Coprire con propri annunci concorrenti il sito web dell’azienda, cercata col motore di ricerca, è illecito da parte di Google?

La risposta è positiva.

I fatti sono semplici: quando un un utente cerca sul campo di ricerca Google, installato sulla home page dei telefoni android, una certa azienda (Best carpet) , e poi clica sulla sua home page , Google sovrappone ad essa propri annunci oscurandola per tre quarti.

L’azienda ha citato Google proponendo più domande e ha ottenuto ragione .

Qui   interessa solo quella c.d. trespass to chattels e cioè turbativa possessoria : qualcosa di simile alla nostra reintegrazione o (forse meglio) manutenzione possessoria ex art. 1170 cc)

Si tratta della molto interessante sentenza Best CArpets c. Google, Case No. 5:20cv04700, NORTHERN DISTRICT OF CALIFORNIA SAN JOSE DIVISION del 24.09.2021.

Limpstazione è qui_: <<Here, there are two potential chattels: the computers hosting Plaintiffs’ websites and the copies of Plaintiffs’ websites appearing on users’ screens. Google contends the trespass to chattels claim fails as a matter of law as to both potential types of chattel because its Search App does not cause physical injury (i.e., intrusion, interference or harm) to any tangible property. Mot. at 6. In making this argument, Google implicitly acknowledges that the computers hosting Plaintiffs’ websites are tangible property, but contends that the Search App does not interact with those computers, much less damage them. As for the copies of Plaintiffs’ websites appearing on users’  screens, Google contends that they are not tangible property, and therefore cannot be the subject of a trespass claim. >>

Ma la corte dice che un website può essere ogetto di una trespass to chattels claim. p.8.

Gli atto  dicono che  un <<website ownership grants them a right to be paid for the advertising space occupied by Google on their websites. And like a domain name, a website is a form of intangible property that has a connection to an electronic document. “A website is a digital document built with software and housed on a computer called a ‘web server,’ which is owned or controlled in part by the website’s owner. A  website occupies physical space on the web server, which can host many other documents as well.” Compl. ¶ 34. Plaintiffs’ website is also connected to the DNS through its domain name, bestcarpetvalue.com, just as Kremen’s domain name was connected to the DNS. Under the Kremen court’s reasoning, Plaintiffs’ website has a connection to a tangible object, which satisfies
the Restatement’s merger requirement>>, p. 10

E non si può negare che sia stata avanzata la pur necessaria allegazione di danno: <<Here, although Plaintiffs are not alleging physical harm to their websites, they do allege functional harm or disruption.  Specifically, Plaintiffs allege that “[b]y obscuring and blocking the contents of [Plaintiffs’] website homepages when viewed on Android’s Search App, Google’s ads substantially interfered with and impaired the websites’ published output and exposed the website owners to unwanted risks of lost advertising revenues and lost sales to competitors, thereby materially reducing the websites’ value and utility to the website owners.  Defendant’s unauthorized interferences proximately caused Plaintiffs . . . actual damage by impairing the condition, quality and value of their websites.”  Id. ¶ 186.  Plaintiffs seek damages equal to the diminished market value of their websites and a permanent injunction requiring Google to disable the ad-generating feature of its Search App on every Android phone on which it is installed and preventing Google from installing any similar feature in the future.  Id. ¶¶ 187-90.  Google argues that there is no cognizable injury because its Search App does not affect how Plaintiffs’ websites function or how they are displayed by other programs.  Mot. at 2.  Google explains that its Search App does not alter Plaintiffs’ websites at all, but rather “displays additional content in a separate, user-controlled frame that overlays and coexists on phone screens with Plaintiffs’ sites.”  Mot. at 7 (citing Compl. ¶¶ 73-74).  But at the pleading stage, Plaintiffs’ factual allegations must be taken as true.  Ashcroft, 556 U.S. at 678.  Plaintiffs allege that the ads obscured and blocked their websites, which if true, would interfere with and impair their websites’ published output.  Google’s ad allegedly obscured the “Cove Base” product link on Best Carpet’s home page.  Compl. ¶ 73.  Although Google’s ad may not have disabled or deactivated the “Cove Base” product link, it nevertheless allegedly impaired the functionality of the website: an Android phone user cannot engage a link that cannot be seen.  At the pleading stage, the alleged decrease in functionality of Plaintiffs’ website is sufficient to plausibly state a cognizable injury for a trespass to chattels claim.  See Compuserve Inc. v. Cyber Promotions, 962 F. Supp. 1015, 1026 (S.D. Ohio 1997) (plaintiff asserting injury aside from physical impact on computer equipment stated cognizable trespass to chattels claim based on decreased utility of plaintiff’s e-mail service and resulting customer complaints); eBay, Inc. v. Bidder’s Edge, Inc., 100 F. Supp. 2d 1058, 1070 (N.D. Cal. 2000) (granting injunction based on likelihood of success on merits of trespass to chattels claim based, in part, on showing that web crawlers diminished the quality or value of eBay’s computer system, even though eBay did not claim physical damage>>, p. 12-13

Uso del pc per fini non lavorativi e controlli a distanza ex art. 4 Statuto dei lavoratori

Interviene Cass. n° 25.732 del 22.09.2021, rel. Raimondi, nel caso di dipendente licenziata per giusta causa per aver usato il pc per accedere a siti internet di interesse privato (cioè non lavorativo) e per aver così fatto entrare virus nel sistema informatico aziendale.

La dipendente contesta la legittimità del controllo aziendale predisposto per raccogliere prove di ciò e lo fa spt. ex art. 4 Statuto lav..

La SC si pronuncia sul punto dopo ampio eseme della materia .

Effettua una premessa generale: centrale è il concetto di <controlli difesivi> e soprattutto il capire se  siano ancora ammissibili dopo la rifoma ex legge 151 del 2015, art. 23.

Ebene: << 31. Occorre perciò distinguere tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio, controlli che dovranno necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell’art. 4 novellato in tutti i suoi aspetti e “controlli difensivi” in senso stretto, diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti, anche se questo si verifica durante la prestazione di lavoro. 32  Si può ritenere che questi ultimi controlli, anche se effettuati con strumenti tecnologici, non avendo ad oggetto la normale attività del lavoratore, si situino, anche oggi, all’esterno del perimetro applicativo dell’art. 4.>>

In particolare, poi, << 40 . Inoltre, e il punto è particolarmente rilevante nel caso in esame, per essere in ipotesi legittimo, il controllo “difensivo in senso stretto” dovrebbe quindi essere mirato, nonché attuato ex post, ossia a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto, sicché non avrebbe ad oggetto lmattività” – in senso tecnico – del lavoratore medesimo. Il che è sostanzialmente in linea con gli ultimi approdi della giurisprudenza di questa Corte, più sopra richiamati, in materia di “controlli difensivi” nella vigenza della superata disciplina. (…)  44. Può, quindi, in buona sostanza, parlarsi di controllo ex post solo ove, a seguito del fondato sospetto del datore circa la commissione di illeciti ad opera del lavoratore, il datore stesso provveda, da quel momento, alla raccolta delle informazioni.  45.    Facendo il classico esempio dei dati di traffico contenuti nel browser del pc in uso al dipendente, potrà parlarsi di controllo ex post solo in relazione a quelli raccolti dopo l’insorgenza del sospetto di avvenuta commissione di illeciti ad opera del dipendente, non in relazione a quelli già registrati>>.

Passa quindi ad applicare tale fattispecie astratta a quella concreta: <<46.  Applicazione dei principi suesposti alla fattispecie in esame 46. Così ricostruito il quadro entro il quale i “controlli difensivi” tecnologici possono considerarsi ancora legittimi dopo la modifica dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, si deve rilevare che la sentenza impugnata, nel ritenere l’esorbitanza della fattispecie litigiosa dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ha osservato che il controllo sul computer aziendale in uso alla C. è stato indotto dalla necessità di verificare l’origine del virus che aveva infettato il sistema informaticc della Fondazione criptando vari documenti e cartelle condivise, e di risolvere il problema; l’attività lavorativa, secondo la Corte di appello, è stata dunque sottoposta a verifica non durante il suo svolgimento, ma ex post e quale effetto indiretto di operazioni tecniche condotte su strumenti di lavoro appartenenti al datore di lavoro e finalizzate all’indifferibile ripristino del sistema informatico aziendale. In tale quadro, secondo la Corte territoriale, perderebbe quindi ogni importanza l’eccepita inutilizzabilità probatoria dei dati informatici acquisiti, inutilizzabilità ascritta dalla lavoratrice alla da lei allegata illecita acquisizione, presupposto da escludersi processualmente.  47. Se la statuizione della sentenza impugnata circa la serietà del sospetto di attività illecita indotto dalla scoperta del virus e dei danni da questo provocati può dirsi conforme alla necessità dell’accertamento del requisito del “fondato sospetto” della commissione di un illecito che i principi sopra ricostruiti assumono come presupposto della legittimità dei “controlli difensivi”, è evidente come sia mancata ogni indagine nella stessa decisione volta a stabilire se i dati informatici rilevanti, utilizzati poi in sede disciplinare, fossero stati raccolti prima o dopo l’insorgere del fondato sospetto, in violazione dei principi esposti. E’ pure mancata ogni valutazione circa il corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore>>.

Principio di diritto: “ Sono consentiti i controlli anche tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto.         Non ricorrendo le condizioni suddette la verifica della utilizzabilità a fini disciplinari dei dati raccolti dal datore di lavoro andrà condotta alla stregua della L. n. 300 del 1970, art. 4, in particolare dei suoi commi 2 e 3“.

Esecuzione in buona fede del rapporto di lavoro da parte datoriale e rispetto delle procedure previste i licenziamenti collettivi

Della nota vertenza tra GKN e i suoi dipendenti in Campi Bisenzio, riporto solo un passaggio del decreto che accoglie la domanda del sindacato (Trib. Firenze sez. lav. 23.09.2021, RG 1685/2021, giudice A.M. Brigida Davia): quello che attiene alla autonomia imprenditoriale.

Precisamante: <<Deve preliminarmente rimarcarsi che, pur non essendo in discussione la discrezionalità dell’imprenditore rispetto alla decisione di cessare l’attività di impresa (espressione della libertà garantita dall’art. 41 Cost.), nondimeno la scelta imprenditoriale deve essere attuata con modalità rispettose dei principi di buona fede e correttezza contrattuale, nonché del ruolo e delle prerogative del Sindacato. Nel caso di specie parte datoriale, nel decidere l’immediata cessazione della produzione, ha contestualmente deciso di rifiutare la prestazione lavorativa dei 422 dipendenti (il cui rapporto di lavoro prosegue per legge fino alla chiusura della procedura di licenziamento collettivo), senza addurre una specifica ragione che imponesse o comunque rendesse opportuno il suddetto rifiuto, il che è sicuramente contrario a buona fede e rende plausibile la volontà di limitare l’attività del sindacato>>

La donazione di azioni ai dipendenti di società del gruppo non realizza la fattispecie del “ricorso al mercato del capitale di rischio” ex art. 2325 bis cc

Nella vertenza Salini, il Trib. Milano ha detto che l’assegnazione a titolo liberale di azioni ai dipendenti di società del gruppo, da parte del socio di riferimento dell’emittente (46,92%; anzi da parte di uno dei due soci di riferimento, l’altro possedendo il 46,92%), non integra la fattispecie della <diffusione tra il pubblico in misura rilevante> , posta dal combinato disposto dell’art. 2325 bis cc, art. 111 bis disp. att. c.c. e art. 2 bis reg. emittenti n. 11971/99.

Così Trib. Milano 23.04.2021 n. 3395/2021, RG 32801/2017, rel. M.A. Ricci. soprattutto per due motivi:

– manca una conspevole scelta di collocamento, dato che fu fatto unilateralmente da parte di uno dei due soci di riferimento, che da solo non detiene il controllo;

– nemeno può dirsi ricorra un <investimento> da parte degli acquirenti, trattandosi di liberalità, addirittura revocabile in base alle condizioni poste a quest’ultima (gravata pure da vincolo di incedibilità ad tempus): il che <<non ha generato neanche potenzialmente sul mercato alcun movimento finanziario, tantomeno a beneficio dell’emittente e certamente senza alcun reale rischio che la pretesa controllante potesse perdere la maggioranza azionaria relativa di cui è detentrice>>, p. 12 (requisito però assente nel reg. emittenti).

L’operazione è stata -secondo il Trib.- orchestata per rendere applicabile all’emittente la disciplina speciale per il computo delle azioni proprie nei quorum assembleari

Non è chiaro, però, per qual motivo il Tribunale non abbia accolto la domanda di accertamento (svolta dall’altro socio di riferimento, quello <tagliato fuori>) sotto il più immediato profilo del mancato coinvolgimento di almeno il 5% del capitale: nel caso specifico, infatti, l’assegnazione a dipendenti o ex dipendenti riguardò solo lo 0,23% del capitale.

Sarebbe anche da chiarire l’esatto titolo di trasferimento azionario ai dipendenti: la liberalità, se donativa, chiede l’atto pubblico a pena di nullità.

Copia privata su server in cloud ed equo compenso in diritto di autore

Interviene l’avvocato generale (AG) , C-433/20, 23.09.2021, Austro-Mechana Gesellschaft  c. Strato AG sulla questione del se la copia privata, memorizzata in cloud tramite apposito servizio,  costituisca <immissione in commercio di supporto di registrazione> che obbliga al pagamento dell’equoo compenso ex art. 5.2.b Dir. UE 29 del 2001 e disposizione austriaca attuativa .

Questioni sottoposte (§ 22):

«(1)      Se la nozione “su qualsiasi supporto” di cui all’articolo 5, paragrafo 2, lettera b), della direttiva [2001/29] debba essere interpretata nel senso che essa include anche i server di proprietà di terzi, i quali mettono ivi a disposizione di persone fisiche (clienti) a fini privati (e non per scopi di lucro diretti o indiretti) uno spazio di archiviazione, che i clienti utilizzano per effettuare riproduzioni mediante archiviazione («cloud computing»).

(2)      In caso di risposta affermativa: se la disposizione citata nella prima questione debba essere interpretata nel senso che essa si applica ad una normativa nazionale in base alla quale l’autore ha diritto ad un equo compenso (compenso per supporto di registrazione):

–        qualora debba presumersi che di un’opera (trasmessa a mezzo radio, messa a disposizione del pubblico ovvero trasferita su un supporto di registrazione prodotto a fini commerciali), vengano effettuate, in considerazione della sua natura, riproduzioni a fini personali o privati, mediante memorizzazione su un “supporto di registrazione di qualsiasi tipo idoneo a riproduzioni di tal genere e immesso in commercio nel territorio nazionale”,

–        e nel caso in cui, a tal fine, venga impiegato il metodo di archiviazione descritto nella prima questione».

Sulla prima lAG risponde posirivamente: la dir. comprende anche i supporti usati non tramite l’esercizio del dir. di proprietà sulla res ma solo fruendo del servizio di cloud hosting., spt. § 35 ss

La risposta era qui abbastanza semplice.

E’ invece più difficile, come intuibile, rispondere alla seconda (anche perchè la domanda è mal posta: la UE non può dire se la disposizione è interpretabile o no in un certo modo ma se una certa disposizione -o, al limite,  una sua interpretazione- è o meno compabitile con il diritto UE). Il precedente di riferimento in tema di copia privata è naturalmente la sentenza del 2010  nel caso Padawan, C-467/08.

La premessa è che la dir. nell’art. cit. vuole che l’eccezione << di cui all’articolo 5, paragrafo 2, lettera b), di tale direttiva non sia in contrasto con lo sfruttamento normale (58) dell’opera o degli altri materiali protetti e non arrechi ingiustificato pregiudizio agli interessi legittimi (59) del titolare.>>, § 64.

Il che, applicato al caso de quo, porta l’AG a … non giudicare la disposizione interna austriaca per mancanza di dati istruttori sull’entità di danno che la non imposizione nel caso de quo produrrebbe ai titolari dei dirtitti , rinviando dunque al giudice a quo. Bisogna infatti prima capire, dire,  se un equo compenso derivi ai titolati già da smartphone o altri devices, tal che l’imposizione pure sulla riproduizione in cloud risulti eccessiva

Precisamente: <<70.     A mio avviso, data la natura necessariamente imprecisa dei prelievi forfettari sui dispositivi o sui supporti, occorre essere prudenti prima di associare tali prelievi forfettari ad altri sistemi di remunerazione o di innestarvi altri prelievi per i servizi cloud senza condurre preventivamente uno studio empirico in materia – e senza stabilire, in particolare, se l’uso combinato di tali dispositivi/supporti e servizi arrechi un danno aggiuntivo ai titolari dei diritti – in quanto ciò potrebbe dar luogo a una sovracompensazione e alterare il giusto equilibrio tra titolari dei diritti e utenti di cui al considerando 31 della direttiva 2001/29.

71.      Inoltre, se non si tiene conto della riproduzione/memorizzazione nel cloud, vi può essere il rischio di sottocompensare il danno arrecato al titolare dei diritti. Tuttavia, poiché l’upload e il download di contenuti protetti dal diritto d’autore sul cloud mediante dispositivi o supporti potrebbe essere classificato come un unico processo ai fini della copia privata, gli Stati membri hanno la possibilità, alla luce dell’ampio potere discrezionale di cui dispongono, di istituire, se del caso, un sistema in cui l’equo compenso è corrisposto unicamente per i dispositivi o i supporti che costituiscono una parte necessaria di tale processo, purché ciò rifletta il pregiudizio arrecato al titolare del diritto dal processo in questione.

72.      In sintesi, quindi, non è dovuto un prelievo o un contributo separato per a riproduzione da parte di una persona fisica a fini personali basata su servizi di cloud computing forniti da un terzo, purché i prelievi pagati per i dispositivi/supporti nello Stato membro in questione riflettano anche il pregiudizio arrecato al titolare del diritto da tale riproduzione. Se uno Stato membro ha infatti scelto di prevedere un sistema di prelievo per i dispositivi/media, il giudice del rinvio è in linea di principio legittimato a presupporre che ciò costituisca di per sé un «equo compenso» ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2001/29, a meno che il titolare del diritto (o il suo rappresentante) possa dimostrare chiaramente che tale pagamento sia, nelle circostanze del caso di specie, inadeguato.

73.      Questa valutazione – che richiede una notevole competenza economica e a conoscenza di numerosi settori – deve essere effettuata a livello nazionale dal giudice del rinvio>>

Da noi la disposizione di riferimento è l’art. 71 sexiex l. aut.

Diritto di parola nei confronti della comunità locale che vuole far togliere dei post da Instagram

Interessante, atipico ed inquietante caso deciso nel Wisconsin il 24.09.2021, ase No. 20-cv-0620-bhl, Cohoon v. Konrath-Klump.

Un ragazza (Amyiah cohon) si ammala di Covid19: nonostante un test negativo, i medici glielo indicano come probabile, essendo agli inizi della pandemia ed essendo probabilmente ancor poco preciso). Posta su instagram in due occasioni successive delle foto, che la rappresentano malata ed anzi con ossigenatori.

La comunità locale si spaventa, non avendo ancora avuto all’epoca alcun  caso, e tramite lo sceriffo chiede che vengano rimosse . Lo sceriffo avanza la richeista in modo deciso, addirittura ventilando la possibilità che operi una sanzione penale detentiva in caso di rifiuto.

La ragazza però agisce in giudizio chiedendo: (1) a declaratory judgment establishing that Defendants violated her First Amendment rights, and (2) an injunction enjoining Defendants from citing her or her parents for disorderly conduct, arresting them, jailing them, or threatening any of the above, for future posts on social media about her scare with COVID-19. (ECF No. 3 at 1.).

La corte accoglie la prima domanda ma rigetta la seconda.

Il punto qui interssante è l’allegata violazione del primo emendamento (liberà di parola) data dalla condotta dello sceriffo, quando tentò (troppo) energicamente di persuadere la ragazza e i suoi genitori a  rimuovere i posts, per il panico creato nella comunicà locale

Ecco il passsaggio rilevante: <<Even if short and often grammatically scurrilous, social media posts do not fall outside the ambit of the First Amendment.  To the contrary, they are exactly what the First Amendment seeks to protect.  See Packingham v. North Carolina, 137 S. Ct. 1730, 1732 (2017) (explaining that social media is often the “principal source[] for . . . speaking and listening in the modern public square”).  In the eyes of the law, when Amyiah Cohoon took to Instagram, she was no different than John F. Tinker wearing his black armband in the halls of the Des Moines public schools, or Paul Robert Cohen donning his “Fuck the Draft” jacket in the corridors of the Los Angeles County Courthouse, and her speech deserved the same degree of protection.  See Tinker v.  Des Moines Independent Cmty.  Sch.  Dist.,  393  U.S.  503,  511  (1969);  Cohen  v.  California,  403  U.S.  15  (1971);  see  also  Mahanoy Area Sch. Dist. v. B. L. by & through Levy, 141 S. Ct. 2038, 2042 (2021) (holding that a student’s social media posts containing derogatory remarks about her school’s cheerleading team were protected by the First Amendment).  

But  Defendants  disagree.    In  their  view,  Amyiah  forfeited  her  constitutional  protection  when she published a post that caused concern in the community and led  to an influx of phone calls to the Westfield School District and Marquette County Health Department.  (ECF No. 17 at 13.)  According to Sheriff Konrath, this was akin to “screaming fire in a crowded movie theater.”  (ECF No. 1-9 at 1.)  Even setting aside that the popular movie theater analogy actually referred to “falsely shouting fire in a theater and causing a panic,” Schenck v. United States, 249 U.S. 47, 52 (1919) (emphasis added), Defendants’ argument still fails.  While content-based speech restrictions are permissible in limited circumstances (incitement, obscenity, defamation, fighting words, child pornography, etc.), the Supreme Court “has rejected as ‘startling and dangerous’ a ‘free-floating  test  for  First  Amendment  coverage  .  .  .  based  on  an  ad  hoc  balancing  of  relative  social costs and benefits.’”  U.S. v. Alvarez, 567 U.S. 709, 717 (2012) (quoting United States v. Stevens, 559 U.S. 460, 470 (2010)).   Labeling  censorship  societally  beneficial  does  not  render  it  lawful.    If  it  did,  nearly  all  censorship  would  evade  First  Amendment  scrutiny.    Defendants  may  have  preferred  to  keep Marquette  County  residents  ignorant  to  the  possibility  of  COVID-19  in  their  community  for  a  while longer, so they could avoid having to field calls from concerned citizens, but that preference did  not  give  them  authority  to  hunt  down  and  eradicate  inconvenient  Instagram  posts.    See Terminiello  v.  City  of  Chicago,  337  U.S.  1,  4  (1949)  (holding  that  speech  is  protected  against  censorship  or  punishment  unless  likely  to  produce  “a  clear  and  present  danger  of  a  serious  substantive evil that rises far above public inconvenience, annoyance, or unrest”).  Amyiah’s post is not captured by any of the categorical exceptions to the First Amendment, so this Court will not balance the social utility of curtailing it against its government-assigned value.   But  Defendants  persist.    They  cast  Amyiah’s  characterization  of  her  illness  as  a  lie, insisting that because she ultimately tested negative, she was prohibited from publicly proclaiming that she had beaten COVID-19.   But the very doctors who tested her also informed her that she may  have  had  COVID-19  in  spite  of  the  negative  test.    Her  Instagram  posts  were,  therefore,  at worst, incomplete.  The notion that the long arm of the government—redaction pen in hand—can extend to this sort of incomplete speech is plainly wrong.  The Marquette County Sheriff had no more ability to silence Amyiah’s posts than it would to silence the many talking heads on cable news, who routinely pronounce one-sided hot takes on the issues of the day, purposefully ignoring any inconvenient facts that might disrupt their preferred narratives.  Indeed, even if Amyiah’s posts had been untruthful, no court has ever suggested that noncommercial false speech is exempt from First Amendment scrutiny.  See Alvarez, 567 U.S. at 720.  The Supreme Court has emphasized: “[t]he remedy for speech that is false is speech that is true.  This is the ordinary course in a free society.”  Id. at 727.  The government here had every opportunity to counter Amyiah’s speech, but it opted instead to engage in the objectionable practice of censorship.  Because her Instagram post was undoubtedly protected by the First Amendment, the Court finds that Amyiah has satisfied the first element of her retaliation claim. >>+

Il punto centrale difensivo è dunque:   In  their  view,  Amyiah  forfeited  her  constitutional  protection  when she published a post that caused concern in the community and led  to an influx of phone calls to the Westfield School District and Marquette County Health Department.  (ECF No. 17 at 13.)  According to Sheriff Konrath, this was akin to “screaming fire in a crowded movie theater.” .

Implausibile e irricevibile difesa da parte dei due sceriffi/sergenti. Il conflitto tra il diritto di informare della gravità del morbo in arrivo, parlando di se, e l’esigenza di tranquillità della comunità locale che verrebbe incrinata dalla circolazione delle foto , come se non parlarne potesse fermarlo. Da qui l’aggettivo inquietante all’inizio del post: sarebbe grave un esito opposto.

Il giudice accoglie la domanda di Amyiah (sul punto 1).

Interessante è poi il ragionamento sulla adverse action (cioè l’inibizione del diritti di parola9 a p. 7 ss., consistita nella eccessiva pressione da parte dello sceriffo (da noi non sarebbe reato? Abuso di ufficio? Violenza privata? Minaccia?)

Stipula di transazione, diligenza gestoria del liquidatore di s.r.l. e limiti di sindacabilità giudiziale

Trib. Milano 28.06.2021, sent. n. 5546/2021, rg 54438/2017, rel. Marconi, decide sulla diligenza o meno del liquidatore nell’aver stipulato due transazioni: la prima con un debitore, la seconda con il locatore , che contestava il recesso da un  rapporto locatizio immobiliare.

La censura delle transazioni è sempre difficile, caratterizzando il contratto lo scambio tra aliquid datum e aliquid retentu per por fine alla lite ( si pensi alla nota questione della sua revocabilità).

Ebbene, così motiva:

<<Con riferimento alla valutazione giudiziale dell’opportunità della conclusione da parte della liquidatrice delle transazioni  che la società attrice  considera  fonte di danno, vengono in rilievo i principi espressi dalla giurisprudenza in materia di limiti al sindacato del merito delle scelte di gestione degli amministratori, essendo, analogamente, riservata in linea generale alla discrezionalità del liquidatore la valutazione  della  convenienza  delle  scelte  relative  alla  liquidazione  dell’attivo  patrimoniale  o  alle modalità di estinzione dei debiti sociali.  Come è noto, il merito delle scelte di gestione adottate dagli amministratori di società è tendenzialmente  insindacabile  in  sede giudiziale (c.d. “business  judgment  rule”), salvo il limite della palese irragionevolezza di tali scelte, desumibile dal fatto che l’amministratore non abbia usato le necessarie cautele e assunto le informazioni rilevanti (Cass. 12 febbraio 2013, n. 3409; Cass. 22 giugno 2017,  n.  15470).  Si  tratta  di  una  valutazione  da  condurre  necessariamente  ex  ante,  non  potendosi affermare  l’irragionevolezza  di  una  decisione  dell’amministratore  per  il  solo  fatto  che  essa  si  sia rivelata  ex  post  economicamente  svantaggiosa  per  la  società>>

Tutto bene, nessuna novità. Segnalo l’importanza della prospettiva ex ante (prognosi postuma, potremmo dire).

<< In  particolare,  non  può  essere  ritenuto responsabile l’amministratore che, prima di adottare la scelta gestoria contestata, si sia legittimamente affidato  alla  competenza  di  figure  professionali  specializzate  (Trib.  Milano,  15  novembre  2018,  n. 11476)>>: precisazione interessante per gli operatori.

<<  Applicando  tali  principi  anche  alle  scelte  di  convenienza  economica  a  cui  è  chiamato  il  liquidatore nell’assolvimento del suo incarico, l’accertamento di una responsabilità della Lobova nei confronti della  Mechel  Service presuppone, dunque, che siano provate tanto l’irragionevolezza ex  ante  delle transazioni  concluse  dalla  liquidatrice,  quanto  il  danno  patito  ex  post  dalla  società  per  effetto  di  tali accordi.>> : ancora sulla prospettiva ex ante.

<<Quanto alla prima transazione, non vi è prova dell’asserito danno. Non solo non è stato dimostrato che la società debitrice Sifer fosse in grado di pagare l’intero credito nel momento in cui, il 5 dicembre 2014, la liquidatrice con l’assistenza del legale della società ha concluso  la  transazione,  ma  è  emerso dalla documentazione prodotta dalla convenuta che la società debitrice aveva chiuso l’ esercizio  2015 con un patrimonio netto negativo per € 5.420.415 (doc. 20 convenuta, p. 23) e che in data 29 luglio 2016 era stata messa in liquidazione (doc. 21 convenuta, p. 4).  Non  emerge,  quindi,  ex  post  [ex post? che c’entra se la prospettiva  è ex ante?] alcun  danno  subito  dalla  società  Mechel  per  effetto  della  transazione conclusa  con  la  Sifer,  il  cui  dissesto  finanziario  avrebbe  con  ogni  probabilità  impedito  alla  società attrice  di ottenere,  all’esito del  giudizio di opposizione, il pagamento  anche solo parziale del suo credito.  Né  si  può  ritenere  ex  ante  irragionevole  la  stipulazione  della  transazione:  una  simile  conclusione potrebbe essere raggiunta solo qualora fosse praticamente inesistente il rischio di perdere la causa. Nel caso  di  specie,  invece,  l’esecutorietà  del  decreto  ingiuntivo  era  stata  sospesa  dal  giudice dell’opposizione; circostanza questa che faceva apparire tutt’altro che scontato un esito del contenzioso favorevole a Mechel Service (v. doc. 19 di parte convenuta a pag. 2). Anche  la  stipulazione  della  seconda  transazione  non  può  ritenersi  irragionevole  ex  ante.  La  natura tombale  della  precedente  transazione  con  21ABB  era  opinabile  in  relazione  ai  nuovi  vizi  occulti lamentati in un momento successivo al precedente accordo transattivo e riconosciuti dallo stesso perito  consultato  dalla  liquidatrice  (  v.  doc.  3  convenuta).  In  ogni  caso,  poi,  sarebbe  stato  necessario  un giudizio, potenzialmente di lunga durata e in ogni caso dall’esito incerto, perché fosse accertato il fatto che la precedente transazione impediva la proposizione delle nuove richieste risarcitorie.  L’ammontare della pretesa risarcitoria riconosciuto con la transazione (€ 294.000), poi, è sensibilmente inferiore sia ai danni lamentati da 21ABB (€ 580.000, v. doc. 12 convenuta), sia alla somma indicata dallo stesso perito incaricato di stimare i danni dalla Mechel  (€ 414.000, v. doc. 3 convenuta).  Comunque,  la  decisione  di  transigere  è stata presa dalla Lobova all’esito della consultazione con un avvocato,  come  emerge  da  una  comunicazione  tra  lei  e  Denis  Shamne  (amministratore  della  società controllante  dell’attrice)  a  cui  riferisce  che  «L’avvocato italiano consiglia di transigere»  (doc.  12 attrice).  Come precedentemente ricordato, non può essere ritenuta negligente la condotta dell’amministratore o del  liquidatore  che,  nell’adozione  delle  scelte  di  gestione,  acquisisca  prudentemente  il  giudizio  di esperti del settore prima di decidere.  La liquidatrice convenuta, nel caso in esame, commissionando la perizia sul danno e consultandosi con un  avvocato  esperto  dell’ordinamento  giuridico  italiano,  ha  adottato  tutte  le  cautele  necessarie  a prendere  una  decisione  informata  e  consapevole  così  che  la  convenienza  economica  della  scelta adottata non è sindacabile in sede giudiziale>>.

Spunti molto interessanti per i consulenti in caso di ipotesi transattive.

Responsabilità sanitaria da emotrasfusiioni e onere della prova a carico del danneggiato

Cass. 22.04.2021 n. 10.592 si è occupata dell’onere della prova in tema di danno derivato da emotrasfusioni di sanguie ingfetto (virus HCV).

All’attrice va bene in prim ogrado ma male in secondo.

Ricorre dunque perchè <erroneamente la Corte d’appello ha addossato ad essa attrice l’onere di allegare e provare che l’ospedale di Caltagirone eseguì la trasfusione con sacche di plasma prelevate da un proprio centro trasfusionale>.

La SC accoglie così:

<<Il motivo è fondato. In primo grado l’attrice a fondamento della colpa dell’azienda ospedaliera aveva allegato – in sintesi – che l’obbligo di assistenza sanitaria gravante sull’ospedale comportava la garanzia del risultato di non infettare il paziente, ed aveva invocato il principio res ipsa loquitur, in virtù del quale il fatto stesso dall’infezione dimostrava di per sé che l’ospedale aveva tenuto una condotta colposa.

L’attrice dunque, nell’atto introduttivo del giudizio, aveva: -) allegato di avere subito un danno alla salute in conseguenza di un trattamento sanitario; -) invocato la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria.

L’attrice, pertanto, aveva compiutamente assolto in primo grado l’onere di allegazione dei fatti costitutivi della domanda: tale onere, infatti, quando venga invocata la responsabilità contrattuale si esaurisce nella allegazione dell’esistenza del contratto e di una condotta inadempiente.

L’attrice, di conseguenza, non aveva alcun onere di allegare e spiegare come, quando e in che modo l’ospedale di Caltagirone si fosse approvvigionato delle sacche di plasma risultate infette. Ad essa incombeva il solo onere di allegare una condotta inadempiente del suddetto ospedale.

Era, per contro, onere della struttura sanitaria allegare e dimostrare, ai sensi dell’articolo 1218 c.c., di avere tenuto una condotta irreprensibile sul piano della diligenza. Ne discende che la Corte d’appello, dinanzi alla domanda attorea sopra descritta, avrebbe dovuto in concreto accertare se l’assessorato, successore dell’azienda ospedaliera, avesse o non avesse provato la “causa non imputabile”  di cui all’articolo 1218 c.c., a nulla rilevando che l’attrice non avesse “allegato che l’ospedale abbia provveduto alle trasfusioni approvvigionandosi di sangue tramite un proprio centro trasfusionale”.

Per quanto detto, infatti, la circostanza che l’ospedale provvedesse o non provvedesse da sé all’approvvigionamento di plasma non era un fatto costitutivo della domanda, ma era un fatto impeditivo della stessa, che in quanto tale andava allegato e provato dall’amministrazione convenuta. Trascurando di stabilire se l’assessorato avesse fornito tale prova, pertanto, la Corte d’appello ha effettivamente violato gli articoli 1218 e 2697 c.c..>>

Più o meno giusto, ci pare, difficile dire stante la scarsa comprensibilità dei fatti storici.

Solo due considerazioni:

1) la SC si occupa dell’onere di allegazione, non dell’onere della prova (questa è la lettera della motivazione; e poi , altrimenti pensando, avrebbe dovuto occuparsi della distribuzione del relativo tema , alla luce di Cass. sez.un. n. 13.533 del 30 ottobre 2001 ) ;

2) è vero che basta allegare l’inadempimento del debitore, ma appunto ciò significa anche individuarlo con precisione. Non basta dire <sei stato inadempiente>: bisogna dire in che mdo. Il punto allora  è capire se ciò fu fatto. Se si tiene conto di quanto esposto sub 2.1 (In primo grado l’attrice a fondamento della colpa dell’azienda ospedaliera aveva allegato – in sintesi – che l’obbligo di assistenza sanitaria gravante sull’ospedale comportava la garanzia del risultato di non infettare il paziente, ed aveva invocato il principio res ipsa loquitur, in virtù del quale il fatto stesso dall’infezione dimostrava di per sé che l’ospedale aveva tenuto una condotta colposa), la cosa  è dubbia. Si può però dire che dal passo esposto l’attrice aveva dedotto la violazione di una garanzia, più che di un obbligo; oppure che -ma si tratta di onere della prova, non dell’allegazione- che fossa stata data pure la prova in base al riparto dell’onere prova distribuito come insegnato dalla cit. Cass. s.u. 13.533/2001 (criterio della vicinanza alla prova).

La proprietà intellettuale, cui non si applica il safe harbour ex 230 CDA, comprende pure il right of publicity

Una giornalista vede la propria immagine riprodotta illecitamente in Facebook e nel social Imgur, cui portava un link presente in Reddit.

Cita tute le piattaforme per violazione del right of publicity (r.o.f.) ma queste invocano il § 230 CDA.

Il quale però non si applica alla intellectual property (IP) (§ 230.e.2).

Per le piattaforme il right of publicity è altro dall ‘ IP e dunque il safe harbour può operre.

La pensa allo stesso modo il giudice di primo grado.

Per la corte di appello del 3° circuito, invece, vi rientra appieno: quindi il safe harbour non opera (sentenza Hepp c. Facebook, Reddit, Imgur e altri, N° 202725 & 2885, 23.09.2021)

I dizionari -legali e non- alla voce <intellectual property> indirettamente comprendono il r.o.f. (p. 18-19): spt. perchè vi includono i marchi, cui il r.o.f. va assimilato.

(sub D infine il collegio si premura di chiarire che non ci saranno conseguenze disastrose da questa presa di posizine, apparentemente contro la comunicazione in internet via piattaforme)

(testo e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Anche il Regno Unito nega il brevetto all’invenzione generata da intelligenza artificiale (sul caso Thaler-DABUS)

la corte di appello UK , 21.09.2021, caso No: A3/2020/1851, Thaler c. COMPTROLLER GENERAL OF PATENTS TRADE MARKS AND DESIGNS, a maggioranza conferma il rigetto della domanda brevettuale.

La lunga battaglia processuale del dr. Thaler in  molti Uffici brevettuali e tribunali, sparsi nel mondo, segna un’altra battuta di arresto (si v. quella di inizio mese in Virginia USA, ricordata nel mio post di ieri).

Secondo i giudici Arnold e Laing, nè DABUS è inventore (deve esserlo un umano) nè Thaler (poi: T.) ha indicato un titolo (derivativo o altro) per essere indicato lui come tale.

J. Birss concorda sul primo punto , ma non sul secondo: secondo lui  i) T. ha in buona fede  indicato chi secondo lui è l’inventore, § 58, e ii) quale costruttore della macchimna , gli spetta -per accessione, direi- il diritto sull’output della stessa e cioè l’esclusiva brevettuale, § 82 (J. Arnold nega l’invocabilità dell’accession doctrine: § 130 ss).

Quanto ad ii) non mi pronuncio, se non per dire che l’applicazine dell’accession agli intangibles è ammissibile pur se in base al criterio analogico (essendo indubbiamente dettata dal diritto positivo per le res) .

Quanto ad i), c’è un palese errore. La sec. 13.2.a del patent act, laddove dice <<identifying the person or persons whom he believes to be the inventor  or inventors>>, intende si l’indicazione di chi secondo il depositante è l’inventore, ma sempre purchè sia persona fisica