La responsabilità contrattuale nel danno da caduta sugli sci perchè la pista era ghiacciata

Interessanti ed approfonditi insegnamenti sulla responsabilità contrattuale in Cass. sez. III, ord.  09/05/2024 09/05/2024 n. 12.760, rel. Gorgoni (ometto per brevità quelli sulla responsabilità da cose in custodia ex art. 2051, di analogo livello):

<<La previsione dell’art. 1218 cod. civ., difatti, esonera il creditore dell’obbligazione asseritamente non adempiuta dall’onere di provare la colpa del debitore [NO: ancora con la vecchia teoria della necessità di colpa, bastando invece la negligenza!], ma non da quello di dimostrare il nesso di causa tra la condotta del debitore e l’inadempimento, fonte del danno di cui si chiede il risarcimento.

Non deve trarre in inganno la giurisprudenza di questa Corte che, operando una distinzione tra (inadempimento di) prestazioni professionali e (inadempimento di) di altre obbligazioni, ritiene quanto a queste ultime assorbito il nesso di derivazione causale nell’inadempimento. Questa Corte ha precisato che, sebbene nesso di causa ed imputazione della responsabilità non siano teoricamente coincidenti, perché un conto è collegare la condotta all’evento di danno (causalità materiale) e l’evento di danno alle conseguenze pregiudizievoli (causalità giuridica), altro conto è il criterio di valore che collega un effetto giuridico ad una determinata condotta, rappresentato, nel campo della responsabilità contrattuale, dall’inadempimento, nel caso di responsabilità di cui all’art. 1218 cod. civ. l’inadempimento si sostanzia nel mancato soddisfacimento dell’interesse dedotto in obbligazione, sicché il giudizio di causalità materiale non è di norma distinguibile praticamente da quello relativo all’inadempimento. Il che comporta che a carico del creditore della prestazione gravi soltanto l’onere di provare la causalità giuridica, mentre l’inadempimento che “assorbe” (ma non elide, sul piano concettuale, poiché – diversamente opinando – non avrebbe alcun senso la norma di cui all’art. 1227, 1° e 2° comma cod. civ.) la causalità materiale deve essere solo allegato. Nel caso di prestazioni professionali, invece, ove l’interesse dedotto in obbligazione assume carattere strumentale rispetto all’interesse del creditore, causalità ed imputazione tornano a distinguersi. L’inadempimento è rappresentato dalla violazione delle leges artis, ma questo non significa automaticamente lesione dell’interesse presupposto, il quale potrebbe restare insoddisfatto per cause autonome rispetto all’inadempimento della prestazione professionale. Pertanto, al creditore della prestazione non basterà affatto allegare l’inadempimento della prestazione professionale, ma occorrerà anche che egli provi che l’inadempimento abbia provocato la lesione l’interesse presupposto. Ecco allora che la causalità materiale non è soltanto causa di esonero da responsabilità del debitore, ma anche elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità. Al creditore non basterà allegare l’inadempimento della prestazione professionale, ma egli sarà tenuto a dimostrare il nesso di causalità materiale (oltre al nesso di causalità giuridica tra l’evento e il danno). Soltanto a questo punto sorgono gli oneri probatori a carico del debitore, chiamato a provare di avere adempiuto, ovvero che l’inadempimento è riconducibile ad una causa a lui non imputabile, ex art. 1218 cod. civ. (Cass. 11/11/2019, n. 28991 e successiva giurisprudenza conforme).

Ora, “l’assorbimento” di cui parla questa Corte e da cui il ragionamento fin qui condotto ha preso le mosse non significa che si possa predicare l’irrilevanza del nesso di causa nemmeno in punto di ricadute di carattere processuale – distribuzione dell’onere della prova -. L’assorbimento deve intendersi (non diversamente da quanto accade in altri ordinamenti a noi vicini, come quello tedesco, in seno al quale la giurisprudenza discorre di Anscheinsbeweis ossia di prova auto-evidente) come prova evidenziale dell’esistenza del nesso di causa, giustificata dal fatto che quel nesso, di norma, non è funzionalmente scindibile dall’inadempimento, in quanto quest’ultimo si sostanzia nella lesione dell’interesse del creditore che a sua volta identifica l’evento di danno.

Se così è, e quindi se di norma la causalità materiale è immanente all’inadempimento del contratto, sì da ritenere che, allegando l’inadempimento, il creditore soddisfa gli oneri probatori posti a suo carico, ciò non significa né che il nesso di causa si dissolva in una impredicabile dimensione di inesistenza, prima ancora che di irrilevanza (come non condivisibilmente sostenuto da quella parte di dottrina che, palesemente dimentica dell’esistenza, prima ancora che del significato, dell’art. 1227 cod.civ., ne liquida la portata precettiva con qualche arguto illusionismo semantico), né che il creditore sia esonerato dall’onere di provarlo, ma solo che il fatto (socialmente tipico) di un evento dannoso verificatosi vale a giustificare l’assunzione in chiave presuntiva di tale nesso, con la conseguenza che grava sulla parte che si assume inadempiente (o non esattamente adempiente) l’onere di fornire la prova positiva dell’avvenuto adempimento (o della relativa impossibilità per causa alla stessa non imputabile), rimanendo in ogni caso fermo il principio generale codificato dall’art. 2697 cod. civ. (Cass. 19/02/2024, n. 2114; Cass. 31/03/2021, n. 8849). Questi principi, proprio di recente, sono stati applicati con riferimento alle prestazioni di facere degli insegnanti in relazione alla sorveglianza degli alunni affidati alle loro cure; questa Corte ha statuito che “la descrizione di misure di vigilanza o di controllo dei comportamenti dei minori che appaiono di per sé tali – di regola e ove normalmente osservate – a garantire la minimizzazione dei rischi connessi alla verificazione di conseguenze dannose o, quantomeno, delle conseguenze dannose maggiormente o più agevolmente prevedibili” costruiscono regole e “modelli di adempimento contrattuale (o, più in generale, di adempimento delle obbligazioni caratterizzate dalla descritta tipicità sociale) la cui prefigurazione vale a riflettersi, sul piano processuale, da un lato, nella corrispondente tipicità sociale dei modelli di diligenza imposti dall’art. 1176, co. 1, c.c. …e, dall’altro, nella più agevole individuabilità, da parte del giudice (in caso di contrasto tra le parti) di elementi rappresentativi di carattere presuntivo suscettibili di corroborare, sul piano critico, la ricostruzione dei fatti di causa” (Cass. 19/01/2024, n. 2114).

Per completezza di indagine, sia pur nei limiti di una motivazione che non consente ulteriori digressioni (pur necessarie), va chiarito che tale conclusione non è affatto in contrasto (come pure, del tutto erroneamente, ipotizzato in dottrina) con i principi di cui a Cass. Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533, come è provato dal fatto che le stesse Sezioni Unite, con la decisione n. 577 dell’11/01/2008, hanno affermato un principio ulteriore che non riguarda la distribuzione tra le parti del contratto dell’onere della prova dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento (sent. n. 13533/2001), ma quello della prova del nesso di causalità tra l’azione e l’omissione imputabile e l’evento di danno: l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello, “qualificato”, che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno. Allegare un inadempimento efficiente, vale a dire astrattamente idoneo a produrre il danno, implica la prova, sia pur soltanto presuntiva, del nesso di causalità materiale. Detto principio – si ribadisce – non solo non contrasta con quello enunciato nel 2001, perché il principio della maggiore vicinanza della prova che lo aveva ispirato non appare predicabile con riguardo al nesso causale fra la condotta dell’obbligato e l’evento di danno, rispetto al quale non può che valere il principio che onera l’attore della prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, trattandosi di elementi egualmente “distanti” da entrambe le parti, ma ne costituisce lo sviluppo con riguardo ad un profilo, quello della prova del nesso causale, di cui la pronuncia del 2001 non si era interessata.

Tornando alla vicenda per cui è causa, deve rilevarsi che due giudici di merito hanno ritenuto non soddisfatto, da parte del ricorrente, l’onere probatorio relativo al nesso causale tra la condotta del gestore della pista e l’evento di danno, perciò nessuna censura può essere mossa alla sentenza impugnata che ha correttamente applicato, dopo aver altrettanto correttamente qualificato la fattispecie in esame, la distribuzione dell’onere della prova derivante dall’applicazione dell’art. 1218 cod. civ. in combinato disposto con l’art. 2697 cod. civ.

Il nesso di causa ben avrebbe potuto essere dimostrato come poc’anzi osservato, attraverso il ricorso alle presunzioni, ma il ricorrente, che pure censura la sentenza impugnata per non aver tratto dai fatti di causa gli elementi per ritenere provato il fatto ignoto, non confuta efficacemente sul punto la decisione della Corte territoriale. Le sue critiche sono del tutto generiche ed assertive e si appuntano sostanzialmente sull’esito della valutazione delle prove raccolte. Chi ricorre in cassazione dolendosi del mancato ricorso da parte del giudice del ragionamento presuntivo non può limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva non conduca necessariamente all’esito interpretativo raggiunto nei gradi inferiori; pertanto, chi censura un ragionamento presuntivo o il mancato utilizzo di esso non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice del merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento (ex plurimis cfr. Cass. 02/11/2021, n. 31071) e tanto è mancato nel caso di specie.