Danno da consenso non informato e danno da nascita indesiderata: distinzione tra le due violazioni

Cass. sez. III, ord. 19/06/2024  n. 16.967, rel. Spaziani:

<<8.1. Questa censura è fondata.

Con essa viene dedotta la violazione del diritto dei genitori ad essere informati, non in funzione dell’esercizio del diritto di autodeterminarsi in ordine alla scelta abortiva spettante alla madre, ma in vista della predisposizione ad affrontare consapevolmente l’evento doloroso della nascita malformata.

Viene, dunque, posta in evidenza la rilevanza autonoma dell’informazione, non in quanto strumentale ad orientare la scelta abortiva, ma in quanto idonea ex se a consentire di evitare o mitigare la sofferenza conseguente al detto evento, ad es., mediante il tempestivo ricorso ad una terapia psicologica o la tempestiva organizzazione della vita in modo compatibile con le future esigenze del figlio o anche, semplicemente, attraverso la preventiva acquisizione della consapevolezza della prossima nascita di un figlio malformato, in modo da prepararsi tempestivamente ad essa.

Questa Corte ha già più volte affermato (v. Cass. 26/06/2019, n. 16892; Cass. 26/05/2020, n. 9706; Cass. 31/01/2023, n. 2798) – e al principio deve darsi continuità – che dalla lesione, sotto tale profilo, del diritto all’informazione, possono derivare alla gestante (e possono essere accertate anche presuntivamente) conseguenze dannose non patrimoniali risarcibili, se non sotto il profilo esteriore dinamico-relazionale, quanto meno sotto il profilo della sofferenza interiore, dovendo presumersi che la possibilità, conseguente alla corretta informazione, di predisporsi ad affrontare consapevolmente le conseguenze di un evento particolarmente gravoso sul piano psicologico oltre che materiale, consenta con ogni evidenza di evitare o, almeno, di limitare la sofferenza ad esso conseguente, la quale è tanto più intensa quanto più inattesa a causa dell’omessa informazione.

Deve allora reputarsi illegittima, sia perché contra ius sia perché illogicamente motivata, la statuizione con cui la Corte d’appello – sul presupposto che la sofferenza psichica dei genitori sarebbe stata la medesima a prescindere dal tempestivo adempimento dell’obbligo informativo – ha rigettato la domanda di risarcimento del danno morale della gestante conseguente al trauma determinato dall’apprendere delle malformazioni del figlio al momento della nascita, dopo che, durante il periodo della gestazione, essa era stata rassicurata circa il normale stato di salute del feto>>.

Ribadisce poi la disciplina consueta della responsabilità per il c.d. danno da nascita indesiderata:

<< In primo luogo, deve escludersi il dedotto vizio di ultrapetizione, dal momento che la prova di cui la Corte d’appello ha reputato la mancanza attenesse ad un fatto costitutivo della domanda.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, infatti, stabilito che “in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza -ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; quest’onere può essere assolto tramite “praesumptio hominis”, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale” (Cass., Sez. Un., 22 dicembre 2015, n. 25767).

Oltre alla prova che, se fosse stata debitamente informata, la gestante avrebbe abortito, nell’ipotesi in cui – come nella fattispecie – l’aborto avrebbe dovuto essere praticato dopo i 90 giorni dall’inizio della gravidanza, la parte attrice deve anche fornire l’ulteriore dimostrazione della sussistenza di un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, requisito imposto dall’art. 6, lett. b), della l. n. 194 del 1978 (cfr., ad es., Cass. 15 gennaio 2021, n. 653 e, in precedenza, Cass. 11/04/2017, n. 9251, la quale ha anche affermato che la mancanza della mano sinistra del nascituro non è una malformazione idonea a determinare tale grave pericolo).

Dunque, nel porre la questione relativa alla prova di tali due circostanze, la Corte d’Appello non è andata ultra-petita ma ha indagato sulla sussistenza dei fatti costituitivi della domanda, ponendosi il problema del riparto dell’onere della prova e risolvendolo correttamente nel senso che esso gravasse sugli attori>>.

La responsabilità contrattuale nel danno da caduta sugli sci perchè la pista era ghiacciata

Interessanti ed approfonditi insegnamenti sulla responsabilità contrattuale in Cass. sez. III, ord.  09/05/2024 09/05/2024 n. 12.760, rel. Gorgoni (ometto per brevità quelli sulla responsabilità da cose in custodia ex art. 2051, di analogo livello):

<<La previsione dell’art. 1218 cod. civ., difatti, esonera il creditore dell’obbligazione asseritamente non adempiuta dall’onere di provare la colpa del debitore [NO: ancora con la vecchia teoria della necessità di colpa, bastando invece la negligenza!], ma non da quello di dimostrare il nesso di causa tra la condotta del debitore e l’inadempimento, fonte del danno di cui si chiede il risarcimento.

Non deve trarre in inganno la giurisprudenza di questa Corte che, operando una distinzione tra (inadempimento di) prestazioni professionali e (inadempimento di) di altre obbligazioni, ritiene quanto a queste ultime assorbito il nesso di derivazione causale nell’inadempimento. Questa Corte ha precisato che, sebbene nesso di causa ed imputazione della responsabilità non siano teoricamente coincidenti, perché un conto è collegare la condotta all’evento di danno (causalità materiale) e l’evento di danno alle conseguenze pregiudizievoli (causalità giuridica), altro conto è il criterio di valore che collega un effetto giuridico ad una determinata condotta, rappresentato, nel campo della responsabilità contrattuale, dall’inadempimento, nel caso di responsabilità di cui all’art. 1218 cod. civ. l’inadempimento si sostanzia nel mancato soddisfacimento dell’interesse dedotto in obbligazione, sicché il giudizio di causalità materiale non è di norma distinguibile praticamente da quello relativo all’inadempimento. Il che comporta che a carico del creditore della prestazione gravi soltanto l’onere di provare la causalità giuridica, mentre l’inadempimento che “assorbe” (ma non elide, sul piano concettuale, poiché – diversamente opinando – non avrebbe alcun senso la norma di cui all’art. 1227, 1° e 2° comma cod. civ.) la causalità materiale deve essere solo allegato. Nel caso di prestazioni professionali, invece, ove l’interesse dedotto in obbligazione assume carattere strumentale rispetto all’interesse del creditore, causalità ed imputazione tornano a distinguersi. L’inadempimento è rappresentato dalla violazione delle leges artis, ma questo non significa automaticamente lesione dell’interesse presupposto, il quale potrebbe restare insoddisfatto per cause autonome rispetto all’inadempimento della prestazione professionale. Pertanto, al creditore della prestazione non basterà affatto allegare l’inadempimento della prestazione professionale, ma occorrerà anche che egli provi che l’inadempimento abbia provocato la lesione l’interesse presupposto. Ecco allora che la causalità materiale non è soltanto causa di esonero da responsabilità del debitore, ma anche elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità. Al creditore non basterà allegare l’inadempimento della prestazione professionale, ma egli sarà tenuto a dimostrare il nesso di causalità materiale (oltre al nesso di causalità giuridica tra l’evento e il danno). Soltanto a questo punto sorgono gli oneri probatori a carico del debitore, chiamato a provare di avere adempiuto, ovvero che l’inadempimento è riconducibile ad una causa a lui non imputabile, ex art. 1218 cod. civ. (Cass. 11/11/2019, n. 28991 e successiva giurisprudenza conforme).

Ora, “l’assorbimento” di cui parla questa Corte e da cui il ragionamento fin qui condotto ha preso le mosse non significa che si possa predicare l’irrilevanza del nesso di causa nemmeno in punto di ricadute di carattere processuale – distribuzione dell’onere della prova -. L’assorbimento deve intendersi (non diversamente da quanto accade in altri ordinamenti a noi vicini, come quello tedesco, in seno al quale la giurisprudenza discorre di Anscheinsbeweis ossia di prova auto-evidente) come prova evidenziale dell’esistenza del nesso di causa, giustificata dal fatto che quel nesso, di norma, non è funzionalmente scindibile dall’inadempimento, in quanto quest’ultimo si sostanzia nella lesione dell’interesse del creditore che a sua volta identifica l’evento di danno.

Se così è, e quindi se di norma la causalità materiale è immanente all’inadempimento del contratto, sì da ritenere che, allegando l’inadempimento, il creditore soddisfa gli oneri probatori posti a suo carico, ciò non significa né che il nesso di causa si dissolva in una impredicabile dimensione di inesistenza, prima ancora che di irrilevanza (come non condivisibilmente sostenuto da quella parte di dottrina che, palesemente dimentica dell’esistenza, prima ancora che del significato, dell’art. 1227 cod.civ., ne liquida la portata precettiva con qualche arguto illusionismo semantico), né che il creditore sia esonerato dall’onere di provarlo, ma solo che il fatto (socialmente tipico) di un evento dannoso verificatosi vale a giustificare l’assunzione in chiave presuntiva di tale nesso, con la conseguenza che grava sulla parte che si assume inadempiente (o non esattamente adempiente) l’onere di fornire la prova positiva dell’avvenuto adempimento (o della relativa impossibilità per causa alla stessa non imputabile), rimanendo in ogni caso fermo il principio generale codificato dall’art. 2697 cod. civ. (Cass. 19/02/2024, n. 2114; Cass. 31/03/2021, n. 8849). Questi principi, proprio di recente, sono stati applicati con riferimento alle prestazioni di facere degli insegnanti in relazione alla sorveglianza degli alunni affidati alle loro cure; questa Corte ha statuito che “la descrizione di misure di vigilanza o di controllo dei comportamenti dei minori che appaiono di per sé tali – di regola e ove normalmente osservate – a garantire la minimizzazione dei rischi connessi alla verificazione di conseguenze dannose o, quantomeno, delle conseguenze dannose maggiormente o più agevolmente prevedibili” costruiscono regole e “modelli di adempimento contrattuale (o, più in generale, di adempimento delle obbligazioni caratterizzate dalla descritta tipicità sociale) la cui prefigurazione vale a riflettersi, sul piano processuale, da un lato, nella corrispondente tipicità sociale dei modelli di diligenza imposti dall’art. 1176, co. 1, c.c. …e, dall’altro, nella più agevole individuabilità, da parte del giudice (in caso di contrasto tra le parti) di elementi rappresentativi di carattere presuntivo suscettibili di corroborare, sul piano critico, la ricostruzione dei fatti di causa” (Cass. 19/01/2024, n. 2114).

Per completezza di indagine, sia pur nei limiti di una motivazione che non consente ulteriori digressioni (pur necessarie), va chiarito che tale conclusione non è affatto in contrasto (come pure, del tutto erroneamente, ipotizzato in dottrina) con i principi di cui a Cass. Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533, come è provato dal fatto che le stesse Sezioni Unite, con la decisione n. 577 dell’11/01/2008, hanno affermato un principio ulteriore che non riguarda la distribuzione tra le parti del contratto dell’onere della prova dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento (sent. n. 13533/2001), ma quello della prova del nesso di causalità tra l’azione e l’omissione imputabile e l’evento di danno: l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello, “qualificato”, che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno. Allegare un inadempimento efficiente, vale a dire astrattamente idoneo a produrre il danno, implica la prova, sia pur soltanto presuntiva, del nesso di causalità materiale. Detto principio – si ribadisce – non solo non contrasta con quello enunciato nel 2001, perché il principio della maggiore vicinanza della prova che lo aveva ispirato non appare predicabile con riguardo al nesso causale fra la condotta dell’obbligato e l’evento di danno, rispetto al quale non può che valere il principio che onera l’attore della prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, trattandosi di elementi egualmente “distanti” da entrambe le parti, ma ne costituisce lo sviluppo con riguardo ad un profilo, quello della prova del nesso causale, di cui la pronuncia del 2001 non si era interessata.

Tornando alla vicenda per cui è causa, deve rilevarsi che due giudici di merito hanno ritenuto non soddisfatto, da parte del ricorrente, l’onere probatorio relativo al nesso causale tra la condotta del gestore della pista e l’evento di danno, perciò nessuna censura può essere mossa alla sentenza impugnata che ha correttamente applicato, dopo aver altrettanto correttamente qualificato la fattispecie in esame, la distribuzione dell’onere della prova derivante dall’applicazione dell’art. 1218 cod. civ. in combinato disposto con l’art. 2697 cod. civ.

Il nesso di causa ben avrebbe potuto essere dimostrato come poc’anzi osservato, attraverso il ricorso alle presunzioni, ma il ricorrente, che pure censura la sentenza impugnata per non aver tratto dai fatti di causa gli elementi per ritenere provato il fatto ignoto, non confuta efficacemente sul punto la decisione della Corte territoriale. Le sue critiche sono del tutto generiche ed assertive e si appuntano sostanzialmente sull’esito della valutazione delle prove raccolte. Chi ricorre in cassazione dolendosi del mancato ricorso da parte del giudice del ragionamento presuntivo non può limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva non conduca necessariamente all’esito interpretativo raggiunto nei gradi inferiori; pertanto, chi censura un ragionamento presuntivo o il mancato utilizzo di esso non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice del merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento (ex plurimis cfr. Cass. 02/11/2021, n. 31071) e tanto è mancato nel caso di specie.

Responsabilità contrattuale della Scuola per il danno cagionato dall’alunno a sè stesso

Cass. sez. III, ord. 27/05/2024  n. 14.720, rel. Cricenti:

<<E’ noto che la responsabilità per i danni causati dall’alunno a se stesso è di tipo contrattuale (da ultimo Cass. 2114/ 2024), con la conseguenza che spetta al convenuto, e dunque al Ministero, la prova della non imputabilità del danno, prova che può essere fornita ovviamente anche per presunzioni.

Il Ministero ha dimostrato di avere allegato elementi presuntivi da cui desumere l’imprevedibilità ed inevitabilità del danno, che la decisione impugnata non ha tenuto in alcuna considerazione e che invece erano significativi, non da ultima la circostanza che l’alunno era inciampato di suo in una sedia, della impossibilità di prevedere ed evitare che costui si facesse male>>.

Di dubbia esattezza la prima parte del passo riportato.

Se è cotnrattujale , spetta al danneggiato  allegare (se non anche provare) un inadempimento: solo in rtale caso il convenuto devitore dovrà difendersi. Non è chiarito se ciò sia vvenuto nel caso sub iudice

Sul danno da indisponibilità dell’immobile

Cass .  sez. III, ord. 17/04/2024 n.  10.477, rel. Gianniti:

<<In ogni caso, con recente arresto nomofilattico, le Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 33645/2022), sia pure occupandosi della diversa ipotesi del danno da occupazione illegittima di immobile, hanno reso chiarimenti direttamente rilevanti anche nel presente giudizio con riferimento alla morfologia ed alla risarcibilità del danno comunque derivante da un fatto che renda impossibile, a chi ne abbia diritto, il godimento dell’immobile e di trarne guadagno.

Con precipuo riferimento alla violazione del diritto di proprietà è stato in quella sede evidenziato che l’evento lesivo può attingere la cosa oggetto del diritto ovvero direttamente il contenuto del diritto stesso.

In entrambi i casi, ai fini dell’attivazione della tutela risarcitoria, è necessario si configuri una perdita o un mancato guadagno che rappresentino conseguenza immediata e diretta dell’illecito, alla stregua dell’art. 1223 c.c.

Nel secondo caso (evento lesivo incidente sul contenuto del diritto) può configurarsi un«danno risarcibile (…) rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione». È, questo, un danno emergente che si configura anche nell’ipotesi in cui si alleghi che detto godimento sarebbe stato concesso a terzi contro un corrispettivo corrispondente ai frutti civili. In questo caso, il criterio di liquidazione equitativa utilizzabile è omogeneo, attestandosi sul valore locativo di mercato, che rappresenta – per l’appunto – il controvalore convenzionalmente attribuito al godimento alla stregua della tipizzazione normativa del contratto di locazione.

Al lucro cessante afferiscono, invece, quelle perdite di occasioni di guadagno«da collegare non al contenuto del diritto previsto dall’art. 832 c.c., ma alla titolarità del diritto», espressioni«della possibilità di alienare quale caratteristica di tutti i diritti patrimoniali» (pag. 10). Si tratta, in concreto, del danno conseguente alla impossibilità di vendere l’immobile o locarlo a un canone superiore a quello di mercato, il quale necessita«di prova specifica, anche in via presuntiva» (pag. 11).

Dal punto di vista processuale, all’allegazione, da parte dell’attore, di una delle voci di danno suddette potrà contrapporsi la (specifica) contestazione del convenuto, la quale attiverà, in capo all’attore stesso, l’onere di provare il fatto costitutivo del risarcimento, se del caso mediante il ricorso alle presunzioni ovvero alle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. Oggetto di prova sarà, a seconda dei casi, la perdita della possibilità di godimento (diretto o indiretto), ovvero di alienazione o concessione in locazione del bene a canone maggiore di quello medio di mercato. Non potendo operare il meccanismo della non contestazione per i fatti ignoti al convenuto, la necessità di prova diretta da parte dell’attore – afferma la ricordata pronuncia delle Sezioni Unite – sarà statisticamente più frequente nell’ipotesi in cui il pregiudizio invocato assuma le forme del mancato guadagno (ove la prova potrà atteggiarsi sulla falsariga di quella del maggior danno, di cui all’art. 1591 c.c.); mentre, qualora a venire in questione sia il danno emergente, si assisterà,«a una maggiore frequenza dell’onere del convenuto di specifica contestazione della circostanza di pregiudizio allegata e ad una minore frequenza per l’attore dell’onere di provare la circostanza in discorso, data la tendenziale normalità del pregiudizio al godimento del proprietario a seguito dell’occupazione abusiva» (pag. 26).

Alla stregua di tali principi, ai quali il Collegio intende assicurare continuità, deve potersi puntualizzare che il danno diretto risarcibile da indisponibilità dell’immobile possa individuarsi nella soppressione o compressione della specifica facoltà di esercizio del diritto di goderne, che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione: sicché a tale concetto deve intanto riferirsi la soppressione o compressione della possibilità di estrinsecazione delle facoltà normalmente inerenti alla disponibilità della cosa, in relazione all’uso al quale sarebbe stata destinata anche direttamente ed immediatamente dal titolare del diritto ad essa e delle quali questo si è visto, pertanto, illegittimamente privato; con la conseguenza che il godimento diretto, la cui perdita sia suscettibile di risarcimento, va identificato nella facoltà del titolare di fruirne direttamente e di ritrarne le utilità congruenti alla destinazione del bene quali ricavabili dalla sua intrinseca struttura o da altri univoci e riconoscibili elementi.

Orbene, i suddetti principi appaiono applicabili al caso di specie, nel quale:

a) il ricorrente è per l’appunto la persona fisica proprietaria dell’immobile e, quindi lo stesso soggetto titolare del diritto al risarcimento del danno, rappresentando l’indisponibilità del bene un danno conseguenza del fatto impeditivo dell’indisponibilità dell’immobile per fatto altrui;

b) a tale riguardo, il ricorrente ha allegato: di aver contratto un mutuo per l’acquisto dell’immobile e di aver per esso chiesto l’applicazione delle agevolazioni fiscali previste per l’acquisto della prima causa; che l’immobile demolito era destinato a sua abitazione; di aver ottenuto il permesso a costruire e di averne chiesto la proroga; che anche quest’ultima era scaduta e che la nuova costruzione non è assentibile in base al nuovo PUC nelle more varato dal Comune di Poggiomarino; che, a causa dell’opposizione degli Annunziata, non riesce a ricostruire l’immobile per cui è causa ed è costretto a vivere con la sua famiglia in un immobile alla periferia di Poggiomarino, di vecchia costruzione.

In definitiva, occorre ribadire che il concetto di danno evento si distingue da quello di danno conseguenza e che soltanto quest’ultimo può essere risarcito, a condizione che lo stesso venga provato anche presuntivamente da chi formuli la richiesta risarcitoria per indisponibilità del bene per fatto altrui. La tesi del c.d. danno in re ipsa non prescinde dal predetto accertamento, ma, in termini sostanzialmente descrittivi, si limita ad affidarlo alla prova logica presuntiva sulla base del fatto che l’allegazione da parte del danneggiato di determinate caratteristiche materiali e di specifiche qualità giuridiche del bene immobile consentano di pervenire alla prova (fondata su una ragionevole certezza, la cui rispondenza logica deve essere verificata alla stregua del criterio probabilistico dell’id quod plerumque accidit) che quel tipo di immobile sarebbe stato destinato ad un impiego fruttifero, oppure anche solo che da quello sarebbe stata ritratta immediatamente e direttamente dall’avente diritto un’utilità corrispondente alle sue caratteristiche (ove, beninteso, suscettibile di valutazione economica: ciò che, peraltro, di norma appunto avviene quando si ha la disponibilità di un immobile, che offre sicuramente l’occasione di trarne giovamento anche in via diretta e immediata per il soddisfacimento di propri bisogni), ma almeno specificamente indicata (sia pure anche qui normalmente riscontrabile in caso di destinazione dell’immobile, reso indisponibile, ad abitazione del titolare persona fisica, quella integrando un bisogno essenziale della persona).

Alla luce dei suddetti principi risulta l’error in iudicando in cui, sul punto, è incorsa la Corte di merito, nella parte in cui (p. 9), pur riconoscendo la esclusiva responsabilità della Bi.Re. Costruzioni nella causazione dei danni sofferti da Annunziata e Bi.Re., ha rigettato la domanda di quest’ultimo, non essendo stato dallo stesso provato il danno sofferto e non potendo lo stesso essere liquidato ai sensi dell’art. 1226 c.c. (non trattandosi di pregiudizio impossibile o estremamente difficoltoso nel suo preciso ammontare). L’allegata indisponibilità di una soluzione abitativa è, infatti, evidente: e, solo, la liquidazione del danno conseguente andrà parametrata, se del caso -appunto – equitativamente, alla comparazione del diverso assetto derivante dalla detta indisponibilità ed imposto al titolare con quello che sarebbe conseguito dalla disponibilità invece compressa>>.

Sul danno per protratta (cinque mesi) inutilizzabilità del numero telefonico in atvitià commerciale

Cass. sez. III, ord. 23/04/2024  n. 10.885, rel. Moscarini:

fatto:

<<La società Italia Trasporti Srl (di seguito Italia Trasporti) convenne in giudizio davanti al Giudice di Pace di S la società Wind Telecomunicazioni Spa (di seguito Wind) per ivi sentirla condannare al risarcimento dei danni subìti in conseguenza della mancata attivazione di un contratto telefonico e della conseguente interruzione della linea telefonica perdurata dal mese di settembre 2011 al febbraio 2012>>.

Diritto astratto e applicato al caso:

<<Come questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di somministrazione del servizio di telefonia, il danno da perdita della possibilità di acquisire nuova clientela conseguente al mancato o inesatto inserimento nell’elenco telefonico dei dati identificativi del fruitore si configura come perdita di chance, atteso che esso non consiste nella perdita di un vantaggio economico ma in quella della possibilità di conseguirlo (v. Cass., 20/11/2018, n. 29829).

Trattandosi di un genere di pregiudizio caratterizzato dall’incertezza, è sufficiente che lo stesso sia provato in termini di “possibilità” (la quale deve tuttavia rispondere ai parametri di apprezzabilità, serietà e consistenza) e ne è consentita la liquidazione in via equitativa” (Cass., 3, n. 14916 dell’8/6/2018; Cass. 04/08/2017, n. 19497; Cass. 03/08/2017, n. 19342), non essendo al riguardo necessario dimostrare l’avvenuta contrazione dei redditi del danneggiato, che può incidere sulla quantificazione del danno ma non escluderne la sussistenza (v. Cass., 29/9/2023, n. 27633).

Si è altresì precisato che tale diritto ha, in tutta evidenza, maggiore pregnanza allorquando l’utenza telefonica afferisca ad un’attività professionale o commerciale (Cass. 03/08/2017, n. 19342); né l’esistenza del danno può essere negata per il solo fatto – rilevato dalla Corte territoriale – che non siano stati depositati documenti fiscali a dimostrazione del decremento reddituale; tale omissione può certamente incidere sulla liquidazione del risarcimento, ma non consente di escludere che un danno vi sia comunque stato in ragione di ciò che, in mancanza della condotta d’inadempimento del gestore, l’utente in via di ragionevole probabilità avrebbe potuto invero conseguire; e che tale danno possa essere liquidato in via equitativa (Cass., 29/9/2023, n. 27633; Cass. n. 19497 del 2017).

Si è al riguardo sottolineato che la liquidazione equitativa dei danni è dall’art. 1226 c.c. rimessa al prudente criterio valutativo del giudice di merito non soltanto quando la determinazione del relativo ammontare sia impossibile ma anche quando la stessa, in relazione alle peculiarità del caso concreto, si presenti particolarmente difficoltosa (v. Cass., 4/4/2019, n. 9339; Cass., 9/5/2003, n. 7073; Cass., 17/5/2000, n. 6414. E già Cass., 4/7/1968, n. 2247), il giudice potendo fare ricorso al criterio della liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c. anche senza domanda di parte, trattandosi di criterio rimesso al suo prudente apprezzamento, e tale facoltà può essere esercitata d’ufficio pure dal giudice di appello (v. Cass., 5/5/2021, n. 2831; Cass., 24/1/2020, n. 1636. E già Cass., 17/11/1961, n. 2655).

Orbene, nell’impugnata sentenza il giudice dell’appello ha invero disatteso i suindicati principi.

Pur riconoscendo la sussistenza dell’inadempimento dell’odierna controricorrente, anziché far luogo alla valutazione equitativa del danno, cui il giudice può addivenire anche d’ufficio (v. Cass., …), esso ha negato il risarcimento del danno per “evidente difetto di allegazione da parte dell’attrice in primo grado, che non ha dedotto quali siano stati in concreto i danni asseritamente patiti per effetto della temporanea mancata fruizione della linea telefonica”, “non ha né specificato né provato i danni da essa sofferti a causa del dedotto inadempimento contrattuale della Wind”, ritenendo al riguardo inidoneo “il c.d. estratto conto clienti” a “provare gli asseriti danni sub specie perdite di commesse da parte dei clienti”, e “del tutto erronea” la “liquidazione equitativa del danno effettuata dal Giudice di prime cure … poiché effettuata in assenza dei presupposti di legge”,”non avendo parte attrice in primo grado … offerto alcun elemento obiettivo a cui ancorare una tale liquidazione equitativa del danno da parte del Giudice”.

Dell’impugnata sentenza s’impone pertanto la cassazione in relazione, con rinvio al Tribunale di Nola, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo dei suindicati disattesi principi applicazione>>.

Diligenza dovuita dal medico del Pronto Soccorso

Cass. sez. III, ord. 25/03/2024  n. 8.036, Vincenti (testo preso da DeJure Giuffrè).

Il fatto processuale e la conferma della valutazione di appello:

<<la Corte territoriale ha, infatti, adottato un impianto giustificativo della propria decisione ben lungi dal presentare quella anomalia motivazionale (tra cui, per l’appunto, la contraddittorietà intrinseca che si coglie nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili) suscettibile di tramutarsi in violazione di legge (art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c.) costituzionalmente rilevante (art. 111 Cost.), in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tra le tante: Cass., S.U., n. 8053/2014; Cass. n. 23940/2017; Cass. n. 6758/2022; Cass. n. 7090/2022).

8.1. – Il giudice di appello – proprio in riferimento alle doglianze dell’Im. incentrate sull’omessa effettuazione di RMN nel corso dell’accesso al P.S. del 29 settembre 2012, ritenuto “unico esame diagnostico veramente necessario, ma sufficiente, per comprendere l’avvenuta insorgenza” della mielopatia – ha, anzitutto, escluso (sulla scorta delle risultanze della consulenza tecnica medico-legale ex art. 696-bis c.p.c.) che la condotta tenuta nell’occasione dalla El.Ve. potesse integrare inadempimento della prestazione sanitaria di “emergenza od urgenza” in ragione del fatto che in siffatto perimetro non erano riconducibili le condizioni cliniche dell’Im., il quale presentava una “sintomatologia … non univoca ed in un certo qual senso aspecifica”, inducente alla verifica della sussistenza di una “manifestazione cardiaca acuta” oppure di “problematiche ortopediche” (e verso quest’ultime essendosi risolte le effettuate indagini strumentali), senza che vi fosse “”alcun sintomo suggestivo” che deponesse “per una patologia neurologica””, tale da rendere necessario che il paziente fosse trattenuto in Pronto Soccorso ovvero fosse ricoverato, risultando, invece, corretta la decisione di “rinviarlo all’attenzione del medico curante suggerendo una visita ortopedica e una terapia antinfiammatoria”.

La Corte territoriale ha, poi, preso in ulteriore considerazione la circostanza che la El.Ve., nonostante che non vi fosse traccia nel referto del P.S., avesse effettivamente consigliato all’Im. di effettuare una RMN; tuttavia, il giudice di appello ha evidenziato che, “(i)n ogni caso” – ossia, pur prescindendo dal fatto se un tale consiglio vi sia o meno stato -, la RMN non rappresentava un esame di “primo livello”, da eseguirsi, pertanto, in pronto soccorso e ciò, segnatamente, tenuto conto delle “condizioni cliniche presentate dal sig. Im.Ci. al momento dell’accesso” in data 29 settembre 2012, essendo la prescrizione della risonanza magnetica nucleare da rimettersi alla decisione dello specialistica ortopedico all’esito della relativa visita.

Infine, la Corte d’appello – pur reputando sufficienti le argomentazioni anzidette per il rigetto dell’appello – ha esaminato la censura dell’Im. basata “sulla supposizione … affacciata dal collegio peritale, secondo cui la patologia degenerativa neurologica e la sofferenza midollare potevano essere già attuali a fine settembre 2012”, così da potersi dire integrata la colpa medica nell’esecuzione di indagini diagnostiche solo parziali. Sul punto, il giudice di secondo grado ha evidenziato che un tale quadro clinico non era dimostrabile come sussistente alla data del 29 settembre, sebbene “non escludibile a priori”, ma che, “(i)n ogni caso” (seppure la patologia neurologica fosse stata già in atto a quella data), rimanevano valide le considerazioni già svolte sull’assenza di colpa della El.Ve.; ossia, quelle relative ad una condotta coerente, in sede di medicina d’urgenza e di emergenza, con la presenza di una sintomatologia non univoca e aspecifica tale da non evidenziare sintomi di una patologia neurologica e da consigliere, quindi, ulteriori indagini in pronto soccorso o anche un ricovero>>.

Cioè il secondo giudice ha esattamente tenuto conto delle peculiarità dell’inTervento in una sede urgente come il PS.

Motivaizone quindi congrua: <<8.2. – La motivazione della sentenza impugnata (cfr. sintesi al Par. 2 del “Ritenuto che”; segnatamente pp. 10/12 della sentenza di appello) si sviluppa, quindi, in base ad un iter argomentativo pienamente intelligibile e privo di radicali aporie, dando contezza in modo coerente delle ragioni a fondamento della decisione di rigetto delle doglianze dell’appellante.

Queste, infatti, si snodano in base ad una ratio decidendi portante – quella per cui la El.Ve., nell’occasione dell’accesso dell’Im.Ci. al P.S. in data 29 settembre 2012, ha tenuto, “nell’approccio diagnostico e terapeutico”, una condotta “corrispondente alle regole dell’arte”, in quanto affatto coerente con la sintomalogia aspecifica che presentava il paziente -, intorno alla quale gravitano ulteriori rationes decidendi (consiglio di effettuare una RMN e presenza di patologia neurologica già alla data anzidetta) che, però, non smentiscono, né contraddicono quella, autonoma e da sola idonea a sorreggere la pronuncia di rigetto del gravame, che attiene all’esclusione – di volta in volta ribadita dal giudice di appello – di profili di colpa medica nell’operato della El.Ve.>>.

Segue la generalizzazione della disciplina in simili contesti:

<< 10. – Il sesto motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.

10.1. – E’ infondato là dove censura la sentenza impugnata per non essersi conformata al principio secondo cui la medicina di urgenza/emergenza richiede un approccio volto anzitutto “al rapido inquadramento diagnostico e alla determinazione degli accertamenti indispensabili al pronto intervento, per confermare la diagnosi, in modo da predisporre con speditezza e le azioni per la risoluzione della patologia che ha determinato l’accesso al pronto soccorso”, giacché la Corte territoriale ha valutato la condotta della El.Ve. proprio sotto lo specifico profilo di esser stata resa come prestazione sanitaria in ambito di pronto soccorso, in armonia con le relative linee guida, avendo il medico operato la diagnosi – e di conseguenza disposto le opportune indagini diagnostiche e provveduto alla successive indicazioni terapeutiche – in ragione della sintomatologia aspecifica del paziente, inducente alla verifica soltanto dell’alternativa tra una patologia cardiaca e una di rilevanza ortopedica.

Né, peraltro, è concludente il richiamo al precedente di questa Corte (Cass. n. 19372/2021) in forza del quale si è affermato, rispetto alla prestazione di guardia medica, che sussiste la responsabilità del sanitario per la morte del paziente visitato e dimesso, con apposita prescrizione farmacologica, se sia configurabile il suo inadempimento nella forma di una condotta omissiva o di una diagnosi errata o di una misura di cautela non presa, ove l’evento di danno si ricolleghi deterministicamente, o in termini di probabilità, alla condotta del sanitario.

Il principio enunciato in quel caso era, infatti, giustificato in ragione (cfr. pp. 4, 5, 9, 10 e 13 della sentenza n. 19372/2021, da cui sono tratte le citazioni che seguono) della “mancata prosecuzione dell’iter diagnostico di fronte ad una sintomatologia dolorosa toracica persistente che necessitava di un approfondimento clinico-strumentale al fine di pervenire all’accertamento della natura del dolore”; ossia – a differenza di quanto accertato nel caso qui in esame – per la presenza di un sintomo specifico della patologia di cui era affetto il paziente (poi deceduto a seguito di dissecazione aortica) corroborato dal suo “quadro clinico”, dovendo un sanitario “sempre prendere in considerazione l’ipotesi che un dolore toracico sottenda un problema cardio-vascolare e quindi procedere ad un approfondimento diagnostico” (là dove in quell’occasione il medico aveva dimesso il paziente con la diagnosi di “dolore da stress”)>>.

Massima di DeJure Giuffrè: <<In caso di prestazione sanitaria resa in ambito di pronto soccorso, in presenza di una sintomatologia aspecifica del paziente, la valutazione della diligenza del medico deve essere operata avuto riguardo alla rapidità dell’inquadramento diagnostico e alla determinazione degli accertamenti indispensabili al pronto intervento per confermare la diagnosi e predisporre con speditezza le azioni per la risoluzione della patologia che ha determinato l’accesso al pronto soccorso. (In applicazione del principio, la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la sentenza che aveva respinto la domanda di risarcimento dei danni conseguenti al ritardo della diagnosi di una mielopatia cervicale in ernie discali, proposta da un paziente che, al momento dell’accesso al pronto soccorso, presentava sintomi non specifici di tale malattia neurologica e tali da indurre alla verifica soltanto dell’alternativa tra una patologia cardiaca e una di rilevanza ortopedica e che era stato dimesso nella stessa giornata, dopo che erano stati esclusi, all’esito di esami strumentali, disturbi cardiaci, con diagnosi di artrosi acromion-claveare sinistra, con segni di conflitto sub acromiale ed artrosi cervicale e consiglio di sottoporsi a visita ortopedica).>>

Non mi pronuncio sull’applicazione al fatto sub iudice. Ma la regola astrata enunciata è esatta pur se ovvia: la diligenza si applica sempre alle circostanze del caso.

Liquidazione del danno in via equitativa

Cass. sez. I, ord.  07/03/2024 n. 6.116, rel. Abete:

<<15. Questo Giudice spiega che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ., presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare, sicché grava sulla parte interessata l’onere di provare non solo l’ “an debeatur” del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi “in re ipsa”, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui possa ragionevolmente disporre nonostante la riconosciuta difficoltà, sì da consentire al giudice il concreto esercizio del potere di liquidazione in via equitativa, che ha la sola funzione di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso (cfr. Cass. 8.1.2016, n. 127; Cass. 17.10.2016, n. 20889; Cass. 22.2.2018, n. 4310; Cass. 6.12.2018, n. 31546; Cass. (ord.) 18.3.2022, n. 8941, secondo cui la liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. consente di sopperire alle difficoltà di quantificazione del danno, al fine di assicurare l’effettività della tutela risarcitoria, ma non può assumere valenza surrogatoria della prova, incombente sulla parte, dell’esistenza dello stesso e del nesso di causalità giuridica che lo lega all’inadempimento o al fatto illecito extracontrattuale; Cass. 19.3.1980, n. 1837).

Ulteriormente questo Giudice spiega che è necessario che il giudice indichi in maniera congrua, ancorché sommaria, le ragioni del percorso logico cui è ancorata la valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ. (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17492)>>.

Sulla determinazione del danno in via equitativa (artt. 1226 e 2056 cc)

Cass. sez. I, ord. 07/03/2024  n. 6.116, rel. Abete:

<<15. Questo Giudice spiega che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ., presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare, sicché grava sulla parte interessata l’onere di provare non solo l’ “an debeatur” del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi “in re ipsa”, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui possa ragionevolmente disporre nonostante la riconosciuta difficoltà, sì da consentire al giudice il concreto esercizio del potere di liquidazione in via equitativa, che ha la sola funzione di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso (cfr. Cass. 8.1.2016, n. 127; Cass. 17.10.2016, n. 20889; Cass. 22.2.2018, n. 4310; Cass. 6.12.2018, n. 31546; Cass. (ord.) 18.3.2022, n. 8941, secondo cui la liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. consente di sopperire alle difficoltà di quantificazione del danno, al fine di assicurare l’effettività della tutela risarcitoria, ma non può assumere valenza surrogatoria della prova, incombente sulla parte, dell’esistenza dello stesso e del nesso di causalità giuridica che lo lega all’inadempimento o al fatto illecito extracontrattuale; Cass. 19.3.1980, n. 1837).

Ulteriormente questo Giudice spiega che è necessario che il giudice indichi in maniera congrua, ancorché sommaria, le ragioni del percorso logico cui è ancorata la valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ. (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17492)>>.

Niente di nuovo.

 

Efficacia probatoria delle linee guida e riparto interno della responsabilità sanitaria tra casa di cura e medico

Cass. sez. III ord. 11/12/2023 n. 34.516, rel. Porreca:

1) <<quanto alla mancata adozione della tecnica a quel tempo non ancora recepita dalle linee guida, questa sì opzione in tesi imperita, deve ricordarsi che questa Corte ha ripetutamente escluso sia una rilevanza normativa delle linee in parola, sebbene siano un parametro di accertamento della colpa medica (Cass., 29/04/2022, n. 13510), sia, soprattutto, una generale rilevanza “parascriminante” delle stesse che non assurgono “al rango di fonti di regole cautelari codificate, non essendo né tassative né vincolanti, e comunque non potendo prevalere sulla libertà del medico, sempre tenuto a scegliere la miglior soluzione per il paziente. Di tal che, pur rappresentando un utile parametro nell’accertamento dei profili di colpa medica, esse non eliminano la discrezionalità giudiziale, libero essendo il giudice di valutare se le circostanze del caso concreto esigano una condotta diversa da quella prescritta (Cass. pen. 16237/2013; 39165/2013). Non senza osservare, ancora, come il giudice delle leggi, con la sentenza n. 295 del 2013, abbia chiaramente specificato che la limitazione di responsabilità ex art. 3, comma 1 della cd. Legge Balduzzi (nel perimetro indicato) trovi il suo invalicabile limite nell’addebito di imperizia – giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia – e non anche quando l’esercente la professione sanitaria si sia reso responsabile di una condotta negligente e/o imprudente” (Cass., 09/05/2017, n. 11208, pag. 11);  [esatto ma anche ovvio]

<<non a caso la L. n. 24 del 2017, sia pure successiva ai fatti al pari della cd. legge Balduzzi come osserva il Pubblico Ministero, all’art. 5 fa anch’essa salva la specificità del caso concreto;

la Corte territoriale ha accertato, ancora in fatto, che, nello specifico caso, la nuova tecnica era di gran lunga più opportuna, per la sua capacità, già documentata, di ridurre in altissima misura il marcato rischio di complicanza poi infatti intervenuta, aggiungendo che si trattava di tecnica già conosciuta dalla comunità scientifica di settore, sebbene da pochi anni, e tale da aver “vicariato” quella tradizionale (pagg. 18-19);

parte ricorrente sostiene che si trattava di tecnica invece ancora sperimentale ed affatto conclusivamente validata, ma lo fa richiamando studi oggetto di allegazione che non dimostra come e quando processualmente svolta davanti ai giudici di merito, dunque nuova e non scrutinabile nella presente sede di legittimità a critica vincolata, oltre che perimetrata dall’inibizione di censura, anche sostanziale seppure non formalmente evocata, per omesso esame, stante la doppia conforme di merito di rigetto (art. 348-ter c.p.c., comma 5, applicabile “ratione temporis” e, peraltro, al contempo reintrodotto dal D.Lgs. n. 149 del 2022, come previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 4; né avrebbe potuto dirsi dimostrata, da parte ricorrente, la diversità delle ragioni di fatto poste a base delle due decisioni di merito: cfr. Cass., 22/12/2016, n. 26774, Cass., 28/02/2023, n. 5947);

il Collegio di merito ha così implicitamente quanto univocamente configurato, sul punto, un’ipotesi di colpa grave rispetto allo specifico caso;>>

2° ) <<e’ stato progressivamente chiarito il principio per cui nel rapporto interno tra la struttura sanitaria e il medico di cui quella si sia avvalsa, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest’ultimo dev’essere di regola ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo dell’art. 1298 c.c., comma 2, e art. 2055 c.c., comma 3, in quanto la struttura accetta il rischio connaturato all’utilizzazione di terzi per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale, a meno che dimostri un’eccezionale, inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile, e oggettivamente improbabile, devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell’obbligazione (Cass., 11/11/2019, n. 28987);

per ritenere superato l’assetto interno così ricostruito, non basta, pertanto, ritenere che l’inadempimento fosse ascrivibile alla condotta del medico, ma occorre considerare il composito e duplice titolo in ragione del quale la struttura risponde solidalmente del proprio operato, sicché sarà onere del “solvens”:

a) dimostrare – per escludere del tutto una quota di rivalsa – non soltanto la colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno, ma la derivazione causale di quell’evento dannoso da una condotta del tutto dissonante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, in un’ottica di ragionevole bilanciamento del peso delle rispettive responsabilità sul piano dei rapporti interni;

b) dimostrare – per superare la presunzione di parità delle quote, ferma l’impossibilità di comprimere del tutto quella della struttura, eccettuata l’ipotesi sub a) – che alla descritta colpa del medico si affianchi l’evidenza di un difetto di correlate trascuratezze nell’adempimento del contratto di spedalità da parte della struttura, comprensive di controlli atti a evitare rischi dei propri incaricati, da valutare in fatto, da parte del giudice di merito, in un’ottica di duttile apprezzamento della fattispecie concreta (Cass., 20/10/2021, n. 29001);>>

[già più interessante]

Responsabilità medica e incompletezza della cartella clinica

Cass. sez. III ord. 11/12/2023  n. 34.427, rel. Porreca:

fatto:

<<la Corte territoriale, sebbene abbia dichiarato carente d’interesse l’appello incidentale interposto dal dottor G. per far accertare l’insussistenza di una sua imperizia, proprio in ragione della conferma del rigetto della domanda risarcitoria per la ritenuta mancanza di prova del nesso causale (pag. 16), ha costruito il suo “iter” motivazionale muovendo dall’assunto del “già rilevato ritardo diagnostico e, dunque, terapeutico” (pag. 12), concludendo nel senso che le conseguenze pregiudizievoli iatrogene lamentate dall’attrice, correlate alla “”inutile” terapia adiuvante” (pag. 13), di tipo fortemente invasivo, avrebbero potuto affermarsi “solo nel caso in cui al (Omissis) il livello della neoplasia fosse stato di stadio IA o IB”;

ma – prosegue il ragionamento del Collegio di merito – poiché non vi era prova certa o nemmeno probabilistica di quale fosse, nel momento del primo ricovero e delle cure del dottor G., lo stadio neoplastico, e atteso che la prova del nesso causale incombeva sul richiedente il ristoro, la conclusione doveva essere il rigetto;>>

Diritto, con cassazione:

<<la motivazione dlla Corte territoriale innesca un cortocircuito logico, non altrimenti risolvibile, poiché imputa alla vittima la mancanza di una prova derivata proprio dall’assunta colpa del medico;

e’ la stessa Corte territoriale che, a riscontro di quanto riportato in ricorso nella cornice di ammissibilità dell’art. 366 c.p.c., n. 6, sottolinea come tale illogicità era stata oggetto di censura di appello (pag. 10), ma finisce poi per non spiegare le ragioni per le quali l’ha ritenuta superata, minando alla base la decifrabilità della sua motivazione;

la giurisprudenza di questa Corte in tema di responsabilità professionale sanitaria ha affermato che l’incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può e deve utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno, ciò per una ragione prima logica che giuridica, oltre che per il principio di vicinanza della prova (Cass., 31/03/2016, n. 6209, Cass., 21/11/2017, n. 27561, Cass., 20/11/2020, n. 26428);

questo principio di specie ne sottende uno più generale, ossia quello per cui quando la mancata prova derivi dalle carenze colpose della condotta del medico, tipicamente omissive, e astrattamente idonee a causare il pregiudizio lamentato, quel “deficit” rileva non solo in punto di accertamento della colpa ma anche di quello del nesso eziologico, non potendo logicamente riflettersi a danno della vittima, sia pur in generale onerata della dimostrazione del rapporto causale;

in altri termini, la sentenza qui gravata non fa comprendere in alcun modo perché non rilevi nell’accertamento eziologico il mancato completamento dell’indagine diagnostica, che avrebbe in tesi, anche secondo le riportate ipotesi dei periti d’ufficio, potuto far acquisire i dati istologici idonei a dettagliare grado e stadio della malattia, e dunque, in ipotesi, approntare una terapia che, nella prospettiva ricostruttiva della stessa Corte territoriale, avrebbe potuto evitare le conseguenze iatrogene in discussione;

e’ vero che la sentenza afferma diffusamente la sussistenza di tale colpa del medico solo “”ad abundantiam”” dopo aver detto inammissibile, come anticipato, l’appello incidentale del dottor Giani, con statuizione peraltro “inutiliter data” proprio perché susseguente alla dichiarata (non in “obiter”: Cass., 11/03/2022, n. 7995) esclusione di ammissibilità del motivo di appello (Cass., Sez. U., 20/02/2007, n. 3840, e succ. conf.), ma è anche vero che, come pure constatato, lo fa dopo aver affermato l’ininfluenza del pur “rilevato ritardo diagnostico” per il mancato risconto del nesso di causalità materiale nei termini evidenziati;

non viene in gioco, quindi, una ricostruzione fattuale alternativamente e parimenti plausibile rispetto a quella della decisione censurata, e inammissibilmente inerente al sindacato di merito del relativo giudice, ma l’intrinseca illogicità della motivazione, in uno alla correlata violazione degli oneri probatori e della corretta sussunzione della fattispecie fattuale indiziaria in quella legale;>>