Diffamazione e obbligo per il diffamante di far rimuovere il dato anche presso terzi

Cass. sez. I, ord. 05/04/2024, (ud. 01/02/2024, dep. 05/04/2024), n. 9.068, rel. Caiazzo, pone un importante regola comportamentale a carico del diffamante, che può essere impartita dal giudice:

<<In tema di responsabilità civile per diffamazione, il pregiudizio all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è in re ipsa, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima(Cass., n. 8861/21; n. 25420/17; n, 13153/17). [acquisito]

Nella specie, il risarcimento dei danni non patrimoniali è stato richiesto e liquidato, sulla scorta delle allegate presunzioni afferenti alla diffusione nazionale del servizio televisivo, alla rilevanza dell’offesa e alla posizione sociale dell’offeso (professore universitario). Il terzo motivo è parimenti infondato, anche se la motivazione su tale capo del provvedimento impugnato va corretta. Invero, la Corte d’appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha statuito la condanna della ricorrente anche alla rimozione del servizio e delle notizie che lo riproducevano dal canale youtube e dai motori di ricerca, mentre in primo grado tale ordine era stato contenuto nei limiti della disponibilità della ricorrente (con rigetto dell’istanza ex art. 614-bis, c.p.c., proprio perché la misura non dipendeva solo dalla volontà della società convenuta).

La Corte territoriale ha respinto il motivo d’appello con il quale era stato censurato il suddetto ordine poiché illegittimo – concretizzatosi nell’imposizione di un facere inattuabile senza la collaborazione dei terzi – in quanto l’art. 17, c.2, GDPR contempla un obbligo del titolare del trattamento che è non solo quello di cancellare i dati personali ma anche di adottare tutte le misure ragionevoli, anche tecniche – tenendo conto della tecnologia disponibile e dei costi di attuazione – per informare i titolari (che stanno trattando i dati personali) della richiesta dell’interessato di cancellare qualsiasi link, copia o riproduzione dei propri dati.

Anzitutto, va ribadito, come affermato nella sentenza impugnata, l’obbligo del titolare del trattamento dei dati personali di attivarsi per la loro cancellazione, attraverso ogni attività volta alla rimozione del servizio e delle notizie che lo riproducono dai motori di ricerca (e dal canale youtube).

Circa l’eccezione d’inapplicabilità del citato art. 17, c.2, GDPR, giova rilevare che i principi affermati dai giudici di merito trovano la loro fonte nell’ordinamento europeo, sebbene il predetto art. 17 del Regolamento 2016/679 sia entrato in vigore successivamente ai fatti di causa. Al riguardo, va innanzitutto menzionata la sentenza 13 maggio 2014 della Corte di giustizia dell’Unione Europea (in causa C-131/12 Google Spain). Si tratta di una vicenda che aveva ad oggetto il problema dell’accesso ai dati esistenti sulla rete internet alla luce dell’allora vigente direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, poi abrogata dal Regolamento 2016/679/UE; in particolare, la terza questione esaminata (punti 89 e ss.) riguardava il diritto dell’interessato a ottenere che il motore di ricerca sopprimesse determinati dati dall’elenco dei risultati reperibili sulla rete. Circa gli importanti principi enunciati, la Corte di giustizia ha premesso (punto 92) che il trattamento dei dati personali può risultare incompatibile con l’art. 12, lett. b), della direttiva non soltanto se i dati sono inesatti, ma anche se essi sono inadeguati, non pertinenti o eccessivi in rapporto alle finalità del trattamento, oppure non aggiornati o conservati per un arco di tempo superiore a quello necessario, “a meno che la loro conservazione non si imponga per motivi storici, statistici o scientifici”. La Corte ha altresì affermato che il diritto dell’interessato, derivante dagli artt. 7 e 8 della Carta, di chiedere “che l’informazione in questione non venga più messa a disposizione del grande pubblico”, mediante la sua inclusione in un elenco accessibile tramite internet, prevale – in linea di massima – sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca e anche su quello del pubblico a reperire tale informazione in rete; a meno che non risultino ragioni particolari, “come il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica”, tali da rendere preponderante e giustificato l’interesse generale ad avere accesso a tale informazione (punto 97).

Pertanto, può affermarsi che i principi sanciti dal suddetto art. 17 abbiano recepito quelli in precedenza già applicati dalla Corte CEDU, che trovavano la loro fonte nella Convenzione CEDU, nell’ambito di un’organica disciplina della materia.

Nel caso concreto, in particolare, circa la doglianza afferente all’inesigibilità di tale obbligo con riferimento alla rimozione del servizio televisivo per cui è causa dal canale youtube e dai motori di ricerca, il collegio ritiene che l’ambito del dovere concretamente esigibile ed applicabile nei confronti della R.T.I. Spa consista nell’attivarsi e dimostrare di averlo fatto con i responsabili dei portali che hanno fatto e fanno uso del filmato divulgato in sede televisiva. [importante]

Invero, limitarsi, da parte della società ricorrente, ad eccepire l’inapplicabilità e l’inesigibilità dell’obbligo statuito dalla Corte d’appello, perché rientrante nella disponibilità di terzi, esprime una difesa che prescinde dalla necessaria attività collaborativa intesa a impedire – per quanto possibile e nei suoi obblighi di diligenza riparativa – l’illegittimo uso, da parte di terzi, dei dati personali reputati come eccedenti.

Nella specie, la ricorrente non ha allegato di aver adottato quelle cautele e svolto quelle iniziative nei confronti dei terzi operatori, finalizzate – per quanto possibile – a limitare il danno lamentato per il carattere eccedente del “girato”; ne consegue, come detto, che la statuizione della sentenza impugnata va confermata, attraverso una parziale correzione della motivazione, nel senso che va affermato il principio secondo cui, in casi siffatti grava sulla responsabile del prodotto televisivo-informativo, eccedente i limiti della critica giornalistica, la dimostrazione di aver posto in pratica ogni iniziativa volta a rendere edotti (e persuadere) i terzi che se ne siano appropriati circa l’illegittima diffusione di filmati televisivi e “girati filmici”, già negativamente valutati sul piano della offesa alla dignità delle persone coinvolte nel prodotto veicolato.

Né può obiettarsi, al riguardo, che tale attività verso i terzi costituisca una forma di risarcimento in forma specifica eccessivamente onerosa, ex art. 2058, c. 2, c.c., in quanto essa ovviamente non implica la certezza dell’adempimento richiesto ai terzi, ma presuppone la doverosa attività volta a ottenere la cessazione dell’illegittimo trattamento dei dati personali da parte dei terzi, venendo cioè in rilievo solo un’obbligazione di mezzi, non certo di risultato. Parimenti infondata è la doglianza relativa al fatto che la Corte d’appello non avrebbe potuto statuire l’obbligo della R.T.I. Spa oltre i limiti della propria disponibilità – come invece pronunciato dal Tribunale – in mancanza dell’appello incidentale da parte del Ca.Sa., in quanto la sentenza impugnata non ha condannato la ricorrente ad una prestazione diversa da quella oggetto della sentenza di primo grado – incorrendo in un’asserita pronuncia ultra petita – ma ha solo specificato le modalità dell’obbligo gravante sul titolare del trattamento dei dati personali, in piena conformità del petitum dedotto nell’atto introduttivo del giudizio.

D’altra parte, la stessa ricorrente ha inteso attivarsi per richiedere la tutela delle opere televisive dall’uso improprio del diritto d’autore e di produttore, mentre avrebbe anche potuto e dovuto richiedere le prestazioni necessarie per tutelare i dati del controricorrente. In tal senso, la cooperazione del creditore potrebbe rendersi necessaria attraverso l’indicazione, alla R.T.I. Spa, dei motori di ricerca che avevano e hanno fatto uso del filmato in questione. Sul punto, viene in rilievo il principio di correttezza e buona fede il quale, già secondo la Relazione ministeriale al codice civile, “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore”, ma che deve essere inteso in senso oggettivo, in quanto enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 della Costituzione che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile (Cass., SU, n. 28056/08; Cass., n. 22819/10; n. 9200/21; n. 16743/21)>>.

Diritto di critica e diffamazione: la verità putativa nel giornalismo d’inchiesta

Cass. civ., Sez. I, Ord. 03/11/2023, n. 30.522, rel. Ioffrida:

<<In tema di diffamazione a mezzo stampa, nel cd. giornalismo d’inchiesta – che ricorre allorquando il giornalista non si limiti alla divulgazione della notizia ma provveda egli stesso alla raccolta della stessa dalle fonti, attraverso un’opera personale di elaborazione, collegamento e valutazione critica, al fine di informare i cittadini su tematiche di interesse pubblico – il requisito della verità (anche putativa) va inteso in un’accezione meno rigorosa, implicando una valutazione non tanto dell’attendibilità e della veridicità della notizia, quanto piuttosto il rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede gravanti sul giornalista. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, in relazione a un articolo contenente un’inchiesta giornalistica sulla gestione dei voli di Stato, aveva ritenuto diffamatorie le notizie divulgate in merito all’alto ufficiale posto a capo della relativa organizzazione – definito, tra l’altro “dominus” e “boiardo dei cieli” -, omettendo di considerare che le suddette notizie erano state autonomamente acquisite dall’autore, attraverso fonti riservate ed ufficiali e riesaminando documenti pubblici o già noti, e che i relativi elementi di indagine erano stati, poi, posti a base di provvedimenti giurisdizionali successivi)>>

Questa la massima di Onelegale.

Il principio di diritto enuniciato in sentenza: “In tema di diffamazione a mezzo stampa, il c.d. giornalismo d’inchiesta ricorre anche quando il giornalista non si limiti alla divulgazione della notizia, come nel giornalismo ordinario di informazione, ma provveda egli stesso alla raccolta autonoma e diretta della notizia, tratta da fonti riservate e non, anche documentali e ufficiali, con un lavoro personale di organizzazione, collegamento e valutazione critica, al fine di informare i cittadini su tematiche di interesse pubblico. Esso, proprio per il suo ruolo civile e utile alla vita democratica di una collettività, implica la necessità di valutarne gli esiti, non tanto alla luce dell’attendibilità e della veridicità della notizia, quanto piuttosto dell’avvenuto rispetto da parte del suo autore dei doveri deontologici di lealtà e buona fede“.

Diritto di cronaca, diritto di critica e diffamazione

Cass.  Sez. III, Ord. 12/03/2024, n. 6.464, rel. Valle, in un obiter dictum conciso e poco chiaro:

<< Il motivo può ritenersi assorbito dall’accoglimento dei primi tre, dovendosi, nondimeno, ribadire che (Cass. n. 25 del 7/01/2009 Rv. 606355 – 01) “qualora la narrazione di determinati fatti sia esposta insieme alle opinioni dell’autore dello scritto, in modo da costituire nel contempo esercizio di cronaca e di critica, la valutazione della continenza non può essere condotta sulla base di criteri solo formali, richiedendosi, invece, un bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita (art. 21 Cost.); bilanciamento ravvisabile nella pertinenza della critica all’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critica, ma di quella interpretazione del fatto, che costituisce, assieme alla continenza, requisito per l’esimente dell’esercizio del diritto di critica” >>.

Quando l’intervistatore diventa co-autore (occulto) della dichiarazione diffamatoria emessa dall’intervistato

Cass. sez 3 del 7 luglio 2023 n. 10.376, rel. Gianniti:

<<3.2. In altri termini, il giornalista (e, di riflesso, per quanto qui rileva, il direttore del giornale e l’editore), anche nel caso in cui pubblichi il testo di una intervista, non può limitare il suo intervento a riprodurre esattamente e diligentemente quanto riferito dall’intervistato, soltanto perché le eventuali dichiarazioni possono interessare la pubblica opinione, ma è tenuto a controllare la veridicità delle circostanze e la continenza delle espressioni riferite (Sezioni Unite Penali n. 37140/2001).    Quando non ricorrono detti presupposti il giornalista (per il solo fatto che ha creato l’evento “intervista”, ma a maggior ragione se ha formulato, d’accordo o meno con il dichiarante, domande allusive, suggestive o provocatorie, che presuppongono determinate risposte assumendo come propria la prospettiva di quest’ultimo) diviene indubbiamente o “dissimulato coautore” delle eventuali dichiarazioni diffamatorie contenute nel testo pubblicato ovvero “strumento consapevole” di diffamazione altrui>>.

Corresponsabilità per illecito diffamatorio e sentenza ottenuta da uno solo dei corresponsabili

Cass. sez. III n° 19.611 del 11.07.2023, rel. Condello:

<<Questa Corte, con giurisprudenza consolidata, ha affermato il principio per cui, ai fini dell’applicazione dell’art. 2055 c.c. in tema di solidarietà tra più responsabili del danno, è sufficiente l’esistenza di un unico fatto dannoso alla cui produzione abbiano concorso con efficacia causale più condotte. Si e’, in particolare, evidenziato che l’unicità del fatto dannoso prevista dalla diposizione in esame deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle azioni degli autori del danno e neppure delle norme giuridiche da essi violate. La norma, in sostanza, nell’affermare la responsabilità solidale degli autori del fatto illecito, pone come condizione l’unicità del fatto dannoso riguardando, a tal fine, la posizione di colui che subisce il danno, senza tenere conto se le condotte lesive siano o meno tra loro autonome, né se siano o meno identici i titoli delle singole responsabilità (Cass., sez. 3, n. 5944/1997; Cass., sez. 6-1, 16/09/2022, n. 27267).

Nel caso in esame, la pubblicazione della notizia diffamatoria dapprima nell’articolo del V. e, successivamente, in parte, nel libro ‹‹Il caso G.››, non esclude l’unicità del fatto dannoso, da intendere con riguardo al risultato finale in cui confluiscono le condotte dei diversi responsabili, stante l’identità del soggetto danneggiato ( C.G.) e dell’interesse leso (la reputazione del magistrato), a nulla valendo che non vi sia coincidenza delle modalità di tempo e di luogo con le quali la notizia è stata diffusa, per il fatto che l’articolo del V., oggetto del giudizio definito con la sentenza della Corte di cassazione penale n. 34016/21, è stato pubblicato sul blog ‹‹ V.C..it›› in data 26 dicembre 2008, mentre il libro ‹‹Il Caso G.››, oggetto del presente giudizio, è stato pubblicato a distanza di qualche mese, nell’ottobre 2009, né ancora che sia diverso il mezzo utilizzato per propalare la notizia che si assume diffamatoria.

Siffatte circostanze non escludono la sostanziale unicità dell’evento lesivo, se si considera che, sebbene l’articolo sul blog del V. sia stato pubblicato in anticipo, il libro del M., pur se pubblicato dopo qualche mese, ha pacificamente ripreso una parte di quell’articolo, senza alterarne il contenuto, contribuendo in tal modo, con efficacia causale, alla diffusione della medesima notizia ritenuta, dalla Corte d’appello con la sentenza qui impugnata, lesiva dell’onore e del prestigio del soggetto su differenti organi di informazione.

L’accertato concorso delle diverse condotte ascritte al V., al M. ed al G. alla determinazione, ex art. 2055 c.c., dell’evento dannoso determina l’applicabilità della disciplina codicistica in tema di solidarietà, tra cui l’art. 1306, comma 2, c.c., che consente, salvo che non sia fondata su ragioni personali al singolo condebitore, di opporre al creditore la sentenza favorevole pronunciata tra il creditore ed uno dei debitori in solido.

La regola di cui al citato comma 2 dell’art. 1306 c.c., diversamente da quanto sostenuto dal controricorrente C.G., trova applicazione proprio nel caso in cui la sentenza, di cui il debitore in solido intenda giovarsi, sia stata resa in un giudizio cui non abbiano partecipato i condebitori che intendano opporla (Cass., sez. 3, 30/09/2014, n. 20559; Cass., sez. 2, 29/01/2007, n. 1779).

Le condizioni richieste per l’operatività del richiamato art. 1306 c.c. ricorrono nella fattispecie in esame, dovendosi considerare che la sentenza n. 13046/21 costituisce sentenza ormai definitiva, l’eccezione di giudicato è stata tempestivamente sollevata nella prima difesa utile, costituita dalla memoria illustrativa, ed il giudicato invocato non si è formato su ragioni personali del V., avendo anzi investito il valore oggettivo delle affermazioni del giornalista in relazione a determinati fatti, poi ripresi nella pubblicazione oggetto del presente giudizio>>.

Definire “big lie” l’approccio di Trump, e paragonarlo ad un nazista, non è diffamazione ma espressione di opinione

Così il giudice Singhal che in Sout. Dist-. court of Florida CASE NO. 22-61842-CIV-SINGHAL Trump v. CNN, 28 luglio 2023 rigetta la domanda risarcitoria del primo  contro la seconda per danni puniutivi di $ 475 milioni. (notizia dal Guardian)

<<The problem is essentially two-fold.  First, the complained of statements are opinion, not factually false statements, and therefore are not actionable.  Second, the reasonable viewer, unlike when Sullivan, Butts or Gertz were decided, no longer takes the time to research and verify reporting that often is not, in fact, news. As an example, only one month ago, the United States Supreme Court issued a well written 237-page joint opinion with vastly divergent views in two cases known widely as the Affirmative Action decisions.5 Within minutes of the release of the opinion, the free press had reported just what the opinion supposedly said and meant although it was clearly impossible that the reporter had read the opinion. And of course, those initial news articles were repeatedly shared, commented upon and disseminated over social media and still to this day the reasonable viewer very likely hasn’t read the opinion and never will. This is the news model of today. It is far different than that in Sullivan which altered law that existed for 175 years and has spawned a cottage industry over the last 60. But this too is not actionable.
Trump argues that CNN’s motivation for describing his election challenges as “the Big Lie” was to undermine Trump’s political standing. But political motivation does not establish falsity. The “intention to portray [a] public figure in [a] negative light, even when motivated by ill will or evil intent, is not sufficient to show actual malice unless the publisher intended to inflict harm through knowing or reckless falsehood.” Donald J. Trump for President, Inc. v. CNN Broad., Inc., 500 F. Supp. 3d 1349, 1357 n.4 (N.D. Ga. 2020) (quoting Don King Productions, Inc. v. Walt Disney Co., 40 So. 3d 40, 50 (Fla. 4th DCA 2010). See also Dershowitz v. Cable News Network, 541 F. Supp. 3d 1354, 1370 (S.D. Fla. 2021) (political motivation irrelevant to defamation claim); cf. Harte-Hanks Communications, Inc. v. Connaughton, 491 U.S. 657, 666-67 (1989) (profit motive behind publication does not establish actual malice).
Acknowledging that CNN acted with political enmity does not save this case; the Complaint alleges no false statements of fact. Trump complains that CNN described his election challenges as “the Big Lie.” Trump argues that “the Big Lie” is a phrase attributed to Joseph Goebbels and that CNN’s use of the phrase wrongly links Trump with the Hitler regime in the public eye. This is a stacking of inferences that cannot support a finding of falsehood. See Church of Scientology of California v. Cazares, 638 F.2d 1272, 1288 (5th Cir. 1981) abrogated on other grounds, Blanchard v. Bergeron, 489 U.S. 87 (1989)>>

E poi:

<<Trump alleges that “the Big Lie” refers to a Nazi “propaganda campaign to justify Jewish persecution and genocide.” (DE [1] ¶ 23). Like Trump and CNN personalities Ashleigh Banfield and Paul Steinhauser (see (DE [1] ¶ 24), the Court finds Nazi references in the political discourse (made by whichever “side”) to be odious and repugnant. But bad rhetoric is not defamation when it does not include false statements of fact. CNN’s use of the phrase “the Big Lie” in connection with Trump’s election challenges does not give rise to a plausible inference that Trump advocates the persecution and genocide of Jews or any other group of people. No reasonable viewer could (or should) plausibly make that reference>>

Tra diffamazione, danno reputazionale e concorrenza sleale denigratoria

L’appello del 9° circuito No. 21-16466 del 2 giugno 2023, Enigma c. Malwarebytes decide una lite di vecchia data tra due aziende di sicurezza informatica , una delle quali aveva diffamato l’altra (designating its products as “malicious,” “threats,” and “potentially unwanted programs”)

Dal syllabo iniziale:

<<The district court primarily based the dismissal on its conclusion that Malwarebytes’s designations of Enigma’s products were “non-actionable statements of opinion.”

The panel disagreed with that assessment.

In the context of this case, the panel concluded that when a company in the computer security business describes a competitor’s software as “malicious” and a “threat” to a customer’s computer, that is more a statement of objective fact than a non-actionable opinion. It is potentially actionable under the Lanham Act provided Enigma plausibly alleges the other elements of a false advertising claim.
The district court held that the tort claims under New York law failed because Malwarebytes was not properly subject to personal jurisdiction in New York. That meant Enigma’s claim for relief under New York General Business Law (NYGBL) § 349 failed because that statute did not apply to the alleged misconduct. The panel disagreed and concluded that Malwarebytes is subject to personal jurisdiction in New York. As this action was initially filed in New York, the law of that state properly applies.
The common law claims for tortious interference with contractual relations and tortious interference with business relations were also dismissed by the district court. Those torts are recognized as actionable under California law, as they are under New York law, but the district court concluded that Enigma failed to allege essential elements for those claims under California law. The contractual relations claim failed because Enigma did not identify a specific contractual obligation with which Malwarebytes interfered. The business relations claim was dismissed because that claim required an allegation of independently wrongful conduct, and that requirement was not satisfied following the dismissal of the Lanham Act and NYGBL § 349 claims.

Because the panel held that the Lanham Act and NYGBL § 349 claims should not have been dismissed, the panel concluded that the tortious interference with business relations claim should similarly not have been dismissed. The panel agreed with the district court regarding dismissal of the claim for tortious interference with contractual relations, however, and affirmed the dismissal of that claim>>.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Buona nota alla sentenza nella Harvard law review.

Libertà di ricerca scientifica e di parola vs. diffamazione: possono i ricercatori dire che un certo anestetico non è superiore agli altri in commercio?

la risposta dovrebbe essere senza esitazioni  positiva e  tale è quella dell’appello del 3 circuito USA in Pacira Biosciences v. AMERICAN SOCIETY OF ANESTHESIOLOGISTS, INC ed altri, 24 marzo 2023, No. 22-1411  (link da JUSTIA US LAW e notizia dal blog di Rebecca Tushnet).

Sentenza interessante, anche perchè riferisce in dettaglio delle opinioni espresse.

Violazione azionata: <<Pacira seeks relief based on two statements: (1) that EXPAREL is “not superior” to local anesthesia; and (2) that it is an “inferior analgesic.”>>

Ma i due gradi rigettano perchè :

i) si tratta di opinioni, non suscettibile di essere sottoposte al test di vero/falso : <<Pacira’s critiques about the Articles’ data and methodology may be the basis of future scholarly debate, but they do not form the basis for trade libel under New Jersey law. To conclude otherwise would risk “chilling” the natural development of scientific research and discourse. Kotlikoff, 444 A.2d at 1088; see also ONY, 720 F.3d at 497 (observing that scientific conclusions inspire other scientists to “respond by attempting to replicate the described experiments, conducting their own experiments, or analyzing or refuting the soundness of the experimental design or the validity of the inferences drawn from the results”). Thus, the verifiability factor supports our conclusion that the statements are nonactionable opinions;>>, P. 17

La corte si sofferma anche sulla (sottile) differenza tra defamation e trade libel, p. 9 ss.

ii) anche il contesto indica che si trattava di opinioni e non di fatti: <<The statements here were made in a peer-reviewed journal for anesthesiology specialists. While statements are not protected solely because they appear in a peer-reviewed journal, such journals are often “directed to the relevant scientific community.” ONY, 720 F.3d at 496-97. Their readers are specialists in their fields and are best positioned to identify opinions and “choose to accept or reject [them] on the basis of an independent evaluation of the facts.” Redco Corp. v. CBS, Inc., 758 F.2d 970, 972 (3d Cir. 1985).
Such is the case here. First, Anesthesiology is a leading journal in the field and is offered as a free benefit to the ASA’s members, who are “physicians practicing in anesthesiology as well as anesthesiologist assistants and scientists interested in anesthesiology.” JA34. Second, the readers were provided with the data and methodology on which the statements were based. The Hussain Article stated that it was based on nine randomized studies, gave the reasons for selecting those studies, and disclosed the possible shortcomings of its methodology. The Ilfeld Review disclosed the seventy-six randomized controlled trials involving EXPAREL it reviewed, what those trials concluded, and the methods the authors used to analyze the data. The CME’s statement that EXPAREL is “inferior” to local anesthetics is based directly on the Ilfeld Review’s finding that “[n]inety-two percent of trials (11 of 12) suggested [standard local anesthesia] provides superior analgesia to [EXPAREL].” JA96. Similarly, the CME’s statement allegedly suggesting that industry-sponsored studies favoring EXPAREL were biased is drawn directly from the Articles, which state that industry-sponsored studies were “considered a potential source of bias.” JA78; see also JA145 (“Explicitly excluded from the Cochrane bias tool is industry funding.”).19 Therefore, the journal’s readers were provided the basis for the statements, have the expertise to assess their merits based on the disclosed data and methodology, and thus are equipped to evaluate the opinions the authors reached.
For these reasons, content, verifiability, and context all support the conclusion that the statements are nonactionable opinions. The District Court, therefore, properly dismissed Pacira’s complaint.>>

Tra diritto di critica (politica) e diffamazione: la Cassazione conclude la lite tra Berlusconi e l’ex pm Robledo, rigettando il ricorso del primo

Cass. 27.01.2023 n. 2605 , sez. 1, rel. Tricomi, sull’oggetto.

Non ci sono passaggi particolrmente interessanti: ripete dicta noti in materia e si sofferma su fatti storici come ragionati dalla corte di appello.

Si trattava di domanda risarcitoria da diffamazioen aggravata a mezzo stampa (art. 13 L. 47/1948) promossa dall’ex pm.-

La SC ha respinto il ricorso e confermato la decisione di appello, che aveva condannato Berlusconi ad un risarcimento di euro 50.000,00

<< 2.6.- Come affermato da questa Corte, con consolidato principio qui confermato, in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, la valutazione dell’esistenza o meno dell’esimente dell’esercizio dei

diritti di cronaca e di critica costituiscono oggetto di accertamenti in fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione; pertanto, il controllo affidato alla Corte di cassazione è limitato alla verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza, con riferimento al diritto di cronaca e di critica, dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla diffusione delle notizie, nonché al sindacato della congruità e logicità della motivazione, secondo la previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile “ratione temporis”, restando estraneo al giudizio di legittimità l’accertamento relativo alla capacità diffamatoria delle espressioni in contestazione (Cass. n. 18631/2022; Cass. n. 5811/2019; Cass. n. 6133/2018, tra molte)” >>.

Errore: solo la parte in rosso è fatto, il resto è diritto!

Sull’esimente del  diritto di critica:

<< E’ stato più volte affermato, nell’ambito del diritto di critica, che i presupposti per il legittimo esercizio della scriminante di cui all’art. 51 c.p., con riferimento all’art. 21 Cost., sono: a) l’interesse al racconto, ravvisabile anche quando non si tratti di interesse della generalità dei cittadini ma di quello della categoria di soggetti ai quali, in particolare, si indirizza la comunicazione; b) la continenza, ovvero la correttezza formale e sostanziale dell’esposizione dei fatti da intendersi nel senso che l’informazione non deve assumere contenuto lesivo dell’immagine e del decoro; c) la corrispondenza tra la narrazione ed i fatti realmente accaduti; d) l’esistenza concreta di un pubblico interesse alla divulgazione (in tema, Cass. n. 2357/2018, in linea con una costante giurisprudenza; v. sul punto Cass. n. 15443/2013,).

Tale insegnamento è stato ulteriormente ribadito dall’ordinanza n. 38215/2021, nella quale si è detto che il diritto di critica, quale estrinsecazione della libera manifestazione del pensiero, ha rango costituzionale al pari del diritto all’onore e alla reputazione, sul quale tuttavia prevale, scriminando l’illiceità dell’offesa, a condizione che siano rispettati i limiti della continenza verbale, della verità dei fatti attribuiti alla persona offesa e della sussistenza di un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti oggetto della critica.

In relazione, specificamente, al diritto di critica politica – nel quale si inserisce la vicenda odierna – è stato ribadito che esso consente l’uso di toni aspri e di disapprovazione anche pungenti, purché sempre nel rispetto della continenza, da intendere come correttezza formale e non superamento dei limiti di quanto strettamente necessario al pubblico interesse (Cass. n. 841/2015).

E’ stato parimenti affermato, con varie sfumature, che trascende i limiti del diritto di critica l’aggressione del contraddittore, sebbene compiuta in clima di accesa polemica, risoltasi nell’accusa di perpetrazione di veri e propri delitti o comunque di condotte infamanti, in rapporto alla dimensione personale, sociale o professionale del destinatario (Cass. n. 11769/2022; Cass. n. 7274/2013). Così come si è detto che in tema di diffamazione a mezzo stampa, l’applicabilità della scriminante rappresentata dalla continenza verbale dello scritto che si assume offensivo va esclusa allorquando vengano usati toni allusivi, insinuanti, decettivi, ricorrendo al sottinteso sapiente, agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato, all’artificiosa drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre e alle vere e proprie insinuazioni (Cass. n. 27592/2019)>>.

Diffamzione negata nella lite Renzi c. RCS (Corriere della sera), direttore e articolista

Trib. Firenze n° 572/2023 del 27.02.2023, RG 8569/2020, rel. Zanda,  decide in modo sfavorevole a Matteo Renzi la lite da lui promossa contro i convenuti in oggetto per articolo sui soldi che egli avrebbe percepito dalla Fondazione Open di Carrai.

<<La domanda è risultata infondata.
Nell’articolo giornalistico del 4.12.2019 sotto il paragrafo “PRESTITI” viene riportato dal giornalista in modo fedele il contenuto del doc. 6 prodotto da parte convenuta, ovvero di quella segnalazione fatta dalla Guardia di Finanza alla Procura, sul giroconto disposto da Marco Carrai di euro 50.000,00 cui aveva fatto seguito poche settimane dopo, il bonifico a Matteo Renzi di un prestito infruttifero di euro 20.000,00.
L’articolo quindi rispetta il canone della verità in quanto l’articolo esprime esattamente il contenuto della nota informativa dell’ufficio di Intelligence finanziario.
La dicitura finale “regalo fatto a Renzi” non è diffamatoria perché nel titolo del paragrafo è chiaramente scritto “prestiti” ed in ogni caso un prestito infruttifero potrebbe essere ritenuto una forma di donazione per gli interessi mancati, interessi che normalmente si collegano ai prestiti, anche tra privati, per cui si ritiene che non risultino integrati gli elementi oggettivo e soggettivo della diffamazione aggravata.
Anche per quanto riguarda la prima e ultima parte dell’articolo non si rinviene alcuna notizia diffamatoria e falsa in danno dell’attore in quanto dagli atti penali è emerso che la Procura stava svolgendo all’epoca indagini sulla Fondazione Open, per l’ipotesi delittuosa di finanziamento illecito ai partiti; in particolare risultavano già emessi vari decreti di perquisizione sugli immobili dell’indagato rapp.te legale Open avv.to Alberto Bianchi di Pistoia, sulla base della ipotesi investigativa che la Fondazione Open fosse non già un organismo avente gli scopi dichiarati, ma fosse un’articolazione politica destinata a supportare la campagna politica di Renzi Matteo, sia per la sua attività di sindaco di Firenze che per quella successiva, compresa la campagna del SI referendario.
In particolare l’articolo giornalistico risulta recepire fedelmente il contenuto di alcuni atti di indagine di poco anteriori quali ad es. il decreto di perquisizione emesso in data 25.11.19 dalla Procura della Repubblica di Firenze, sullo studio e immobili dell’avv.to Bianchi (doc. 4 prodotto dai convenuti), dal quale si traggono tutte le notizie che il giornalista aveva riportato nel suo articolo senza falsificarne il contenuto, come infondatamente allegato da parte attrice.
Nello stesso doc. 4 a pag. 2 si rinviene anche la notizia che dagli atti di indagine era emerso, sempre dunque nella fase delle indagini preliminari e non a seguito di dibattimento penale, che la Fondazione Open rimborsava le spese dei parlamentari e metteva a loro disposizione carte di credito e bancomat; nel provvedimento sono indicate anche specificamente le segnalazioni della guardia di Finanza al riguardo.
Dunque, il giornalista ha fatto affidamento su una fonte particolarmente qualificata e non aveva alcun ulteriore onere di controllo>>.

<<D’altra parte il giornalista aveva giustificatamente ravvisato anche un interesse pubblico alla diffusione, perché il finanziamento di un partito, di una corrente partitica, o di un uomo politico, sono fatti di interesse pubblico, e ciò proprio per il controllo sociale e la trasparenza del funzionamento delle attività istituzionali democratiche.     Si ritiene poi che non sussista nemmeno quell’aspetto diffamatorio allegato dall’attore e connesso alla presunzione di innocenza, atteso che nell’articolo è chiaramente affermato che queste notizie non sono contenute in sentenze ma sono riferite agli sviluppi dell’indagine investigativa in corso, per cui il lettore è edotto del fatto che non c’è stata una sentenza di condanna dibattimentale; è poi da notare che in nessun punto dell’articolo Renzi Matteo viene rappresentato come soggetto imputato o indagato, ciò che non è stato nemmeno allegato>>

Precisazione del giudice: <<Sulla differenza tra Fonte-atti d’indagine e fonte-indiscrezioni su atti di indagine e comunque esimente in entrambi i casi si veda cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 39082 del 09/12/202>>