In caso di recesso del committente dall’appalto (art. 1671 cc), egli può ugualmente poi chiedere la restituzione degli acconti e il risarcimento del danno

Cass. sez. II dell’08/01/2024 n. 421, rel. Trapuzzano:

<<5.2. – Ora, per un verso, quanto al rapporto tra recesso e risoluzione per inadempimento, il committente non può invocare la risoluzione giudiziale del contratto dopo l’esercizio del diritto di recesso, che importa lo scioglimento, con effetti ex nunc, dell’appalto. Segnatamente il diritto potestativo riconosciuto al committente di risolvere unilateralmente l’appalto può essere esercitato ad nutum in qualunque momento posteriore alla conclusione del contratto (purché prima dell’ultimazione dell’opera) e può essere giustificato anche dalla sfiducia verso l’appaltatore per fatti di inadempimento. Ne consegue che, in caso di recesso, il contratto si scioglie per l’iniziativa unilaterale dell’appaltante, senza necessità di indagini sull’importanza e sulla gravità dell’inadempimento (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5368 del 07/03/2018; Sez. 2, Sentenza n. 11028 del 26/07/2002; Sez. 2, Sentenza n. 6814 del 13/07/1998), le quali sono rilevanti soltanto quando il committente abbia preteso anche il risarcimento del danno dall’appaltatore per l’inadempimento in cui questi fosse già incorso al momento del recesso>>. [alquanto ovvio]>>.

E poi:

<5.3. – Nondimeno, per altro verso, benché l’esercizio del recesso impedisca al committente di invocare, in seconda battuta, la risoluzione per inadempimento dell’appalto, la circostanza che l’appaltante si sia avvalso dello ius poenitendi non impedisce di esercitare, in favore dello stesso appaltante, il diritto alla restituzione degli acconti versati e al risarcimento dei danni che sono derivati dall’inadempimento dell’assuntore.[ok per il danno, ma per la restituizione acconti serviva qualche precisazione: solo quellli in esubero rispetto all’obbligo di indennizzo?]

La formulazione di un’istanza di restituzione dell’acconto versato e la riserva di chiedere spese e danni non sono, infatti, incompatibili con la domanda di recesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6972 del 27/03/2006; Sez. 2, Sentenza n. 11642 del 29/07/2003; Sez. 2, Sentenza n. 77 del 08/01/2003; Sez. 2, Sentenza n. 2236 del 30/03/1985; Sez. 2, Sentenza n. 2055 del 28/03/1980). Piuttosto, dei danni subiti dall’appaltante per pregresse inadempienze dell’appaltatore si può tenere conto in sede di liquidazione dell’indennizzo spettante all’assuntore, all’esito del recesso esercitato dall’appaltante. In specie, il committente può fare valere tali danni allo scopo di ottenere una proporzionale riduzione dell’indennizzo da questi dovuto, anche se li conosceva al momento del recesso. (…)

5.4. – Orbene, e in secondo luogo, tali domande restitutorie e risarcitorie – contrariamente all’assunto della pronuncia impugnata – non sottostanno alla disciplina speciale sulla garanzia per i vizi e al conseguente regime decadenziale e prescrizionale ex art. 1667 c.c..[questo è il passaggio più interessante e meno sconntato]

Infatti, la responsabilità speciale per difformità o vizi, come disciplinata dal legislatore, non è invocabile – ed è invocabile piuttosto la generale responsabilità per inadempimento contrattuale ex art. 1453 c.c. – nel caso di mancata ultimazione dei lavori, anche se l’opera, per la parte eseguita, risulti difforme o viziata, o di rifiuto della consegna o di ritardo nella consegna rispetto al termine pattuito.

In base a tale ricostruzione, nel caso in cui l’appaltatore non abbia portato a termine l’esecuzione dell’opera commissionata, restando inadempiente all’obbligazione assunta con il contratto, la disciplina applicabile nei suoi confronti è quella generale in materia di inadempimento contrattuale, mentre la speciale garanzia prevista dagli artt. 1667 e 1668 c.c. trova applicazione nella diversa ipotesi in cui l’opera sia stata portata a termine, ma presenti dei difetti (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 7041 del 09/03/2023; Sez. 2, Sentenza n. 35520 del 02/12/2022; Sez. 1, Ordinanza n. 4511 del 14/02/2019; Sez. 3, Ordinanza n. 9198 del 13/04/2018; Sez. 2, Sentenza n. 1186 del 22/01/2015; Sez. 2, Sentenza n. 13983 del 24/06/2011; Sez. 3, Sentenza n. 8103 del 06/04/2006; Sez. 2, Sentenza n. 3302 del 15/02/2006; Sez. 2, Sentenza n. 9849 del 19/06/2003; Sez. 2, Sentenza n. 9863 del 27/07/2000; Sez. 3, Sentenza n. 14239 del 17/12/1999; Sez. 2, Sentenza n. 446 del 19/01/1999; Sez. 2, Sentenza n. 10255 del 16/10/1998; Sez. 2, Sentenza n. 7364 del 09/08/1996; Sez. 2, Sentenza n. 10772 del 16/10/1995; Sez. 2, Sentenza n. 11950 del 15/12/1990; Sez. 2, Sentenza n. 49 del 11/01/1988; Sez. 2, Sentenza n. 2573 del 12/04/1983).

Da ciò deriva che, anche ove il rapporto si sia sciolto sulla scorta dello ius poenitendi attuato dal committente, la pretesa di quest’ultimo di ottenere la riparazione dei danni conseguenti a fatti di inadempimento addebitati all’assuntore e accaduti in corso d’opera, prima che fosse fatto valere il recesso, ricade nella cornice normativa generale di cui all’art. 1453 c.c., sicché non trova applicazione la disciplina speciale sulla garanzia per le difformità e i vizi, anche con riferimento ai termini di decadenza e prescrizione. (…)

Quindi, venuto meno il rapporto fiduciario tra le parti dell’appalto, per effetto dell’esercizio del diritto potestativo di recesso dell’appaltante, nessuna equiparazione può essere disposta tra completamento dell’opera e definitiva interruzione dei lavori, cui non si applica la disciplina speciale sulla garanzia per i vizi in ordine agli inadempimenti contestati dal committente per fatti verificatisi prima dell’attuazione dello ius poenitendi>>.

Risarcimento del danno subito dal possessore per spoglio illecito: ricorre l’ingiustizia del danno ma resta salva la tutela petitoria

Cass. sez. III dell’ 11/12/2023 n. 34.540, rel. Iannello, in un’azione di danno da spoglio possessorio, la cui illiceità era stata accertata con sentenza passata in giudicato ex art. 1168 cc contro l’IACP di Palermo :

<<La pretesa risarcitoria trova nella specie fondamento, ex art. 2043 c.c., nel fatto illecito compiuto dall’Iacp, ossia nelle modalità con le quali l’Istituto è rientrato nel possesso dell’immobile occupato dalla C., al contempo spogliandone quest’ultima: fatto, questo, integrante spoglio meritevole di tutela di reintegra, secondo accertamento giudiziale passato in giudicato e, come tale, non più suscettibile di sindacato sotto tale profilo qualificatorio.

Rispetto a tale fatto costitutivo del vantato credito risarcitorio nessun rilievo impeditivo può assumere l’eventuale insussistenza di un effettivo ius possidendi in capo alla parte illecitamente privata del possesso.

Alcune precisazioni concettuali si rendono al riguardo opportune:

– la lesione del possesso o della detenzione può provocare danni non riparabili con il mero ripristino della situazione anteriore, che si identificano sia nella diminuzione patrimoniale che la vittima subisce per il ristabilimento dello status quo antea, sia nel mancato esercizio del potere di fatto;

– il risarcimento può però pure avere funzione sostitutiva del recupero della situazione possessoria, nell’ipotesi in cui quest’ultimo si presenti impossibile (di fatto) per distruzione della cosa o smarrimento o perdita irrecuperabile di essa dopo lo spoglio, ovvero (giuridicamente) perché la medesima è stata alienata ad un terzo ignaro, che ne ha acquistato il possesso (arg. ex art. 1169);

– in entrambi i casi la lesione del possesso che consegua ad un’attività di spoglio rilevante ai sensi dell’art. 1168 c.c., mette in essere una tipica fattispecie di illecito extracontrattuale, a condizione che, ovviamente, il fatto materiale compiuto dal terzo si traduca in un danno effettivo per il titolare della situazione possessoria;

– proprio su tale piano (quello cioè della possibilità di configurare un danno risarcibile conseguente alla lesione del possesso) si era in passato, nella dottrina, affacciata una tesi restrittiva (ora echeggiata dalla motivazione della sentenza impugnata) secondo la quale, essendo la tutela possessoria delineata dalla legge sotto il profilo della “mera azione” e non del diritto soggettivo, le restrizioni apportate alla situazione di fatto non potrebbero essere qualificate “ingiuste” ai sensi dell’art. 2043, non avendo il sistema lo scopo “di garantire incondizionatamente al possessore senza titolo i vantaggi economici del godimento del bene”;

tale tesi non ha però più ragion d’essere a fronte della ormai pacifica diversa ricostruzione del concetto di “danno ingiusto” ex art. 2043 c.c., come danno arrecato non iure, ossia in assenza di una causa giustificativa, e risolventesi nella “lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo” (Cass. Sez. U. 22/07/1999, n. 500);

– essendo dunque ormai superato l’antico dogma dell’illecito come lesione di un diritto soggettivo assoluto, deve ritenersi acquisito che anche colui il quale, per circostanze contingenti, si trovi ad esercitare su di una cosa un potere soltanto di fatto può, dal danneggiamento di essa, risentire un danno risarcibile, indipendentemente dall’esistenza del diritto all’esercizio di quel potere (v. in tal senso già Cass. 24/02/1981, n. 1131 secondo cui “qualsiasi possessore o detentore può, agendo in possessorio a tutela del suo rapporto col bene, chiedere anche il ristoro dei danni determinati dall’attività illecita del terzo”, giacché “l’azione di responsabilità extracontrattuale non postula necessariamente una identità tra il titolo al risarcimento e il titolo giuridico di proprietà o di godimento”, con la conseguenza che nel giudizio risarcitorio non è necessario per l’attore dimostrare il suo diritto sul bene, ma è sufficiente dimostrare di trovarsi in una relazione di fatto con la cosa e di avere subito un danno patrimoniale per la mancata disponibilità di essa; v. anche, conff., Cass. 14/05/1979, n. 2780; 14/05/1993, n. 5485; 29/01/2014, n. 1964, in motivazione);

– ne discende anche che alcun rilievo impeditivo può nemmeno avere la pretesa della nuova assegnataria di ottenere il pieno godimento dell’immobile a lei successivamente locato: trattandosi di pretesa derivata la stessa non varrebbe di per sé a rendere meno illecita l’azione spoliatrice dell’Iacp ed a privare dunque di fondamento la conseguente pretesa risarcitoria;

– il diritto dell’Iacp sul bene, e quello derivato della nuova locataria, agiscono sul diverso e non incompatibile terreno della tutela petitoria;

entrambi, in particolare, rimangono tutelabili con azioni reali o personali di rilascio del bene, pur tenendo ferma la riconosciuta illiceità dello spoglio in precedenza compiuto dall’ente proprietario e salvi gli effetti dell’eventuale mala fede del possessore, che rimane possibile far valere al fine di ottenere, in seno ad eventuale giudizio di rivendica, la restituzione del bene o il controvalore di questo, insieme con i frutti dovuti per legge dal possessore di mala fede (v. Cass. 12/05/1987, n. 4367)>>.

Risarcimento del danno da violazione della data protection

Cass. sez. I  n. 13.073 Ord. 12.05.2023, rel. Terrusi:

<<III. – Dalla sentenza si apprende che il trattamento illecito era stato integrato nel seguente modo: il 12/8/2020 il comune di (Xxxx) aveva pubblicato sul proprio sito istituzionale una determina relativa pignoramento per un certo importo dello stipendio di una dipendente comunale, tale per cui l’ente si era assunto l’impegno di versare il quinto dello stipendio a favore della società creditrice; nella determina era stata omessa la pubblicazione dei dati della debitrice, ma nella nota contabile allegata l’espressa indicazione dei dati era stata invece mantenuta, e i dati erano così finiti, seppure per poco più di un giorno, nell’albo pretorio on line del comune medesimo>>.

Principi di diritto:

<<– in base alla disciplina generale del Regolamento (UE) 2016.679, cd. GDPR, il titolare del trattamento dei dati personali è sempre tenuto a risarcire il danno cagionato a una persona da un trattamento non conforme al regolamento stesso, e può essere esonerato dalla responsabilità non semplicemente se si è attivato (come suo dovere) per rimuovere il dato illecitamente esposto, ma solo “se dimostra che l’evento dannoso non gli è in alcun modo imputabile”;[meglio: come obbligazione ex lege, il regime è quello della’rt. 1218 cc]

– l’esclusione del principio del danno in re ipsa presuppone, in questi casi, la prova della serietà della lesione conseguente al trattamento; ciò vuol dire che può non determinare il danno la mera violazione delle prescrizioni formali in tema di trattamento del dato, mentre induce sempre al risarcimento quella violazione che concretamente offenda la portata effettiva del diritto alla riservatezza>>. [che possa esserci stata una violazione  senza aver provocato un danno, mi pare esatto ma anche quasi ovvio]

(segnalazione e link da post di Stefano Aterno/E-Lex  su Linkedin)

Sul tema v. SALANITRO U., ILLECITO TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI E RISARCIMENTO DEL DANNO NEL PRISMA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA, Riv. dir. civ., 3-2023

Sull’art. 125 cod. propr. ind.: tra risarcimento del danno e trasterimento dei profitti conseguiti tramite violazione di marchio

Cass. sez. I n° 20.800 del 18 luglio 2023, rel. Caiazzo:

<<Il ricorso incidentale è infondato. Infatti, il titolare del diritto di privativa che lamenti la sua violazione ha facoltà di chiedere, in luogo del risarcimento del danno da lucro cessante, la restituzione (cd. retroversione”) degli utili realizzati dall’autore della violazione, con apposita domanda ai sensi dell’art. 125 c.p.i., senza che sia necessario allegare specificamente e dimostrare che l’autore della violazione abbia agito con colpa o con dolo (Cass., n. 21832/21).
Al riguardo, il soggetto contraffattore, pur avendo agito in mancanza dell’elemento soggettivo (doloso o colposo), deve comunque restituire al titolare gli utili che ha realizzato nella propria attività di violazione, per effetto del rimedio restitutorio, volto a salvaguardare il titolare di un diritto di privativa che rimarrebbe altrimenti privo di tutela laddove la contraffazione fosse causata in assenza dell’elemento soggettivo del dolo e della colpa.
Secondo il ribadito orientamento, se un soggetto commette una contraffazione consapevolmente o con ragionevoli motivi per esserne consapevole, il titolare del diritto violato può ottenere il risarcimento del danno, domandando il danno emergente ed il lucro cessante (ovvero, in alternativa a questo, la restituzione degli utili prodotti dal contraffattore); se, invece, fa difetto l’elemento soggettivo in capo al contraffattore, il titolare della privativa può domandare comunque la
retroversione degli utili.
Il terzo comma dell’art. 125 c.p.i., appunto prevede che «in ogni caso» il titolare del diritto leso possa chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione -evidentemente in forza e in conseguenza della stessa – in alternativa al risarcimento del lucro cessante.
La lettera della norma è inequivocabile nel circoscrivere la forma di ristoro al pregiudizio da lucro cessante, ossia ai mancati guadagni, sicché tale voce può sicuramente cumularsi al risarcimento di quelle di danno emergente.
La norma è altrettanto chiara nell’ammettere la richiesta della retroversione degli utili realizzati dal contraffattore nella misura in cui essi superino il risarcimento del lucro cessante. In tal modo il titolare del diritto può chiedere la restituzione di benefici che egli non avrebbe ritratto anche se la violazione non vi fosse stata, per esempio perché, essendo meno attrezzato, meno efficiente o meno dimensionato rispetto allo sleale e illegittimo competitore, non avrebbe avuto la capacità di operare nello stesso modo sul mercato; il caso inoltre si può
verificare nella materia brevettuale, in cui la titolarità del diritto di proprietà industriale può essere svincolata dallo svolgimento di una attività di impresa, quando l’inventore titolare lamenti la violazione da parte di un imprenditore di una privativa che egli non ha ancora provveduto a realizzare o a far realizzare industrialmente. Il tema è stato indagato da autorevole dottrina, che ha posto in luce l’esigenza di impedire che il contraffattore tragga profitti dal proprio illecito e di prevenire la pianificazione di attività contraffattive da parte di operatori economici più efficienti per capacità imprenditoriale del titolare del diritto di proprietà intellettuale; questi infatti potrebbero, anche in presenza di un sistema che garantisca al titolare una piena compensazione del suo mancato profitto, organizzare una attività di contraffazione di per sé vantaggiosa, pur considerando il loro obbligo di risarcire il titolare del mancato guadagno, contando sul lucro costituito dalla differenza tra il mancato guadagno del titolare ed il proprio maggior profitto.
In tali ipotesi, il ricorso a questa forma di liquidazione forfettaria e rigida del danno allontana il risarcimento [no: non è più un risarcimento!!] dalla tradizionale funzione meramente compensativa ad esso assegnata nel nostro ordinamento, preordinata a ristorare il titolare del diritto da una perdita che non avrebbe subito se la violazione non fosse stata perpetrata, o, quantomeno, da tale sola funzione, avvicinandola sensibilmente a una logica preventiva e dissuasiva dall’illecito, sia pur sempre sotto l’egida del collegamento necessario con la violazione di un diritto assoluto potenzialmente capace di una espansione economica.
In questa prospettiva la retroversione, così come delineata dal legislatore, rivela una evidente analogia (seppur non in termini di completa sovrapposizione delle fattispecie) con i principi che governano l’arricchimento senza causa per l’intento di riallocare la distribuzione di ricchezza in tal modo conseguita fra colui che ha
realizzato dei benefici ingiustificati, sfruttando la privativa altrui, e colui il cui diritto assoluto è stato sfruttato per realizzarli, a prescindere dall’accertamento controfattuale circa il conseguimento di quegli stessi benefici da parte sua, in una sequenza di eventi alternativa. Il legislatore del 2006 ha così introdotto uno strumento rimediale sui generis, di tipo restitutorio, ispirato a una logica composita, in parte compensatoria e in parte dissuasiva/deterrente, che si affianca alla tutela risarcitoria classica, sia pur nella sua declinazione speciale
prevista in materia di proprietà industriale con le regole particolari stabilite nei primi due commi dell’art.125 c.p.i. (Cass., n. 21832/21). Questa conclusione è resa evidente già dalla stessa rubrica del novellato art.125, intitolata al «Risarcimento del danno e restituzione dei profitti dell’autore della violazione» e caratterizzata dal riferimento ai due istituti rimediali>>

Importante intervento della Cassazione sulla deindicizzazione da diritto all’oblio da parte del motore di ricerca: può (e talora) deve essere mondiale, non solo europea

Cass. sez. 1° del 24.11.2022 n° 34.658, per l’ottima penna del rel. Scotti, affronta il tema in oggetto cassando un Trib. Milano del 2020.

Vedila ad es. in questo link offerto dal Sole 24 ore o da Eleonora Rosati nel suo post in IPKat.

Ripercorsa la tutela della privacy e del diritto all’oblio, ricorda i due precedenti europei che avevano l’uno accolto e l’altro osteggiato il delisting extraUE in caso di notizie già legittimamente pubblicate ma poi superate dal tempo: dopo l’iniziale caso Costeja del 2014 (C-131/12), sono intevente la sentenza nel caso CNIL 24.09.2019 , C-507/2017 e quella nel caso   Glawischnig-Piesczek c. Facebook 03.10.2019 , C-18/08.

La SC si adegua al decisum della prima , per cui, appurato che il delisting mondiale non è dal diritto UE nè obbligato nè vietato, la questione va sciolta in base ai diritti nazionali.

Ci son due affermazioni importanti.

1°  Il ns. diritto impone il delisting mondial. La tutela di un valore costituzionale, quale la riservatezza, deve fronteggiare anche le modalità “liquide e pervasive della circolazione dei dati sulla rete di internet!”, § 19.

E’ il punto centrale e condivisibile.

Il rischio di conflitti tra ordini in conflitto emanati da autorità di diversi paesi non osta a questa conclusione, aggiunge la SC.

Del resto -aggiungo io- i colossi tecnologici come sfruttano la diversità di regole giuridiche tra Stati  quando gli fa comdo (tassazione), l’accettino  anche quando non gli fa comodo (cuius commoda eius et incommoda) : filtreranno nel limite massimo imposto dallo Stato più garantista, visto che sfruttano a livello mondiale tutte le opportunità possibili.

Le difficoltà in fase esecutiva non son rilevanti .

2° Il secondo punto importante sta nel § 26. Il delisting mondiale può essere concesso perchè nel caso specifico il danneggiato operava per lavoro in giro per il mondo: e dunque poteva subire danno da altre parti del mondo, oltre all’Italia. Quindi può arguirsi che per la SC , se invece gli interessi di una persona son solo in italia, il delisting mondiale non è concedibile. Cioè -parrebbe- può esserlo solo se essa può provare danni dalla circolazione all’estero della notizia de qua: il che è difficile se i suoi interessi son appunto concentrati solo in Italia.

Principio di diritto al § 27 : “In tema di trattamento dei dati personali, la tutela spettante all’interessato, strettamente connessa ai diritti alla riservatezza e all’identità personale e preordinata a garantirne la dignità personale dell’individuo, ai sensi dell’art. 3 Cost., comma 1 e dell’art. 2 Cost., che si esprime nel cosiddetto “diritto all’oblio”, consente, in conformità al diritto dell’Unione Europea, alle autorità italiane, ossia al Garante per la protezione dei dati personali e al giudice, di ordinare al gestore di un motore di ricerca di effettuare una deindicizzazione su tutte le versioni, anche extraEuropee, del suddetto motore, previo bilanciamento tra il diritto della persona interessata alla tutela della sua vita privata e alla protezione dei suoi dati personali e il diritto alla libertà d’informazione, da operarsi secondo gli standard di protezione dell’ordinamento italiano“.

Infine una nota processuale.

La SC precisa che un parere giuridico è atto difensivo e dunque non può essere introdotto come allegato alla memoria ex art. 380 bis.1 cpc, non rientrando tra i documenti ammissibili nel giudizio di legittimità ex art. 372 cpc.

Danno da occupazione abusiva dell’immobile: in re ipsa o da provare?

E’ nel secondo senso Cass. sez. un. 15.11.2022 n. 33.645, rel. Scoditti.

 

La decisione va condivisa.

Premessa: si tratterebbe di danno emergente e non mancato guadagno : << 4.2. Entrambe le ordinanze interlocutorie pongono la questione
della configurabilità del c.d. danno
in re ipsa nell’ipotesi di
occupazione
sine titulo dell’immobile, ma il punto di divergenza fra gli
orientamenti che esse esprimono riguarda non il mancato guadagno,
bensì la perdita subita. Entrambe le ordinanze escludono infatti che
un danno
in re ipsa sia configurabile in relazione al lucro cessante e si
può convenire sul dato che nella giurisprudenza di legittimità le
occasioni di guadagno perse devono essere oggetto di specifica
prova, naturalmente anche a mezzo di presunzioni. La problematica
del danno
in re ipsa emerge in entrambe le ordinanze in relazione alla
facoltà di godere del proprietario quale individuazione dell’esistenza di
un danno risarcibile per il sol fatto che di tale facoltà il proprietario sia
stato privato a causa dell’occupazione abusiva dell’oggetto del suo
diritto
>>

<<4.5. La questione posta dal contrasto è, al fondo, se la violazione
del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno
risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche
risarcitoria. Ritengono le Sezioni Unite che al quesito debba darsi
risposta positiva, nei termini emersi nella richiamata linea evolutiva
della giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, secondo cui la
locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno
presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della
presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il
pregiudizio allegato (Cass. 7 gennaio 2021, n. 39; 20 gennaio 2022,
n. 4936; 22 aprile 2022, n. 12865). Tale esito interpretativo, per
quanto riguarda la lesione della facoltà di godimento, resta coerente
al significato di danno risarcibile quale perdita patrimoniale subita in
conseguenza di un fatto illecito. La linea da perseguire è infatti,
secondo le Sezioni Unite, quella del punto di mediazione fra la teoria
normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della Seconda
Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla Terza
Sezione Civile. Al fine di salvaguardare tale punto di mediazione,
l’estensione della tutela dal piano reale a quello risarcitorio, per
l’ipotesi della violazione del contenuto del diritto, deve lasciare intatta
la distinzione fra le due forme di tutela>>

<<4.9. Nella comune fattispecie di occupazione abusiva d’immobile è
al contrario richiesta, come si è visto, l’allegazione della concreta
possibilità di esercizio del diritto di godimento che è andata persa. Ciò
significa che il non uso, il quale è pure una caratteristica del
contenuto del diritto, non è suscettibile di risarcimento>>

PRINCIPI DI DIRITO:

<<  –  “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento
del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del

diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del
godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta”;
–   “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di
un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il
risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare,
esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso
mediante il parametro del canone locativo di mercato”;
–   “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di
un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento
del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito,
quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe
concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore
al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo
più conveniente di quello di mercato”.
>>

(Si tratterà però spesso di lucro cessante, a dispetto di quanto premettono le SU come sopra riportato)

Importante la precisazione per cui la relevatio ab onere probandi ex art. 115 cpc riguarda solo i fatti noti al convenuto: <<Sia per la perdita subita che per il mancato guadagno va rammentato che l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte convenuta, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass.
31 agosto 2020, n. 18074; 4 gennaio 2019, n. 87; 18 luglio 2016, n.
14652; 13 febbraio 2013, n. 3576). Poiché non si compie l’effetto di
cui all’art. 115, comma 1, cod. proc. civ., per i fatti ignoti al
danneggiante l’onere probatorio sorge comunque per l’attore, a
prescindere dalla mancanza di contestazione, ma il criterio di
normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi
di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che
l’evenienza dei fatti ignoti alla parte convenuta sia tendenzialmente
più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno. Ne consegue sul
piano pratico la maggiore ricorrenza per il convenuto dell’onere di
contestazione, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto
dall’art. 115 comma 1, nelle controversie aventi ad oggetto la perdita
subita e la maggiore ricorrenza per l’attore dell’onere probatorio, pur
in mancanza di contestazione, nelle controversie aventi ad oggetto il
mancato guadagno>>

Regola spesso violata nella prassi giudiziaria

Risarcimento danno da violazione della data protection (art. 82 GDPR)

Rielvante questione portata alla Corte di Giustizia circa i presupposti per la risarcibiità del danno provocato da violazione della data protection (causa C-300/21).

Questioni pregiudiziali, § 14:

«1)      Se ai fini del riconoscimento di un risarcimento ai sensi dell’articolo 82 dell’RGPD (…) occorra, oltre a una violazione delle disposizioni dell’RGPD, che il ricorrente abbia patito un danno, o se sia già di per sé sufficiente la violazione di disposizioni dell’RGPD per ottenere un risarcimento.

2)      Se esistano, per quanto riguarda il calcolo del risarcimento, altre prescrizioni di diritto dell’Unione, oltre ai principi di effettività e di equivalenza.

3)      Se sia compatibile con il diritto dell’Unione la tesi secondo cui il presupposto per il riconoscimento di un danno immateriale è la presenza di una conseguenza o di un effetto della violazione di un diritto avente almeno un certo peso e che vada oltre l’irritazione provocata dalla violazione stessa».

Sono  state depositate le conclusion 06.10.2022 dell’AG Sanchez-Bordona :

«L’articolo 82 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati), deve essere interpretato nel senso che:

ai fini del riconoscimento di un risarcimento per danni subiti da una persona in conseguenza di una violazione del menzionato regolamento non è sufficiente, di per sé, la mera violazione della norma, se essa non è accompagnata dal relativo danno, materiale o immateriale [ovvio, dato il tenore della disposizione].

Il risarcimento del danno immateriale disciplinato dal regolamento 2016/679 non si estende alla mera irritazione che l’interessato possa provare a causa della violazione delle disposizioni del regolamento 2016/679 [ancora abbastanza ovvio, pur se un pò meno]. Spetta ai giudici nazionali stabilire quando, a motivo delle sue caratteristiche, la sensazione soggettiva di malessere possa essere considerata, in ciascun caso, un danno immateriale [punto importante, ma incerto: non ci sarà così una frantumazione nazionale della relativa regola, dubbio che si pone peraltro per quasi tutto il diritto armonizzato UE in relazione ai rimedi per la sua  violazione?]: ».


Precisazioni sul rapporto tra danno morale e danno biologico

Cass. , sez. III, 21.03.2022 n. 9.006, rel. Scarano, offre qualche precisaizone sull’oggetto, peraltro di corrente accettazione:

<<successivamente all’emanazione della suindicata L. n. 124 del 2017, si è da questa Corte sottolineato che in tema di danno non patrimoniale da lesione della salute non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del risarcimento del danno biologico, quale pregiudizio che esplica incidenza sulla vita quotidiana e sulle attività dinamico-relazionali del soggetto, e di un’ulteriore somma a titolo di ristoro del pregiudizio rappresentato dal danno morale, quale sofferenza interiore sub specie di dolore dell’animo, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione (v. Cass., 19/2/2019, n. 4878).

A tale stregua, si è da questa Corte precisato che, successivamente alla personalizzazione del danno biologico (specificamente disciplinata in via normativa (art. 138, n. 3 nuovo testo c.d.a.: “qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati, l’ammontare del risarcimento del danno, calcolato secondo quanto previsto dalla tabella unica nazionale… può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 30%”), il danno biologico risultando normativamente definito (art. 138, punto 2 lett. a) quale “”lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato)), il danno morale -ove dedotto e provato- deve formare oggetto di separata valutazione ed autonoma liquidazione, giusta il disposto di cui all’art. 138, punto 2, lett. e), nuovo testo C.d.A. (“al fine di considerare la componente morale da lesione dell’integrità fisica, la quota corrispondente al danno biologico… è incrementata in via progressiva e per punto, individuando la percentuale di aumento di tali valori per la personalizzazione complessiva della liquidazione”), con il quale si è dal legislatore elevato a fonte normativa il principio da questa Corte da tempo affermato dell’autonomia del danno morale rispetto al danno biologico, atteso che il sintagma danno morale non è suscettibile di accertamento medico-legale sostanziandosi nella rappresentazione di uno stato d’animo di sofferenza interiore del tutto prescindente dalle vicende dinamico-relazionali della vita (che pure può influenzare) del danneggiato (v. Cass., 10/11/2020, n. 25164; Cass., 19/2/2019, n. 4878).>>

Sul risarcimento del danno da violazione di copyright (art. 158 legge d’autore)

Interviene con buon dettaglio sul tema in oggetto Cass. sez. I ord. n. 39762 del 13.12.2021 rel. Scotti (caso Mondadori-Saviano: l’attore originario – editore locale campano- aveva lamentato  l’illecita riproduzione di propri articoli).

Vediamo in passaggi più significativi:

– <2.6. Secondo la giurisprudenza di questa Corte in tema di tutela del diritto d’autore, la violazione di un diritto di esclusiva integra di per sé la prova dell’esistenza del danno da lucro cessante e resta a carico del titolare del diritto medesimo solo l’onere di dimostrarne l’entità (Sez. 3, n. 8730 del 15.4.2011, Rv. 617890 01; Sez. 1, n. 14060 del 7.7.2015, Rv. 635790 – 01), a meno che l’autore della violazione fornisca la prova dell’insussistenza nel caso concreto di danni risarcibili nei limiti di cui all’art. 1227 c.c. (come ha avuto cura di precisare Sez. 1, n. 12954 del 22.6.2016, Rv. 640103 – 01)>.

Affermazione poco coerente con la disciplina comune civilsitica e che andrebbe spiegata.

– <2.7. Questa Corte, con l’ordinanza n. 21833 del 29.7.2021, ha recentemente affrontato in modo sistematico l’interpretazione delle regole fissate dall’art. 158 l.d.a. in tema di determinazione e quantificazione del danno conseguente alla violazione del diritto d’autore, chiarendo che:

a) il risarcimento del danno è liquidato nel rispetto degli artt. 1223,1226 e 1227 c.c., disposizione questa fin anche pleonastica, che serve solo a manifestare espressamente l’esigenza del rispetto delle regole comuni di liquidazione del danno, quanto a nesso causale, potere di liquidazione equitativa e concorso del fatto dello stesso debitore;

b) il lucro cessante è valutato dal giudice ai sensi dell’art. 2056 c.c., comma 2, ossia “con equo apprezzamento delle circostanze del caso”, dunque ancora una volta ex art. 1226 c.c., cui si aggiunge però l’indicazione di un parametro esplicito, relativo agli “utili realizzati in violazione del diritto”;

c) è prevista infine la possibilità di liquidazione “in via forfettaria sulla base quanto meno dell’importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l’autore della violazione avesse chiesto al titolare l’autorizzazione per l’utilizzazione del diritto”.

La norma prevede quindi due criteri alternativi, iscritti entrambi nella cornice di una liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c.; anche se non è scandito esplicitamente un ordine rigido di preferenza fra i due criteri, l’espressione utilizzata dal Legislatore (“quanto meno”) sta ad indicare che il criterio del cosiddetto “prezzo del consenso” di cui al terzo periodo del comma 2, (detto anche della “royalty virtuale”) rappresenta una soglia minima della liquidazione.

Si è dunque osservato che due criteri si pongono come cerchi concentrici, in cui il secondo permette una liquidazione minimale, mentre il primo, che associa nella funzione risarcitoria anche una componente deterrente e dissuasiva, permette di attribuire al danneggiato i vantaggi economici che l’autore del plagio abbia in concreto conseguito, certamente ricomprendenti anche l’eventuale costo riferibile all’acquisto dei diritti di sfruttamento economico dell’opera, ma ulteriormente aumentati dai ricavi conseguiti dal plagiario sul mercato.>

Che la royalty ragionevole sia il minimo , la legge non lo dice e pure questo è poco coerente con la disciplioa comune, in assenza di dato testuale; per cui l’affermaziuobne andrebbe meglio argomentata.

– <2.13. Si è detto in precedenza che il criterio del prezzo del consenso ha natura sussidiaria e residuale.

In tal senso si impone una interpretazione del diritto nazionale armonizzata con la Direttiva Europea che per le violazioni dolose o colpose pretende che l’entità del risarcimento da riconoscere al titolare tenga conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali la perdita di guadagno subita dal titolare dei diritti o i guadagni illeciti realizzati dall’autore della violazione e considera solo come alternativa – da esperirsi ad esempio, in caso di difficoltà di determinazione dell’importo dell’effettivo danno subito la parametrazione dell’entità dal risarcimento alla royalty virtuale.

Il diritto Europeo esige infatti un risarcimento effettivo e proporzionalmente adeguato, calibrato su di una accurata considerazione di tutti gli elementi specifici e pertinenti del caso, tra i quali debbono essere inclusi il mancato guadagno subito dalla parte lesa e i benefici realizzati illegalmente dall’autore della violazione.

Che gli utili realizzati dal contraffattore siano un criterio fondamentale nella liquidazione completa ed effettiva del danno è dimostrato anche dal paragrafo 2 dell’art. 13 della Direttiva che permette agli Stati membri di disporre il recupero dei profitti fin anche nel caso di violazioni non dolose o colpose (violazioni c.d. inconsapevoli).

Le disposizioni della legge nazionale sono ispirate allo stesso criterio, come sopra ricordato, con l’inequivoco impiego della formula “quanto meno”, che colora il criterio alternativo del prezzo del consenso con il tratto della residualità.

In questo senso, sia pur con riferimento all’art. 125 c.p.i., comunque riconducibile anch’esso alla matrice della stessa disposizione della Direttiva enforcement, è stato osservato nella recente giurisprudenza di questa Corte che il criterio della “giusta royalty” o “royalty virtuale” segna solo il limite inferiore dei risarcimento del danno liquidato in via equitativa e che però esso non può essere utilizzato a fronte dell’indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi ragionevoli criteri equitativi, il tutto nell’obiettivo di una piena riparazione del pregiudizio risentito dal titolare del diritto di proprietà intellettuale (Sez. 1, n. 5666 del 2.3.2021, Rv. 660575 – 01).

2.14. Tale scansione preferenziale fra i due criteri ben si comprende, ove ci si soffermi a riflettere sull’esigenza di un pieno, completo ed effettivo ristoro risarcitorio del danno subito dal titolare di un diritto di proprietà intellettuale o industriale, perseguito dalla Direttiva Europea e si consideri la ratio del criterio del “prezzo del consenso”.

Questo criterio infatti finisce con l’imporre al contraffattore o al plagiario il pagamento all’esito del contenzioso di quello stesso importo che avrebbe potuto pattuire in via negoziale ove si fosse comportato correttamente, tanto che la giurisprudenza merito, tenuto conto del riferimento normativo al limite minimo indicato dalla norma e dell’esigenza di evitare la “premialità” di tale tecnica liquidatoria per il contraffattore, ritiene equa una congrua maggiorazione dell’importo rispetto alle tariffe di mercato.>

Solo che la legge prescrive il <quanto meno> solo per il prezzo del consenso e non per il risarcimento ordinario.

Risarcimento del danno da chiusura dell’attività di impresa per infiltrazioni nell’immobile

Dopo due gradi con esito negativo , l’imprenditore danneggiato da infiltrazoni nei suoi locali tenta il ricorso in Cassazione. Ma gli va ancora male.

Questo il passaggio principale sulla liquidazione equitativa ex art. 1226 cc, svolto da Cass. n. 31.251 del 03.11.2021, rel. Scarpa A.: <<Alla liquidazione del danno il giudice può procedere anche in via equitativa, in forza del potere conferitogli dagli artt. 1226 e 2056 c.c., restando, peraltro, la cosiddetta equità giudiziale correttiva ed integrativa subordinata alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare e, a un tempo, non comprendendo tale potere giudiziale anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo la liquidazione equitativa già assolto l’onere della parte di dimostrare sia la sussistenza sia l’entità materiale del danno subito>>

E poi: <<Ora, i danni derivanti dalla perdita del guadagno di un’attività commerciale per loro stessa natura evidenziano la pratica impossibilità di una precisa dimostrazione (cfr. Cass. Sez. 3, 24/04/1997, n. 3596; Cass. Sez. 1, 13/01/1987 n. 132). Ciò non di meno, spetta all’attore l’onere di fornire elementi, di natura contabile o fiscale, con riguardo, indicativamente, alla consistenza ed alla redditività dell’esercizio commerciale, al fatturato e agli utili realizzati negli anni precedenti, all’incidenza del pagamento del canone e degli oneri connessi alla locazione. Invero, l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., non esime la parte interessata  dall’onere di dimostrare non solo l'”an debeatur” del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi “in re ipsa”, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui, nonostante la riconosciuta difficoltà, possa ragionevolmente disporre (cfr. Cass. Sez. 3, 17/10/2016, n. 20889).>>