Il “problema tecnico di speciale difficoltà” nella prestazione sanitaria (art. 2236 cc) : è tale l’insorgere di complicanze?

Sulla speciale difficoltà della prestazione professionale sanitaria, interviene la Cassazione con qualche precisazione relativa alla c.d complicanze: Cass. sez. III – 16/11/2020, n. 25876 rel. Scoditti.

<< Va premesso che il problema tecnico di speciale difficoltà di cui all’art. 2236, in base al quale la responsabilità del professionista è limitata alle sole ipotesi di dolo o colpa grave, ricomprende non solo la necessità di risolvere problemi insolubili o assolutamente aleatori, ma anche l’esigenza di affrontare problemi tecnici nuovi, di speciale complessità, che richiedano un impegno intellettuale superiore alla media, o che non siano ancora adeguatamente studiati dalla scienza (Cass. 31 luglio 2015, n. 16274). Nel campo medico essa non è identificabile con la mera complicanza (Cass. 22 novembre 2012, n. 20586) [meglio: non ricorre automaticamente quando insorga una complicanza] la quale ben può ricorrere in intervento di natura routinaria, salvo la prova da parte del sanitario della presenza del problema tecnico di speciale difficoltà (Cass. 13 ottobre 2017, n. 24074).   [La SC però non distingue bene tra complicatezza del problema originario e complicatezza del problema sopravvenuto a seguito della complicanza; o forse, tra complicatezza del problema nei termini iniziali e sua complicatezza nei nuovi termini dopo la complicanza, volendolo considerare un problema unico]

La difficoltà interpretativa della crisi del paziente, evidenziata dalla CTU nei termini di una compatibilità con il coma iperglicemico, non è suscettibile di qualificazione nei termini di problema tecnico di speciale difficoltà, apparendo piuttosto una complicanza insorta nel corso dell’intervento. La mera difficoltà del quadro sintomatologico non pare di per sè capace, in mancanza di altre circostanze, di ascendere allo stadio del problema tecnico di speciale difficoltà. Che di complicanza si sia trattato, lo si evince anche dal giudizio di fatto del giudice di merito il quale ha valutato come errata la somministrazione di insulina in modo indipendente dall’interpretazione della crisi del paziente, avendo precisato che delle due l’una, o il coma ipoglicemico, in cui il paziente versava al momento dell’ingresso nell’ospedale, era stato provocato da un eccessivo quantitativo di insulina o il coma era stato, fin dall’inizio, ipoglicemico e, di conseguenza, la terapia non era stata adeguata. Alla stregua di tale giudizio di fatto, reputando la sintomatologia compatibile con un corna iperglicemico, secondo quanto sarebbe apparso in un primo momento (come evidenziato dalla CTU), il quantitativo di insulina somministrato sarebbe stato eccessivo>>.

La Cassazione torna sull’onere della prova nella responsabilità medica

Secondo Cass. 13.07.2018 n .18549, est.: Porreca , <<nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente danneggiato dimostrare con qualsiasi mezzo di prova l’esistenza del nesso di causalità  -secondo il criterio del <<più probabile che non>>- tra la condotta del medico e il pregiudizio di cui si chiede il ristoro : con la conseguenza che -ove al termine dell’istruttoria il suddetto nesso non risulti provato- la domanda va rigettata<< (massima de Il Foro It., 2018/11, I, 3570)

Si leggono alcune considerazioni interessanti nel § 2

  1. Nei giudizi di risarcimento contrattuale e anche extracontrattuale, la condotta colposa del responsabile e il nesso di causa costituiscono l’oggetto di due accertamenti distinti, sì che la sussistenza della prima non comporta di per sè la dimostrazione del secondo e viceversa.
  2. L’articolo 1218  solleva il creditore dell’obbligazione, che si afferma non adempiuta, dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra condotta debitoria e danno chiesto in risarcimento.
  3. Infatti :
    1. la previsione dell’articolo 1218 si giustifica nell’opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente l’onere della prova positiva dell’avvenuto adempimento , sulla base del criterio della maggiore vicinanza   alla prova, secondo cui va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla;
    2. questa maggior vicinanza del debitore non sussiste in relazione al nesso causale, per il quale dunque non ha ragion d’essere l’inversione dell’onere della prova di cui all’articolo 1218;
    3. ciò vale sia con riferimento al nesso causale materiale sia in relazione al nesso causale giuridico,
    4. trattandosi di elementi egualmente distanti da entrambe le parti (anzi -circa il secondo- maggiormente vicini al danneggiato),  non c’è spazio per ipotizzare a carico dell’asserito danneggiante una prova liberatoria rispetto al nesso di causa, a differenza di quanto accade per la prova dell’avvenuto adempimento;
    5. nè può valere in senso contrario il riferimento dell’art. 1218 alla causa non imputabile ( “(…) se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”). Infatti, come già affermato da Cass. 26.07.2017 n. 18.392, la causa in questione attiene alla non imputabilità della impossibilità di adempiere, che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione, costituente <<tema di prova della parte debitrice>>, e concerne un ciclo causale che è del tutto distinto da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato o inesatto [segue la teoria del doppio ciclo causale introdotto dalla cit. Cass. , est. Scoditti, i cui passaggi essenziali sul punto riporto nel mio post 4 dicembre u.s.]
    6. ciò non contrasta con Cass. sez. un. 11.01.2008 n. 577 [la quale secondo molta dottrina è stata la prima ad introdurre la presunzione del nesso di causalità, onerando il debitore -cioè il medico- di provarne l’eventuale assenza] : in tale decisione infatti il principio era stato affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento qualificato, allegato dall’attore, era tale da comportare di per sè, in assenza di fattori alternativi più probabili nel caso singolo di specie, la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta. La prova della prestazione sanitaria conteneva già, in questa chiave di analisi, quella del nesso causale, sicché non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale di cui all’articolo 2697 secondo comma, e non la prova liberatoria richiesta dall’articolo 1218.

responsabilità civile e onere della prova del nesso di causa

Insegnamento della S.C. sul tema in oggetto, che vale per entrambe le specie di responsabilità civile (aquiliana e da violazione di obblighi). Secondo Cass. , sez. III, 30 novembre 2018 N. 30998 (rel. Rossetti):

<<5-Il settimo motivo di ricorso.
5.1. Col settimo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 2236 e 2697 c.c., nonchè degli artt. 40 e 41 c.p..
Al di là di tali richiami normativi, nell’illustrazione del motivo si denuncia l’inversione, da parte della Corte d’appello, delle regole sul riparto dell’onere della prova.
Vi si sostiene che nel caso in cui rimanga incerto il nesso di causa tra la condotta del medico e il danno patito dal paziente, tale incertezza deve ricadere sul medico e non sul paziente.
5.2. Il motivo è infondato.
Nel nostro ordinamento esistono molte norme che sollevano l’attore dall’onere di provare la colpa del convenuto, sia in materia di contratti (ad esempio, gli artt. 1218 o 1681 c.c., o il D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 178), sia in materia di fatti illeciti (ad esempio, gli artt. 2048 c.c. e ss.).
Non esiste, invece, alcuna norma che sollevi l’attore dall’onere di provare il nesso di causa (rectius, i fatti materiali sui quali fondare il giudizio di causalità) tra l’inadempimento o il fatto illecito, ed il danno che si assume esserne derivato.
Tale non è, in particolare, l’art. 1218 c.c., per due diverse ragioni.
La prima è che tale norma si fonda sul principio della vicinanza alla prova (così le Sez. U, Sentenza n. 13533 del 30/10/2001, Rv. 549956 – 01), principio che è sussiste con riferimento alla prova della diligenza della condotta (che attiene alla sfera giuridica del debitore), ma è inconcepibile con riferimento alla prova del nesso tra illecito e danno, che si realizza nella sfera giuridica del creditore.
La seconda ragione è che l’art. 1218 c.c., là dove richiede al debitore di provare “che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”, richiede la prova della “non imputabilità dell’impossibilità di adempiere”, che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione (costituenti “tema di prova della parte debitrice”), e concerne un ciclo causale ben distinto da quello che ha prodotto l’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato o inesatto.
Altra è la causa che ha determinato l’impossibilità di adempimento, ben altra è la causa che ha determinato il danno: l’art. 1218 c.c. addossa al debitore l’onere di prova l’esistenza della prima, ma non l’onere di provare l’inesistenza della seconda.
Poichè dunque il nesso di causa tra fatto illecito e danno è un fatto costitutivo del diritto al risarcimento, la prova di esso grava su chi di quel danno invoca il ristoro, secondo la regola generale di cui all’art. 2697 c.c..
Resta solo da aggiungere che tale regola vale, ovviamente, sia in riferimento al nesso causale materiale (attinente alla derivazione dell’evento lesivo dalla condotta illecita o inadempiente) che in relazione al nesso causale giuridico (ossia alla individuazione delle singole conseguenze pregiudizievoli dell’evento lesivo).
5.3. I principi appena esposti sono ormai pacifici nella giurisprudenza più recente di questa Corte: da ultimo, in tal senso, Sez. 3 -, Sentenza n. 3704 del 15/02/2018, Rv. 647948 – 01, secondo cui “nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicchè, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata”; nello stesso senso, Sez. 3 -, Ordinanza n. 19199 del 19/07/2018, Rv. 649949 – 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 29315 del 07/12/2017, Rv. 646653 – 01, e Sez. 3 -, Sentenza n. 18392 del 26/07/2017.>>

Pare riprendere la teoria del duplice ciclo causale proposta Cass. 26.07.2017 n° 18.392, est. Scoditti