L’edizione critica è in linea di massima opera dell’ingegno, perchè dotata di creatività

Soprendenti conclusioni 26.06.2025 dell’AG Spielmann in C-649/23, in Institutul de Istorie şi Teorie Literară „G. Călinescu”, Fundaţia Naţională pentru Ştiinţă şi Artă contro HK, in qualità di erede di TB, VP, GR . circa l’oggetto (da noi art. 85 quater l.a.).

Che il testo ricostruito sia frutto di attività creativa, infatti, è assai difficile, mirando lo studioso solo a ricostruire un fatto storico-letterario incerto.

Altra cosa è l’apparato critico accompagnatorio, che certamente può esserlo.

La segnalazione è di Eleonora Rosati in IPK

E’ però impossibile giudicare in astratto. Forse nel singolo caso anche una ricostruzione può essere frutto di creatività , magari quando il testo originale è assai lacunoso : ma allora sarebbe ancora una “edizioni critica” o diverrebbe piuttosto una normale opera derivata?

Così’ l’AG:   <<Orbene, a mio avviso, quando un autore tenta di ricostituire un’opera letteraria incompleta in una forma che considera il più possibile simile a quella elaborata dall’autore dell’opera originale, non si può ritenere, in linea di principio, che egli stia semplicemente svolgendo un’attività di ricerca, fornendo un know-how o compiendo uno sforzo intellettuale privo di qualsiasi forma di creatività personale. Al contrario, può darsi che l’autore possa scegliere tra diverse opzioni. Le scelte grammaticali, lessicali, letterarie e stilistiche che compie saranno verosimilmente dettate, o almeno influenzate, dai suoi anni di esperienza, dalla sua competenza filologica, dalle sue conoscenze e dalla sua comprensione del periodo in cui l’opera originale è stata redatta e del periodo storico coperto da tale opera, dalla sua conoscenza dell’autore dell’opera originale, del suo stile e della sua espressione linguistica, nonché dalla sua interpretazione di ciò che percepisce essere l’intenzione di tale autore. Quando l’autore dell’edizione critica attinge non solo dal proprio mestiere e dalla propria conoscenza dell’autore, della lingua, dell’epoca e dell’opera originale, ma anche dalla sua propria immaginazione, dalle sue intuizioni e dalla sua sensibilità per inventare o reinventare gli elementi perduti o incomprensibili, pur cercando di rimanere fedele allo spirito dell’opera originale, egli sta svolgendo un’attività creativa ed imprime all’opera altrui la propria personalità, così creando un’opera derivata>>.

E poi in fine <<Pertanto, a seconda delle circostanze, la ricostituzione di un’opera diventata di dominio pubblico può essere simile alla creazione di un’opera derivata che presenti elementi di originalità in quanto l’autore ha preso in prestito o ha incorporato creazioni preesistenti. A tal fine, è necessario indagare in che modo l’autore dell’edizione critica sia intervenuto sull’opera originale (35). A tal proposito, spetta al giudice nazionale adito tenere conto di tutti gli elementi pertinenti della controversia principale (36). Il tipo di opere in questione e le competenze specifiche di altri ricercatori impegnati in studi identici o simili possono, in particolare, essere utili al fine di comprendere cosa debba essere qualificato come «opera autonoma», di per sé tutelata sulla base del diritto d’autore, e cosa invece sia una mera riedizione scientifica di conoscenze di dominio pubblico.>>

Segnalazione di Eleonora Rosati in IPKat, che ha la stessa perplessità.

Revocabilità del trasferimento immobiliare in sede di separazione personale tra coniugi

Cass. sez. II, 17/06/2025 n. 16.367 rel. Pirari, offre precisazioni all’operatore quando deve occuparsi di transigere una separazione o divofrsio con un  trasferimento immobiliare:

<<5.2 Venendo al merito, osserva il collegio come la doglianza prospettata nei quattro motivi in esame sia stata risolta da questa Corte con l’ordinanza n. 17908 del 4/7/2019 (Rv. 654438 – 01), con la quale la terza Sezione, sia pure in una causa riguardante altro creditore, ma avente ad oggetto il medesimo atto di trasferimento dello stesso bene intercorso tra i coniugi De. – Gu., ha affrontato la questione della natura onerosa o gratuita dello stesso, e come ad essa possa attribuirsi efficacia riflessa anche nel presente giudizio.

Come più volte sostenuto da questa Corte, infatti, il giudicato formatosi in un determinato giudizio può spiegare efficacia riflessa nei confronti di un soggetto rimasto estraneo al rapporto processuale, purché questi sia titolare di un diritto dipendente dalla situazione definita in quel processo, o comunque a questa subordinato (tra le tante Cass., Sez. 3, 4/7/2019, n. 17931; Cass., Sez. 2, 25/2/2019, n. 5411) e anche quando solo alcuni dei fatti costitutivi della fattispecie del rapporto pregiudiziale-condizionante integrino gli elementi del rapporto pregiudicato-condizionato (tra le tante Cass., Sez. 5, 23/10/2023, n. 29301), situazione questa verificatasi nel caso di specie.

Infatti, la citata ordinanza n. 17908 del 4/7/2019, partendo dal presupposto che “la giurisprudenza di legittimità, da tempo, riconosce che le attribuzioni patrimoniali dall’uno all’altro coniuge concernenti beni mobili o immobili, in quanto attuate nello spirito degli accordi di sistemazione dei rapporti fra i coniugi in occasione dell’evento di separazione consensuale, sfuggono sia alle connotazioni classiche dell’atto di “donazione” vero e proprio (tipicamente estraneo, di per sé, ad un contesto – quello della separazione personale – caratterizzato dalla dissoluzione della ragioni della convivenza materiale e morale), e dall’altro, a quello di un atto di vendita (attesa oltretutto l’assenza di un prezzo corrisposto), e che tali attribuzioni, sempre secondo l’oramai consolidato indirizzo di legittimità, svelano una loro “tipicità”, la quale, di volta in volta, può colorarsi dei tratti della obiettiva “onerosità”, ai fini della più particolare e differenziata disciplina di cui all’art. 2901 c.c., in funzione della eventuale ricorrenza, nel concreto, dei connotati di una sistemazione “solutorio-compensativa” più ampia e complessiva, di tutta quella serie di possibili rapporti aventi significati (o eventualmente, solo riflessi) patrimoniali, i quali, essendo maturati nel corso della (spesso anche lunga) quotidiana convivenza matrimoniale, per lo più non si rendono perciò sempre – guardati con sguardo retrospettivo – immediatamente riconoscibili come tali” (così, testualmente, già Cass. 23/03/2004 n. 5741), hanno affermato che l’onerosità dell’attribuzione patrimoniale non può farsi discendere tout court dall’astratta sussistenza di un obbligo legale di mantenimento, ma può emergere dall’esigenza di riequilibrare o ristorare il contributo apportato da un coniuge al ménage familiare e non adeguatamente rappresentato dalla situazione patrimoniale formalmente in essere fino al momento della separazione”.

Partendo da tali considerazioni, è stato dunque osservato come “la qualificazione dell’atto dispositivo per cui è causa come atto a titolo oneroso dipende dalla possibilità di ricondurlo, in concreto, ad una causa che, trovando titolo nei pregressi rapporti anche di natura economica delle parti e nella necessità di darvi sistemazione nel momento della dissoluzione del vincolo, giustifichi lo spostamento patrimoniale fra i coniugi” e come, nonostante l’evidenza con cui De.Ma., rispondendo ad un impulso squisitamente arbitrario aveva deciso della sorte giuridico-economica delle proprie sostanze, sì da incidere negativamente nella propria sfera patrimoniale, la Corte territoriale non ne avesse tratto, invece, come avrebbe dovuto, elementi atti a confermare la peculiare natura “gratuita” dell’atto di disposizione assunto con l’atto di separazione.

5.3 Questa situazione è per l’appunto la stessa verificatasi nel caso di specie.

I giudici di merito, infatti, pur partendo dalla corretta considerazione secondo cui, in caso di separazione consensuale, l’atto di attribuzione patrimoniale in favore di uno dei due coniugi può assumere carattere di gratuità o di onerosità, dovendosi, al riguardo, tener conto della situazione in concreto realizzatasi, valutata la situazione familiare ed economico-patrimoniale delle parti, hanno ritenuto che l’atto di trasferimento avesse carattere solutorio e non di liberalità, in quanto l’immobile che ne era oggetto era adibito a casa familiare, nella quale abitavano la moglie e il figlio minore, e in quanto le parti avevano ritenuto, sia in sede di separazione, sia di divorzio, che spettasse alla moglie un assegno di mantenimento da parte del marito, da soddisfare una tantum proprio con il trasferimento, in suo favore della quota di proprietà del primo, che tale statuizione fosse congrua, atteso che la moglie lavorava in un supermercato con contratto part time con limitate prospettive di accrescere la sua capacità di produrre reddito e che nessuno potesse sindacare le scelte operate al riguardo dai coniugi.

Tali argomentazioni non considerano però che l’assegno di mantenimento, in sostituzione del quale era stata attribuito a Gu.Lu., in aggiunta alla sua quota, il 50% della proprietà dell’immobile adibito a residenza familiare, andava riconosciuto solo ove fosse emerso che la stessa non era in grado, con i propri redditi, di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto durante la convivenza matrimoniale e che versava effettivamente in una situazione di disparità economica rispetto al marito.

Tale disparità non è stata affatto sindacata dai giudici di merito, che si sono limitati a valutare lo stato economico della coniuge, senza esaminare in alcun modo quello dell’altro coniuge, ciò che sarebbe stato massimamente opportuno, ove si consideri che quest’ultimo non si era limitato a privarsi della sua quota di comproprietà di due immobili, assegnandoli alla moglie a titolo di mantenimento una tantum, in aggiunta al trasferimento ad essa, per la medesima causale, di titoli obbligazionari e azionari per euro 53.022,22, ma si era anche impegnato a corrisponderle un assegno mensile per il mantenimento del figlio minore, trasferendole anche la somma di Euro 2.750,00 in contanti, in quanto denaro personale di quest’ultima, e rendendosi sostanzialmente impossidente.

La pronuncia si pone allora in contrasto con quanto afferma la giurisprudenza in materia, secondo la quale, al fine di individuare l’esigenza di uno dei coniugi di vedersi assegnato un quid per il mantenimento, deve tenersi conto della situazione economico patrimoniale di entrambi i coniugi, deducendola “non solo” dalla valutazione dei redditi, ma da ogni altra circostanza rappresentata da elementi di ordine economico, o suscettibili di apprezzamento economico, idonei ad incidere sulle condizioni delle parti (sul punto la citata ordinanza n. 17908/2019)>>.

Micropermenti regolate dall’art. 139 cod. ass. anche quando frutto in inadempimento ad un contratto di trasporto

Cass. sez. III, 25/05/2025 n. 13.885, rel. La Battaglia, relativa ad un danno provocato al passeggero da negligente conduzione di autobus del trasporto pubblico locale:

<<1. Con l’unico motivo di ricorso, la società ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 122 e 139 D.Lgs. n. 209/2005, per aver ritenuto inapplicabile alla fattispecie concreta – ai fini della liquidazione del danno da lesione della salute – il D.Lgs. n. 209/2005, nonostante la causa dell’evento lesivo fosse palesemente riconducibile alla circolazione stradale (irrilevante essendo, a tal fine, il titolo contrattuale della responsabilità della società esercente il servizio di trasporto pubblico di linea). Invero – prosegue la ricorrente – “la norma non oper(a) alcuna differenziazione tra le diverse azioni spettanti al danneggiato, che sia quella diretta contro l’assicuratore di cui all’art. 142 Cod. Ass., ovvero quella contro il danneggiante: quel che conta, ai fini dell’applicazione dei criteri risarcitori ivi contemplati, è che il danno biologico tragga origine dalla circolazione del mezzo” (pag. 10 del ricorso per cassazione).

Il motivo è fondato.

L’art. 139 cod. ass. delinea il proprio ambito di applicazione, al comma 1, con riferimento al “risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve entità, derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione di veicoli a motore e di natanti”.

Elemento dirimente, ai fini dell’applicazione di tale disposizione, appare, dunque, il collegamento eziologico dell’evento lesivo della salute rispetto alla circolazione stradale (collegamento ben espresso da Cass., n. 4509/2022, che, in motivazione, osserva che “là dove si faccia questione di danni asseritamente derivanti dalla circolazione stradale, la circostanza dell’avvenuto danneggiamento di un soggetto impegnato in detta circolazione non assum(e) di per sé alcun rilievo determinante, occorrendo, ai fini della qualificazione della causa del danno (come segnatamente derivante dalla circolazione stradale), che nella ridetta circolazione stradale sia piuttosto impegnato il danneggiante, sì che possa senza alcun dubbio ricondursi la causa efficiente del pregiudizio denunciato a quella specifica fonte di danno (cfr. l’art. 139 cit., là dove sottolinea l’applicabilità delle tabelle ivi previste ai soli “danni derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione stradale”))”.

Dal punto di vista della causalità materiale, è evidente che tale collegamento sussista anche allorquando (come nel caso di specie) la circolazione stradale si correli all’esecuzione di un contratto di trasporto in favore del soggetto che ne risulterà danneggiato. In tal caso, infatti, l’obbligo del trasportare implica necessariamente un’attività di circolazione (nell’accezione richiamata dall’art. 122 cod. ass. e, in ultima analisi, dall’art. 3, comma 1, n. 9, del codice della strada), potendosene, quindi, ricavare che – come da ultimo affermato dalla S.C. – “qualunque danno causato da un veicolo senza guida di rotaie è un danno causato dalla “circolazione”, senza che rilevi che il veicolo sia fermo o in movimento, né che il danno sia arrecato dallo spostamento del mezzo o di sue parti, né, infine, che si sia verificato su area pubblica o privata” (Cass., n. 1812/2025).

Occorrerebbe, pertanto, spiegare perché, al cospetto di un danno biologico indubitabilmente originato dalla circolazione stradale (e, dunque, rientrante nella definizione di cui al menzionato art. 139, comma 1, cod. ass.), la liquidazione delle micropermanenti dovrebbe essere effettuata alla stregua di un criterio diverso da quello ivi previsto, per il sol fatto che il titolo della responsabilità dedotto dall’attore abbia matrice contrattuale (art. 1681 c.c.) anziché extracontrattuale (art. 2054 c.c.), in tal modo finendo per far dipendere l’ammontare della liquidazione da un’opzione soggettiva del creditore. Al contrario, l’indifferenza, da tale angolo visuale, del titolo azionato si ricava dalla centralità che – nella prospettiva del danneggiato – assume il rango inviolabile dell’interesse leso (vale a dire il diritto alla salute), la cui tutela “è compresa tra le obbligazioni del vettore, che risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio” (così Cass., S. U., n. 26792/2008, al punto 4.6, dopo aver precisato – al punto 4.1 – che, “se l’inadempimento dell’obbligazione determina […] anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni”).

Dalle considerazioni sopra svolte discende l’accoglimento del ricorso, con conseguente cassazione dell’impugnata sentenza e rinvio alla Corte d’Appello di Venezia, in diversa composizione, affinché proceda alla liquidazione del danno occorso alla signora To.Ca. sulla scorta dei criteri di cui all’art. 139 cod. ass., in applicazione del seguente principio di diritto:

“La liquidazione del danno biologico per lesioni cd. micropermanenti soggiace ai criteri di cui all’art. 139 D.Lgs. n. 209 del 2005 quand’anche il danno si verifichi nell’ambito di un contratto di trasporto su un veicolo a motore”. >>

Donazioni ed eredità ricevute nella valutazione delle condizioni economiche circa l’assegno di mantenimento

Cass. sez. I, 25/06/2025 n. 17.037, rel. Dal Moro:

<<Il diritto al mantenimento, ricorrendo le condizioni previste dall’art 156 c.c., è fondato sulla persistenza, durante lo stato della separazione, di alcuni degli obblighi derivanti dal matrimonio, e “l’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato”.

Questa Corte con un più recente orientamento rispetto a quello citato dal ricorrente, ha affermato che in tema di determinazione dell’assegno di mantenimento, sono irrilevanti le elargizioni a titolo di liberalità ricevute dai propri genitori dal coniuge obbligato o, comunque, da terzi, ancorché regolari e continuate dopo la separazione, in quanto il carattere di liberalità impedisce di considerarle “reddito” ai sensi dell’art. 156, secondo comma, c.c., così come non costituiscono reddito, ai sensi del primo comma dello stesso articolo, analoghi contributi ricevuti dal coniuge che si afferma titolare del diritto al mantenimento.

Sul punto, nel leading case in materia (v. Cass. n. 10380/2012), questa Corte ha osservato che “La questione della rilevanza delle elargizioni di terzi – in particolare familiari, normalmente i genitori – nel giudizio sul riconoscimento del diritto all’assegno di separazione o di divorzio e nella determinazione del suo ammontare è stata affrontata, nella giurisprudenza di questa Corte, quasi esclusivamente con riguardo alle elargizioni ricevute dal coniuge che pretenda tale diritto. All’iniziale orientamento favorevole alla rilevanza di dette elargizioni, ove non meramente saltuarie, bensì continue e regolari (cfr. Cass. 5916/1996, in tema di separazione, nonché Cass. 278/1977, 358/1978, 497/1980, 1477/1982, 4158/1989, in tema di divorzio), è poi subentrato un orientamento negativo (cfr. Cass. 11224/2003, 6200/2009, in tema di separazione, nonché Cass. 4617/1998, 7601/2011, in tema di divorzio) che fa leva sul carattere liberale delle elargizioni di cui trattasi, non comportanti l’assunzione di alcun obbligo di mantenimento da parte dei genitori, sui quali grava la sola obbligazione alimentare ai sensi dell’art.433 c.c. in via subordinata rispetto al coniuge (cfr. Cass. 11224/2003, cit.). Con riferimento, invece, alle elargizioni ricevute dal coniuge obbligato… non si registrano precedenti ad eccezione di Cass. 20352/2008, pronunciatasi in senso favorevole alla rilevanza di siffatte elargizioni, nella determinazione dell’assegno divorzile, nonostante perplessità sulla natura liberale delle stesse in quella fattispecie concreta”. Dopo tale disamina della propria giurisprudenza sul punto, la Corte in quel caso ha ritenuto che “l’irrilevanza delle elargizioni liberali di terzi, quali i genitori, ancorché regolari e protrattesi anche dopo la separazione, già affermata con riferimento alla condizione del coniuge richiedente l’assegno nella più recente giurisprudenza di questa Corte, sopra richiamata, debba confermarsi anche con riguardo agli aiuti economici ricevuti dal coniuge obbligato al pagamento dell’assegno. Decisivo è l’evidenziato carattere liberale e non obbligatorio di tali aiuti, che impedisce di considerarli reddito dell’obbligato, ai sensi dell’art. 156 c.c., comma 2, così come non costituiscono reddito, ai sensi del comma 1 dello stesso articolo, gli analoghi aiuti ricevuti dal coniuge creditore”.

Conclude la Corte in quel caso “La sentenza impugnata è dunque errata, avendo, invece, dato rilievo alle elargizioni fatte al sig. G. da suo padre (eccettuate, ovviamente, quelle per l’acquisto della casa di abitazione, tradottesi in un diritto reale acquisito al patrimonio del beneficiario), nella determinazione dell’assegno di separazione a suo carico”.

Pertanto, l’esclusione della considerazione degli atti di liberalità è legata al fatto che, pur anche quando si tratti di elargizioni sistematiche che incrementano la disponibilità del coniuge obbligato, in quanto frutto di una volontà sempre revocabile non costituiscono reddito in senso proprio.

Altro è, tuttavia, l’incremento patrimoniale che si verifica una tantum e che in modo definitivo accresce il patrimonio dell’obbligato, e che rappresenta le “altre circostanze” rispetto al reddito di cui l’art 156 c.c. impone di tener conto.

Perciò anche la donazione di immobili in favore del sig. Se.El. – in tanto in quanto ha incrementato il suo patrimonio al pari di quanto sarebbe avvenuto per effetto di una successione mortis causa, che pacificamente viene considerata onde “circostanziare” la valutazione della sussistenza del preteso diritto in discorso (cfr. Cass. n. 8176/2016 per cui “L’acquisto da parte dell’obbligato di una eredità produce un incremento particolare, non riferibile ad uno sviluppo naturale e prevedibile della situazione reddituale; rileva però ai fini della valutazione complessiva delle condizioni economiche delle parti (Cass. 4758 del 2010)”), è stata in questo caso correttamente tenuta in considerazione nella ricostruzione della situazione patrimoniale del ricorrente dal giudice di merito nella sentenza gravata>>.

Il danno diretto nella responsabilit àdegli amministartori ex art. 2395 c.c è da rierire al “danno evento”, non al “danno conseguenza”

Così oprecisa Cass. sez. I, 28/05/2025 n. 14.265, rel. Rolfi, rigettanto una speciosa interpretazione dell’art. 2395 cc:

<< 2.3. Il nucleo del motivo di ricorso si impernia su un’articolata critica dell’interpretazione dell’art. 2395 c.c. adottata da questa Corte nonché – conviene rammentare – dalla predominante dottrina, come peraltro apertamente ammesso dalla difesa delle ricorrenti.

Questa Corte, infatti, ha costantemente valorizzato la presenza dell’avverbio “direttamente” contenuto nell’art. 2395 c.c. per affermare il principio per cui l’azione individuale di responsabilità, ai sensi del medesimo art. 2395 c.c., esige che il comportamento doloso o colposo dell’amministratore, posto in essere tanto nell’esercizio dell’ufficio quanto al di fuori delle correlate incombenze, abbia determinato un danno direttamente sul patrimonio del socio o del terzo (Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 9206 del 20/05/2020), risultando il terzo (o il socio) legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione di natura aquiliana per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo quando il nocumento riguardi direttamente la sua sfera patrimoniale e non sia un mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente – ovvero il ceto creditorio – per effetto della cattiva gestione (Cass. Sez. 1 – , Ordinanza n. 11223 del 28/04/2021; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8458 del 10/04/2014; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4548 del 22/03/2012; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6558 del 22/03/2011; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9295 del 19/04/2010; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6870 del 22/03/2010; Cass. Sez. U, Sentenza n. 27346 del 24/12/2009; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8359 del 03/04/2007; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10271 del 2004).

Questo orientamento viene messo in discussione dalle ricorrenti, le quali censurano in modo particolare la distinzione – operata in sede di interpretazione dell’art. 2395 c.c. – tra danni “diretti” e danni “riflessi”.

Si deve infatti rammentare che – sempre secondo l’interpretazione fatta propria anche da questa Corte – mentre i danni “diretti” risultano risarcibili ex art. 2395 c.c., i danni “riflessi” sono esclusi dal risarcimento (e.g. Cass. Sez. 1 – , Ordinanza n. 11223 del 28/04/2021) in virtù di una delimitazione che sarebbe volutamente imposta dalla stessa previsione del codice, la quale, del resto, viene considerata ipotesi speciale (non mette conto esaminare, né in questa sede né in quelle successive, se addirittura “eccezionale”, come dedotto dalle ricorrenti) di responsabilità extracontrattuale (cfr. le già citate Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8458 del 10/04/2014 e Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8359 del 03/04/2007).

Secondo le ricorrenti, invero, tale distinzione non avrebbe ragion d’essere, non essendo configurabili danni “riflessi” risarcibili, «considerato che appare assai arduo immaginare “danni riflessi” in grado di superare lo scrutinio del nesso eziologico comunque necessario ex artt. 1223 c.c. e 2056 c.c., sì che del tutto evanescente diviene tale categoria di danni da aggiungere a quelli “diretti”» (pag. 22 del ricorso), così come sarebbe – conseguentemente – censurabile la tesi che intende l’art. 2395 c.c. come ipotesi di limitazione della responsabilità degli amministratori, risultando tale tesi smentita sulla base di una mera operazione di ricostruzione logica delle espressioni impiegate dalla giurisprudenza alla luce del disposto di cui all’art. 1223 c.c. [questa la ardita, ma palesemente errata, interpretazine del ricorrente]

Proprio il richiamo all’art. 1223 c.c., tuttavia, costituisce l’elemento di fallacia nell’argomentazione delle ricorrenti, dal momento che la ricostruzione interpretativa delle ricorrenti viene a confondere due profili ben distinti, e cioè il danno-evento ed il danno-conseguenza.

Si vuol dire, cioè, che l’avverbio “direttamente” contenuto nell’art. 2395 c.c. non svolge la funzione di stabilire che il risarcimento dei danni spettante al singolo socio o terzo è da riferirsi ai danni che siano “conseguenza immediata e diretta” della condotta degli amministratori, con un esito interpretativo che si tradurrebbe – come sostengono le ricorrenti – in una superflua ridondanza della regola di cui all’art. 1223 c.c.

Funzione dell’avverbio in questione, invece, è quella di operare una selezione all’interno dell’insieme delle posizioni soggettive che possono essere lese dalla condotta degli amministratori – condotta idonea a determinare, sulla base del nesso di causalità c.d. “materiale” (artt. 40 e 41 c.p.), una lesione di tali posizioni comunque qualificabile in tutti i casi come “danno-evento” – riconoscendo al singolo socio o al terzo la possibilità di agire per il danno(-evento) che si sia autonomamente prodotto nella sua specifica sfera patrimoniale e non anche il danno(-evento) che invece, interessando il patrimonio della società, presenta, rispetto alla posizione del singolo socio o terzo, conseguenze patrimoniali negative solamente mediate, in quanto dipendenti, appunto, dalla compromissione del patrimonio sociale.

Il danno prodottosi “direttamente” nel patrimonio del socio del terzo, quindi, è – e rimane – un danno-evento che si qualifica per essere frutto, sì, della condotta degli organi sociali ma che si colloca integralmente al di fuori della lesione all’integrità del patrimoni sociale.

Pertanto l’avverbio “direttamente” non vuol costituire, come opinano le ricorrenti, un richiamo all’art. 1223 c.c., considerato che detto richiamo oltre che ridondante verrebbe anzi a determinare il concreto rischio di riconoscere il risarcimento del medesimo danno sia alla società sia ai singoli soci o terzi, essendo il canone di cui all’art. 1223 c.c. idoneo ad operare una selezione non delle posizioni soggettive oggetto di lesione bensì unicamente dell’ambito dei danni concretamente risarcibili, una volta, tuttavia, individuato il soggetto danneggiato avente diritto al risarcimento.

L’avverbio “direttamente”, quindi, costituisce uno specifico (e – si ripete – voluto) criterio di selezione che, nell’ambito dell’insieme dei danni-evento che possono colpire la sfera patrimoniale del socio o del terzo, viene a limitare la risarcibilità ai soli danni che abbiano attinto direttamente ed autonomamente il patrimonio del danneggiato, escludendo invece i danni che hanno invece interessato direttamente il patrimonio sociale e solo in seconda battuta quello di soci o terzi, costituendo in questo caso un riflesso della lesione all’integrità del patrimonio sociale.

Risulta poi evidente che lo specifico danno-evento “diretto” di cui all’art. 2395 c.c. fonderà la pretesa risarcitoria del socio o terzo in presenza di uno o più concreti riflessi patrimoniali lesivi che siano “conseguenza immediata e diretta” (danno-conseguenza) del danno-evento, ma che – si ripete – in tanto potranno essere valutati – in quanto scaturiscano da un danno-evento che abbia interessato “direttamente” il socio o il terzo, operando la regola di cui all’art. 1223 c.c. sul piano della mera determinazione quantitativa dei danni.

In conclusione, quindi, ritenuta l’infondatezza delle deduzioni delle ricorrenti, deve essere ribadito il principio per cui l’azione individuale di responsabilità, ai sensi dell’art. 2395 c.c. esige che il comportamento doloso o colposo dell’amministratore – posto in essere tanto nell’esercizio dell’ufficio quanto al di fuori delle correlate incombenze – abbia determinato un danno diretto ed autonomo sul patrimonio del socio o del terzo, risultando conseguentemente questi ultimi legittimati, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione di natura aquiliana per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera patrimoniale solo quando il nocumento riguardi direttamente detta sfera e non quando lo stesso costituisca un mero riflesso del pregiudizio che abbia invece interessato il patrimonio sociale.>>

AI e diritto di autore: il giudice californiano aparzialmente ammette il fair use nell’uso a fini di training (sul caso Anthropic )

Il giudice William Alsup del Distr. Nord della Califonia, 23 giugno 2025, Case 3:24-cv-05417-WHA,ANDREA BARTZ, CHARLES GRAEBER, and KIRK WALLACE JOHNSON contro Anthropic, esamina a fondo (anche sotto il profilo fattuale) la fattisicpecie dell’uso a fini di “allenamento” delle opeere degli autori attori.

L’esito è per lo più  favorevole all’impresa di AI, tranne che per l’uso dei libri piratati, per i quali il processo prosegue.

<<5. OVERALL ANALYSIS After the four factors and any others deemed relevant are “explored, [ ] the results [are] weighed together, in light of the purposes of copyright.” Campbell, 510 U.S. at 578.
The copies used to train specific LLMs were justified as a fair use. Every factor but the nature of the copyrighted work favors this result. The technology at issue was among the most transformative many of us will see in our lifetimes.
The copies used to convert purchased print library copies into digital library copies were justified, too, though for a different fair use. The first factor strongly favors this result, and the third favors it, too. The fourth is neutral. Only the second slightly disfavors it. On balance, as the purchased print copy was destroyed and its digital replacement not redistributed, this was a
fair use.
The downloaded pirated copies used to build a central library were not justified by a fair use. Every factor points against fair use. Anthropic employees said copies of works (pirated ones, too) would be retained “forever” for “general purpose” even after Anthropic determined they would never be used for training LLMs. A separate justification was required for each use. None is even offered here except for Anthropic’s pocketbook and convenience.
And, as for any copies made from central library copies but not used for training, this order does not grant summary judgment for Anthropic. On this record in this posture, the central library copies were retained even when no longer serving as sources for training copies, “hundreds of engineers” could access them to make copies for other uses, and engineers did make other copies. Anthropic has dodged discovery on these points (e.g., Opp. Exh. 17 at 93–94 (retained); Opp. Exh. 22 at 196 (no limits); Opp. Exh. 30 at 3, 4 (no accounting); see also Opp. 15). We cannot determine the right answer concerning such copies because the record is
too poorly developed as to them. Anthropic is not entitled to an order blessing all copying “that Anthropic has ever made after obtaining the data,” to use its words (Opp. Exh. 30 at 3, 4). (….).

This order grants summary judgment for Anthropic that the training use was a fair use. And, it grants that the print-to-digital format change was a fair use for a different reason. But it denies summary judgment for Anthropic that the pirated library copies must be treated as training copies.
We will have a trial on the pirated copies used to create Anthropic’s central library and the resulting damages, actual or statutory (including for willfulness). That Anthropic later bought a copy of a book it earlier stole off the internet will not absolve it of liability for the theft but it may affect the extent of statutory damages. Nothing is foreclosed as to any other copies flowing from library copies for uses other than for training LLMs>>

(segnalazione di Andres Guadamuz)

 

 

 

Momento di efficacia del recesso nella s.p.a.

Cass. sez. I, 05/06/2025 n. 15.087, rel. Falabella, pone i segg. due principi di diritto.

Qui interessa sorpratutto il secondo sulla data di efficacia del  recesso, oggetto di incertezza interpretativa..

1° : “Nel giudizio di legittimità, ove il socio che abbia impugnato la delibera sociale venga a perdere la qualità di socio per una cessione delle azioni attuatasi dopo la proposizione, da parte sua, del ricorso per cassazione, non trova applicazione l’art. 2378, comma 2, c.c.”.

2° :    “In tema di società per azioni, in base all’art. 2437-bis, comma 3, c.c. il recesso costituisce un negozio giuridico unilaterale recettizio, che produce i suoi effetti nel momento in cui viene portato a conoscenza della società e che è subordinato alla condizione risolutiva rappresentata alternativamente dall’intervento, nel termine di novanta giorni ivi previsto, della revoca della delibera che lo legittima e dallo scioglimento della società; in ragione della deliberazione di revoca o di scioglimento il socio receduto riacquista ex tunc lo status di socio, comprensivo della legittimazione a impugnare a norma degli artt. 2377 e 2378 c.c. tale deliberazione, al pari delle altre che siano state adottate a seguito del proprio recesso”.

L’AG Emiliou sul concetto di “pastiche” nel diritto d’autore armonizzato

Eleonora Rosati in IPKat segnala le Conclusioni 17.06.2025 dell’AG Emiliou in C-590/23, CG e YN c. Pelham+altri: serve la riconoscibilità dell’imitazione (e quindi anche del lavoro imitato, direi: passaggio non scontato, che meriterebbe approfondimento) per aversi pastiche.

Si tratta di un altra fase della lunga lite Pelham, spedita nuovamente in sede europea dal BGH,  concernente la ripresa di due secondi della canzone <Metall auf Metall> dei Kraftwerk da parte della impresa di produzione Pelham GmbH nella hip hop song <Nur mir>.

Qui riferisco solo del pastiche, previsto dalla dir. 2001/29 come eccezione facoltativa all’art. 5.3.k, e rimasta tale anche successivamente, se non per la disciplina delle piattaforme introdotta dalla dir 790 del 2019 (da noi attuata nel l’art. 102 novbies c. 2 lett. b) l. autore)

<<81. It follows from the foregoing considerations that a ‘pastiche’, within the meaning of Article 5(3)(k) of the InfoSoc Directive, is an artistic creation which (i) evokes an existing work, by adopting its distinctive ‘aesthetic language’ while (ii) being noticeably different from the source imitated, and (iii) is intended to be recognised as an imitation. The purpose pursued with that overt stylistic imitation is irrelevant. The use of protected elements from works or other subject matters, including ‘samples’ of phonograms, falls under the corresponding exception where it results in an artistic creation presenting those essential characteristics.

82. The second question of the BGH concerns, specifically, whether the existence of such a ‘pastiche’ requires determining the subjective intent of the user, or whether it is sufficient for the ‘pastiche’ character to be recognisable by a person familiar with the material reused and who has the intellectual understanding required to perceive it. It calls, in my view, for a brief answer. On the one hand, it stems from the above definition that a ‘pastiche’ is characterised, inter alia, by the fact that it is intended to be recognised as an imitation (by contrast to plagiarism). Thus, whether the user had that intent is, indeed, decisive. On the other hand, it seems to me that, to guarantee the necessary legal certainty (and to avoid, in particular, that bad-faith users retrospectively present plagiarism as ‘pastiche’ in the event of infringement proceedings), that intent should be assessed objectively. Accordingly, the ‘pastiche’ nature of the use should be evident in the end result. It should be indicated (in some way) therein or, at least, recognisable as such by the viewer or listener familiar with the source.

83. Accordingly, the ‘pastiche’ exception laid down in Article 5(3)(k) of the InfoSoc Directive provides limited leeway for creative reuse of protected material. ‘Samples’ and other borrowings of such material which do not serve such an artistic, overt stylistic imitation are not covered by that exception. For instance, it cannot apply to the reuse of a ‘sample’ taken from a phonogram, such as that embodying ‘Metall auf Metall’, to create a new musical work in a completely different style, such as ‘Nur mir’. (127) The remaining exceptions and limitations offer similarly limited room, as will be discussed in the following sections>>.

Poi:

<<107. As we saw, under the current exceptions and limitations, protected material may be freely reused only if it contributes to an overtly imitative artistic creation (‘pastiche’), as a ‘dialogic’ reference to the source work (‘quotation’) or as a humoristic or critical détournement (‘parody’). That system never permits the appropriation of such material, selected ‘merely’ for its aesthetic value, and its reuse in a new creation. That is so irrespective of (i) the extent and value (both creative and economic) of the material borrowed and (ii) the amount of input added by the user and, thus, the ‘creative intensity’ of that new creation. It seems rather obvious that the weight of the claim to intellectual property of the rightholder concerned, under Article 13 and/or Article 17(2) of the Charter, depends on the first parameter, while the weight of the claim to freedom of the arts of the new creator, under Article 13 of the Charter, depends on the second. As the examples given in point 32 above illustrate, there may be a great deal of innovation and cultural value associated with such reuse. (155) However, the current system does not leave room for such nuances>>.

Circa poi il bilanciamento col principioo costituzionale della libertà di espressione artistica (art. 13 Carta dir. fond. UE), per l’AG questa eccezione/limitazine così disciplinata viola tale libertà , se riferita ai diritti coonnessi (essenzialmene a quelli la cui ratio sia la protezione degli investimenti economici); che sia invece ragionevole (fair balance) se riferita al diritto di autore (§§ 115 ss e 126 ss)

La Cassazione sul diritto di autore per i programmi televisivi trasmessi dalle tv delle stanze di albergo: conferma dell’orientamento europeo

Fiumi di inchiostro sull’oggetto sono stati prodotti, tra dottrina e giurisprudenza europee.

Cass. sez. 1 n. 12.841 del 13.05.2025 , rel. Catallozzi, conferma l’orientamento vigente con motivazione breve :

<<– per quanto concerne il pubblico al quale la comunicazione è rivolta, esso deve includere un numero indeterminato, ma piuttosto considerevole, di destinatari potenziali – e a tal fine può assumere rilevanza sia il numero di persone che possono avere accesso contemporaneamente alla medesima opera, sia quello di coloro che possono avervi accesso in successione – e nel caso di una comunicazione al pubblico secondaria, deve trattarsi di un pubblico “nuovo”, vale a dire di un pubblico che non sia già stato preso in considerazione dal titolare dei diritti d’autore nel momento in cui egli ha autorizzato la comunicazione iniziale della sua opera al pubblico;

– la fornitura, mediante ricevitori installati nelle camere di un albergo, di un segnale televisivo costituisce un atto di comunicazione al pubblico ai sensi dell’articolo 3, § 1, direttiva 2001/29/CE, a nulla rilevando il carattere privato del luogo in cui avviene la comunicazione (così, Corte Giust. UE 7 dicembre 2006, SGAE, C–306/05; vedi, anche, con riferimento alla trasmissione da parte del proprietario di un bar–ristorante di opere radiodiffuse mediante uno schermo televisivo ed altoparlanti a clienti presenti nel proprio locale, Corte Giust. U.E. 4 ottobre 2011, Football Association Premier League e a., C–403/08 e C–429/08);

– infatti, il diritto di comunicazione al pubblico comprende la messa a disposizione del pubblico delle opere in modo che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento che sceglie individualmente, per cui verrebbe frustrato se non riguardasse anche le comunicazioni effettuate in luoghi privati;

– quanto ai destinatari della comunicazione, bisogna tener conto non solo dei clienti che si trovano nelle camere dell’albergo, ma anche dei clienti che sono presenti in qualsiasi altro spazio del detto stabilimento e che hanno a loro portata un apparecchio televisivo ivi installato e, inoltre, prendere in considerazione il fatto che, abitualmente, i clienti di un tale stabilimento si succedono rapidamente;

– ciò conduce a ritenere che si tratta in generale di un numero di persone abbastanza rilevante, di modo che queste devono essere considerate come un pubblico;

l’autore, autorizzando la radiodiffusione della sua opera, prende in considerazione solo gli utilizzatori diretti, ossia i detentori di apparecchi di ricezione i quali, individualmente o nella loro sfera privata o familiare, captano le trasmissioni, e non anche la più ampia frazione del pubblico costituita dal complesso dei clienti dell’albergo che sono ammessa a beneficiare dell’ascolto o della visione dell’opera solo mediante che l’installazione nelle camere da parte dell’albergatore di apparecchi televisivi collegati a un’antenna;

– ne consegue che la clientela di un albergo costituisce un tale pubblico nuovo ai fini dell’applicazione dell’art. 3, direttiva 29/2001/CE, non facendo parte del pubblico iniziale e accendo alle trasmissioni grazie all’atto di distribuzione indipendente dell’albergatore;

– va puntualizzato, in proposito, che la mera fornitura di attrezzature fisiche atte a rendere possibile o ad effettuare una comunicazione non costituisce un atto di comunicazione ai sensi della (detta) direttiva, ma che tale installazione può rendere tecnicamente possibile l’accesso del pubblico alle opere diffuse per cui se mediante apparecchi televisivi in tal modo installati l’albergo distribuisce il segnale ai suoi clienti alloggiati nelle camere dello stesso, si tratta di una comunicazione al pubblico, senza che occorra accertare quale sia la tecnica di trasmissione del segnale utilizzata;>>

L’orientamento, pur pacifico presso la Corte di Giustizia e molta dottrina, non persuade.

Il punto focale è il concetto di <pubblico nuovo>. Che vada inteso come sopra evidenziato in rosso, non sta scritto da nessuna parte nè è motivato: anzi gli autori e i distributori sanno benissimo che c’è anche questo tipo di uso.