Sulla protezione di un progetto di architettura d’interni con il diritto di autore (art. 2 n. 5, l. aut.): la vertenza Kiko c. Wjcon / 2: l’appello (con un cenno a inibitoria e alla proteggibilità come marchio)

Dando seguito al post sulla sentenza di primo grado, vediamo ora il ragionamento condotto dalla sentenza d’appello (Appello Milano sent. n. 1543/2018 del 26.03.2018, RG 3945/2015) per respingere l’impugnazione e confermare la decisione di primo grado praticamente per intero (l’unica differenza sta nel maggior termine concesso a Wjcon per darvi esecuzione, come dirò sotto).

Ecco i punti principali.

  1. Sull’eccezione di carenza in Kiko  di legittimazione attiva – secondo Wjcon il contratto per la progettazione dell’arredo non avrebbe fatto acquisire a Kiko  il diritto d’autore relativo. La Corte d’Appello rigetta la doglianza sotto due profili: i) dicendo che invece è nella logica economica di questo contratto che il diritto d’autore venga acquisito dal committente; ii) valorizzando alcune dichiarazioni, sostanzialmente ricognitive della titolarità di Kiko, pare, rilasciate dallo studio di architettura e/o dall’architetto personalmente (primo motivo di impugnazione).
  2. Sulla censura, secondo cui un’eventuale tutela avrebbe dovuto essere semmai concessa come opera di design (art. 2 n. 10 l. aut.; pur negandola per mancanza dei requisiti di legge) e non come opera dell’architettura ex art. 2 n. 5 – Secondo la Corte invece, poichè il concept-store è progettato come insieme complessivo del punto vendita, è più appropriata la tutela come opera dell’architettura. Il concetto di interior design si addice maggiormente (in base alle esperienze e alla giurisprudenza) ai singoli elementi che compongono l’arredamento dell’Interno (secondo motivo di impugnazione).
  3. Sull’eccezione secondo cui Kiko avrebbe modificato il progetto del concept store per negozi  successivi – Trattasi di circostanza irrilevante che non fa venir meno il diritto alla protezione del concept store anteriori (terza censura)
  4. Circa la presenza di alcune differenze tra l’arredo dei negozi di wycon e quello dei negozi Kiko  – La Corte ricorda che decisivo è l’aspetto complessivo: <<dato che la tutela autorale riconosciuta dal Tribunale riguarda la combinazione degli elementi sopra descritti, limitate differenze nella forma del singoli elementi che compongono l’arredamento di interno non sono rilevanti, se e nella misura in cui l’effetto di insieme, quale si coglie dalle foto in atti, sia il medesimo, vale a dire nella stragrande maggioranza dei punti di vendita Wycon ritratti nelle fotografie prodotte dall’attrice>> (sempre terza censura).
  5. Sulla presunta mancanza di originalità del progetto architettonico in quanto già noto nel settore per essere stato anticipato da terzi concorrenti  – Come già il Tribunale, anche la Corte d’Appello respinge la doglianza, rilevando la mancanza di prova e [addirittura] di allegazione dell’anteriorità degli arredamenti/allestimenti di detti terzi rispetto a quelli di Kiko (ancora terza censura).  Di ciò gli operatori faranno bene a tenere adeguato conto.
  6. Sulla concorrenza parassitaria – Anche qui viene confermato il giudizio del tribunale circa la sistematicità dell’imitazione e comunque la rilevanza dell’aspetto complessivo, anzichè dei singoli dettagli: <<a imitazione degli elementi come sopra considerati da parte di Wycon è talmente sistematica anche agli occhi di un osservatore superficiale della cospicua documentazione e delle fotografie prodotte dalle parti, da rendere assolutamente di giustizia l’affermazione al di là di ogni ragionevole dubbio che Wycon ha sfruttato le ricerche, l’attività produttiva e promozionale ed il lavoro di Kiko. Del resto anche qui vale la considerazione che lo agganciamento parassitario riguarda il complesso dell’attività commerciale dell’appellata e che, quindi, essa non è esclusa da singole e parziali differenze degli elementi considerati, i quali peraltro sono molto di frequente anche essi uguali o comunque pedissequamente imitati>> (quarta  censura).
  7. Sul mancato utilizzo del criterio risarcitorio degli utili persi  – Correttamente non è stato utilizzato, secondo la Corte d’Appello: <<il Tribunale ha giustamente escluso che il criterio della possibile determinazione degli utili persi da Kiko a causa del predetto fatto illecito potesse essere in qualche modo utilizzato e questo argomento logico giuridico va interamente condiviso, poiché, in sostanza, la Kiko vende prodotti cosmetici e non fa invece offerta di progetti di arredamento e quindi nessun senso avrebbe concepire nella specie il danno come correlato agli utili ipoteticamente perduti dall’attrice>>.  (Quinta censura)
  8. Circa la doglianza sul  fatto che in realtà Kiko non ha subito alcun danno né come lucro cessante né come danno emergente a seguito della riproduzione  non autorizzata del concept store – La Corte replica osservando che il lucro cessante esiste ed è rappresentato proprio dalla somma, che Kiko  avrebbe percepito da wycon se quest’ultima avesse acquistato dalla attrice il diritto di utilizzare l’idea progettuale (“giusto prezzo del consenso”)  (sempre quinta censura
    1. Sul punto rinvio ad un mio precedente ampio studio Restituzione e trasferimento dei profitti nella tutela della proprietàindustriale (con un cenno al diritto di autore), Contratto e impresa, 2010, 1149 ss, leggibile in academia.edu.
  9. Sulla quantificazione del danno – La Corte d’Appello rileva (come già osservato nel mio post precedente) che in causa non si era accertato quanti negozi Wycon avesse clonato ne è accertabile quanto avrebbe dovuto corrispondere a controparte per l’allestimento di ogni punto vendita: per questo, dice,  è stato “prudentemente liquidato”  nel multiplo di 10 del costo progettuale (sempre quinta censura).
    1. Più che “prudentemente liquidato”, però, sarebbe stato più esatto dire “equitativamente determinato”,  visto che così si esprime l’articolo 1226 c.c., richiamato dall’articolo 2056 c..c (il cui comma 2, poi, aggiunge che <<il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso>>)
  10. Sull’inibitoria – L’appellante lamentava che erroneamente ed ingiustamente il tribunale avesse emesso inibitoria “della apertura di nuovi negozi con arredamento di interni copiato da quello dei quo” perché aveva agito in buona fede. La corte respinge la doglianza (tranne quello che si dirà al punto seguente), osservando:  – da un lato, che <<l’inibitoria è il provvedimento tipico, che consegue all’accertamento di una contraffazione di opera di ingegno. Esso è espressamente previsto dall’art. 156 LDA>>; – dall’altro, che Wjcon non può essere ritenuto in buona fede (sesta  doglianza).  Due osservazioni:
    1. Il punto è importante, ma la posizione del  collegio è poco comprensibile, dal momento che la risposta avrebbe potuto essere più radicale: l’elemento soggettivo non è richiesto per concedere l’inibitoria. Questa infatti è un rimedio reale e non personale, secondo la tradizionale partizione, che riflette la distizione tra illiceità mera e dannosità (potendoci essere l’una senza l’altra): per opinione diffusa, quindi, non richiede l’elemento soggettivo (dolo/colpa) nel trasgressore  nè la prova di un danno. In tale senso v. Libertini-Genovese, sub art. 2599, in Comm. del cod. civ. dir. da Gabrielli,  Artt. 2575-2642: Delle soc., dell’az., della concorr., a cura di Santosuosso, Utet, 2014, p. 626; Musso, sub art. 2577, Comm. cod. civ. Scialoja Branca, Art. 2575-2583, Zanichelli, 2008, § 19, p. 273; Spolidoro, Le misure di protezione nel diritto industriale, Giuffrè, 1982, p. 161 ss.. Tra i processualisti v. Nardo., Profili sistematici dell’azione civile inibitoria, ESI, 2017, 87 ss e 101 ss; Rapisarda, Profili civili della tutela civile inibitoria, Cedam, 1987, 88 ss.
    2. inoltre non è vero che il Tribunale  aveva emesso inibitoria “della apertura di nuovi negozi con arredamento di interni copiato da quello dei quo”. L’inibitoria riguardava il protrarsi dell’illecito e quindi, visto che questo consisteva nell’arredo già installato, obbligava a rimuoverlo: aveva cioè contenuto positivo/commissivo, non negativo/omissivo. Ciò risulta in modo sufficientemente chiaro dalla pronuncia di primo grado (dispositivo: “accertata la tutelabilità del progetto di arredamento d’interni applicato ai negozi di cosmetici della catena di KIKO s.r.l. ai sensi dell’art. 2, n. 5 L.A.  (…) nonché la contraffazione posta in essere dalla convenuta WJCON s.r.l. di tale progetto (…), ne inibisce a parte convenuta l’ulteriore utilizzazione nei negozi facenti parte della sua catena commerciale, fissando a titolo di penale la somma ..”) e in modo ancor più chiaro da quella di appello.
  11. La Corte d’Appello aumenta da 60 a 150 giorni il termine per dare esecuzione al gravoso provvedimento di inibitoria, con contenuto però positivo (rimozione degli arredi in violazione: v. punto precedente)
  12. E’ confermato il rigetto delle domande di concorrenza sleale confusoria e per appropriazione di pregi, avanzate da Kiko.
  13. La corte , infine, ha ritenuto di compensare per un quarto le spese legali d’appello a favore di wycon e di condannarla però a rifondere a Kiko i residui tre quarti

Circa la protezione dell’arredo interno del negozio , ricordo che in passato è stata tentata anche tramite l’istituto del marchio di forma. L’ha ammessa la sentenza della Corte di Giustizia UE 10.07.2014, C‑421/13, nel caso Apple c.Deutsches Patent- und Markenamt, purchè ricorra la distintività; l’ha invece respinta l’EUIPO proprio a Kiko (decisione 29.03.2016 della 1° Commissione di ricorso, proc. R 1135/2015-1), anche se non in linea di principio, bensì per carenza  di distintività nel caso specifico.

Sulla protezione di un progetto di architettura d’interni con il diritto di autore (art. 2 n. 5, l. aut.): la vertenza Kiko c. Wjcon

Interessante vertenza milanese in tema di protezione col diritto di autore dei progetti di architettura di interni, riferita a negozi . Riferisco qui della sentenza di primo grado e in un prossimo post di quella d’appello, che ha respinto l’impugnazione di Wjcon, confermando il provvedimento del Tribunale quasi interamente .

Era successo, secondo le allegazioni di Kiko srl (attore), che il concept dei propri negozi fosse stato copiato dai negozi di Wycon srl (convenuto). Inoltre sarebbe stata posta in essere attività di concorrenza sleale, poiché erano stati copiati anche altri profili della comunicazione di impresa  (abbigliamento delle commesse, packaging dei prodotti , format dei siti web etc).

Nella sentenza di primo grado (Trib. Milano n. 11416/2015 – RG 80647/2013, pubblicata il 13.10.2015), questi sono alcuni dei punti più interessanti.

  1. il Tribunale non ha dato rilevanza al disconoscimento, da parte di Wjcon, di fotografie e riproduzioni grafiche prodotte da Kiko: ciò perchè il generico disconoscimento di  “conformità e provenienza” delle stesse non ha precisato quali riproduzioni grafiche risulterebbero non conformi alla realtà e non ha prodotto elementi a contrasto utili a potere in concreto individuare e evidenziare tali presunte difformità. Infatti la contestazione di difformità, pur non potendo essere governata dagli articoli 214 215 cpc, concernenti la scrittura privata, deve comunque essere “chiara, circostanziata ed esplicita”: in mancanza è generica e per questo irrilevante (§ 2).
  2. Secondo il collegio, “non sembra contestabile la possibilità di riconoscere la tutela ex articolo 2 n.5 legge d’autore a detto progetto di arredamento di interni” (di Kiko). La tutelabilità infatti di tali progetti è possibile quando la progettazione sia il risultato non imposto dal problema tecnico funzionale, che l’autore vuole risolvere:  in tale contesto “il carattere creativo, requisito necessario per la tutela, può essere valutato in base alla scelta, coordinamento e organizzazione degli elementi dell’opera, in rapporto al risultato complessivo conseguito. (…) La presenza in detto progetto degli elementi di creatività necessari per assicurare ad esso la tutela autorale, appare connessa alla combinazione e conformazione complessiva di tutti detti elementi in relazione tra loro” (§ 3).
  3. L’esistenza di uno specifico studio ed elaborazione progettuale [commissionato a terzi, nel caso specifico] costituisce una favorevole presunzione in tal senso (§ 3).
  4. La documentazione di Wycon, per provare che il progetto di Kiko non è originale perchè già utilizzata dai concorrenti nel settore, è irrilevante, in quanto non assistita da alcun elemento, che possa contribuire a fornire una effettiva datazione dell’epoca, in cui i singoli allestimenti ivi rappresentati sono stati effettivamente presentati sul mercato (§ 4).
  5. Gli altri aspetti di concorrenza sleale confusoria o per appropriazione di pregi (abbigliamento delle commesse, aspetto dei sacchetti e dei contenitori portaprodotti, aspetto dei prodotti medesimi, aspetti della comunicazione commerciale on-line, eccetera), invece, non sono stati ritenuti censurabili, in quanto iniziative da un lato consuete nel settore e dall’altro comportanti un rischio poco apprezzabile di confusione (§ 5) .
  6. Il tribunale ha invece affermato (ed è interessante, essendo poche le sentenze di accoglimento di questa domanda) l’esistenza di concorrenza parassitaria. Ha infatti  ravvisato una <<ripresa pressoché pedissequa di ulteriori elementi -di per se privi di attitudine confusoria- che hanno dato luogo ad un comportamento di pedissequa imitazione del complesso delle attività commerciali e promozionali poste in essere nel tempo da parte attrice di tale complessive entità e rilevanza da porre in essere quello sfruttamento sistematico del lavoro e della creatività altrui in tempi sostanzialmente coincidenti o comunque immediatamente successivi all’adozione da parte dell’attrice delle sue specifiche iniziative>> (§6)
  7. il risarcimento del danno non è stato  parametrato sugli utili del contraffattore (visto che <<difficilmente potrebbe essere individuato tra gli utili conseguiti dal contraffattore nell’ambito di una attività di impresa più complessiva ed articolata, risultando di fatto del tutto arbitraria ogni possibilità di assegnare direttamente sul piano causale una parte di tali utili all’illecito accertato>>), bensì con una iniziativa equitativa parametrata al costo sostenuto per il progetto d’arredo. In particolare la condanna è fondata su un <<criterio di natura equitativa che tragga fondamento sostanziale dalle somme che parte convenuta ha di fatto risparmiato sfruttando il progetto sviluppato da KIKO e commisurando tali importi Alla entità delle riproduzioni eseguite nei numerosi negozi di wycon sparsi sul territorio nazionale>>.  Pertanto avendo Kiko speso € 70.000,00 per il progetto del Concept presso uno studio esterno, <<tale importo appare di sicuro riferimento come base di per determinare il lucro cessante a cui kiko ha diritto, sulla base del quale cioè commisurare il prezzo che wjcon avrebbe dovuto sostenere per sfruttare lecitamente l’opera tutelata e che deve essere opportunamente aumentato in relazione al numero di negozi ai quali essa ha applicato detto concept. Stima equo dunque il collegio liquidare per tale voce di danno in via equitativa la complessiva somma di 700.000,00>>.
    1. Non è però chiarito come si sia passati da € 70.000,00 ad una somma pari al decuplo: in base a criterio puramente equitativo, par di capire, non essendoci alcun riferimento nè al numero di negozi di Wjcon interessati dai fatti di causa nè a canoni ipotetici di mercato per un licensing del genere.
  8. ll Tribunale, emettendo l’inibitoria assistita da penale [si badi: comportante la rimozione degli arredi dei propri negozi!], ha concesso il termine di 60 giorni dalla notifica prima di far scattare la penale medesima.

Sull’azione di risarcimento del danno (extracontrattuale) del creditore sociale verso i revisori legali della società fallita

Il Tribunale di Roma  con sentenza 26.09.2018, relativa al fallimento Deiulemar, tra le altre cose afferma che:

i) <<Rientra nella competenza della sezione specializzata del tribunale delle imprese la controversia nella quale si agisce in responsabilità contro la società di revisione incaricata della certificazione del bilancio di una s.p.a.>>: soluzione piana, visto il tenore dell’art. 3 co. 2 lett. a) del d. lgs. 168/2003.

2)<<I singoli creditori di società per azioni fallita sono legittimati ad agire nei confronti della società di revisione incaricata della certificazione del bilancio della società e della Consob per il risarcimento del danno ad essi direttamente causato da omessa vigilanza>> : cioè non rientra nelle azioni c.d. di massa, per le quali è legittimato il Curatore. Anche questa regola è tutto sommato sicura, alla luce dell’art. 15 , d. lgs. 39/2010 sulla revisione legale (probabilmente ricavabile pure dal previgente art. 2409 sexies c.c.)

Gli odierni attori lamentavano <<il danno subìto per aver riposto fiducia nelle certificazioni dei revisori che li hanno spinti a sottoscrivere delle obbligazioni ritenute sicure e a non dismettere i titoli, cosi ledendo la loro libertà negoziale, confidando gli stessi nel pagamento degli interessi e nella restituzione del capitale versato sulla base della falsa percezione della solidità della società oggetto di revisione>> (c. 4090, sub § 4)

(massime tratte da Il Foro Italiano, 2018/12, I, 4085 ss)

Responsabilità civile per danno alla reputazione tramite testata giornalistica (cartacea e on line)

È stata pubblicata la sentenza del Tribunale di Firenze 22 ottobre 2018 nella causa civile per danno alla reputazione tra Tiziano Renzi, padre dell’ex capo del governo, e il quotidiano Il Fatto Quotidiano (in Il Foro It., 2018/12, c. 4069 ss).

Il signor Tiziano Renzi ha censurato sei articoli de Il Fatto Quotidiano , due dei quali tratti dalla testata online. Il Tribunale ha accolto la domanda per alcuni articoli e non per altri. Qui segnalo i seguenti aspetti, non registrandosi particolari novità circa il (consueto) bilanciamento tra diritto di cronaca e diritto alla reputazione (la peculiarità concerne semmai l’interesse pubblico per i fatti di causa, stante la strettissima partentela dell’attore con una figura politicamente assai rilevante).

1°  Sul riparto interno della responsabilità ex art. 2055 c.c. (comma 2, probabilmente, e cioè ai fini del regresso tra corresponsabili: il che significa che è stato proposta apposita domanda) tra autore dell’articolo e direttore del quotidiano, da una parte, ed editore, dall’altra, quest’ultimo responsabile ex art. 11 legge sulla stampa n° 47 del 1948 (secondo cui <<Responsabilità civile – Per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili, in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l’editore>>)  – Il  riparto è stato accertato rispettivamente nella misura del 70%-30% e cioè 30% a carico dell’editore e 70% a carico di autore e direttore (articoli di giornale 2 e 6, secondo la numerazione data dal giudice). Autore e direttore, si badi, coincidevano.

Non è però spiegato come si è giunti a quantificare così il riparto.

Incongruenza nella motivazione relativa ad uno dei due articoli usciti nell’edizione online (articolo di giornale 5, secondo la numerazione in sentenza) –  Il giudice prima afferma la responsabilità della giornalista Scacciavillani e dell’editore (sempre ex art. 11 L. 47/’48; mentre non sarebbe responsabile il direttore, in quanto testata on line: v. punto seg.), ma poi prosegue così: <<Ai fini della ripartizione interna della responsabilità, quella dell’autore e direttore responsabile Marco Travaglio deve essere indicata nella misura del cinquanta per cento ciascuno>>.  Il riparto è poco comprensibile, visto che concerne autore e direttore responsabile, mentre appena prima afferma la responsabilità ex art. 2055 c.c. di giornalista ed editore. E’ poco comprensibile anche perché il direttore della testata online, semmai, pare essere Peter Gomez, non Marco Travaglio. Oscurità che indurrebbe all’appello sul punto.

Sulla irresponsabilità del direttore della testata on line (v. punto precedente)  – Si legge in sentenza che <<infatti non viene in rilievo la responsabilità del direttore per il reato di omesso controllo ex art. 57 c.p., giacchè l’attività on line non è riconducibile nel concetto di stampa periodica ex articolo 1 L. 8 febbraio 1948 n. 47>>. La motivazione non è limpida, poichè:

i) non è chiaro se l’articolo de quo manchi del requisito della “periodicità”, fermo restando che di stampa si tratta, oppure se non sia nemmeno qualificabile come “stampa” (alla luce del cit. art. 1, secondo cui <<Definizione di stampa o stampato – Sono considerate stampe o stampati, ai fini di questa legge, tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione>>);

ii) qualora si ritenga che manchi addirittura il requisito di “stampa”, è vero che le norme penali non possono essere applicate a casi non previsti tramite analogia. Tuttavia bisogna appurare se la stampa digitale sfugga all’art. 57 c.p. pure in base ad un’interpretazione estensiva, dai più invece ammessa. Quest’ultima via è per vero difficilmente percorribile, come in tutti i casi di  novità tecnologica non prevista dal legislatore dell’epoca: sarebbe stata in ogni caso necessaria una motivazione sul punto. Ciò tanto più se si ricorda che proprio la via dell’interpretazione estensiva è stata battuta da recente giurisprudenza penale: – con estensione in bonam partem, v. Cass. sez. un., ud.  29.01.2015, dep. 17.07.2015, n. 31022 sulla guarentigia ex art. 21 Cost. in tema di sequestrabilità preventiva di un sito web (§§ 17-22, commentata in varie riviste); – con estensione in malam partem (sta qui il puntum dolens, ovviamente), v. Cass. sez. V pen., ud., 11-12-2017, dep. 22-03-2018, n. 13398,  sull’applicabilità dell’art. 57 c. pen. al direttore di testata telematica registrata (§ 4, ad es. in Il foro it., 2018, II, 305 ss., ed annotata da S. Vimercati, Il revirement della Cassazione: la responsabilità per omesso controllo si applica al direttore della testata telematica, in www.medialaws.eu); – sempre con estensione in malam parte dell’art. 57 c. pen., v. Cass. sez. V penale, ud., 23/10/2018, dep. (pare) 11.01.2019, n. 1275 (§ 9.2, criticamente annotata da L. Amerio in medialaws.eu, § 7).

Per non dire della possibilità di valorizzare il differente trattamento tra due iniziative editoriali uguali sotto il profilo funzionale (anzi, la testata on line è assai più lesiva di quella cartaca, quanto a platea raggiungibile): con un problema di incostituzionalità non  modesto. Il giudice delle leggi però ha già respinto questa idea. Si veda Corte Cost. 16/12/2011, n.337 : <<È manifestamente inammissibile la q.l.c. dell’art. 11 l. 8 febbraio 1948 n. 47, censurato, in riferimento all’art. 3, comma 1, cost., nella parte in cui, escludendo dalla responsabilità civile ivi prevista il proprietario ed editore del sito web, sul quale vengono diffusi giornali telematici, accorderebbe una tutela ingiustificatamente più ampia alle persone offese da reati commessi col mezzo della carta stampata, rispetto a quelle che il medesimo reato abbiano subito col mezzo di un giornale telematico. L’eventuale accoglimento della questione, infatti, non potrebbe condurre ad una pronuncia di condanna al risarcimento del danno del presunto responsabile civile, perché una sentenza della Corte costituzionale non può avere l’effetto di rendere antigiuridico un comportamento che tale non era nel momento in cui è stato posto in essere (sent. n. 202 del 1991; ord. n. 71 del 2009).>> (massima da De Jure e ivi nota critica di A. Pace da Giur. cost. 2011, 6, 4613).

La disparità di trattamento, però, stava al centro della motivazione nelle citate pronunce della Cassazione penale;

iii) anche rigettata ogni possibilità di applicare la norma penale, nel caso in esame si trattava di responsabilità civile. Dunque si poteva considerare l’ipotesi di responsabilità del direttore di testata on line per estensione delle norme citate (artt. 11 L. 47/48-art. 57 c.p.) bensì analogica ma ai soli fini civili (sempre che non si ravvisi nell’art. 11 una norma eccezionale).

iv) l’equiparazione di stampa telematica a quella cartecea, in ogni caso , varrebbe solo per la testata telematica funzionalmente equiparabile a quella tradizionale cartacea: il che non è per i  blog (Cass. pen., sez. 5,  ud. 08/11/2018, dep. 20/03/2019, n. 12546, sub 3.2, richiamando appunto Cass. pen. sez. un. 31022 del 2015, cit.)

 

Decadenza dal marchio farmaceutico per non uso e suo utilizzo nelle sperimentazioni cliniche (per l’autorizzazione alla immissione in commercio)

Secondo gli articolo 15 co. 1-58 co.1 lett. a) reg. 207/2009 (poi artt.18 co.1-58 co.1 lett. a reg. 2017/1001), il mancato <<uso effettivo>> del marchio per cinque anni comporta la decadenza dal diritto, “salvo motivo legittimo per il mancato uso” (o, nel reg. 2017/1001, “se non vi sono ragioni legittime per la mancata utilizzazione”).

Ebbene, le domande arrivate alla giustizia UE nella causa C‑668/17 P, Viridis Pharmaceutical Ltd c. EUIPO, sono le seguenti:

1°) L’uso di un marchio per prodotti farmaceutici, limitato alla fase delle sperimentazioni cliniche (clinical trials) per ottenere l’autorizzazione alla immissione in commercio (AIC),  vale “uso effettivo” ai sensi della predetta normativa?

2° ) [In subordine,] può dirsi che il divieto di commercializzazione, prima dell’ottenimento dell’AIC, costituisca “motivo legittimo” del mancato uso?

Ad entrambe le domande hanno risposto negativamente sia l’EUIPO che il Tribunale UE. Ora il soccombente ricorre alla Corte di Giustizia.

Pure l’avvocato generale Szpunar , però, risponde negativamente: v. le sue Conclusioni del 09.01.2019.

Aspettiamo ora la decisione della Corte

Testamento e disposizione mortis causa a contenuto non patrimoniale (riconoscimento di figlio naturale) : l’atto “veicolo” della disposizione deve avere forma e solennità tipiche del testamento, altrimenti la disposizione non produce effetto.

Istruttivo caso deciso da Cassazione 02.02.2016 n. 1993.

Il de cuius aveva rilasciato una dichiarazione scritta 26.12.1984 del seguente tenore: “Rocca di Caprileone 26.12.1984. N.G., nata a (OMISSIS), è mia figlia a tutti gli effetti”. Egli successivamente nominava però erede universale un terzo, la sig.ra MW.

Apertasi la successione in data 20.01.1998 , veniva stipulato tra le sig.re NG e MW un accordo di suddivisione del patrimonio ereditario in data 4 agosto 1998  “al fine di non vedere pregiudicate le rispettive ragioni successorie” (id est una transazione, suppongo). In seguito la sig.ra NG -accortasi di una vendita dell’immobile ereditario da parte di MW senza il proprio  consenso- chiedeva che venisse accertato che il predetto atto del dicembre 1984 costituiva un riconoscimento di figlia naturale e che pertanto ella era  erede al 50%, con domande consequenziali. La controparte sig.ra MW eccepiva, tra l’altro, che l’atto medesimo non poteva invece essere ritenuto un testamento valido e quindi che nemmeno era valido riconoscimento di figlia naturale.

Le domande di NG vennero rigettate sia nei giudizi di merito che in quello di legittimità.

Sul punto sopra ricordato nel titolo, la Cassazione così osserva:  

<< L’art. 587 c.c., al comma 2, afferma poi che le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento (quale, ad esempio, il riconoscimento ex art. 254 c.c., i cui effetti si producono alla morte del testatore: art. 256 c.c.) hanno efficacia, se contenute in un atto che abbia la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale.

La possibilità che il testamento esaurisca il suo contenuto in disposizioni di carattere non patrimoniale impone comunque che sia ravvisabile un “testamento in senso formale“, rivelante la funzione tipica del negozio testamentario. Tale funzione consiste nell’esercizio da parte dell’autore del proprio generale potere di disposizione mortis causa. Perchè sia individuabile un testamento in senso formale, quindi, occorre rinvenire il proprium dell’atto di ultima volontà, nel senso che l’atto esprima un’intenzione negoziale destinata a produrre i suoi effetti dopo la morte del disponente. Il testamento, infatti, rappresenta l’unico tipo negoziale con il quale taluno può disporre dei propri interessi per il tempo della sua morte. Non è esclusa, quindi, l’esistenza del testamento, qualora esso contenga soltanto disposizioni di carattere non patrimoniale, ma requisiti irrinunciabili sono la formalità e la solennità dell’atto al fine di garantire la libertà di testare, la certezza e la serietà della manifestazione di volontà del suo autore e la sicura determinazione del contenuto delle singole disposizioni. A questo scopo la legge richiede ad substantiam che il testamento, seppur a contenuto soltanto non patrimoniale, venga redatto in una delle forme espressamente stabilite (art. 601 c.c. e ss.). Affinchè la dichiarazione di riconoscimento di un figlio nato al di fuori del matrimonio possa, pertanto, intendersi inserita in un testamento, del quale pure esaurisca il contenuto, giacchè l’atto risulta sprovvisto di disposizioni di carattere patrimoniale, occorre che esso riveli la sua natura di atto mortis causa (per il tempo in cui avrà cessato di vivere), nel senso che la morte sia assunta dal dichiarante come punto di origine (ovvero, appunto, come causa) del complessivo effetto del regolamento dettato con riguardo a tale situazione rilevante giuridicamente. Se è quindi corretto assumere che l’art. 587 c.c. non postula la necessaria patrimonialità di tipo dispositivo- attributivo, ovvero il necessario riferimento ai beni del testatore, il testamento non può non consistere in un atto di regolamento mortis causa degli interessi del testatore, allorchè tali disposizioni non patrimoniali evidenziano, comunque, la fisionomica essenziale inefficacia sino al momento della morte del testatore.

Come spiegato in precedenti pronunce di questa Corte, perchè un atto possa qualificarsi come testamento (sia pure inteso come forma vincolata, autonoma dal proprio naturale contenuto attributivo, in quanto includente soltanto disposizioni di carattere non patrimoniale), pur non essendo necessario l’uso di formule sacramentali, è necessario riscontrare in modo univoco dal suo contenuto che si tratti di atto di ultima volontà, ovvero, appunto, di un negozio mortis causa, in maniera da distinguerlo, per rimanere proprio al caso del riconoscimento del figlio nato al di fuori del matrimonio, da una mera enunciazione del fatto della procreazione. La ravvisabilità dell’atto di regolamento mortis causa rappresenta un prius logico rispetto ad ogni questione sull’interpretazione della volontà testamentaria, sicchè non vi è luogo di discutere di violazione o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg. se neppure appare oggettivamente configurabile una volontà testamentaria nelle espressioni adottate all’interno della scrittura da esaminare. Si è perciò costantemente affermato che per decidere se un documento abbia i requisiti intrinseci di un testamento olografo, occorre accertare se l’estensore abbia avuto la volontà di creare quel documento che si qualifica come testamento, nel senso che risulti con certezza che con esso si sia inteso porre in essere una disposizione di ultima volontà (Cass. 28 maggio 2012, n. 8490).

Nella specie, facendo corretta applicazione di questi principi, la Corte d’Appello di Perugia ha negato che la dichiarazione sottoscritta da D.S. in data 26 dicembre 1984, del tenore ” N.G., nata a (OMISSIS), è mia figlia a tutti gli effetti”, avesse valore di un testamento olografo ed ha perciò ritenuto inesistente il riconoscimento della filiazione. A tal fine, deve evidenziarsi come la valutazione di un atto quale disposizione testamentaria (ai sensi dell’art. 587 c.c.), ovvero, in particolare, quale testamento olografo (art. 602 c.c), costituisce apprezzamento di fatto, che si sottrae al sindacato di legittimità (Cass. 29 aprile 2006, n. 10035).

E’ d’altro canto del tutto da condividere la conclusione secondo cui la dichiarazione in esame non denoti un testamento in senso formale, in quanto non si evince da essa un’intenzione negoziale del D. volta a produrre l’effetto accertativo della filiazione dopo la sua morte, e perciò non sussiste la pretesa natura di atto mortis causa, nel quale la morte sia individuata come momento di insorgenza della regolamentazione dettata. Consegue in definitiva il rigetto del ricorso.>>

La Cassazione ricorda che il Tribunale, dopo aver negato che la dichiarazione del dicembre 1984 costituisse valido ricoscimento di figlia naturale,  aveva conseguentemente annullato l’accordo “transattivo” del 4 agosto 1998.

L’inseribilità nel testamento di disposizioni non patrimoniali è questione discussa, soprattutto in base a due variabili: – espressa previsione o meno nella legge della possibilità di  loro forma testamentaria; – presenza o meno nel testamento di ulteriori disposizioni (patrimoniali).

Sfruttamento della notorietà altrui (dopo la cessazione del rapporto contrattuale): un esempio “da manuale” (sul caso Canalis)

Il Tribunale di Milano nello scorso giugno ha deciso sulla lite promossa da Elisabetta Canalis e dal concessionario per lo sfruttamento dei suoi diritti d’immagine (tale Lidia Corp.[-oration?], società di diritto statunitense) nei confronti della società, produttrice di biancheria intima, con cui aveva stipulato un contratto di sfruttamento della propria immagine e del proprio nome (Trib. MI , sez. specializzata in materia di impresa A, 06.06.2018 , sentenza n. 6355/2018, RG 25844/2018).

La durata del rapporto era stata fissata in tredici mesi (1 marzo 2013 – 31 marzo 2014).

Secondo la sig.ra Canalis, attrice in causa, la controparte aveva continuato a sfruttare la sua notorietà anche dopo la cessazione del rapporto,  caricandone  (o mantenendo) alcune fotografie e video sul sito aziendale .

Il Tribunale ha accolto le domande della sig.ra Canalis .

Propongo alcuni passaggi interessanti del provvedimento. Il Tribunale:

  1. ha utilizzato come prova (compreso il profilo temporale, naturalmente, decisivo in causa) alcune pagine del sito della convenuta, estratte dal servizio wayback machine di archive.org (§ 1);
  2. ha inserito in sentenza (era ora che qualche giudice iniziasse a farlo) immagini tratte del sito della convenuta, ritenute pertinenti e probanti;
  3. circa la natura dell’illecito, ha affermato la violazione (p. 8):
    1. dell’art. 2043 cod. civ.;
    2. dell’art. 10 cod. civ.;
    3. degli artt. 96 e 97 l. autore;
    4. degli artt. 6, 7 e 9 cod. civ.  e dell’art. 8 co. 3 d. lgs. 30/2005 cod. propr. ind. (circa lo pseudonimo “ELI”);
  4. ha fatto assistere l’inibitoria da una penale di € 5.000,00 per ogni giorno di ritardo per rimozioni e cessazione e da una di € 50,00 per ogni prodotto immesso in comercio in violazione (p.9);
  5. sul danno patrimoniale, ha ritenuto che <<il risarcimento vada commisurato non solo all’importo che il titolare del diritto e il licenziatario avevano concordato in normali condizioni di mercato, bensì nell’importo che avrebbero concordato ad illecito già accertato, quando quindi il titolare del diritto – nello scenario ipotetico funzionale alla liquidazione equitativa – concederebbe lo sfruttamento a fronte di un diritto ormai violato: contesto in cui il prezzo è ragionevole ritenere sarebbe stato maggiore rispetto a quello determinato nelle ordinarie condizioni di mercato, perché necessario, appunto, funzionale a fra si che il titolare rilasciasse ex post il proprio consenso allo sfruttamento del diritto>> e accertato che lo sfruttamento illecito è durato per circa un anno , il Tribunale ha applicato il criterio del c.d. giusto prezzo del consenso, concretizzandolo in un importo di poco superiore a quello pattuito nel contratto (€ 120.000,00), oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data [di inizio] dell’evento lesivo (p. 10);
  6. ha liquidato il danno non patrimoniale in € 30.000,00 : un quarto di quello patrimoniale. 

 Sarebbe interessante approfondire in linea teorica il rapporto reciproco (cioè la cumulabilità processuale) tra le azioni basate su ciascuna delle norme citate al punto 3 (soprattutto di quelle da 1 a 3 del punto 3)

Il marchio “BIG MAC” di McDonald’s è stato annullato per mancato uso quinquennale

Su istanza della irlandese Supermac’s di Galway,  titolare -sembra- di una catena di fast food dislocati per l’intera Irlanda, l’ufficio europeo EUIPO ha annullato (rectius: ha dichiarato decaduto: v. dopo; in inglese revoked) per mancato uso quinquennale il marchio denominativo << BIG MAC >> , di cui era titolare il gigante statunitense McDonald’s.

La norma applicata è stata quella di cui all’art. 58 del reg. (UE) 2017/1001 del 14 giugno 2017 sul marchio dell’Unione europea (la nostra norma nazionale corrispondente è l’art. 24 co. 1  cod. propr. ind. , d. lgs. 30 / 2005).

Il marchio era stato inizialmente registrato il 22 dicembre 1998 e l’istanza di annullamento era stata depositata l’11 aprile 2017: quindi McDonald’s avrebbe dovuto il provare l’uso effettivo (genuine, in inglese) nei 5 anni anteriori e cioè dall’ 11 aprile 2012 fino al 10 aprile 2017.

L’istanza dell’impresa irlandese ha riguiardato tutti i prodotti e servizi coperti dalla registrazione:

<< Class 29: Foods prepared from meat, pork, fish and poultry products, meat sandwiches, fish sandwiches, pork sandwiches, chicken sandwiches, preserved and cooked fruits and vegetables, eggs, cheese, milk, milk preparations, pickles, desserts.

Class 30: Edible sandwiches, meat sandwiches, pork sandwiches, fish sandwiches, chicken sandwiches, biscuits, bread, cakes, cookies, chocolate, coffee, coffee substitutes, tea, mustard, oatmeal, pastries, sauces, seasonings, sugar.

Class 42: Services rendered or associated with operating and franchising restaurants and other establishments or facilities engaged in providing food and drink prepared for consumption and for drive- through facilities; preparation of carry-out foods; the designing of such restaurants, establishments and facilities for others; construction planning and construction consulting for restaurants for others.>>

La parte più interessante della decisione è quella inerente la qualità del materiale istruttorio offerto da McDonald’s: è opportuno che imprese e  loro  consulenti la tengano ben presente.

A dispetto della grandissima notorietà del segno distintivo, l’Ufficio (Cancellation Division) ha ritenuto il materiale probatorio/documentale insufficiente a provare l’uso effettivo in quanto o di provenienza interna a McDonald’s, e quindi poco persuasivo, oppure non comprovante l’uso effettivo in termini di dimensioni dell’uso stesso (quante vendite, a chi, dove …). 

Altro aspetto interessante è stato il cenno alla presenza su Wikipedia. Le  voci ivi presenti non sono state considerata fonte affidabile di informazione, poiché, potendo essere corrette dagli utenti di Wikipedia,  vanno considerate rilevanti solo se sostenute da altre prove indipendenti .

La decadenza ha effetto a partire dalla data dell’istanza e cioè dal 11 aprile 2017 e concerne il marchio per intero (in its entirety).

Il provvedimento di decadenza, titolato Cancellation No 14 788 C, è stato emesso dalla Sezione di Annullamento (Cancellation Division) in data 11.01.2019  e riguarda il marchio n° 62638; è leggibile quiqui oppure può essere cercato nel database dei cases dell’EUIPO, che porta alla seguente scheda.

McDonalds ha ora due mesi di tempo per ricorrere, ai sensi dell’art. 68 del reg. medesimo (sempre in via amministrativa) , per poi eventualmente adire il Tribunale della Corte di Giustizia UE (art. 72)

Infine, può essere di interesse vedere, da un lato, quanti marchi esistono contenenti  le parole Big Mac (o solo Mac, che non è detto abbia il medesimo valore distintivo) e, dall’altro, di quanti ne sia titolare McDonald’s: basta una ricerca in altro data base dell’EUIPO.  

Questioni di governance nelle società quotate: clausola simul stabunt simul cadent, abusività delle dimissioni dei consiglieri e impugnabilità delle delibere del collegio sindacale

I media hanno dato risalto ad un provvedimento cautelare del 24 aprile 2018 del tribunale di Milano concernente il contenzioso  all’interno della governance di Tim spa (cioè soprattutto tra il socio Vivendi e il socio Elliott).

E’ accaduto che -dopo una  convocazione dell’assemblea sociale per il 24 Aprile 2018- alcuni soci avessero formulato una richiesta di integrazione dell’ordine del giorno (ex art. 126 bis t.u.f.), avente ad oggetto la revoca di sei amministratori e la loro sostituzione.  Alla luce di questa istanza, detti sei amministratori più un altro (tutti di nomina Vivendi) si dimettevano “con decorrenza dal 24 aprile 2018” (non è chiara la data di invio e di ricezione dell’atto unilaterale di rinuncia), mentre un ottavo ed ultimo amminstratore (sempre di nomina Vivendi) si dimetteva con decorrenza immediata e cioè dalla chiusura dei lavori di quella di riunione consiliare.

Ciò secondo il CDA faceva scattare l’operatività della clausola statutaria simul stabunt simul cadent, dato che le dimissioni avevano riguardato la maggioranza degli amministratori (otto su quindici). Pertanto il CDA, con delibera 22 marzo 2018, si asteneva dall’integrare l’agenda dei lavori assembleari del seguente 24 aprile, ritenendo “superata” la richiesta in tal senso del socio Elliott, e convocava una separata assemblea per il rinnovo totale del CDA da tenersi il successivo 4 maggio.

La clausola statutaria predetta così recita: “Ogni qualvolta la maggioranza dei componenti del CDA venga meno per qualsiasi causa o ragione, i restanti Consiglieri si intendono dimissionari e la loro cessazione ha effetto dal momento in cui il CDA è stato ricostituito per nomina assembleare

Il socio, che aveva chiesto l’integrazione dell’ordine del giorno (Elliott), non si dava per vinto e indirizzava la richiesta di integrazione al collegio sindacale (ex art. 126 bis comma 5 t.u.f., verosimilmente) , affermando l’inapplicabilità’ della clausola simul stabunt simul cadent per la <<abusività manifesta>> delle dimissioni dei consiglieri,  “in quanto volte ad impedire agli azionisti di Tim Spa il voto sulle proposte di Elliot”.

Il collegio sindacale accoglieva l’istanza e provvedeva ad integrare  l’ordine del giorno come richiesto dal socio Elliot (presumibilmente ravvisando i propri poteri sempre nel comma 5 del predetto art. 126 bis tuf , che implicitamente ma sicuramente li prevede).

A sua volta però nemmeno il CDA si dava per vinto e deliberava a maggioranza di dissociarsi dalla decisione del collegio sindacale e di intraprendere azioni legali, impugnando proprio la delibera del collegio sindacale. L’impugnazione era proposta sia dal consiglio di amministrazione che da alcuni amministratori in proprio che, infine, dal socio Vivendi

I profili di maggior rilievo riguardanti il provvedimento sono i seguenti:

1) Sulla non operatività della clausola simul stabunt simul cadent per abusività delle dimissioni – Il tribunale pare ammettere la possibilità teorica di ravvisare abusività nelle dimissioni, anche se non la ravvisa nel caso specifico. Afferma infatti che <<non  paiono ravvisabili i presupposti per configurare quale abusiva la condotta in discussione vale a dire … l’insussistenza dell’interesse per il quale è riconosciuto il diritto e il perseguimento di interessi diversi lesivi di altrui posizioni>> .

Il tribunale non dà importanza al fatto che la sostituzione parziale avrebbe comportato la votazione col sistema  maggioritario, mentre l’innesco della clausola simul stabunt simul cadent avrebbe comportato l’innesco del sistema c.d. di lista.

Per un precedente, nel quale invece è stata accertata l’abusività delle dimissioni in presenza di clausola simul stabunt simul cadent , v. Trib. Bologna sez. spec. 19.12.2017 n. 2788/2017, RG 8639/2015 (v. i sette <<elementi indiziari>> ritenuti gravi, precisi e concordanti: p. 4). Qui il giudice, però, ha concesso tutela obbligatoria, non reale. L’effetto giuridico valorizzato, infatti, è stato solo quello del risarcimento del danno per revoca priva di giusta causa, avendo ravvisato nelle dimissioni un aggiramento dell’obbligo risarcitorio ex art. 2383 co. 3 c.c. Tuttavia, se di abusività si fosse realmente trattato, avrebbe dovuto essere annullato o dichiarato nullo (o comunque espunto dal mondo giuridico) l’effetto estintivo del rapporto di amministrazione, proprio dell’atto di rinuncia combinato con la clausola statutaria. Effetto estintivo, che è invece rimasto (la statuzione giudiziale non l’ha toccato) : semplicemente, si è ad esso aggiunto l’effetto risarcitorio. Allora le dimissioni concordate, più che un abuso del relativo istituto (e della clausola statutaria), paiono da inquadrare nella figura del procedimento indiretto in frode alla legge. Infatti la predetta  norma, fonte dell’obbligo risarcitorio, va ritenuta, da un lato, imperativa ex art. 1344 c.c. e, dall’altro, applicabile anche agli atti unilaterali quali sono le dimissioni (ex art. 1324 c.c.; salvo addirittura ravvisare, anzichè atti unilaterali isolati, un complessivo concerto e quindi un contratto) . 

2) Sulla inutilità del rinnovo parziale, dovendosi provvedere al rinnovo totale del cda – Il tribunale, alla luce della non abusività delle dimissioni e quindi riconoscendo l’operatività della clausola simul stabunt simul cadent, condivide la tesi degli impugnanti (CdA , singoli amministratori e socio Vivendi). Secondo tale tesi, è da ritenere “superata” l’istanza di integrazione dell’ordine del giorn (volta alla sostituzione parziale del cda) , dato che si deve procedere alla sostituzione dell’intero CDA nella successiva delibera di maggio (cioè pochi giorni dopo la data dell’assemblea prima convocata). Dice infatti il Tribunale che  “tale innesco [della clausola statutaria] comporta la necessità di integrale rinnovo del cda, senza la possibilità di procedere a sostituzioni parziali interinali”.

L’affermazione è però di dubbia esattezza. Infatti, rimuovere gli amministratori con efficacia immediata, come avviene con la revoca, anziché lasciarli in carica quantomeno fino all’assemblea convocata per seconda (cioè per 11 giorni) in regime di prorogatio (che non riduce minimamente i poteri ordinari, secondo l’opinione prevalente), può fare una notevole differenza in pratica.

Questo naturalmente presuppone aver risolto in una precisa direzione la questione della data di efficacia delle dimissioni : presuppone cioè che sia esatto individuarla nella data dell’assemblea seconda convocata, anzichè della prima (o magari ancor prima: efficacia immediata?) , questione non semplicissima (v. sotto). Nella seconda ipotesi, infatti, la delibera di revoca di chi è già cessato avrebbe un oggetto impossibile.

3) Sulla impugnabilità delle delibere del collegio sindacale – Altro punto importante è l’affermazione  di impugnabilità delle delibere del collegio sindacale. Pur mancando norma ad hoc , la corte milanese la afferma , seppure limitatamente  <<a specifici casi eccezionali rispetto alle normali manifestazioni del potere di controllo, produttive di effetti diretti rispetto alla organizzazione societaria ovvero rispetto alla posizione di singoli soci>>.  Questo tipo di delibere, infatti, avendo [eccezionalmente] “un contenuto propriamente gestorio”, non potrebbero sottrarsi alla regola generale della impugnabilità.

Sorge allora il problema di capire chi vi sia legittimato. Il Tribunale afferma la legittimazione in capo sia al consiglio di amministrazione, che ai suoi membri [individualmente],  che al socio Vivendi. In particolare l’impugnabilità del socio viene affermata ravvisando la lesività di un suo diritto ex art. 2388 penult. co. c.c., ritenuto applicabile al caso sub iudice. La lesività della delibera sindacale concernerebbe “l’esercizio del proprio diritto di voto in tema di nomina degli amministratori secondo il metodo di lista, previsto per il caso di rinnovo dell’intero CDA, esercizio che, sempre secondo l’attrice, sarebbe appunto impedito dalla delibera impugnata, indebitamente ammissiva di un odg assembleare invece comportante la sostituzione di una parte degli amministratori con il metodo maggioritario”.

Sì osservi che la rilevanza del  cambio di metodo di votazione viene riconosciuta a quest’ultimo proposito (legittimazione del socio Vivendi ad impugnare la delibera sindacale), mentre viene disconosciuta in relazione alla abusività delle dimissioni consiliari allegata da Elliott (come accennato sopra).

4) Sulla data di decorrenza della cessazione dalla carica –  Altra questione importante è quella della individuazione della data di decorrenza della cessazione degli amministratori, sia dei dimissionari (dimissionari “diretti”) che di quelli rimanenti, i quali però cessano per l’efficacia riflessa prodotta dal congiunto operare delle dimissioni dei primi e del patto  simul stabunt simul cadent (dimissionari “di riflesso”).

È curioso che i dimissionari “diretti” abbiano indicato una data di decorrenza delle proprie dimissioni e l’abbiano indicata in quella della prima assemblea cioè del 24 aprile , quando :  da un lato essi non hanno certo il potere di scegliere la data di decorrenza (dipendendo dalla disciplina legale o statutaria); dall’altro, il momento esatto è eventualmente quello della ricostituzione del CdA, che sarebbe dovuta in ipotesi avvenire in occasione (anzi, al fruttuoso termine) dell’assemblea del 24 aprile, più che nel giorno 24 aprile in sè.  

A parte ciò, l’importante è individuare la predetta decorrenza. Normalmente ed auspicabilmente verrà disciplinata in sede statutaria, ciò che è certamente possibile. Il problema è individuarla quando lo statuto nulla dica in proposito. La regola di legge (art. 2386 co. 4), circa gli amministratori dimissionari “di riflesso”, prevede il regime della prorogatio, toccando quindi ad essi convocare l’assemblea dei soci e provvedere alla ordinaria amministrazione. Lo statuto però può derogarvi e prevedere (v. il richiamo al comma quinto presente nel comma quarto dell’art. 2386) l’immediata cessazione di tutto il cda, provvedendo in tale caso i sindaci a convocare l’assemblea   e alla ordinaria amministrazione.

Per gli amministratori dimissionari “diretti” invece – in mancanza di regola statutaria- la soluzione potrebbe astrattamente e alternativamente porsi nell’estendere loro lo stesso regime dei dimissionari in via riflessa oppure nell’applicare il regime proprio delle dimissioni, posto dall’art. 2385 cc. E’ più persuasiva la seconda alternativa (anche se è da vedere quanto diversi sarebbero gli esiti adottando la prima). Così ragionando allora, si nota che l’art. 2385 distingue tra permanenza o meno in carica della maggioranza del cda , a seguito delle dimissioni. Ne segue che, nel caso sub iudice, ricorrendo l’ipotesi negativa, l’efficacia della rinuncia per i dimissionari “diretti” si produrrebbe a partire dalla ricostituzione della maggioranza del cda con l’accettazione dei nuovi amministratori (art. 2385 co.1 ult. parte):  il che avverrebbe nell’assemblea convocata per seconda (4 maggio 2018) e non il 24 aprile, data della assemblea inizialmente convocata e data indicata nell’atto di dimissioni.

Questo come disciplina legale di default; resta però da capire se sul punto dica qualcosa la pattuizione statutaria citata.

5) Sulla legittimità dell’intervento dei sindaci – Il loro intervento è di dubbia legittimità. L’art. 126 bis. co. 5 t.u.f. , infatti, lo prevede per il caso di “inerzia” dell’organo di amministrazione; nel caso in esame, però , il CDA non è stato inerte, ma ha esaminato e rigettato motivatamente l’istanza del socio. E’ difficile far rientrare questa condotta attivo/commissiva nel concetto di “inerzia”, che si riferisce ad una condotta passiva/omissiva.

La dottrina non ha mancato di rilevare questo profilo: lo solleva ad es. V. Pettirossi, Configurabilità e limiti del dovere di reazione dei sindaci di società per azioni, Riv. dir. comm., 2018/3, 515 ss. a p. 541, che richiama in tale senso il parere pro veritate  09.04.2018 fornito al CdA di  TIM  da prof. Portale-avv. Purpura-prof. Frigeni (§ 5 e spt. p. 21; vedilo nel sito di TIM) , sub <<Pareri legali acquisiti dal Consiglio di Amministrazione>>).

Si potrebbe forse pensare ad una estensione del concetto di “inerzia” per comprendervi pure: i) il rifiuto esternato ma non motivato; ii) il rifiuto sì motivato ma con motivazione palesemente inconsistente (e così pure, tra l’altro, per il “non provvedono” dei Sindaci, che dà titolo per adire il Tribunale, sempre nel medesimo co. 5).  L’ipotesi, però, ad una prima riflessione non è particolarmente convincente, soprattutto per il secondo caso (palese inconsistenza): ciò sia per il tenore letterale della norma, sia perchè rimarrebbe a difesa dei soci istanti l’impugnabilità della seguente delibera assembleare perchè non presa in conformità alla legge (art. 2377 c.c.; anche se -va detto- le due possibilità sono assai diverse nei rispettivi effetti pratici). Se il legislatore avesse voluto comprendere anche i due casi ipotizzati, è lecito pensare che l’avrebbe esplicitato: soprattutto tenendo conto del fatto che negli scorsi anni ci sono state più occasioni per introdurre novelle legislative sul punto (ad es. quella generale del 2003 -v. infatti l’analoga norma del’art. 2367/2 c.c. Convocazione su richiesta dei soci- e quella più settoriale del 2012, con riferimento all’art. 126 bis  t.u.f.).

Si potrebbe in ogni caso esaminare l’intepretazione del concetto di “omissione o ingiustificato ritardo” degli amministratori nel convocare l’assemblea , che fa scattare il dovere sostitutivo dei sindaci (art. 2406 c.c.). Quello qui esaminato, in fondo, ne è un’applicazione.

6) è strano che nessuno abbia impugnato la delibera del CDA 22.03.2018, come ci si sarebbe aspettati.