L’omissione di alcuni beni ereditari nella divisione fa sorgere il diritto al supplemento divisionale

Cass. sez. II, 15/04/2025 n. 9.869, rel. Giannaccari:

<<7.1. L’art. 762 c.c. stabilisce che l’omissione di uno o più beni dell’eredità non è causa di nullità della divisione, ma determina esclusivamente la necessità di procedere ad un supplemento della divisione stessa (Cassazione civile sez. II, 03/09/1997, n. 8448). La divisione contrattuale può, infatti, avere per oggetto l’intera eredità o una parte soltanto di essa, permanendo in questa seconda ipotesi la comunione ereditaria per i beni non divisi. Infatti, quando i coeredi procedono alla divisione amichevole soltanto di alcuni beni della massa ereditaria, il loro consenso unanime di limitare a tali beni lo scioglimento e di mantenere lo stato di comunione per gli altri è in re ipsa, con conseguente applicabilità dell’art. 762 cod. civ., secondo cui l’omissione di uno o più beni dell’eredità non dà luogo a nullità della divisione, ma soltanto a un supplemento della divisione stessa (Sez. 2, Sentenza n. 1337 del 09/02/1987).

L’eventuale pretermissione di cespiti facenti parte del compendio comune e l’errore, non determinato da dolo, sull’essenza e sul valore dei beni da dividere trovano il loro specifico rimedio, rispettivamente, nell’art. 762 c.c., che ammette la possibilità di procedere ad un supplemento della divisione e nel successivo art. 763 che, prevedendo l’azione di rescissione per lesione oltre il quarto, mostra di considerare rilevante l’errore valutativo solo se ed in quanto abbia dato luogo ad una lesione di detta entità (Cassazione civile sez. II, 11/02/1995, n.1529).

La non impugnabilità della divisione per errore, ricavabile dagli artt. 761,762,763 cod. civ., ha ragione di sussistere solo quando l’errore sia caduto sulle operazioni divisionali, ma non quando esso sia caduto sui presupposti della divisione. A tal proposito, la risalente giurisprudenza di questa Corte richiama l’istituto della transazione, che non è impugnabile per errore di fatto, come si ricava dagli artt. 1969 e 1972 cod. civ., salvo che l’errore concerna i fatti già controversi e regolati dal negozio transattivo, e non già i fatti non controversi, da considerare quali presupposti del negozio (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 967 del 22/04/1964)>>.

Differenza tra azione di simulazione e azione revocatoria contro la creazione di fopndo patrimoniale

Cass. sez. I, 09/05/2025  n. 12.247, rel. Russo R.E., ricorda  la distinzione in oggetto:

<<6.- Quanto al resto, il ragionamento esposto dalla Corte d’Appello è ineccepibile e le censure di parte ricorrente non colgono nel segno, posto che essa ha proposto una azione volta a far accertare la simulazione, vale a dire una divergenza tra il voluto e il manifestato (art. 1414 c.c.), e non altre domande, e segnatamente non una azione revocatoria che è la azione appropriata per far accertare che l’atto era scientemente rivolto o dolosamente preordinato al fine di pregiudicare il soddisfacimento del creditore (art 2901 c.c.).

7.- La simulazione del contratto è infatti un’ipotesi di dissociazione concordata tra volontà e dichiarazione (Cass. 21995/2007; Cass. 614/2003; n. 1523 del 26/01/2010) mediante la quale le parti creano una apparenza negoziale al fine di mostrare una realtà non corrispondente, in tutto o in parte, all’effettivo assetto d’interessi. Non si discute qui, pertanto, se il fondo patrimoniale fosse stato costituito in pregiudizio dei creditori ordinari, ma se fosse effettiva la volontà delle parti di vincolare alcuni beni (la casa) al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, creando così uno schermo alle azioni esecutive che non fossero quelle consente dall’art 170 c.c., all’uopo utilizzando uno schema negoziale tipico (art. 167 c.c.) il cui effetto è esattamente quello di costituire un patrimonio separato, destinato alla garanzia di specifici creditori e segnatamente i creditori della famiglia, impedendo al creditore, consapevole che il debito è estraneo ai bisogni della famiglia, di soddisfarsi sui beni del fondo.

7.1.- La Corte d’Appello ha ritenuto correttamente che non vi fosse divergenza tra la volontà e la sua manifestazione poiché l’intento dei coniugi era effettivamente quello di produrre l’effetto segregativo proprio del fondo patrimoniale e quindi di proteggere la casa dalle azioni esecutive che non fossero quelle consentite dall’articolo 170 c.c.

La sottrazione di determinati beni alla garanzia patrimoniale generica per destinarli ai bisogni della famiglia è atto di per sé lecito, rispondendo ad uno scopo che il legislatore ha ritenuto meritevole di tutela e salva la possibilità di esperire l’azione revocatoria ordinaria pacificamente ammessa in giurisprudenza (Cass. 28593/2024Cass. 25361/2023; Cass. 24757/2008; Cass. 11537/2002). Tuttavia, come rilevato dalla Corte d’Appello, la domanda n concreto proposta non era quella di far accertare i presupposti dell’azione pauliana bensì la simulazione dell’atto>>.

Precisazioni sul patto di non concorrenza ex art. 2125 cc. (in particolare sulla delimitazione territoriale)

Cass. sez. lav., 16/05/2025 n. 13.050, rel. Amirante:

In generale:

<<5.1. Questa Corte ha, infatti, precisato che le clausole di non concorrenza sono finalizzate, da un canto, a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi “esportazione presso imprese concorrenti” del patrimonio immateriale dell’azienda, trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle aziende concorrenti, e, d’altro canto, a tutelare il lavoratore subordinato, affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti (da ultimo, Cass. n. 9790 del 2020, conf. a Cass. n. 24662 del 2014). Il legislatore, proprio perché la regola è che, alla cessazione del rapporto, il lavoratore recuperi la piena ed assoluta libertà di collocare le proprie prestazioni in ogni settore del mercato e della produzione, ha, peraltro, dettato – nell’ambito della generale disciplina ex art. 2596 c.c. in tema di limitazioni (legali o volontarie) alla concorrenza – una specifica regolamentazione che porta a differenziare integralmente il lavoratore subordinato da tutti gli altri soggetti pur essi destinatari del divieto di concorrenza (cfr. al riguardo gli artt. 1751 bis, 2557,2301 e 2390 c.c.), affinché detta libertà, pur se assoggettabile a condizionamenti in ossequio alla regola dell’autonomia contrattuale, non possa essere limitata in modo tale da compromettere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore, pregiudicandone ogni potenzialità reddituale. In ragione di ciò, l’art. 2125, co. 1, c.c., ha subordinato la validità del patto di non concorrenza a specifiche condizioni – espressamente indicate dalla norma – di forma, di corrispettivo, di limiti di oggetto, di tempo e di luogo, presidiando l’eventuale violazione con la più grave delle sanzioni negoziali la nullità del patto.

6. Ciò premesso, deve ritenersi necessario che, ai fini del rispetto dell’art. 2125 c.c., i limiti di oggetto, di tempo e di luogo del patto di non concorrenza, siano determinati o, quantomeno, determinabili sin dal momento della conclusione di tale negozio giuridico in modo da consentire una corretta formazione del consenso delle parti in sede di stipula. La ratio della disposizione, chiaramente ispirata all’intento di bilanciare i contrapposti interessi delle parti, riposa, infatti, sull’esigenza che il lavoratore abbia sicura contezza, fin dall’assunzione dell’impegno, della area geografica in relazione alla quale si esplicherà il vincolo, per assumere le determinazioni più opportune sulle scelte lavorative, le quali verrebbero ostacolate ove essa fosse soggetta alle determinazioni unilaterali della controparte.>>

Sul caso specifico manca la determinabilità territoriale:

<7. Tali argomentazioni rendono, conseguentemente, non condivisibile l’assunto della Corte territoriale che, senza tener conto dello specifico rilievo di nullità svolto dalla lavoratrice sin dal ricorso, ha ritenuto i limiti geografici del patto “chiari e ben precisi poiché l’ambito territoriale è limitato alla Regione Toscana”, in base ad una valutazione ex post e non, come corretto, ex ante. Il patto di non concorrenza in esame, stipulato tra le parti in causa in data 23 giugno 2015, prevedeva, infatti, quanto all’ampiezza territoriale, che il divieto di attività lavorativa in concorrenza si estendesse alla area geografica della Regione Toscana ovvero “a quella della diversa Regione ove risulti ubicata la sede di lavoro in atto al momento della cessazione del rapporto di lavoro e anche a quella diversa procedente ove la diversa nuova assegnazione sia intervenuta da meno di un anno. In ogni caso l’area territoriale dell’obbligo di non concorrenza deve ritenersi comunque estesa a province “fuori Regione” se rientranti nel raggio di 250 km dalla sede di lavoro” e, quanto alle limitazioni di attività, impegnava il lavoratore “anche dopo la cessazione di detto rapporto, e per un periodo di dodici mesi da tale cessazione, a non svolgere alcuna attività- direttamente o indirettamente, in forma autonoma, subordinata e/o imprenditoriale, per conto proprio e/o di terzi- a favore di Società di Gestione, di Assicurazioni, di Banche e di SIM di gestione ovvero intrinsecamente ordinate e funzionali alla intermediazione finanziaria, nei settori della gestione di portafogli finanziari della clientela anche istituzionale, della intermediazione finanziaria, e comunque in tale ambito in concorrenza con la nostra società”. Come reso evidente dal tenore del patto, l’area geografica cui si estendeva il divieto era suscettibile non solo di modifica, circostanza già di per sé rilevante, in dipendenza di una diversa nuova assegnazione, ma anche di successivo ampliamento posto che, in caso di trasferimento del lavoratore, disposto da meno di un anno alla data di cessazione del rapporto di lavoro, all’area della Regione di ubicazione della sede di lavoro, estesa alle province fuori Regione nel raggio di 250 km, si sarebbe aggiunta l’area della regione “diversa precedente”.

E comunque sul corrispettivo:

<<8. Occorre, inoltre, evidenziare che, quand’anche si ritenesse determinato o determinabile al momento della stipula del patto un limite di luogo di tal fatta, si renderebbe, in ogni caso, necessario che la valutazione di congruità e proporzionalità del compenso pattuito venga effettuata rispetto alla limitazione delle possibilità lavorative dallo stesso imposta tanto in generale quanto con riguardo all’attribuzione al datore di lavoro della possibilità di ampliare senza sostanziali limitazioni l’ambito territoriale di estensione della clausola. Anche sotto tale aspetto la decisione impugnata non risulta conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell’art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, e che il patto non sia di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale; all’eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale consegue comunque la nullità dell’intero patto (cfr. Cass. n. 9790/2020, n. 5540/2021, n. 23723/2021, n. 33424/2022).>>

Siti alias e inibitoria dinamica nella violazione del diritto di autore o di diritti connessi

Interessanti considerazioni sul sempre scivoloso tema in oggetto in Trib Milano sez. spec. imprese 20.03.2025 n. 2359, RG 6800/2019:

<<11.6. Per quanto concerne il contenuto dei provvedimenti inibitori, dal complessivo esame delle previsioni comunitarie in tema di tutela del diritto d’autore e di limiti alla responsabilità degli intermediari, si ricava che se, da un lato, l’art. 15 della direttiva 2000/31/CE osta alla pronuncia di provvedimenti che pongano a carico dei prestatori di servizi on line obblighi di vigilanza attiva e preventiva in relazione a qualsiasi futura violazione dei diritti di proprietà intellettuale; tuttavia, tale norma non preclude la pronuncia di provvedimenti che impongano all’intermediario di adottare provvedimenti che contribuiscano non solo a far cessare la violazione in atto, ma anche a prevenire nuove violazioni della stessa natura, purché si tratti di ingiunzioni efficaci, proporzionate dissuasive e tali da non creare ostacoli al commercio legittimo (Corte di Giustizia, C-324/2009 L’ OMISSIS ).

11.7. Sul punto, la Corte di Giustizia ha affermato la legittimità di un provvedimento che imponga al “prestatore di hosting di bloccare l’accesso alle informazioni memorizzate il cui contento sia identico a quello precedentemente dichiarato illecito e di rimuovere tali informazioni qualunque sia l’autore della richiesta di memorizzazione delle medesime. Tenuto conto delle specifiche circostanze del caso concreto, l’ordine può prevedere anche la rimozione di contenuti “equivalenti” a quello dichiarato illecito, purché il prestatore di servizi non sia chiamato ad effettuare una valutazione autonoma e le informazioni veicolino un messaggio il cui contenuto rimanga sostanzialmente invariato rispetto a quello che ha dato luogo all’accertamento; poiché le differenze del nuovo messaggio non sono tali da costringere il prestatore ad una valutazione autonoma di tale contenuto”. In altri termini, ciò che le previsioni applicabili ratione temporis hanno inteso escludere è che il fornitore dei servizi di internet che, per la natura del servizio e le concrete modalità con cui lo stesso venga erogato, sia neutrale rispetto ai contenuti immessi, possa essere tenuto ad un controllo generalizzato e preventivo in ordine alla liceità di detti contenuti.

Escluso, pertanto, un obbligo siffatto, secondo la Corte di Giustizia non è in contrasto con gli esposti principi il contenuto di un ordine dell’autorità giudiziaria o amministrativa che imponga al prestatore dei servizi di hosting specifici obblighi consistenti “nella ricerca di informazioni di contenuto uguale o identico a quelle dichiarate illecite” purché, per assolvere a tale obbligo, il prestatore di servizi non sia tenuto a svolgere una “valutazione autonoma” di illiceità e la selezione di tali contenuti possa avvenire con il ricorso a “tecniche e mezzi di ricerca automatizzati” (Corte di Giustizia C-18/18, G.-OMISSIS ).

11.8. Secondo l’orientamento di questo Tribunale, le condizioni descritte risultano efficacemente rispettate laddove l’inibitoria abbia ad oggetto i siti vetrina che, anche con l’uso di domain name diversi, comportino la violazione del medesimo diritto “da parte dei medesimi soggetti o comunque con collegamenti diretti con essi”, dovendo le condotte future essere riconducibili ad un medesimo fatto lesivo come oggettivamente e soggettivamente accertato. A tal fine, l’inibitoria può essere estesa a condotte che associno un diverso top level domain al medesimo second level domain utilizzato per l’erogazione dei contenuti illeciti, onerando tuttavia il titolare dei diritti di comunicare all’ OMISSIS eventuali nuovi indirizzi IP che consentano l’accesso ai medesimi contenuti protetti, ovvero la loro diffusione, ciò anche ove tali siti siano associati ad un diverso top level domain. L’inibitoria può, inoltre, essere estesa a eventuali modifiche al second level domain a condizione che “il collegamento tra i soggetti responsabili dell’attività illecita sia obiettivamente rilevabile attraverso la comunicazione ai rispettivi abbonati di specifiche indicazioni atte a raggiungere altro sito diversamente denominato ma ad essi direttamente riconducibile”, onerando della segnalazione gli stessi titolari dei diritti connessi (Tribunale di Milano, ord. 15/11/2019). Come osservato da questo Tribunale, “in presenza di specifica segnalazione da parte della ricorrente, non può ravvisarsi alcuna violazione del divieto dell’obbligo generale di sorveglianza” (Tribunale di Milano, ord. 08/05/2017).

11.9. Infine, partendo dalla considerazione per cui è ben possibile che “non esista alcuna tecnica che consenta di porre completamente fine alle violazioni del diritto di proprietà intellettuale, o che non sia praticamente realizzabile, con la conseguenza che alcune misure adottate all’occorrenza potrebbero essere aggirate in un modo o nell’altro”, la giurisprudenza dell’Unione ha evidenziato che, cionondimeno, l’intermediario possa essere destinatario di un’ingiunzione per l’adozione di misure (disattivazione dell’accesso o rimozione dei contenuti) quanto meno idonee a rendere difficilmente realizzabili o a scoraggiare le ulteriori violazioni del diritto d’autore (Corte di Giustizia C-314/2012, U.T.W. GmbH).>>

La sentenza, tratta da Onelegale, è purtroppo anonimizzarta: il che la rende difficilmente comprensibile e comunque richiede notevole impegno, come sempre nei provvedimenti anonimizzati a più parti . Il che è assurdo e va contrastato. Meritoria quindi l’azione con successo svolta al TAR dal prof. Mondoni e altri: non è invece condivisibile l’opposta opinione della d.ssa Civinini in Questione giustizia.

Se non si conoscono i soggetti, è impossibile il controllo pubblico sull’esercizio della giurisdizione: che è ciò cui mira la pubblicazione delle sentenze, priva di senso se non è permesso che avvenga anche (oggi: solo) tramite la loro divulgazione.

Ma l’argomento è complesso e meriterebbe specifico approfondimento.

Il danno non patrimoniale da violazione della distanza minima dalle vedute (art. 907 cc) è presunto, non in re ipsa

Cass. sez. II, 14/05/2025 n. 12.879, rel. Caponi:

<<2. Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 115 c.p.c., 1226, 2043, 2059, 2697 e 2727 c.c., lamentando che la Corte territoriale abbia riconosciuto il danno non patrimoniale in re ipsa, senza prova della sua effettiva sussistenza e senza che vi fosse una specifica previsione normativa in tal senso. Si sostiene che la violazione della distanza legale non comporta automaticamente un danno risarcibile, ma è necessario dimostrare un effettivo pregiudizio subito dal proprietario del fondo confinante.

Il motivo è fondato.

L’argomentazione della Corte d’Appello (“in tema di violazione delle distanze tra costruzioni, il danno che il proprietario confinante subisce, deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria, essendo il detto danno l’effetto, certo e indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà”) deve essere valutata criticamente alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale più recente sul danno in re ipsa, che ha conosciuto una tappa importante con Cass. SU 33645/2022.

Le Sezioni Unite hanno proposto di sostituire la locuzione danno in re ipsa con quella di danno presunto o danno normale, privilegiando la prospettiva di una presunzione basata sull’allegazione di specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio. Secondo le Sezioni Unite, nel caso di occupazione sine titulo di un immobile, il fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento (diretto o indiretto) che è andata perduta. Questo significa che, sebbene non si richieda una prova precisa dell’ammontare del danno (che può essere liquidato equitativamente, ad esempio tramite il canone locativo di mercato), la parte che chiede il risarcimento deve comunque allegare la concreta possibilità di godimento che ha perso a causa dell’occupazione abusiva. Il convenuto può poi contestare specificamente tale allegazione, nel rispetto dell’art. 115 co. 1 c.c. In presenza di una contestazione specifica, sorge per l’attore l’onere di provare lo specifico godimento perso, onere che può essere assolto anche tramite nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o mediante presunzioni semplici.

Pur essendo pronunciata su una fattispecie diversa da quella qui controversa, l’orientamento delle Sezioni Unite segna una tendenza da condividersi a riconfigurare l’applicazione del concetto di danno in re ipsa, riconoscendo la necessità di allegare e, se necessario, di provare il danno effettivo subito come conseguenza dell’illecito>>.

E’ quest’ultimo il punto perplesso: l’equiparazione al danno da occupazione sine titulo.  Per quest’ultima è esatto escludere il danno in re ipsa; per la fattispecie de quo, invece, lo si può probabilmente ammettere, dato che la vicinanza eccessiva della costruzione altrui dà disturbo certamente a chiunque.

Criteri di determinazione dell’assegno di mantenimento da separazione

Cass. sez. I, 03/05/2025  n. 11.611, rel. Reggiani:

<<In tale ottica, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che il giudice di merito, per quantificare l’assegno di mantenimento spettante al coniuge, cui non sia addebitabile la separazione, deve accertare, quale indispensabile elemento di riferimento, il tenore di vita di cui la coppia abbia goduto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità delle esigenze del richiedente, accertando le disponibilità patrimoniali dell’onerato. A tal fine, il giudice non può limitarsi a considerare soltanto il reddito emergente dalla documentazione fiscale prodotta, ma deve tenere conto anche degli altri elementi di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell’onerato, suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti, quali la disponibilità di un consistente patrimonio, anche mobiliare, e la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato e lussuoso, la percezione di redditi occultati al fisco, che possono essere portati ad emersione attraverso strumenti processuali officiosi, come le indagini di polizia tributaria o l’espletamento di una consulenza tecnica. (v. già Cass., Sez. 1, Sentenza n. 9915 del 24/04/2007; da ultimo, Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 22616 del 19/07/2022; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 32349 del 13/12/2024)>>.

Cass. sez. II, 13/05/2025 n. 12.660, rel. Giannaccari:

<<3.1. Nella divisione giudiziale, i condividenti debbono fornire la prova della comproprietà ma tale prova non è così rigorosa come nell’azione di rivendicazione o di quella di mero accertamento della proprietà, poiché non si tratta di accertare positivamente la proprietà dell’attore negando quella dei convenuti, ma di fare accertare un diritto comune a tutte le parti in causa (Cass. n. 1309/1966).

Con la divisione, infatti, si opera la trasformazione dell’oggetto del diritto di ciascuno, da diritto sulla quota ideale a diritto su un bene determinato, senza che intervenga fra i condividenti alcun atto di cessione o di alienazione (Cass. 10067/2020; Cass. n. 20645/2005).

Il giudice investito della domanda di scioglimento della comunione è certamente tenuto a verificare l’effettiva titolarità del diritto di comproprietà in capo ai condividenti, preferibilmente mediante l’acquisizione dei titoli di provenienza, corredati anche dalla documentazione ipo-catastale, che consente di verificare se nelle more siano intervenute delle modifiche del regime proprietario rispetto alla data cui risale il titolo di provenienza; tuttavia, ove però le parti convenute in giudizio non contestino l’effettiva appartenenza dei beni ai soggetti evocati in giudizio, e soprattutto quando, come nel caso di specie, dalle indagini svolte dal consulente tecnico d’ufficio non emergano dubbi o incertezze circa la titolarità dei beni comuni in capo alle stesse parti, il giudice può ritenere provata la situazione di comproprietà (Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 6228 del 02/03/2023).

In assenza della produzione dei titoli e della certificazione ipocatastale, il rischio che la divisione intervenga tra parti non legittimate trova, invero, adeguata tutela sul piano processuale tramite il rimedio dell’opposizione di terzo, alla quale possono ricorrere il terzo pregiudicato ovvero il litisconsorte pretermesso(Cass. n. 21716/2020).

A maggior ragione, laddove la comproprietà sia incontroversa, è possibile anche ricorrere a prove indiziarie e alle risultanze del consulente tecnico, in quanto non si fornisce la prova di un fatto costitutivo di una domanda tra parti in contrapposizione fra loro (Cassazione civile sez. VI, 02/03/2023, n. 6228; Cass. 21716/2020).

Con le citate pronunce, la giurisprudenza di questa Corte non ha ritenuto corretto l’orientamento diffuso tra i giudici di merito, che riteneva elemento costitutivo del diritto soggettivo di scioglimento della comunione la produzione relativa al titolo di proprietà e la documentazione ipocatastale>>.

Dovere di versare i frutti in casi di godimento del bene tra coeredi

Cass. sez. II, 13/05/2025 n. 12.662, rel. Giannaccari, pone il seg. principio di diritto in un processo di scioglimento di comunione ereditaria (ove centrale è l’art. 1102 cc):

“In caso di comproprietà del bene, l’occupante che abbia goduto del bene in via esclusiva è tenuto al pagamento della corrispondente quota di frutti civili, solo qualora gli altri partecipanti abbiano manifestato l’intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta e ciò non sia stato loro consentito poiché tale utilizzo costituisce una manifestazione del diritto di comproprietà”.

Conflitto tra genitori e nonni da risolvere in base al miglior interesse del minore

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 09 maggio 2025, n. 12.317, rel. Dal Moro:

 

La responsabilità genitoriale e i connessi diritti relativi alla relazione con i figli, quanto il diritto degli ascendenti di mantenere rapporti significativi con i nipoti costituiscono situazioni giuridiche “serventi”, focalizzate sul primario interesse del minore, sulla sua protezione e sull’esigenza che egli cresca con il sostegno di un adeguato ambiente familiare, capace anche di assicurare il vantaggio derivante da una relazione positiva con le relazioni precedenti. Di conseguenza, in caso di conflittualità fra genitori e ascendenti non si tratta di assicurare tutela a potestà contrapposte individuando quale delle due debba prevalere sull’altra, ma di bilanciare, se e fin dove è possibile, le divergenti posizioni nella maniera più consona al primario interesse del minore, il cui sviluppo è normalmente assicurato dal sostegno e dalla cooperazione dell’intera comunità parentale.

(massima di Ferrandi Francesca in Ondif)

Sul risarcimento del danno c.d. terminale

Cass. sez. IV, lavoro, 16 Marzo 2025 n. 6.981, rel. Riverso:

<<Il risarcimento del danno cd. terminale deve essere integrale, con la conseguenza che, pur quando il fatto è unico, se vengono arrecate una pluralità di lesioni a beni della persona costituzionalmente protetti, nessuna di dette offese deve rimanere sfornita di apprezzamento risarcitorio, quale che sia la tecnica adoperata ai fini della liquidazione unitaria. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che, applicando meccanicamente il criterio tabellare, non aveva tenuto conto della complessità del caso concreto -sequestro di persona per più giorni con sevizie – e della pluralità dei beni costituzionalmente rilevanti incisi – libertà, dignità, integrità psico-fisica, sofferenza morale – ulteriori rispetto al danno terminale di chi, ferito, attende la morte in stato di lucida agonia)>>. (massima ufficiale)