi, assume carattere decisivo in questa sede quello stabilito dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11, comma 1, lett. d) (applicabile ratione temporis al caso di specie), ai sensi del quale “i dati personali oggetto di trattamento sono: pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati”.

30. In breve, il trattamento dei dati personali in tanto può ritenersi lecito, in quanto le informazioni divulgate siano limitate ai soli dati strettamente indispensabili rispetto alle finalità informative perseguite: si tratta del medesimo principio successivamente formulato nell’art. 5, comma 1, lett. c), del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016 (richiamato dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 1, così come riformulato dal D.Lgs. n. 101 del 2018), secondo cui “i dati personali sono: (…) adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati (“minimizzazione dei dati”)”; principio pacificamente fatto proprio dalla giurisprudenza di questa Corte, là dove ha sottolineato come, in tema di tutela della riservatezza, il trattamento dei dati personali deve essere sempre effettuato nel rispetto del ‘criterio di minimizzazioné dell’uso degli stessi, dovendo cioè essere utilizzati solo se indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui sono raccolti e trattati (cfr. Sez. 1, Ordinanza n. 11020 del 26/04/2021, Rv. 661185 – 02).

31. Nel caso di specie, del tutto correttamente la corte territoriale ha rilevato come costituisse uno specifico dovere dell’autore dell’articolo intervenire sull’informativa di polizia giudiziaria ricevuta (e destinata alla pubblicazione) al fine di depurarla dei dati personali (nella specie dell’indirizzo della residenza del G.) che in nessun modo avrebbero sottratto o aggiunto alcunché di significativo al contenuto informativo dell’articolo.

32. Proprio la circostanza di aver trascurato tale dovere e di non aver provveduto alla divulgazione “responsabile” di quell’informativa di polizia giudiziaria (nella parte in cui riportava il dato della residenza personale del G.) ha determinato la manifesta eccedenza del trattamento, rispetto alle finalità della pubblicazione e, conseguentemente, la relativa illiceità>>.

sentenza esatta, anche tutto sommato relativa a questioni di facile soluzione

Definire “big lie” l’approccio di Trump, e paragonarlo ad un nazista, non è diffamazione ma espressione di opinione

Così il giudice Singhal che in Sout. Dist-. court of Florida CASE NO. 22-61842-CIV-SINGHAL Trump v. CNN, 28 luglio 2023 rigetta la domanda risarcitoria del primo  contro la seconda per danni puniutivi di $ 475 milioni. (notizia dal Guardian)

<<The problem is essentially two-fold.  First, the complained of statements are opinion, not factually false statements, and therefore are not actionable.  Second, the reasonable viewer, unlike when Sullivan, Butts or Gertz were decided, no longer takes the time to research and verify reporting that often is not, in fact, news. As an example, only one month ago, the United States Supreme Court issued a well written 237-page joint opinion with vastly divergent views in two cases known widely as the Affirmative Action decisions.5 Within minutes of the release of the opinion, the free press had reported just what the opinion supposedly said and meant although it was clearly impossible that the reporter had read the opinion. And of course, those initial news articles were repeatedly shared, commented upon and disseminated over social media and still to this day the reasonable viewer very likely hasn’t read the opinion and never will. This is the news model of today. It is far different than that in Sullivan which altered law that existed for 175 years and has spawned a cottage industry over the last 60. But this too is not actionable.
Trump argues that CNN’s motivation for describing his election challenges as “the Big Lie” was to undermine Trump’s political standing. But political motivation does not establish falsity. The “intention to portray [a] public figure in [a] negative light, even when motivated by ill will or evil intent, is not sufficient to show actual malice unless the publisher intended to inflict harm through knowing or reckless falsehood.” Donald J. Trump for President, Inc. v. CNN Broad., Inc., 500 F. Supp. 3d 1349, 1357 n.4 (N.D. Ga. 2020) (quoting Don King Productions, Inc. v. Walt Disney Co., 40 So. 3d 40, 50 (Fla. 4th DCA 2010). See also Dershowitz v. Cable News Network, 541 F. Supp. 3d 1354, 1370 (S.D. Fla. 2021) (political motivation irrelevant to defamation claim); cf. Harte-Hanks Communications, Inc. v. Connaughton, 491 U.S. 657, 666-67 (1989) (profit motive behind publication does not establish actual malice).
Acknowledging that CNN acted with political enmity does not save this case; the Complaint alleges no false statements of fact. Trump complains that CNN described his election challenges as “the Big Lie.” Trump argues that “the Big Lie” is a phrase attributed to Joseph Goebbels and that CNN’s use of the phrase wrongly links Trump with the Hitler regime in the public eye. This is a stacking of inferences that cannot support a finding of falsehood. See Church of Scientology of California v. Cazares, 638 F.2d 1272, 1288 (5th Cir. 1981) abrogated on other grounds, Blanchard v. Bergeron, 489 U.S. 87 (1989)>>

E poi:

<<Trump alleges that “the Big Lie” refers to a Nazi “propaganda campaign to justify Jewish persecution and genocide.” (DE [1] ¶ 23). Like Trump and CNN personalities Ashleigh Banfield and Paul Steinhauser (see (DE [1] ¶ 24), the Court finds Nazi references in the political discourse (made by whichever “side”) to be odious and repugnant. But bad rhetoric is not defamation when it does not include false statements of fact. CNN’s use of the phrase “the Big Lie” in connection with Trump’s election challenges does not give rise to a plausible inference that Trump advocates the persecution and genocide of Jews or any other group of people. No reasonable viewer could (or should) plausibly make that reference>>

Discriminazione algoritmica da parte del marketplace di Facebook e safe harbour ex § 230 CDA

Il prof. Eric Goldman segnala l’appello del 9 circuito 20.06.2023, No. 21-16499, Vargas ed altri c. Facebook , in un caso di allegata discriminazione nel proporre offerte commerciali sul suo marketplace –

La domanda: <<The operative complaint alleges that Facebook’s “targeting methods provide tools to exclude women of color, single parents, persons with disabilities and other protected attributes,” so that Plaintiffs were “prevented from having the same opportunity to view ads for housing” that Facebook users who are not in a protected class received>>.

Ebbene, il safe harbour non si applica perchè Facebook non è estraneo ma coautore della condotta illecita, in quanto cretore dell’algoritmo utilizzato nella pratica discriminatoria:

<<2. The district court also erred by holding that Facebook is immune from liability pursuant to 47 U.S.C. § 230(c)(1). “Immunity from liability exists for ‘(1) a provider or user of an interactive computer service (2) whom a plaintiff seeks to treat, under a [federal or] state law cause of action, as a publisher or speaker (3) of information provided by another information content provider.’” Dyroff v. Ultimate Software Grp., 934 F.3d 1093, 1097 (9th Cir. 2019) (quoting Barnes v. Yahoo!, Inc., 570 F.3d 1096, 1100 (9th Cir. 2009)). We agree with Plaintiffs that, taking the allegations in the complaint as true, Plaintiffs’ claims challenge Facebook’s conduct as a co-developer of content and not merely as a publisher of information provided by another information content provider.
Facebook created an Ad Platform that advertisers could use to target advertisements to categories of users. Facebook selected the categories, such as sex, number of children, and location. Facebook then determined which categories applied to each user. For example, Facebook knew that Plaintiff Vargas fell within the categories of single parent, disabled, female, and of Hispanic descent. For some attributes, such as age and gender, Facebook requires users to supply the information. For other attributes, Facebook applies its own algorithms to its vast store of data to determine which categories apply to a particular user.
The Ad Platform allowed advertisers to target specific audiences, both by including categories of persons and by excluding categories of persons, through the use of drop-down menus and toggle buttons. For example, an advertiser could choose to exclude women or persons with children, and an advertiser could draw a boundary around a geographic location and exclude persons falling within that location. Facebook permitted all paid advertisers, including housing advertisers, to use those tools. Housing advertisers allegedly used the tools to exclude protected categories of persons from seeing some advertisements.
As the website’s actions did in Fair Housing Council of San Fernando Valley v. Roommates.com, LLC, 521 F.3d 1157 (9th Cir. 2008) (en banc), Facebook’s own actions “contribute[d] materially to the alleged illegality of the conduct.” Id. at 1168. Facebook created the categories, used its own methodologies to assign users to the categories, and provided simple drop-down menus and toggle buttons to allow housing advertisers to exclude protected categories of persons. Facebook points to three primary aspects of this case that arguably differ from the facts in Roommates.com, but none affects our conclusion that Plaintiffs’ claims challenge Facebook’s own actions>>.

Ed ecco le tre eccezioni di Facebook e relative motivazioni di rigetto del giudice:

<<First, in Roommates.com, the website required users who created profiles to self-identify in several protected categories, such as sex and sexual orientation. Id. at 1161. The facts here are identical with respect to two protected categories because Facebook requires users to specify their gender and age. With respect to other categories, it is true that Facebook does not require users to select directly from a list of options, such as whether they have children. But Facebook uses its own algorithms to categorize the user. Whether by the user’s direct selection or by sophisticated inference, Facebook determines the user’s membership in a wide range of categories, and Facebook permits housing advertisers to exclude persons in those categories. We see little meaningful difference between this case and Roommates.com in this regard. Facebook was “much more than a passive transmitter of information provided by others; it [was] the developer, at least in part, of that information.” Id. at 1166. Indeed, Facebook is more of a developer than the website in Roommates.com in one respect because, even if a user did not intend to reveal a particular characteristic, Facebook’s algorithms nevertheless ascertained that information from the user’s online activities and allowed advertisers to target ads depending on the characteristic.
Second, Facebook emphasizes that its tools do not require an advertiser to discriminate with respect to a protected ground. An advertiser may opt to exclude only unprotected categories of persons or may opt not to exclude any categories of persons. This distinction is, at most, a weak one. The website in Roommates.com likewise did not require advertisers to discriminate, because users could select the option that corresponded to all persons of a particular category, such as “straight or gay.” See, e.g., id. at 1165 (“Subscribers who are seeking housing must make a selection from a drop-down menu, again provided by Roommate[s.com], to indicate whether they are willing to live with ‘Straight or gay’ males, only with ‘Straight’ males, only with ‘Gay’ males or with ‘No males.’”). The manner of discrimination offered by Facebook may be less direct in some respects, but as in Roommates.com, Facebook identified persons in protected categories and offered tools that directly and easily allowed advertisers to exclude all persons of a protected category (or several protected categories).
Finally, Facebook urges us to conclude that the tools at issue here are “neutral” because they are offered to all advertisers, not just housing advertisers, and the use of the tools in some contexts is legal. We agree that the broad availability of the tools distinguishes this case to some extent from the website in Roommates.com, which pertained solely to housing. But we are unpersuaded that the distinction leads to a different ultimate result here. According to the complaint, Facebook promotes the effectiveness of its advertising tools specifically to housing advertisers. “For example, Facebook promotes its Ad Platform with ‘success stories,’ including stories from a housing developer, a real estate agency, a mortgage lender, a real estate-focused marketing agency, and a search tool for rental housing.” A patently discriminatory tool offered specifically and knowingly to housing advertisers does not become “neutral” within the meaning of this doctrine simply because the tool is also offered to others>>.

Email e post Whatsapp costituiscono corrispondenza ex art. 68.3 Cost.? No dice il giudice delle leggi.

Corte Cost. n. 170/2023 dep. 27 luglio 2023, caso Renzi in un giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.

Prima esclude che l’acquisizione di email e msg Whatsapp siano intercettazione in qualsiasi forma:

<<4.1.– Per quanto attiene ai primi, le parti concordano sul fatto che l’acquisizione di messaggi di posta elettronica e WhatsApp operata nel caso di specie non sia qualificabile come intercettazione.

L’affermazione è pienamente condivisibile. Non, però, per la ragione indicata nella relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari (doc. XVI, n. 9) e ripresa anche nel ricorso del Senato, stando alla quale il discrimen tra le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni e i sequestri di corrispondenza sarebbe segnato principalmente dalla forma della comunicazione: nel senso che le prime avrebbero ad oggetto comunicazioni orali, mentre i secondi riguarderebbero comunicazioni scritte (siano esse di natura cartacea o telematica). In senso contrario, va infatti osservato che l’art. 266-bis cod. proc. pen. prevede espressamente che le intercettazioni possano avere ad oggetto anche flussi di comunicazioni informatiche o telematiche (dunque, non orali); mentre, sul fronte opposto, tramite l’applicazione WhatsApp possono essere inviati anche messaggi orali, così come possono essere trasmessi mediante posta elettronica file audio contenenti comunicazioni orali. Stando alla tesi della Giunta del Senato, l’acquisizione di tali ultime comunicazioni dovrebbe costituire sempre intercettazione, e mai sequestro di corrispondenza: conclusione difficilmente accettabile.

La linea di confine tra le due ipotesi passa, in realtà, altrove. Come ricordato dalla resistente, le sezioni unite penali della Corte di cassazione hanno chiarito che per «intercettazione» – fattispecie che il codice di procedura penale non definisce – deve intendersi (in conformità, peraltro, alla comune accezione del vocabolo) l’«apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti, estranei al colloquio» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 maggio-24 settembre 2003, n. 36747).

Affinché si abbia intercettazione debbono quindi ricorrere, per quanto qui più interessa, due condizioni. La prima è di ordine temporale: la comunicazione deve essere in corso nel momento della sua captazione da parte dell’extraneus; questa deve cogliere, cioè, la comunicazione nel suo momento “dinamico”, con conseguente estraneità al concetto dell’acquisizione del supporto fisico che reca memoria di una comunicazione già avvenuta (dunque, nel suo momento “statico”). La seconda condizione attiene alle modalità di esecuzione: l’apprensione del messaggio comunicativo da parte del terzo deve avvenire in modo occulto, ossia all’insaputa dei soggetti tra i quali la comunicazione intercorre.

Nessuna delle due condizioni ricorre nel caso in esame: le comunicazioni riguardanti il senatore Renzi non erano in corso quando sono state acquisite; la loro acquisizione è avvenuta, altresì, in modo palese>>.

Poi afferma invece che si tratta di corrispondenza, sia ex art. 15 Cost. che ex art. 68.3 Cost. e ciò sia prima che il destinatario ne prenda visione che dopo:

<<4.2.– Esclusa, dunque, l’ipotesi dell’intercettazione, resta da appurare se gli atti investigativi considerati ricadano nell’altra fattispecie cui ha riguardo l’art. 68, terzo comma, Cost.: quella, appunto, del «sequestro di corrispondenza».

In linea generale, che lo scambio di messaggi elettronici – e-mail, SMS, WhatsApp e simili – rappresenti, di per sé, una forma di corrispondenza agli effetti degli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost. non può essere revocato in dubbio.

Posto che quello di «corrispondenza» è concetto ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza, questa Corte ha ripetutamente affermato che la tutela accordata dall’art. 15 Cost. – che assicura a tutti i consociati la libertà e la segretezza «della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione», consentendone la limitazione «soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge» – prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero, «aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata» (sentenza n. 2 del 2023). La garanzia si estende, quindi, ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale (sentenza n. 20 del 2017; già in precedenza, con riguardo agli apparecchi ricetrasmittenti di debole potenza, sentenza n. 1030 del 1988; sulla libertà del titolare del diritto di scegliere liberamente il mezzo con cui corrispondere, sentenza n. 81 del 1993).

Posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di cosiddetta messaggistica istantanea) rientrano, dunque, a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi. La riservatezza della comunicazione, che nella tradizionale corrispondenza epistolare è garantita dall’inserimento del plico cartaceo o del biglietto in una busta chiusa, è qui assicurata dal fatto che la posta elettronica viene inviata a una specifica casella di posta, accessibile solo al destinatario tramite procedure che prevedono l’utilizzo di codici personali; mentre il messaggio WhatsApp, spedito tramite tecniche che assicurano la riservatezza, è accessibile solo al soggetto che abbia la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione, normalmente protetto anch’esso da codici di accesso o altri meccanismi di identificazione.

La conclusione non muta, peraltro, ove si guardi alla prerogativa parlamentare prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost. (…)

4.3.– Il problema, però, è un altro: stabilire, cioè, se mantengano la natura di corrispondenza anche i messaggi di posta elettronica e WhatsApp già ricevuti e letti dal destinatario, ma conservati nella memoria dei dispositivi elettronici del destinatario stesso o del mittente (come quelli di cui si discute nella specie). Ed è su questo specifico punto che le parti prospettano tesi radicalmente contrapposte.

L’interrogativo rievoca, in effetti, il risalente dibattito circa i limiti temporali finali della tutela accordata dall’art. 15 Cost.: dibattito che ha visto emergere due distinte correnti di pensiero, che le parti richiamano – ciascuna quanto a quella di suo interesse – a sostegno dei rispettivi assunti.

In base ad un primo indirizzo, su cui fa leva il ricorrente nelle sue difese, la tutela – iniziata nel momento in cui l’espressione del pensiero è affidata ad un mezzo idoneo a trasmetterlo, rendendo così fattivo l’intento di comunicarlo ad altri – non si esaurirebbe con la ricezione del messaggio e la presa di cognizione del suo contenuto da parte del destinatario, ma permarrebbe finché la comunicazione conservi carattere di attualità e interesse per i corrispondenti. Essa verrebbe meno, quindi, solo quando il decorso del tempo o altra causa abbia trasformato il messaggio in un documento “storico”, cui può attribuirsi esclusivamente un valore retrospettivo, affettivo, collezionistico, artistico, scientifico o probatorio.

Secondo altra concezione, invece – cui si richiama la resistente – la corrispondenza già ricevuta e letta dal destinatario non sarebbe più un mezzo di comunicazione, ma un semplice documento. La garanzia apprestata dall’art. 15 Cost. si giustificherebbe, infatti, con la particolare “vulnerabilità” dei messaggi nel momento in cui sono “corrisposti”, per il maggior rischio di captazione o apprensione da parte di terzi: essa cesserebbe, quindi, con l’esaurimento dell’atto del corrispondere, coincidente con il momento in cui il destinatario prende cognizione della comunicazione. Dopo tale momento, la corrispondenza resterebbe tutelata, non più dall’art. 15 Cost., ma da altre disposizioni costituzionali, quali quelle in materia di libertà personale e domiciliare, libertà di manifestazione del pensiero, diritto di difesa o diritto di proprietà. (…).

4.4.– La tesi della resistente – che porterebbe al rigetto del ricorso, in quanto non si sarebbe di fronte a una ipotesi di sequestro di corrispondenza, ma a una mera e “generica” acquisizione di documenti, non rientrante nel novero degli atti per i quali l’art. 68 Cost. esige il placet della Camera di appartenenza del parlamentare – non può essere, peraltro, condivisa.

Degradare la comunicazione a mero documento quando non più in itinere, è soluzione che, se confina in ambiti angusti la tutela costituzionale prefigurata dall’art. 15 Cost. nei casi, sempre più ridotti, di corrispondenza cartacea, finisce addirittura per azzerarla, di fatto, rispetto alle comunicazioni operate tramite posta elettronica e altri servizi di messaggistica istantanea, in cui all’invio segue immediatamente – o, comunque sia, senza uno iato temporale apprezzabile – la ricezione.

Una simile conclusione si impone a maggior ragione allorché non si tratti solo di stabilire cosa sia corrispondenza per la generalità dei consociati, ma di delimitare specificamente l’area della corrispondenza di e con un parlamentare, per il cui sequestro l’art. 68, terzo comma, Cost. richiede l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Come posto in evidenza da questa Corte, la citata norma costituzionale non prefigura un privilegio del singolo parlamentare in quanto tale – la libertà e segretezza delle cui comunicazioni è già protetta dall’art. 15 Cost. – ma una prerogativa «strumentale […] alla salvaguardia delle funzioni parlamentari», volendosi impedire che intercettazioni e sequestri di corrispondenza possano essere «indebitamente finalizzat[i] ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività» (sentenza n. 390 del 2007; in senso analogo, sentenze n. 38 del 2019 e n. 74 del 2013, ordinanza n. 129 del 2020). Se questa è la ratio della prerogativa, limitarla alle sole comunicazioni in corso di svolgimento e non già concluse, significherebbe darne una interpretazione così restrittiva da vanificarne la portata: condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione del mandato parlamentare possono bene derivare, infatti, anche dalla presa di conoscenza dei contenuti di messaggi già pervenuti al destinatario. Come nota anche la difesa del Senato, nella prospettiva avversata, sarebbe agevole per gli organi inquirenti eludere l’obbligo costituzionale di autorizzazione preventiva per acquisire la corrispondenza del parlamentare: anziché captare le comunicazioni nel momento in cui si svolgono, basterebbe attenderne la conclusione (che nel caso dei messaggi elettronici è peraltro pressoché coeva), per poi sequestrare il dispositivo in cui vi è traccia del loro contenuto.

Questa Corte, d’altronde, ha già da tempo affermato che la garanzia apprestata dall’art. 15 Cost. si estende anche ai dati esteriori delle comunicazioni (quelli, cioè, che consentono di accertare il fatto storico che una comunicazione vi è stata e di identificarne autore, tempo e luogo): problema postosi particolarmente in rapporto ai tabulati telefonici, contenenti l’elenco delle chiamate in partenza o in arrivo da una determinata utenza (sentenza n. 81 del 1993; in senso conforme, sentenze n. 372 del 2006 e n. 281 del 1998). In proposito, si è rilevato che «la stretta attinenza della libertà e della segretezza della comunicazione al nucleo essenziale dei valori della personalità – attinenza che induce a qualificare il corrispondente diritto “come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana” (v. sent. n. 366 del 1991) – comporta un particolare vincolo interpretativo, diretto a conferire a quella libertà, per quanto possibile, un significato espansivo» (sentenza n. 81 del 1993).

Ad analoga conclusione questa Corte è, peraltro, più di recente pervenuta anche con riferimento alla prerogativa parlamentare prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost., ritenuta essa pure riferibile ai tabulati telefonici (sentenza n. 38 del 2019). A questo riguardo, si è osservato come non possa ravvisarsi una differenza ontologica tra il contenuto di una conversazione o di una comunicazione e il documento che rivela i dati estrinseci di queste, quale il tabulato telefonico: documento che – come già rilevato in precedenza ad altro fine (sentenza n. 188 del 2010) – può aprire squarci di conoscenza sui rapporti di un parlamentare, specialmente istituzionali, «di ampiezza ben maggiore rispetto alle esigenze di una specifica indagine e riguardanti altri soggetti (in specie, altri parlamentari) per i quali opera e deve operare la medesima tutela dell’indipendenza e della libertà della funzione» (sentenza n. 38 del 2019).

Ma se, dunque, l’acquisizione dei dati esteriori di comunicazioni già avvenute (quali quelli memorizzati in un tabulato) gode delle tutele accordate dagli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost., è impensabile che non ne fruisca, invece, il sequestro di messaggi elettronici, anche se già recapitati al destinatario: operazione che consente di venire a conoscenza non soltanto dei dati identificativi estrinseci delle comunicazioni, ma anche del loro contenuto, e dunque di attitudine intrusiva tendenzialmente maggiore.

La Corte europea dei diritti dell’uomo non ha avuto, d’altro canto, esitazioni nel ricondurre nell’alveo della «corrispondenza» tutelata dall’art. 8 CEDU anche i messaggi informatico-telematici nella loro dimensione “statica”, ossia già avvenuti (con riguardo alla posta elettronica, Corte EDU, sentenza Copland, paragrafo 44; con riguardo alla messaggistica istantanea, Corte EDU, sentenza Barbulescu, paragrafo 74; con riguardo a dati memorizzati in floppy disk, Corte EDU, sezione quinta, sentenza 22 maggio 2008, Iliya Stefanov contro Bulgaria, paragrafo 42). Indirizzo, questo, recentemente ribadito anche in relazione a una fattispecie del tutto analoga a quella oggi in esame, ossia al sequestro dei dati di uno smartphone, che comprendevano anche SMS e messaggi di posta elettronica (Corte EDU, sentenza Saber, paragrafo 48).

Il diverso indirizzo della giurisprudenza di legittimità, su cui fa leva la resistente, non riguarda la garanzia dell’art. 68 Cost., e appare, in effetti, calibrato sulla specificità della disciplina recata dall’art. 254 cod. proc. pen., che regola esclusivamente il sequestro di corrispondenza operato presso i gestori di servizi postali, telegrafici, telematici o di telecomunicazioni: dunque, il sequestro di corrispondenza in itinere, che interrompe il flusso comunicativo.

La stessa Corte di cassazione si è espressa, peraltro, in senso ben diverso quando si è trattato di individuare la sfera applicativa del delitto di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza delineato dall’art. 616 cod. pen. Essa ha ritenuto, infatti, che tale disposizione incriminatrice tuteli proprio e soltanto il momento “statico” della comunicazione, cioè il pensiero già fissato su supporto fisico, essendo il profilo “dinamico” oggetto di protezione nei successivi artt. 617 e 617-quater cod. pen., che salvaguardano le comunicazioni in fase di trasmissione da interferenze esterne (presa di cognizione, impedimento, interruzione, intercettazione) (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 29 settembre-4 novembre 2020, n. 30735; Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 2 febbraio-15 marzo 2017, n. 12603). In quest’ottica, la giurisprudenza di legittimità ha quindi ripetutamente affermato che integra il delitto di violazione di corrispondenza la condotta di chi prende abusivamente cognizione del contenuto della corrispondenza telematica ad altri diretta e conservata nell’archivio di posta elettronica (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 25 marzo-2 maggio 2019, n. 18284; Cass., sentenza n. 12603 del 2017). In direzione analoga appare, altresì, orientata la Corte di cassazione civile (in tema di licenziamento disciplinare, Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 10 settembre 2018, n. 21965).

Si deve dunque concludere che, analogamente all’art. 15 Cost., quanto alla corrispondenza della generalità dei cittadini, anche, e a maggior ragione, l’art. 68, terzo comma, Cost. tuteli la corrispondenza dei membri del Parlamento – ivi compresa quella elettronica – anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo, essa non abbia perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento “storico”.

Al riguardo, non giova opporre – come fa la resistente – che la tesi qui recepita sarebbe fonte di inaccettabili incertezze sul piano applicativo, non essendo gli organi inquirenti in grado di sapere, a priori, se il messaggio comunicativo già recapitato e appreso dal destinatario conservi, nella considerazione dei soggetti coinvolti, carattere di attualità. Tale carattere deve, infatti, presumersi, sino a prova contraria, quando si discuta di messaggi scambiati – come nella specie – a una distanza di tempo non particolarmente significativa rispetto al momento in cui dovrebbero essere acquisiti e nel corso dello svolgimento del mandato parlamentare in cui tale momento si colloca, e per giunta ancora custoditi in dispositivi protetti da codici di accesso.

La conclusione è, dunque, che, per questo verso, si è al cospetto di sequestri di corrispondenza rientranti nell’ambito della guarentigia di cui all’art. 68, terzo comma, Cost.>>

La posizione della Corte è esatta.

Sulla validità della clausola societaria c.d. antistallo (roulette russa)

Cass. 25.07.2023 sez. I  n. 22.375, rel. Fraulini, conferma la validità delal clausola antistallo c.d. russian roulette , Il ragionamento , approfondito, è persuasivo.

<<Nella sua schematizzazione più semplice, la clausola russian roulette prevede che, al verificarsi di una situazione di deadlock non altrimenti risolvibile, a uno o entrambi dei soci paciscenti è attribuita la facoltà di rivolgere all’altro socio un’offerta di acquisto della propria partecipazione, contenente il prezzo che si è disposti a pagare per l’acquisto della stessa. Il socio destinatario dell’offerta non e’, tuttavia, in una posizione di mera soggezione di fronte a tale iniziativa, ma risulta titolare di un’alternativa che può liberamente percorrere: a) può, infatti, accettare l’offerta, e quindi vendere la propria partecipazione al prezzo indicato dalla controparte; b) può, invece, “ribaltare” completamente l’iniziativa e farsi acquirente della partecipazione del socio offerente, per il prezzo che quest’ultimo aveva indicato>>.

Di solito è inserita nei patti parasociali, ormnai paficiamente legittimi precisa la SC [chissa perchè non negli stsatuti]

Sub g) le consideraizoni civilisticjhe.

Pacifico che non vuioli nè la’rt. 1355 nè l’art. 1349. E’ una obbligaziopne alternativa, dice la SC

Nemmeno viola il divieto di patto leonino, (sub h).

Anche la necessità di valore congruo (profiloi m,eno scontato) non è riconoscoiuuta dall aSC, almeno parrebbe.

Il profilo di sicuro più interessante è la possibile violazione della buona fede e/o il possibile abuso del diritto (sostanzialmente una concretizzazione della prima), sub l):

<<E’ certamente possibile che anche la clausola di russian roulette possa dare luogo ad abusi e che pertanto il suo esercizio soggiaccia all’applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede. Si è già notato, da questo punto di vista, come la dottrina e la giurisprudenza nordamericana evidenzino, da un lato, l’esigenza di discovery da parte del socio che fa ricorso alla clausola, in modo che chi riceve la notifica di deadlock e l’indicazione del prezzo offerto abbia gli elementi conoscitivi per poter decidere consapevolmente se vendere od acquistare la partecipazione e, come, allo stesso tempo, una particolare attenzione debba essere riservata ai casi in cui vi sia una forte divergenza economico-finanziaria fra le parti, a evitare che un soggetto possa abusare della clausola per espellere l’altro partner anche di fronte a una situazione di stallo non effettiva o unilateralmente imposta, dando luogo a quella che è chiamata lack of choice (ossia la perdita di quel potere di SCElta in capo all’oblato che fonda sul pianto strutturale l’equilibrio della clausola rendendo incerto al dichiarante quale sarà l’esito del meccanismo da lui stesso azionato).

Ove tali condotte fossero in concreto ravvisabili, in dottrina si è ipotizzato che l’oblato possa fruire di tutela risarcitoria per i danni che abbia subito dalla estromissione iniqua dalla società e che lo stesso possa anche impedire il meccanismo attivato dall’altro socio attraverso l’opposizione dell’exceptio doli generalis, con la quale paralizzare, anche in via cautelare, l’altrui attivazione della clausola di russian roulette. Si e’, poi, osservato che se la situazione di “stallo” fosse artatamente creata dal soggetto intenzionato a esercitare in mala fede la buy/sell provision, il rimedio potrebbe anche consistere nell’annullamento della delibera negativa oppure, secondo altra prospettazione, nella stessa rideterminazione giudiziale dell’esito della votazione. Un’ulteriore possibilità di tutela ipotizzata è rappresentata, poi, secondo diversa opzione interpretativa, dalla sanzione dell’inefficacia dell’atto realizzato attraverso l’abuso (così, nella fattispecie ipotizzata, nell’inefficacia dell’atto traslativo della partecipazione societaria), considerando tale opzione come più tutelante rispetto a quella puramente risarcitoria>>.

La corresponsabilità della piattaforma per violazione di marchio nel diritto USA (sulla willful blindness nel contributory infringement)

Il prof. Eric Goldman segnala l’ appello del 9 circuito 24.07.2023, No. 21-56150, Brand Melville c. Redbubble.

Riporto il passo sull’elemento soggettivo in capo alla piattaforma (REdbubble) per ritenerla responsabile:

<Common to these cases is that willful blindness requires the defendant to be aware of specific instances of infringement or specific infringers. Without that knowledge, the defendant need not search for infringement. General knowledge of infringement on the defendant’s platform—even of the plaintiff’s trademarks—is not enough to show willful blindness. See Tiffany, 600 F.3d at 110 (“eBay appears to concede that it knew as a general matter that counterfeit Tiffany products were listed and sold through its website. . . . Without more, however, this knowledge is insufficient to trigger liability.”). We hold that willful blindness for contributory trademark liability requires the defendant to have specific knowledge of infringers or instances of infringement.
As for Brandy Melville’s contention that Redbubble had a duty to look for infringement, persuasive decisions from other circuits hold that the defendant has no such duty until it gains the specific knowledge necessary to trigger liability. “There is no inherent duty to look for infringement by others on one’s property.” Omega SA, 984 F.3d at 255; see also Hard Rock Cafe Licensing Corp. v. Concession Servs., Inc., 955 F.2d 1143, 1149 (7th Cir. 1992) (The willful blindness standard “does not impose any duty to seek out and prevent violations.”). Instead, willful blindness arises when a defendant was “made aware that there was infringement on its site but . . . ignored that fact.” Omega SA, 984 F.3d at 255 (quoting Tiffany, 600 F.3d at 110 n.15).
Once a defendant knows about specific instances of infringement, “bona fide efforts to root out infringement” could “support a verdict finding no liability, even if the defendant was not fully successful in stopping infringement.” Id. The duty to stop (or root out) infringement does not kick in, however, until the defendant has that specific knowledge. And, again, that duty only covers specific instances of infringement the defendant knows or has reason to know about. See Tiffany, 600 F.3d at 109–10 (holding that addressing specific notices of counterfeit Tiffany products was sufficient, even though eBay “knew as a general matter that counterfeit Tiffany products were listed and sold through its website.”) >>.

Ed allora quando ricorrono bona fide efforts?  <<What constitutes bona fide efforts will vary based on the context. For instance, a reasonable response for a flea market might not be reasonable for an online marketplace with millions of listings. Cf. Coach, Inc. v. Goodfellow, 717 F.3d 498, 504 (6th Cir. 2013) (affirming contributory liability where defendant, the owner and operator of a flea market, “had actual knowledge that the infringing activity was occurring” and knew of “particular vendors” that were infringing yet failed to “deny access to offending vendors or take other reasonable measures”). Removing infringing listings and taking appropriate action against repeat infringers in response to specific notices may well be sufficient to show that a large online marketplace was not willfully blind. See Tiffany, 600 F.3d at 109 (“[A]lthough [notices of claimed infringement] and buyer complaints gave eBay reason to know that certain sellers had been selling counterfeits, those sellers’ listings were removed and repeat offenders were suspended from the eBay site.”)>>.

Da noi va rileverebbe la possibilità di qualificare come colposa la condotta che concorre alla causazione del danno (art. 2043 cc): gli esiti, alla fine, non sarebbero molto distanti.

L’ambito oggettivo protetto è delineato dall’art. 20 c. 2 cpi

la brevissima durata del matrimonio circa la determinazione dell’assegno divorzile

Interessanti precisazioni della SC circa la rilevanza della durata del matrimonio al fine di determinare l’assegno di mantenimento (Cass. sez. I del 24 luglio 2023 n. 22.021, rel. Campese:

Premessa generale:

<< 1.1. Il suo articolato contenuto, peraltro, rende opportuno anteporre al relativo scrutinio alcune considerazioni di carattere generale, ricavate dalla pronuncia resa da Cass., SU, n. 32914 del 2022 (richiamata, in parte qua, nella più recente Cass. n. 8764 del 2023), circa gli effetti della separazione e del divorzio (e della crisi del rapporto di coppia, avuto riguardo alle unioni civili) sui rapporti patrimoniali fra i coniugi,

1.2. E’ stato ivi osservato, tra l’altro, che “La separazione personale tra i coniugi non estingue il dovere reciproco di assistenza materiale, espressione del dovere, più ampio, di solidarietà coniugale, ma il venir meno della convivenza comporta significati mutamenti: a) il coniuge cui non è stata addebitata la separazione ha diritto di ricevere dall’altro un assegno di mantenimento, qualora non abbia mezzi economici adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale, valutate la situazione economica complessiva e la capacità concreta lavorativa del richiedente, nonché le condizioni economiche dell’obbligato, che può essere liquidato in via provvisoria nel corso del giudizio, ai sensi dell’art. 708 c.p.c.; b) il coniuge separato cui è addebitata la separazione perde, invece, il diritto al mantenimento e può pretendere solo la corresponsione di un assegno alimentare se versa in stato di bisogno. (…). Invece, l’assegno divorzile, del tutto autonomo rispetto a quello di mantenimento concesso al coniuge separato, a seguito della riforma introdotta nel 1987, e dell’intervento chiarificatore da ultimo espresso da queste Sezioni Unite nella sentenza n. 18287/2018, ha natura composita, in pari misura, assistenziale (qualora la situazione economico-patrimoniale di uno dei coniugi non gli assicuri l’autosufficienza economica) e riequilibratrice o, meglio, perequativo compensativa (quale riconoscimento dovuto, laddove le situazioni economico-patrimoniali dei due coniugi, pur versando entrambi in condizione di autosufficienza, siano squilibrate, per il contributo dato alla realizzazione della vita familiare, con rinunce ad occasioni reddituali attuali o potenziali e conseguente sacrificio economico), nel senso che i criteri previsti dall’art. 5 l. div. (tra i quali la durata del matrimonio, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune e le ragioni della decisione) rilevano nel loro insieme sia al fine di decidere l’an della concessione sia al fine di determinare il quantum dell’assegno. Si è quindi evidenziato (Cass. SS.UU. n. 18287/2018) che “la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile – al pari dell’assegno di mantenimento in sede di separazione -, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi”. In sostanza, in presenza di uno squilibrio economico tra le parti, patrimoniale e reddituale, occorrerà verificare se esso, in termini di correlazione causale, sia, o meno, il frutto delle scelte comuni di conduzione della vita familiare che abbiano comportato il sacrificio delle aspettative lavorative e professionali di uno dei coniugi. (…). In ogni caso, l’assegno divorzile cesserà con le nuove nozze dell’avente diritto (art. 5, comma 10), mentre, nell’ipotesi di instaurazione di una stabile convivenza di fatto con un terzo, viene caducata, alla luce di quanto affermato da queste Sezioni Unite nella recente sentenza n. 32198/2021, la sola componente assistenziale dello stesso, potendo essere mantenuto il diritto al riconoscimento di un assegno a carico dell’ex coniuge economicamente più debole, in funzione esclusivamente perequativa-compensativa. (…). Sia l’assegno di mantenimento sia quello divorzile possono subire variazioni, in aumento o in diminuzione, per effetto del cambiamento della situazione patrimoniale relativa al debitore o al creditore considerata al momento della sentenza. Quanto all’assegno divorzile, se la necessità di un assegno si manifesti dopo il passaggio in giudicato della statuizione attributiva del nuovo status, esso verrà liquidato in separato giudizio, restando ferma la possibilità di avanzare la domanda successivamente alla sentenza di divorzio, anche in difetto di pregressa domanda giudiziale (Cass. n. 2198/2003, ove si è chiarito che il deterioramento delle condizioni economiche di uno o di entrambi gli ex coniugi, che consente il riconoscimento dell’assegno, può verificarsi anche dopo il divorzio, proprio perché trova fondamento nel dovere di assistenza, e non nel nesso di causalità o di concomitanza tra divorzio e deterioramento delle condizioni di vita). Ove si verifichino mutamenti di circostanza, così da richiedere una modifica dell’assegno, la pronuncia potrebbe far retroagire tale aumento dal momento (successivo alla domanda) del mutamento di circostanza o addirittura disporlo a far data dalla decisione (cfr., sul punto, Cass. 15 marzo 1986, n. 3202)”.

1.3. Esigenze di completezza, infine, impongono di rimarcare che l’indirizzo interpretativo inaugurato dalla già descritta decisione resa da Cass., SU, n. 18287 del 2018, è stato successivamente seguito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 1882 del 2019; Cass. n. 21234 del 2019; Cass. n. 5603 del 2020; Cass. n. 4215 del 2021; Cass. n. 23977 del 2022; Cass., SU, n. 32914 del 2022; Cass. n. 1996 del 2023; Cass. n. 2669 del 2023; Cass. n. 5395 del 2023; Cass. n. 8764 del 2023; Cass. n. 9104 del 2023; Cass. n. 9021 del 2023; Cass., n. 11832 del 2023; Cass. n. 12708 del 2023; Cass. n. 13224 del 2023), la quale, peraltro, ha opinato pure che “Il riconoscimento dell’assegno divorzile in funzione perequativo compensativa non si fonda sul fatto, in sé, che uno degli ex coniugi si sia dedicato prevalentemente alle cure della casa e dei figli, né sull’esistenza in sé di uno squilibrio reddituale tra gli ex coniugi – che costituisce solo una precondizione fattuale per l’applicazione dei parametri di cui alla l. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, essendo invece necessaria un’indagine sulle ragioni e sulle conseguenze della scelta, seppure condivisa, di colui che chiede l’assegno, di dedicarsi prevalentemente all’attività familiare, la quale assume rilievo nei limiti in cui comporti sacrifici di aspettative professionali e reddituali, la cui prova spetta al richiedente” (cfr. Cass. n. 29920 del 2022, nonché, in senso sostanzialmente conforme, Cass. n. 23583 del 2022; Cass. n. 38362 del 2021). Significativa, infine, è anche la più recente Cass. n. 5395 del 2023, la quale ha ritenuto (cfr. in motivazione) che “la valutazione del contributo fornito alla conduzione della vita familiare e in questo senso alla formazione del patrimonio comune non può andar disgiunta dalla considerazione del patrimonio (oltre che del reddito) personale di ciascuno degli ex coniugi, della durata del matrimonio e dell’età del coniuge economicamente più debole. La funzione perequativo-compensativa resta identificabile anche in rapporto alla condizione economica del coniuge più debole siccome conseguente alle scelte familiari”>>.

Andando poi al punto specifico:

<<1.4. Alla stregua di quanto fin qui riferito, allora, la doglianza in esame si rivela infondata.

1.4.1. Invero, pur dandosi atto della situazione di squilibrio economico, reddituale e patrimoniale tra gli ex coniugi, come dedotta dalla D.S., tanto non e’, di per sé, sufficiente a giustificare il riconoscimento dell’assegno ancora oggi invocato da quest’ultima, atteso che, come si è già ampiamente esposto, in presenza del suddetto squilibrio, occorre verificare: i) se esso, in termini di correlazione causale, sia, o meno, il frutto delle scelte comuni di conduzione della vita familiare che abbiano comportato anche il sacrificio delle aspettative lavorative e professionali di uno dei coniugi; ii) la impossibilità, per la odierna ricorrente, per ragioni oggettive, di procurarsi mezzi di sostentamento adeguati. Il tutto, peraltro, tenendo conto che, come puntualizzato dalla già più volte citata Cass., SU, n. 18287 del 2018, i criteri previsti dalla L. n. 898 del 1970, art. 5 (tra i quali la durata del matrimonio, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune e le ragioni della decisione) rilevano nel loro insieme sia al fine di decidere l’an del riconoscimento dell’assegno de quo, sia per determinarne il quantum.

1.4.2. In quest’ottica, allora, viene immediatamente in rilievo che, come può agevolmente desumersi dalla sentenza oggi impugnata, oltre che da quanto riferito dalla stessa ricorrente, il matrimonio di quest’ultima con il B., contratto il (Omissis) (allorquando ella aveva circa trenta anni, a fronte dei cinquantotto del marito), era naufragato pressoché subito, se solo si pensi al fatto che già il successivo 7 luglio 2010 (poco meno di tre mesi dopo detta celebrazione) il B. aveva intrapreso il giudizio di separazione personale nei confronti della moglie, solo nel corso del quale era nata (il (Omissis)), la loro figlia E..

1.4.3. Per stessa ammissione della D.S., inoltre, le condizioni patrimoniali e reddituali dei due coniugi, già al momento del matrimonio, erano totalmente squilibrate in favore del B., titolare di una migliore situazione patrimoniale rispetto alla prima, giovane cittadina brasiliana, priva di cespiti patrimoniali, mobiliari o immobiliari.

1.4.4. Già solo per questo, allora, si rivela del tutto ragionevole la conclusione per cui lo squilibrio suddetto, in termini di correlazione causale, non poteva sicuramente ricondursi, stante la descritta, brevissima durata del matrimonio, a scelte comuni di conduzione della vita familiare, eventualmente comportanti anche il sacrificio di aspettative lavorative e professionali (nemmeno concretamente allegate, ancor prima che dimostrate) della D.S., evidentemente derivando esso esclusivamente dalle rispettive condizioni dei coniugi anteriori al matrimonio stesso.

1.4.5. Proprio la durata assolutamente esigua di quest’ultimo permette, altrettanto ragionevolmente, di escludere qualsivoglia significativo rilievo alla tipologia di vita concretamente svolta, in quel brevissimo lasso di tempo, dai coniugi (ove anche si volesse valorizzare l’art. 143, ultimo comma, c.c., che impone di tenere conto anche del lavoro casalingo quanto alle modalità di contribuzione ai bisogni della famiglia, e non solo dei soli suoi aspetti patrimoniali), come pure consente di negare un’effettiva sua incidenza con riguardo, da un lato, ad un eventuale incremento della complessiva situazione economica del B. e, dall’altro, ad un ipotetico mancato miglioramento (o addirittura ad un peggioramento) di quella della D.S.. In altri termini, l’estrema brevità della loro relazione non permette di affermare che vi sia stata conduzione di vita familiare e rende non valutabili eventuali scelte medio tempore effettuate, altresì ricordandosi che lo squilibrio patrimoniale costituisce solo una precondizione fattuale per l’applicazione dei parametri di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6.

1.4.6. Va rimarcato, inoltre, che l’appellante nemmeno ha fornito adeguata dimostrazione circa la reale impossibilità, per ragioni oggettive (tale non potendosi intendere la mera, lamentata difficoltà a trovare una occupazione, cui era finalizzata la prova testimoniale invocata in sede di gravame), malgrado la sua ancora giovane età (trent’anni, al momento dell’inizio del giudizio di separazione; trentacinque, al momento della instaurazione del giudizio di divorzio) e l’assenza di patologie incidenti negativamente sulla sua capacità lavorativa.

1.5. In definitiva, come si legge in Cass. n. 13224 del 2023, “la corte di appello, investita della domanda di corresponsione di assegno divorzile, deve accertare l’impossibilità dell’ex-coniuge richiedente di vivere autonomamente e dignitosamente e la necessità di compensarlo per il particolare contributo, che dimostri di avere dato, alla formazione del patrimonio comune o dell’altro coniuge durante la vita matrimoniale, nella registrata sussistenza di uno squilibrio patrimoniale tra gli ex coniugi che trovi ragione nella intrapresa vita matrimoniale, per scelte fatte e ruoli condivisi” (l’assegno divorzile, infatti, deve essere adeguato anche a compensare il coniuge economicamente più debole del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali – che il coniuge richiedente l’assegno ha l’onere di dimostrare nel giudizio – al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, rimanendo, in tal caso, assorbito l’eventuale profilo assistenziale. Cfr. Cass., n. 38362 del 2021).

1.5.1. Ne consegue che, nella specie, alla stregua di tutto quanto si è detto circa la brevissima durata che ha caratterizzato il matrimonio tra la D.S. ed il B., le cui rispettive, reciproche condizioni patrimoniali erano pacificamente squilibrate, in favore di quest’ultimo, già prima del matrimonio stesso (senza significativi mutamenti nel corso del medesimo), la conclusione negativa della corte distrettuale quanto al riconoscimento, in favore della D.S. dell’invocato assegno divorzile si rivela assolutamente coerente con quanto ormai sancito dalla qui giurisprudenza di legittimità formatasi successivamente al descritto intervento delle Sezioni Unite del 2018 e, come tale, immune dalle censure ad essa ascritte dalla doglianza in esame.

1.6. Resta solo da dire che la ricorrente dovrà cercare di far fronte alla dedotta sua difficile situazione dovuta al non aver reperito una occupazione lavorativa stabile o che, comunque, la remuneri in misura tale da assicurarle una vita dignitosa, attraverso i diversi strumenti di ausilio, ormai di dimensione sociale, che sono finalizzati ad assicurare sostegno al reddito>>.

Sulla irrevocabilità del consenso prestato dall’uomo nella procreazione medicalmente assistita: la Corte Costituzionale ritiene conforme a Costituzione l’art. 6 c.3 ult. parte L. 40/2004

Così Corte Costituzionale n. 161/2023 dep. 24 luglio 2023,  red. Antonini.

Il passaggio forse più significativo (spt. § 12.1):

<<11.4.– Va altresì precisato che il consenso prestato ai sensi dell’art. 6 della legge n. 40 del 2004 ha una
portata diversa e ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla mera nozione di “consenso informato” al
trattamento medico, in quanto si è in presenza di un atto finalisticamente orientato a fondare lo stato di
figlio.
In questa prospettiva il consenso, manifestando l’intenzione di avere un figlio, esprime una
fondamentale assunzione di responsabilità, che riveste un ruolo centrale ai fini dell’acquisizione dello status
filiationis.
È significativo, infatti, che l’art. 8 stabilisca che «[i] nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di
procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della
coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6», e che l’art. 9
preveda un duplice divieto: da un lato, quello di disconoscimento della paternità nel caso della PMA
eterologa, così configurando «una ipotesi di intangibilità ex lege dello status» (ordinanza n. 7 del 2012), e,
dall’altro, quello di anonimato della madre.
Tali norme mettono in evidenza che il consenso dato alla pratica della procreazione medicalmente
assistita, il quale diviene irrevocabile dal momento della fecondazione dell’ovulo, comporta una specifica
assunzione di responsabilità riguardo alla filiazione, che si traduce nella attribuzione al nato – a prescindere
dalle successive vicende della relazione di coppia – dello status filiationis.
Si tratta di una implicazione dal notevole impatto, tant’è che il medesimo art. 6 prevede espressamente,
al comma 5, che «[a]i richiedenti, al momento di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente
assistita, devono essere esplicitate con chiarezza e mediante sottoscrizione le conseguenze giuridiche di cui
all’articolo 8 e all’articolo 9 della presente legge».
Nella specifica disciplina della PMA la responsabilità assunta con il consenso prestato (sentenza n. 230
del 2020) riveste quindi un valore centrale e determinante nella dinamica giuridica finalizzata a condurre
alla genitorialità, risultando funzionale «a sottrarre il destino giuridico del figlio ai mutamenti di una volontà
che, in alcuni casi particolari e a certe condizioni, tassativamente previste, rileva ai fini del suo
concepimento» (sentenza n. 127 del 2020).
In definitiva, se è pur vero che dopo la fecondazione la disciplina dell’irrevocabilità del consenso si
configura come un punto di non ritorno, che può risultare freddamente indifferente al decorso del tempo e
alle vicende della coppia, è anche vero che la centralità che lo stesso consenso assume nella PMA,
comunque garantita dalla legge, fa sì che l’uomo sia in ogni caso consapevole della possibilità di diventare
padre; ciò che rende difficile inferire, nella fattispecie censurata dal giudice a quo, una radicale rottura della
corrispondenza tra libertà e responsabilità.
12.– Va poi soprattutto considerato che, oltre quelli inerenti alla sfera individuale dell’uomo, il consenso
da questi manifestato alla PMA determina il coinvolgimento degli altri interessi costituzionalmente rilevanti,
in primo luogo attinenti alla donna.
12.1.– Quest’ultima nell’accedere alla PMA è coinvolta in via immediata con il proprio corpo, in forma
incommensurabilmente più rilevante rispetto a quanto accade per l’uomo.
Infatti, al fine di realizzare il comune progetto genitoriale viene, innanzitutto, sottoposta a impegnativi
cicli di stimolazione ovarica, relativamente ai quali non è possibile escludere l’insorgenza di patologie,
anche gravi. È del resto significativo che il citato d.m. n. 265 del 2016 stabilisca che, ai fini del consenso
informato, vengano espressamente comunicati anche «i rischi per la madre e per il nascituro, accertati o
possibili, quali evidenziabili dalla letteratura scientifica» (art. 1, comma 1, lettera h).
All’esito positivo di detta terapia, la donna viene poi sottoposta, nell’ipotesi decisamente più ricorrente
che è quella della fecondazione in vitro, al prelievo dell’ovocita, che necessariamente (a differenza di quanto
accade per l’uomo) consiste in un trattamento sanitario particolarmente invasivo, tanto da essere
normalmente praticato in anestesia generale.
A ridosso del prelievo, nell’arco di un brevissimo spazio temporale, si perviene poi alla fecondazione.
Possono essere peraltro necessari, successivamente alla fecondazione dell’embrione (e alla sua
crioconservazione), ulteriori trattamenti farmacologici e analisi, nonché interventi medici, come nel caso del
giudizio a quo, in cui la ricorrente si è dovuta sottoporre a specifiche terapie prodromiche all’impianto.
L’accesso alla PMA comporta quindi per la donna il grave onere di mettere a disposizione la propria
corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge
rischi, aspettative e sofferenze, e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o
più embrioni.
Corpo e mente della donna sono quindi inscindibilmente interessati in questo processo, che culmina
nella concreta speranza di generare un figlio, a seguito dell’impianto dell’embrione nel proprio utero.
A questo investimento, fisico ed emotivo, che ha determinato il sorgere di una concreta aspettativa di
maternità, la donna si è prestata in virtù dell’affidamento in lei determinato dal consenso dell’uomo al
comune progetto genitoriale.
L’irrevocabilità di tale consenso appare quindi funzionale a salvaguardare l’integrità psicofisica della
donna – coinvolta, come si è visto, in misura ben maggiore rispetto all’uomo – dalle ripercussioni negative
che su di lei produrrebbe l’interruzione del percorso intrapreso, quando questo è ormai giunto alla
fecondazione.
E ciò chiama in causa il diritto alla salute della donna, che, secondo la costante giurisprudenza di questa
Corte, va inteso «nel significato, proprio dell’art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che
fisica» (ex plurimis, sentenza n. 162 del 2014).
Coerentemente le citate linee guida di cui al d.m. 1° luglio 2015 stabiliscono che «[l]a donna ha sempre
il diritto ad ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati».
Le suddette ripercussioni sarebbero, peraltro, ancora più gravi, qualora, a causa dell’età (che già solo in
relazione alla capacità di produrre gameti incide in misura ben maggiore rispetto all’uomo) o delle
condizioni fisiche, alla donna – anche per effetto del tempo trascorso dalla crioconservazione dell’embrione
“conteso” – non residuasse più la possibilità di iniziare un nuovo percorso di PMA, con una preclusione, a
questo punto, assoluta della propria libertà di autodeterminazione in ordine alla procreazione>>.

Solidarietà per obblighi previdenziali del Condominio rispetto al lavori di pulzia delle parti comuni? La SC rimedia a incertezze e precedenti errati

Cass. 19514 sez. lavoro del 10.07.2023, rel. Calafiore circa l’art. 29.2 del d. lgs. 273/2003 (<<  In caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro e’ obbligato in solido con l’appaltatore, nonche’ con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonche’ i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento.  Il committente che ha eseguito il pagamento e’ tenuto, ove previsto, ad assolvere gli obblighi del sostituto d’imposta ai sensi delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e puo’ esercitare l’azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali>>.) ;

<<nel caso di specie, la Corte d’appello ha rilevato che il Condominio committente e odierno ricorrente, seppure non impresa, fosse da ritenere “datore di lavoro” perché, in modo incontestato, le lavoratrici interessate dall’omissione contributiva ivi prestavano l’attività di pulizia oggetto d’appalto e lo stesso Condominio non aveva negato la “qualifica di datore di lavoro”;

tale affermazione non può essere condivisa, nonostante in tal senso si sia espressa, incidentalmente nell’ambito di un giudizio relativo agli obblighi dei contraenti in appalto conferito da un condominio ad una impresa di pulizie, anche la Seconda Sezione di questa Corte di cassazione con l’ordinanza n. 4079 del 2022;

il “datore di lavoro” che, in alternativa all’imprenditore, è responsabile solidale ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, non può identificarsi puramente e semplicemente con lo stesso committente presso cui l’attività oggetto dell’appalto viene eseguita; infatti, se così fosse sarebbe stato sufficiente prevedere l’obbligo di solidarietà riferendosi semplicemente al “committente” dell’appalto;

e’ evidente che il datore di lavoro diretto dei dipendenti per i quali si è verificato l’inadempimento contributivo, è l’appaltatore e non il committente e la garanzia della solidarietà aggiunge un debitore a quello principale; la disposizione in esame individua tale debitore solidale nel committente che svolge attività imprenditoriale o nel committente datore di lavoro, con ciò selezionando tali figure all’interno della intera categoria dei possibili committenti di appalti di opere o di servizi;

peraltro, ai sensi del comma 3 ter, sfugge al vincolo solidaristico imposto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, il committente persona fisica che non esercita attività di impresa o professionale;

dunque, è certamente attratto nell’orbita della solidarietà il committente che assume la veste di imprenditore, ai sensi dell’art. 2082 c.c., intesa in senso oggettivo, come attività economica organizzata atta a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi (Cass. n. 16612 del 19/06/2008);

ma lo e’, allo stesso modo, il committente che pur non essendo “imprenditore” è “datore di lavoro”, e cioè il committente che anche attraverso le prestazioni di lavoro rese dai dipendenti dell’appaltatore realizza l’oggetto della propria attività istituzionale, prendendo parte a quel processo di decentramento produttivo del servizio che costituisce il fenomeno economico a cui la norma si riferisce; come avviene, ad esempio, nell’ipotesi delle associazioni, degli enti no profit, etc.; in questi casi, infatti, si realizzano quelle ipotesi di commistione tra le figure del datore di lavoro (appaltatore) ed il committente, fruitore della prestazione lavorativa (potenziale datore di lavoro cd. indiretto) nei cui confronti il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29 ha inteso rafforzare le tutele dei lavoratori;

come è noto, (Cass. n. 2169 del 2022; Corte Cost. n. 254 del 2017) la ratio dell’introduzione della responsabilità solidale del committente è quella di evitare il rischio che i meccanismi di decentramento, e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione, vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto commerciale;

la solidarietà mira a disciplinare la responsabilità in tutte le ipotesi di dissociazione fra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione, assicurando in tal modo tutela omogenea a tutti quelli che svolgono attività lavorativa indiretta, qualunque sia il livello di decentramento (Cass. n. 25172 del 2019);

il limite soggettivo positivo a tale estensione è dato dalla qualità di imprenditore o di datore di lavoro del committente, mentre quello negativo è integrato dalla esplicita esclusione, per effetto del comma 3 bis, dall’attrazione dell’orbita della solidarietà delle persone fisiche che non esercitano attività d’impresa o professionale;

e’ così esclusa dalla solidarietà tanto la persona fisica che appalta i lavori di ristrutturazione di un proprio immobile, quanto il condominio di immobili;

il condominio, infatti, non svolge attività d’impresa, non partecipa per propri scopi istituzionali al decentramento produttivo e non assume, soprattutto ai fini lavoristici, un rilievo giuridico diverso da quello dei singoli condomini (cfr. Cass., 11 gennaio 2012, n. 177; vd. Cass. SS.UU. n. 10934 del 2019) posto che si tratta di un ente di gestione dei beni comuni;>>

Insegnamento esatto anche se scontato alla luce del tenore della disposizione, sopra rirporta

Riunione fittizia, imputazione ex se e collazione: reciproche differenze per stabilire se serva domanda riconvenzionale o se basti eccezione da parte del convenuto

Utili precisazioni da Cass. sez. 2 n° 9813 del 13 aprile 2023, rel. Tedesco, sul non sempre facile tema in oggetto (almeno per i non specialisti di diritto successorio):

<Intanto la similitudine fra collazione e riunione fittizia, ravvisata fra collazione e riunione fittizia, non sussiste. Senza che sia minimamente utile indugiare sui molteplici profili distintivi fra i due istituti, giova solo rimarcare che la collazione rimane sempre distinta dalla riunione fittizia delle donazioni prevista dall’art. 556 c.c., anche quando sia fatta per imputazione. Entrambe lasciano i beni donati nel patrimonio del donatario, ma mentre la riunione fittizia resta comunque una pura operazione contabile, da cui non deriva alcuna alterazione nel patrimonio del donatario, se non sia lesa la legittima, la collazione, anche quando sia attuata per imputazione, si traduce comunque in un sacrificio a carico del conferente, il quale subisce il maggior concorso dei coeredi sui beni relitti (così testualmente Cass. n. 28196/2020)>.

sulla imputazione ex se: <L’onere di imputazione importa che le disposizioni in favore degli altri saranno lesive e quindi riducibili in quanto intacchino non già la legittima che sarebbe spettata al legittimario, ma il valore costituente la differenza fra il valore della legittima e quello delle liberalità. Quando il legittimario abbia ricevuto, in donazione o legato, un valore superiore, o pari, al valore della quota legittima, l’onere di imputazione esclude qualsiasi ulteriore prelievo>.

sulla differenza di questa dalla collazione: << Tralasciando i molteplici profili di distinzione fra collazione e imputazione ex se, ai fini che interessano in questa sede, è sufficiente sottolineare che l’imputazione ex se differisce dalla collazione anzitutto per lo scopo: la collazione pone il bene donato (o il suo valore) in comunione fra i coeredi, l’imputazione invece serve a fare rispettare le liberalità fatte dal defunto e a restringere l’esercizio della riduzione nei limiti dello stretto necessario. Si capisce quindi che, mentre colui che chiede la collazione mira, comunque, a imporre un sacrificio al donatario, in quanto pretende di concorrere anche sulla donazione o sul suo valore, colui che fa valere una donazione ai fini della imputazione ex se non chiede nessun provvedimento positivo in danno del donatario. Egli pretende solo che l’azione di riduzione, sperimentata dal legittimario, sia contenuta nei limiti della differenza fra la legittima, calcolata con il procedimento di riunione fittizia, e la liberalità già ricevuta, che rimane sempre e comunque integra nelle mani del donatario. Emerge qui un ulteriore profilo distintivo fra imputazione ex se e collazione, anche quando questa sia fatta per imputazione. In base all’imputazione ex se, se il valore della donazione pareggia o supera il valore della legittima, è escluso il diritto del legittimario di far ridurre le liberalità altrui: l’azione di riduzione sarà rigettata per effetto dell’imputazione, ma questa, di per sé, non espone il donatario ad alcuna conseguenza. Anche nel caso in cui l’eccedenza sia tale da determinare una lesione in danno di altro dei legittimari, il sacrificio del donatario non è un effetto dipendente dall’imputazione ex se, ma suppone l’esercizio dell’azione di riduzione da parte del legittimario leso. Diversamente, nella collazione per imputazione, se il valore della donazione supera quello della quota ereditaria, il donatario è tenuto a versare ai coeredi l’equivalente pecuniario dell’eccedenza; che in questo caso non significa che la misura della donazione comprende parte dei beni che sono necessari a completare la misura della quota di riserva, come avviene per la riduzione, ma sta solo ad indicare che il donatario ha ricevuto di più di quanto a lui spetta nel concorso con gli altri condividenti, come lui discendenti del de cuius (Cass. n. 1481/1979; n. 28196/2020)>>.

IN altre parole, <<chi fa valere una donazione ai fini della imputazione ex se da parte dell’attore in riduzione, mira solo al rigetto della domanda o al suo accoglimento in misura minore. A questi effetti, anche nel caso in cui la donazione di cui il convenuto pretenda l’imputazione sia una donazione indiretta, della quale occorra accertare l’esistenza, è sufficiente la proposizione di una semplice eccezione, in quanto il “fatto” rimane comunque diretto a provocare il rigetto dell’altrui pretesa, in conformità alla finalità tipica dell’eccezione (Cass. n. 9044/2010; n. 14852/2013)>>.