Obbligo di manutenzione del guardrail da parte della PA ex art. 2051 cc

Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 24/04/2024) 03/05/2024, n. 11.950, rel. Gianniti:

Principio di diritto:

La P.A. che, pur avendo collocato una barriera laterale di contenimento per diminuire la pericolosità di un tratto stradale, non curi di verificare che la stessa non abbia assunto nel tempo una conformazione tale da costituire un pericolo per gli utenti ed ometta di intervenire con adeguati interventi manutentivi al fine di ripristinarne le condizioni di sicurezza, viola sia le norme specifiche che le impongono di collocare barriere stradali nel rispetto di determinati standard di sicurezza, sia i principi generali in tema di responsabilità civile“.

E poi:

<< Questa Corte, con ordinanza 01/02/2018, n. 2482 (e, nello stesso senso, con ordinanze nn. 2479 e 2480 del 2018) ha avuto modo di precisare che:

“In tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione – anche ufficiosa – dell’art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro”.

Tale principio di diritto – successivamente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 27724/2018; n. 20312/2019; n. 38089/2021; n. 35429/2022; nn. 14228 e 21675/2023), anche a Sezioni Unite (Cass. n. 20943/2022) – è stato poi ancor più di recente riaffermato, statuendosi (Cass. n. 11152/23) che la responsabilità ex art. 2051 c.c. ha natura oggettiva – in quanto si fonda unicamente sulla dimostrazione del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, non già su una presunzione di colpa del custode – e può essere esclusa:

a) dalla prova del caso fortuito (che appartiene alla categoria dei fatti giuridici), senza intermediazione di alcun elemento soggettivo, oppure

b) dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di un terzo (rientranti nella categoria dei fatti umani), caratterizzate, rispettivamente, la prima dalla colpa ex art. 1227 c.c. (bastando la colpa del leso: Cass. n. 21675/2023) o, indefettibilmente, la seconda dalle oggettive imprevedibilità e imprevenibilità rispetto all’evento pregiudizievole.

In particolare, questi ultimi concetti vanno intesi, come già chiarito, non nel senso della assoluta impossibilità di prevedere l’eventualità di una condotta imprudente, negligente o imperita della vittima (che è, ovviamente, sempre possibile), ma nel senso del rilievo delle sole condotte “oggettivamente” non prevedibili secondo la normale regolarità causale, nelle condizioni date, in quanto costituenti violazione dei doveri minimi di cautela la cui osservanza è normalmente prevedibile (oltre che esigibile) da parte della generalità dei consociati e la cui violazione, di conseguenza, è da considerarsi, sul piano puramente oggettivo della regolarità causale (non quindi, con riferimento al piano soggettivo del custode), non prevedibile né prevenibile.

I principi di diritto sin qui esposti risultano, nella loro sostanza, espressamente richiamati, condivisi e fatti propri dalla corte d’appello, nella decisione impugnata.

Invero, la corte – dopo aver rilevato che non può essere condotta abnorme quella del conducente che impatta violentemente contro il guardrail, il quale è funzionalmente posto ad attutire le conseguenze degli impatti violenti; e che, come accertato dal ctu, “è più probabile che non” che l’autovettura non potesse sfondare un guardrail in buono stato di manutenzione e continuo, per cui “diverse sarebbero state le conseguenze derivanti dall’urto contro una barriera integra e in buono stato di manutenzione” – facendo buon governo dei principi affermati da questa Corte in tema di concorso di cause, da un lato, ha affermato che: “la mancanza di continuità della barriera guardrail nel tratto di strada interessato ha consentito il verificarsi del sinistro, aggravando in concreto le conseguenze dannose, ponendosi, dunque, come condizione necessaria dell’evento” e, dall’altro, ha escluso che “la causa remota, costituita dalla condotta di guida tenuta dal E.E. (velocità ed impatto contro il guardrail), fosse connotata da peculiarità tali da porsi come antecedente imprevedibile né da sola era idonea a determinare l’evento, che, non si sarebbe verificato, ove la barriera di protezione fosse stata continua e in buono stato di manutenzione”.

La piena conformità della conclusione della corte territoriale ai principi sopra ricordati, applicati in esito a ricostruzioni fattuali non sindacabili in quanto tali nella presente sede di legittimità (siccome scevre da evidenti vizi logici o giuridici), conduce alla conclusione di infondatezza delle doglianze dell’ente ricorrente  >>.

E’ abuso del processo agire per il danno da uccisione del padre dapprima e della madre poi, cagionati dalla medesima condotta?

risponde di si Cass. civ. sez. III, ord. 26 Marzo 2024 n. 8.217, est. Rossetti:

<<2. Tutte le suddette censure sono inammissibili ex art. 360 bis, n. 1, c.p.c..
Senza alcun reale sforzo per vincere le motivazioni dell’orientamento
consolidato, i ricorrenti si dilungano a sostenere di essere stati vittime di “due
fatti illeciti”, e che di conseguenza legittima fu la loro duplice iniziativa
giudiziaria.
Deve tuttavia osservarsi in senso contrario che il “fatto” illecito è stato uno
soltanto: la condotta dell’ignoto conducente il quale causò il sinistro. La
circostanza che per effetto di tale condotta abbiano perso la vita due persone
non vuol dire che siano stati commessi due illeciti, ma che la medesima
condotta ha causato a ciascuno dei congiunti delle vittime due danni.
Questi danni, per di più, sono stati patiti dalle medesime persone, e nulla
avrebbe impedito loro di domandare il risarcimento del danno non
patrimoniale patito tanto per la morte del padre, quanto per la morte della
madre.
Quello in esame rappresenta dunque un caso di scuola di abuso del processo>>.

Soluzione probabilmente esatta

Licenza di marchio quando il licenziante è una comunione (anzichè una titolarità singolare): il caso Acanfora/Legea torna in Cassazione dopo la pausa alla Corte di Giustizia

Acanfora/Legea è il leading case sul tema in oggetto.

Dopo la sosta europea , torna in Italia presso il giudice remittente e viene deciso da  Cass. sez. I, sent. 19/04/2024  n. 10.637, rel. Terrusi, che, applicando l’interpretazione della CGUE, cassa con rinvio alla corte di appello napoletana.

<<XI. – Sennonché la sottostante questione di diritto va risolta in senso esattamente opposto, in base alla considerazione – di matrice dottrinale ma in certo qual senso già presente in giurisprudenza – per cui la concessione di licenze esclusive a terzi è un atto dispositivo del marchio, poiché, alterando la destinazione della cosa e impedendo agli altri partecipanti alla comunione di farne uso, incrina l’esclusività del diritto che è tipica della privativa.

Invero, se disposta a maggioranza, la concessione di licenze esclusive sul marchio è lesiva dei diritti di esclusiva dei dissenzienti.

La concessione in licenza implica infatti uno sfruttamento indiretto del bene immateriale. E lo sfruttamento indiretto è idoneo a vulnerare l’esclusiva che i titolari dissenzienti avrebbero diritto a mantenere integra.

Ne segue che quale che sia la durata della concessione (infra o ultranovennale o a tempo indeterminato) e la modalità (gratuita o meno) dell’attribuzione a terzi del diritto di utilizzazione in via esclusiva del marchio, quell’attribuzione, proprio perché esclusiva, implica un atto di disposizione giuridica suscettibile di un medesimo unico trattamento.

Poiché ogni decisione inerente allo sfruttamento del diritto comune di proprietà industriale è astrattamente idonea a pregiudicare l’interesse di ciascuno dei contitolari a preservare l’integrità del proprio diritto, la regola che viene in rilievo è quella posta dall’art. 1108, primo e terzo comma, cod. civ. per il modello degli atti pregiudizievoli; quegli atti che – come per es. l’alienazione o la costituzione di diritti reali, o anche la locazione ultranovennale -segnando il limite di compromissione del diritto “di alcuno dei partecipanti”, richiedono l’unanimità dei consensi.

Considerando poi che nella concessione del marchio a terzi è normalmente radicata proprio la concessione del diritto di esclusiva, essendo codesto un predicato della funzione del segno, il principio non può che comportare – nell’ottica dell’art. 6 del c.p.i. – una soluzione opposta a quella sostenuta dalla corte d’appello di Napoli>>.

Poi i principi affermati:

<<XIII. – Vanno quindi affermati i seguenti principi:

– in caso di comunione sul marchio, il contratto di licenza d’uso a terzi in via esclusiva richiede, per il suo perfezionamento, il consenso unanime dei contitolari, perché la concessione al licenziatario dell’esclusiva priva i contitolari del godimento diretto dell’oggetto della comunione, e dunque rileva secondo il disposto dell’art. 1108, primo e terzo comma, cod. civ.;

– ove la licenza sia stata concessa in via esclusiva con l’accordo unanime dei titolari è sempre possibile il venir meno della volontà di prosecuzione di uno dei medesimi, il quale non è vincolato in perpetuo alla manifestazione originaria; tale circostanza implica la necessità di rinegoziare l’atto mediante una nuova concessione, da concordare ancora una volta con unanimità dei consensi>>.

Il primo principio è esatto. Il secondo invece suscita serie perplessità: anzi pare errato, trascurando nella sua assolutezza la regole negozialmente pattuite, che non possono venire caducate dal ripensamento di un contitolare licenziante.

Sul danno per protratta (cinque mesi) inutilizzabilità del numero telefonico in atvitià commerciale

Cass. sez. III, ord. 23/04/2024  n. 10.885, rel. Moscarini:

fatto:

<<La società Italia Trasporti Srl (di seguito Italia Trasporti) convenne in giudizio davanti al Giudice di Pace di S la società Wind Telecomunicazioni Spa (di seguito Wind) per ivi sentirla condannare al risarcimento dei danni subìti in conseguenza della mancata attivazione di un contratto telefonico e della conseguente interruzione della linea telefonica perdurata dal mese di settembre 2011 al febbraio 2012>>.

Diritto astratto e applicato al caso:

<<Come questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di somministrazione del servizio di telefonia, il danno da perdita della possibilità di acquisire nuova clientela conseguente al mancato o inesatto inserimento nell’elenco telefonico dei dati identificativi del fruitore si configura come perdita di chance, atteso che esso non consiste nella perdita di un vantaggio economico ma in quella della possibilità di conseguirlo (v. Cass., 20/11/2018, n. 29829).

Trattandosi di un genere di pregiudizio caratterizzato dall’incertezza, è sufficiente che lo stesso sia provato in termini di “possibilità” (la quale deve tuttavia rispondere ai parametri di apprezzabilità, serietà e consistenza) e ne è consentita la liquidazione in via equitativa” (Cass., 3, n. 14916 dell’8/6/2018; Cass. 04/08/2017, n. 19497; Cass. 03/08/2017, n. 19342), non essendo al riguardo necessario dimostrare l’avvenuta contrazione dei redditi del danneggiato, che può incidere sulla quantificazione del danno ma non escluderne la sussistenza (v. Cass., 29/9/2023, n. 27633).

Si è altresì precisato che tale diritto ha, in tutta evidenza, maggiore pregnanza allorquando l’utenza telefonica afferisca ad un’attività professionale o commerciale (Cass. 03/08/2017, n. 19342); né l’esistenza del danno può essere negata per il solo fatto – rilevato dalla Corte territoriale – che non siano stati depositati documenti fiscali a dimostrazione del decremento reddituale; tale omissione può certamente incidere sulla liquidazione del risarcimento, ma non consente di escludere che un danno vi sia comunque stato in ragione di ciò che, in mancanza della condotta d’inadempimento del gestore, l’utente in via di ragionevole probabilità avrebbe potuto invero conseguire; e che tale danno possa essere liquidato in via equitativa (Cass., 29/9/2023, n. 27633; Cass. n. 19497 del 2017).

Si è al riguardo sottolineato che la liquidazione equitativa dei danni è dall’art. 1226 c.c. rimessa al prudente criterio valutativo del giudice di merito non soltanto quando la determinazione del relativo ammontare sia impossibile ma anche quando la stessa, in relazione alle peculiarità del caso concreto, si presenti particolarmente difficoltosa (v. Cass., 4/4/2019, n. 9339; Cass., 9/5/2003, n. 7073; Cass., 17/5/2000, n. 6414. E già Cass., 4/7/1968, n. 2247), il giudice potendo fare ricorso al criterio della liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c. anche senza domanda di parte, trattandosi di criterio rimesso al suo prudente apprezzamento, e tale facoltà può essere esercitata d’ufficio pure dal giudice di appello (v. Cass., 5/5/2021, n. 2831; Cass., 24/1/2020, n. 1636. E già Cass., 17/11/1961, n. 2655).

Orbene, nell’impugnata sentenza il giudice dell’appello ha invero disatteso i suindicati principi.

Pur riconoscendo la sussistenza dell’inadempimento dell’odierna controricorrente, anziché far luogo alla valutazione equitativa del danno, cui il giudice può addivenire anche d’ufficio (v. Cass., …), esso ha negato il risarcimento del danno per “evidente difetto di allegazione da parte dell’attrice in primo grado, che non ha dedotto quali siano stati in concreto i danni asseritamente patiti per effetto della temporanea mancata fruizione della linea telefonica”, “non ha né specificato né provato i danni da essa sofferti a causa del dedotto inadempimento contrattuale della Wind”, ritenendo al riguardo inidoneo “il c.d. estratto conto clienti” a “provare gli asseriti danni sub specie perdite di commesse da parte dei clienti”, e “del tutto erronea” la “liquidazione equitativa del danno effettuata dal Giudice di prime cure … poiché effettuata in assenza dei presupposti di legge”,”non avendo parte attrice in primo grado … offerto alcun elemento obiettivo a cui ancorare una tale liquidazione equitativa del danno da parte del Giudice”.

Dell’impugnata sentenza s’impone pertanto la cassazione in relazione, con rinvio al Tribunale di Nola, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo dei suindicati disattesi principi applicazione>>.

I limiti alla privativa da nuova varietà vegetale sono di ordine pubblico e quindi non sono derogabili contrattualmente

Cass. sez. I, sent. 09/04/2024 n. 9.429, rel. Campese, con sentenza importante per  i) la rarità di interventi sul tema, ii) l’importanza del tema trattato (varietà agricole) , iii) per il resoconto analitico della prassi contrattuale in questo settore poco conosciuto.

La motivazione però è troppo scarna circa il punto focale, cioè la derogabilità dell’art. 13 reg. 2100/94 (da noi art. 107 c.p.i.).

Disposizione che recita:

<< Articolo 13 – Diritti dei titolari della privativa comunitaria per ritrovati vegetali e atti vietati

1. In virtù della privativa comunitaria per ritrovati vegetali il titolare o i titolari di tale privativa, in appresso denominati «il titolare», hanno facoltà di effettuare in ordine alle varietà gli atti elencati al paragrafo 2.

2. Fatte salve le disposizioni degli articoli 15 e 16, gli atti indicati in appresso effettuati in ordine a costituenti varietali, o al materiale del raccolto della varietà protetta, in appresso denominati globalmente «materiali», richiedono l’autorizzazione del titolare:

a) produzione o riproduzione (moltiplicazione),

b) condizionamento a fini di moltiplicazione,

c) messa in vendita,

d) vendita o altra commercializzazione,

e) esportazione dalla Comunità,

f) importazione nella Comunità,

g) magazzinaggio per uno degli scopi di cui alle lettere da a) a f).

Il titolare può subordinare la sua autorizzazione a determinate condizioni e limitazioni.

3. Le disposizioni del paragrafo 2 si applicano a prodotti del raccolto soltanto qualora essi siano stati ottenuti mediante un’utilizzazione non autorizzata dei costituenti varietali della varietà protetta e a meno che il titolare abbia avuto una congrua opportunità di esercitare il suo diritto in relazione ai suddetti costituenti varietali>>.

Il contratto dava i diritti sui frutti al titolare della privativa, derogando al c. 3 cit. che invece glieli riserva solo alle condizioni ivi previste (nel caso specifico non ricorrenti).

Ebbene la SC dice che da un lato la corte di appello sbagliò nel riconoscere i diritti sui frutti al titolare, vista la disposizione cit. (§ 4.13).     Non dice però perchè sbagliò, dato che ci fu un esplicito patto contrattuale.

Dall’altro esamina la natura della disposizione de qua come norma di ordine pubblico, che costiutisce il fulcro della lite. Se tale è, allora, il patto derogatorio è nullo e così pure il lodo arbitrale che lo ritenne valido.

Purtroppo su quest’ultimo punto la SC si limita a rinviare alle conclusioni del procuratore generale (§ 4.15), qui ripetute:

<<4.15. Fermo quanto precede, ritiene il Collegio che, al fine di configurare la nullità per contrarietà all’ordine pubblico (per violazione di norme imperative sancite dall’art. 13 del Regolamento (CE) 2100/94, posto che il giudice, nel ricercare i principi fondamentali dell’ordinamento italiano, deve tener conto anche delle regole e dei principi entrati a far parte del nostro sistema giuridico in virtù del suo conformarsi ai precetti del diritto internazionale, sia generale che pattizio, e del diritto dell’Unione europea) di una pattuizione come quella complessivamente derivante dalle già riportate clausole contrattuali nn. 3.4 e 4.2. del Contratto Principale suddetto, così da considerare la descritta statuizione del lodo definitivo, a sua volta, contraria all’ordine pubblico, rendendone ammissibile, pertanto, l’impugnazione della stessa avanti alla corte d’appello, secondo quanto previsto dal vigente art. 829, comma 3, cod. proc. civ., è sufficiente, da un lato, osservare, condividendosi quanto si legge nella requisitoria scritta del sostituto procuratore generale, che “richiamata la costruzione concettuale dell’ordine pubblico come l’insieme delle norme fondamentali e cogenti dell’ordinamento dettate a tutela di interessi generali, comprese quelle costituzionali e quelle che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità internazionale in un determinato momento storico, è decisivo considerare che il riconoscimento in favore del titolare della varietà vegetale di un diritto di proprietà su piante e frutti realizzati dalla controparte in conseguenza dell’utilizzo autorizzato dei costituenti varietali integri una lesione dei principi attinenti allo sviluppo dell’attività agricola ed alla libera concorrenza”. Dall’altro, e soprattutto, ribadire le chiare argomentazioni della sentenza CGUE ampiamente illustrata in precedenza laddove ha affermato che dal quinto, dal quattordicesimo e dal ventesimo considerando del Regolamento (CE) 2100/94 “risulta che, sebbene il regime istituito dall’Unione sia inteso a concedere una tutela ai costitutori che sviluppano nuove varietà al fine di incentivare, nell’interesse pubblico, la selezione e lo sviluppo di nuove varietà, tale tutela non deve andare oltre quanto è indispensabile per incentivare detta attività, a pena di compromettere la tutela degli interessi pubblici costituiti dalla salvaguardia della produzione agricola, l’approvvigionamento del mercato di materiale che presenti determinate caratteristiche o di compromettere l’obiettivo stesso di continuare ad incoraggiare la selezione costante di varietà migliorate. In particolare, secondo il combinato disposto del diciassettesimo e del diciottesimo considerando di detto regolamento, la produzione agricola costituisce un interesse pubblico che giustifica l’assoggettamento a restrizioni dell’esercizio dei diritti conferiti dalla privativa comunitaria per ritrovati vegetali. Al fine di rispondere a tale obiettivo, l’articolo 13, paragrafo 3, del regolamento n. 2100/94 dispone che la tutela conferita dal paragrafo 2 di tale articolo al titolare di una privativa comunitaria per ritrovati vegetali si applica soltanto a determinate condizioni ai “prodotti del raccolto”. (…). Inoltre, l’interesse pubblico connesso alla salvaguardia della produzione agricola, di cui al diciassettesimo e al diciottesimo considerando del regolamento n. 2100/94, sarebbe potenzialmente rimesso in discussione se i diritti conferiti al titolare di una privativa comunitaria per ritrovati vegetali dall’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), del regolamento n. 2100/94 si estendessero, indipendentemente dalle condizioni di cui al paragrafo 3 di tale articolo, al materiale del raccolto della varietà protetta che non può essere utilizzato a fini di moltiplicazione” >>.

Da un lato nascono perplessità su una motivaiozne costituita in toto e solo dal rinvio testuale alle conclusioni di una parte (del processo di legittimità, non della lite: v. Carmelo Sgroi sul tema del PG in Cassazione).

DAll’altro e più imporante, il reg. UE e i suoi considerando spiegano sì la disposizione, ma nulla dicono sulla sua inderogabilità. Si può forse inferirla , ma solo forse.

In ogni caso la SC avrebbe dotuvo offrire tale inferenza e in modo persuasivo. Sostanzialmente, allora, la decisione è immotivata.

Cessione di locazione commerciale e soggetto responsabile per i canoni (art. 36 L. 392/78)

Cass. sez. III, ord. 19/02/2024  n.4.405, rel. Tassone, contiene utili precisazioni per la pratica sul tema:

<<4.1. Tanto premesso, questa Corte, con orientamento cui si intende dare continuità, ha già avuto modo di affermare che “in caso di cessione del contratto di locazione (contestualmente a quella dell’azienda) effettuata ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 36, senza il consenso del locatore, mentre tra (l’unico) cedente e (l’unico) cessionario intercorre un vincolo di responsabilità sussidiaria (contraddistinta dal beneficium ordinis, che consente, perciò, al locatore di rivolgersi al cedente, con l’esperimento delle relative azioni giudiziali per il soddisfacimento delle obbligazioni inerenti il suddetto contratto, solo dopo che si sia configurato l’inadempimento del cessionario), nell’ipotesi di verificazione di plurime cessioni a catena, caratterizzate ciascuna dalla dichiarazione di non liberazione dei distinti cedenti, viene a configurarsi tra tutti i cedenti “intermedi” del contratto stesso (compreso il primo) un vincolo di corresponsabilità, rispetto al quale, in assenza di qualsivoglia limitazione ex lege, deve ritenersi normalmente applicabile la regola generale della presunzione di solidarietà (prevista dall’art. 1294 c.c.), in virtù della quale tutti i cedenti (a loro volta cessionari) non liberati dal locatore risponderanno, in solido tra loro, dell’obbligazione inadempiuta dall’attuale conduttore” (così Cass. n. 9486/2007)

4.2. La giurisprudenza successiva ha poi consolidato i seguenti principi:

a) a differenza della cessione del contratto, a struttura trilaterale (il consenso del contraente ceduto è elemento essenziale della cessione, e non co-elemento di efficacia della stessa) la cessione ex art. 36 si perfeziona con la semplice comunicazione al locatore, senza che, rispetto alla sua struttura, incida l’eventuale opposizione del locatore per gravi motivi;

b) in caso di cessione (o locazione) di azienda, con contestuale cessione del contratto di locazione dell’immobile nel quale l’azienda è esercitata, la disciplina recata dalla predetta norma (deviando in parte da quella generale di cui all’art. 1408 cod. civ.) comporta che, se il locatore non può opporsi alla sublocazione o alla cessione del contratto di locazione, unitamente alla cessione o locazione dell’azienda, tuttavia lo stesso può contare sul protrarsi della responsabilità del cedente per il pagamento del canone, nel caso di inadempimento del cessionario, salvo che egli stesso dichiari espressamente di liberarlo (Cass., 28809/2019; Cass. 30/09/2015, n. 19531).

c) il cedente è obbligato in via sussidiaria nei confronti del cessionario, alla stregua di una interpretazione storica e letterale dell’art. 36 in negativo, non essendo stata riprodotta la disposizione della legge n. 19 del 1965, art. 5 che prevedeva testualmente la responsabilità solidale tra cedente e cessionario;

d) la sussidiarietà si sostanzia, peraltro, nel semplice beneficium ordinis (e non anche nel più gravoso beneficium excussionis) in favore del cedente;

e) il rispetto di tale principio postula la semplice messa in mora senza esito del cessionario (con relativa prova a carico del locatore);

f) solo dopo aver rivolto senza esito la richiesta di inadempimento al cessionario ovvero all’ultimo cessionario in caso di cd. cessioni a catena, il locatore potrà rivolgersi, indifferenziatamente e solidalmente, a ciascuno dei cedenti intermedi, che non godono di alcun beneficium ordinis tra loro, e senza alcuna esigenza di integrare il contraddittorio tra i potenziali co-obbligati (da questo principio consegue la configurabilità del litisconsorzio facoltativo, che comporta rapporti scindibili sotto il profilo processuale: v. la già citata Cass., n. 9486/2007: “la illustrata struttura della coobbligazione solidale tra i conduttori convenuti in lite, escluso ogni rapporto di dipendenza o di subordinazione tra le posizioni degli stessi (escluso cioè che la responsabilità dell’un conduttore presupponga o consegua alla responsabilità dell’altro), determina l’autonomia delle domande cumulativamente proposte nei confronti degli stessi, impedendo la configurabilità di un rapporto unico ed inscindibile. Si versa, cioè, in una tipica fattispecie di litisconsorzio facoltativo con rapporti processualmente scindibili”; per cui: “con specifico riferimento alla cessione del contratto di locazione correlata alla cessione di azienda, si è espressa, in maniera reiterata, questa Corte, univoca nell’affermare che sussiste litisconsorzio necessario tra cedente, cessionario e ceduto soltanto quando siano in questione l’avvenuta conclusione, validità ed efficacia del contratto di cessione, ma non quando si controverta unicamente delle vicende del rapporto, potendo in questo caso il locatore esperire separate e distinte azioni nei riguardi dei soggetti tra loro obbligati in solido”; v. ex plurimis, Cass. 09/12/1997, n. 12454; Cass. 29/11/1993, n. 11847; Cass. 31.03.1987, n. 3102)”.

4.3. Questo consolidato orientamento della Corte da un lato è rispettoso della ratio del citato art. 36, che è quella di agevolare il trasferimento di aziende esercenti la loro attività in immobili condotti in locazione dall’imprenditore e di tutelare l’avviamento commerciale (con riferimento a tale ratio v. Cass. 19/01/2010, n. 685), ma, per altro verso, stante l’irrilevanza del consenso del locatore alla cessione della locazione contestuale alla cessione dell’azienda, evenienza questa che rende peculiare l’intera fattispecie speciale di detta cessione, valorizza l’opzione ermeneutica che risulti compatibile con una tutela “rafforzata” del soggetto ceduto al quale, in evidente spregio dei principi di successione nel debito, si nega la facoltà di esprimere la propria volontà ed il proprio assenso.

A tal proposito, perciò, da un lato tra il cedente ed il cessionario divenuto successivo conduttore dell’immobile esiste un vincolo di responsabilità sussidiaria, caratterizzata dal mero beneficium ordinis, che consente, perciò, al locatore di rivolgersi al cedente, con l’esperimento delle relative azioni giudiziali per il soddisfacimento delle obbligazioni inerenti il suddetto contratto, solo dopo che si sia consumato l’inadempimento di detto nuovo conduttore, nei cui confronti è necessaria la preventiva richiesta di adempimento mediante la semplice modalità della messa in mora. Dall’altro deve ritenersi legittima la configurabilità di una fattispecie di responsabilità cumulativa tra cessionari intermedi, che di per sé integra patente violazione del generale principio della incedibilità delle posizioni passive del rapporto obbligatorio senza il consenso del contraente ceduto, in quanto tuttavia giustificata alla luce della riconduzione ad equilibrio dell’intera vicenda contrattuale in fieri, mediante il meccanismo della “cumulatività indeterminata” della responsabilità tra coobbligati (Cass. 20/04/2007, n. 9486; Cass., 29/08/2019, n. 21794), alla quale si applica la regola generale della presunzione di solidarietà prevista dall’art. 1294 cod. civ., in virtù della quale tutti i cedenti (a loro volta cessionari) non liberati dal locatore risponderanno, in solido tra loro, dell’obbligazione inadempiuta dall’attuale conduttore (cfr. Cass. n. 9486/2007)>>.

Infedeltà coniugale, intollerabilità della convivenza e onere della prova

Cass. sez. I, ord. 18/04/2024 n. 10.489, rel. Ioffrida:

<<Questa Corte ha quindi affermato (Cass. 25618/2007) che “In tema di separazione tra coniugi, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale”.

Il principio è stato ribadito (Cass. 16859/2015) : “In tema di separazione tra coniugi, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, costituisce, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempreché non si constati, attraverso un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale”.

Sempre questa Corte in punto di riparto dell’onere probatorio ha affermato che “grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre, è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà”, cosicché “laddove la ragione dell’addebito sia costituita dall’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale, questo comportamento, se provato, fa presumere che abbia reso la convivenza intollerabile, sicché, da un lato, la parte che lo ha allegato ha interamente assolto l’onere della prova per la parte su di lei gravante, e dall’altro la sentenza che su tale premessa fonda la pronuncia di addebito è sufficientemente motivata” (Cass. 2059/2012; Cass. 3923/2018).

In sostanza, la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale deve essere accertata in modo rigoroso attraverso una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale e chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda di addebito (nella specie, dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza) deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà>>.

Marchio di posizione confermato insufficientemente distintivo e quindi nullo dal Board of Appeal EUIPO

Anna Maria Stein su IPKat ci notizia della decisione 2nd board of Appeal EUIPO Cnitts KX ltd 19.02.2024, caso R 514/2023-2 .

Si trattava di marchio di posizione costituito da poligono a sei lati collocato in quattro punti di un occhiale:

(dal post di Anna Maria Stein)

il segno contestato:

40 The contested mark is not a mere figurative mark, but a position mark and has to be assessed as such. A trade mark may be devoid of distinctive character as a figurative mark but when applied for on a specific position or positions it may obtain a distinctive character. Thus, the position of the trade mark is relevant for the overall assessment.
However, it is to be stressed that the mark as such is also relevant for the overall
comparison.

41 The representation of the contested mark shows the position of four six-sided irregular black polygons (hereinafter ‘polygons’) each with a straight upper and lower edge and with the vertical sides formed by two parallel lines of equal length that converge inwards in a slightly concave fashion, each at the same angle. Two of these polygons are placed in a vertical direction on the front of the frames one on the left and one on the right, and two are placed horizontally on the outside part of the left and right temples. It is to be stressed that the shape of the glasses that are shown by means of dotted lines do not form part of the subject matter of the registration in accordance with Article 3(3)(d) EUTMIR

Giudizio:

49   As to the position mark showing four polygons instead of one, there is nothing about these polygons and as affixed on the goods that is unusual or memorable that might enable the relevant public to perceive the sign immediately as distinctive.
50 As correctly pointed out by the applicant, it is irrelevant whether the sign serves other functions in addition to that of an indication of origin, e.g. an aesthetic (decorative) function. However, the Board considers that the contested mark at hand does not serve (inherently) as an indication of origin. The position sign for which protection is sought on that, it is stressed, particular place of the frame and temples will be perceived by the relevant public (even to the extent it has a high level of attention) and in relation to all contested goods solely as a decoratively finished mechanism or rivet (a rivet as such has a dual purpose by having a functional and decorative purpose) that connects to or covers
the hinge that attaches the end piece or the front of the glasses to the arms (temples). (….)

54 Furthermore, as to the size of the elements of the four polygons and as affixed on the eyewear, the applicant itself admits that these elements are small but argues that this not relevant. It is true, that the size does not automatically disqualify any trade mark that is to be placed on eyewear frames from protection. Furthermore, the Board does not consider the small size of the four polygons at issue as a decisive factor. However, as an accessory remark, bearing in mind that it is unlikely that most of the consumers will analyse the mark in detail, the smaller the polygons at issue, the more difficult it may be for the
public to distinguish them from other plane figures. This finding of the public’s
perception is not changed by the applicant’s argument that the size is small due to the limited space for featuring a trade mark on eyewear frames.

Segue poi un ineressante aqnalisi del sondaggio demoscopico (mirante a provare che  il segno sarebbe diustintivo presso i consumatiori tedeschi), § 59 ss

Ripasso sulla donazione modale e sulla natura liberale dell’erogaszione al terzo beneficiario del modus

Cass. sez. trib., ord. 04/04/2024 n. 8.875, rel. Crivelli:

<<Il modus costituisce un elemento accidentale del contratto di donazione (come anche del testamento), disciplinato per quanto riguarda tale contratto dall’art. 793 cod. civ., caratterizzato dal fatto di non condizionarne (a differenza della condizione) l’efficacia e, pur essendo costituito da un obbligo avente ad oggetto una prestazione di carattere economico-patrimoniale, il relativo valore non può sopravanzare quello dell’oggetto della donazione stessa. Dunque, il modus può consistere sia nell’erogazione di una parte del bene donato (e persino di tutto) per un determinato scopo, sia nel compimento di un’azione od omissione in favore del donante stesso o di un terzo, sempre col limite surriferito.

Dunque è indiscutibile che con esso il donatario diventi soggetto passivo di un’obbligazione, sempre nel limite cui si è detto, rientrando l’onere tra le fonti tipiche delle obbligazioni ai sensi dell’art. 1173 cod. civ., ed essendo quindi suscettibile di adempimento forzato, ma ciò non ha alcun rapporto con la posizione del beneficiario.

Con tale strumento infatti può ben essere realizzato un contratto a favore del terzo, con applicazione della relativa disciplina, e lo stesso può avere benissimo la consistenza di donazione indiretta, ove l’istituzione dell’onere sia determinato da spirito di liberalità da parte del disponente, cioè nella specie della donante.

Così come ove la causa dell’attribuzione sia di diversa natura (ad esempio l’adempimento di un’obbligazione gravante sul disponente e di cui sia creditore il beneficiario del modus) potrà ritenersi la natura non liberale della disposizione medesima.

In particolare, nello schema della donazione modale a favore di un terzo determinato caratterizzato da spirito liberale, il donante realizza l’arricchimento patrimoniale del beneficiario (arg. ex art. 769 cod. civ.) attraverso l’intermediazione materiale del donatario, che agisce come sua longa manus (alla stregua di un mero ausiliario) per eseguire l’attribuzione o la prestazione costituente l’oggetto dell’onere.

Che poi il beneficiario del modus, nell’ipotesi più sopra indicata, possa essere considerato indiretto donatario, lo chiarisce la stessa legislazione tributaria, laddove l’art. 58, comma 1, del D.Lgs. 31 ottobre 1990 n. 346 prevede che “Gli oneri di cui è gravata la donazione, che hanno per oggetto prestazioni a soggetti terzi determinati individualmente, si considerano donazioni a favore dei beneficiari”.

Non è dunque vero che la donazione presuppone sia solo il donante a “erogare” il bene al donatario, perché appunto è proprio della donazione indiretta che invece il beneficio sia ricevuto attraverso il terzo (o perché questi versa una somma al beneficiario, o perché questi riceve denaro dovuto dal beneficiario allo stesso, come nell’esempio classico della donazione indiretta immobiliare).

Si può anzi dire che la donazione modale avente un destinatario determinato costituisca una doppia donazione, una eseguita a favore del donatario e l’altra eseguita a favore del beneficiario dell’onere (Cass. 24 dicembre 2020, n. 29506; Cass.17 giugno 2022, n. 19561).

Che nella specie si sia inteso proprio disporre una donazione indiretta della moglie a vantaggio del marito discende dalle stesse parole usate dalla CTR, laddove la stessa chiarisce come l’intento della Pi.Lu. era quello di “riequilibrare i rapporti economici familiari, in modo da beneficiare non solo il figlio, ma anche altri membri della famiglia”.

Ora l’intento “riequilibratore” è costituito proprio dall’animo liberale, visto che la farmacia, come incontestato, non era della famiglia, ma della donante>>.

Motiviazione insufficiente sulla non raggiunta indipendenza economica del figlio maggiorenne

Cass. sez. I, Ord. 10/04/2024, n. 9.609, rel. Tricomi, in una situaizone fattuale alquanto peculiare:

<<2.1. – La Corte d’appello ha dato atto che il giovane, dopo un percorso scolastico irregolare aveva abbandonato la precedente occupazione e aveva rifiutato – o meglio non tenuto in considerazione – due offerte lavorative adeguate, di cui la seconda non distante da casa e ben remunerata. Al tempo stesso però, la Corte ha osservato che per un giovane ancora vicino alla minore età e privo di qualifiche professionali non è facile reperire un lavoro, pur essendosi egli iscritto ad una apposita agenzia. Così operando il giudice d’appello ha contrapposto all’accertamento concreto di circostanze specifiche (rifiuto di lavorare) una considerazione di carattere generale ed astratto – peraltro in aperto contrasto con le risultanze processuali perché di fatto il giovane aveva trovato concrete occasioni lavorative – di per sé non idonea a contrastare la presunzione di colpevole inerzia da parte del giovane. Di regola, invece, una volta ritenuta provata la negligenza negli studi e nel reperimento di un lavoro, dovrebbe trarsi la conclusione che il mancato conseguimento di autonomia economica non può giustificarsi e comporta la perdita del diritto al mantenimento da parte dei genitori (Cass. n. 19589 del 26/09/2011; Cass. n. 12952 del 22/06/2016; Cass. n. 26875 del 20/09/2023). La Corte d’appello ha poi fatto ricorso ad un altro argomento per giustificare “in parte” l’inerzia, rilevando che il giovane ha vissuto una drammatica situazione familiare a causa della malattia e morte della sorella (febbraio 2022) che “non può non avere influito sul suo stato d’animo e sul suo umore e che potrebbe davvero – come sostiene la B.B. – avere in parte influito sulla sua scelta di non accettare un lavoro come trasfertista che lo avrebbe tenuto lontano da casa, dove vivevano madre e sorella”.

Questo giudizio di fatto, pur se non privo di plausibilità, non è però temporalmente circoscritto, nonostante sia legato ad una vicenda già vissuta e non è adeguatamente spiegata quale sia la sua conseguenza in punto di diritto, vale a dire se la disposta riduzione dell’assegno di mantenimento sia destinata ad assicurare al giovane – e alla madre con la quale il figlio convive – un supporto per superare uno stato di difficoltà legato a circostanze contingenti, al tempo stesso implicitamente richiamandolo al dovere di attivarsi nel momento in cui queste difficoltà contingenti sono venute meno, oppure costituisca una giustificazione sine die del comportamento inerte>>.