Differenza tra azione di simulazione e azione revocatoria contro la creazione di fopndo patrimoniale

Cass. sez. I, 09/05/2025  n. 12.247, rel. Russo R.E., ricorda  la distinzione in oggetto:

<<6.- Quanto al resto, il ragionamento esposto dalla Corte d’Appello è ineccepibile e le censure di parte ricorrente non colgono nel segno, posto che essa ha proposto una azione volta a far accertare la simulazione, vale a dire una divergenza tra il voluto e il manifestato (art. 1414 c.c.), e non altre domande, e segnatamente non una azione revocatoria che è la azione appropriata per far accertare che l’atto era scientemente rivolto o dolosamente preordinato al fine di pregiudicare il soddisfacimento del creditore (art 2901 c.c.).

7.- La simulazione del contratto è infatti un’ipotesi di dissociazione concordata tra volontà e dichiarazione (Cass. 21995/2007; Cass. 614/2003; n. 1523 del 26/01/2010) mediante la quale le parti creano una apparenza negoziale al fine di mostrare una realtà non corrispondente, in tutto o in parte, all’effettivo assetto d’interessi. Non si discute qui, pertanto, se il fondo patrimoniale fosse stato costituito in pregiudizio dei creditori ordinari, ma se fosse effettiva la volontà delle parti di vincolare alcuni beni (la casa) al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, creando così uno schermo alle azioni esecutive che non fossero quelle consente dall’art 170 c.c., all’uopo utilizzando uno schema negoziale tipico (art. 167 c.c.) il cui effetto è esattamente quello di costituire un patrimonio separato, destinato alla garanzia di specifici creditori e segnatamente i creditori della famiglia, impedendo al creditore, consapevole che il debito è estraneo ai bisogni della famiglia, di soddisfarsi sui beni del fondo.

7.1.- La Corte d’Appello ha ritenuto correttamente che non vi fosse divergenza tra la volontà e la sua manifestazione poiché l’intento dei coniugi era effettivamente quello di produrre l’effetto segregativo proprio del fondo patrimoniale e quindi di proteggere la casa dalle azioni esecutive che non fossero quelle consentite dall’articolo 170 c.c.

La sottrazione di determinati beni alla garanzia patrimoniale generica per destinarli ai bisogni della famiglia è atto di per sé lecito, rispondendo ad uno scopo che il legislatore ha ritenuto meritevole di tutela e salva la possibilità di esperire l’azione revocatoria ordinaria pacificamente ammessa in giurisprudenza (Cass. 28593/2024Cass. 25361/2023; Cass. 24757/2008; Cass. 11537/2002). Tuttavia, come rilevato dalla Corte d’Appello, la domanda n concreto proposta non era quella di far accertare i presupposti dell’azione pauliana bensì la simulazione dell’atto>>.

Chiusa la lite Sony v. eredi Battisti per il diniego di sfruttamento dei dischi Sony: nessun risarcimento è dovuto dagli eredi

Avevo postato l’ 8 settembre 2023 la notizia dell’appello Milano che dava torto a Sony e ragione agli eredi Battisti.

Ora la lite è terminata con Cass. sez. 1 n. 12.956 del 14.05.2023, rel. Catallozzi, che rigetta il ricorso di Sony confermando la sentenza di appello.

Non ci sono passaggi interessanti di diritto di autore. Il rigetto è quasi solo per motivi processuali e cioè per mancanza di specificità delle censura ex 366 cpc e per la loro non inquadrabilità nei vizi denunciabili ex art. 360 cpc

Sui parametri per la determinazione dell’assegno divorzile

Cass. sez. I, 16/04/2025  n. 10.035, rel. Valentino:

<<L’art.5, comma 6, L.n. 898/1970 prevede, innanzitutto, che il giudice tenga conto: delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, valutando tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del rapporto. Nel disporre l’assegno di divorzio deve considerare la condizione dell’insussistenza di mezzi adeguati e dell’impossibilità di procurarli per ragioni obiettive, in capo all’ex coniuge che richieda l’assegno. Con sentenza delle Sez. Unite n.18287/2018 è stato chiarito che all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate.

L’assegno di divorzio, che ha una funzione, oltre che assistenziale, compensativa e perequativa, presuppone l’accertamento, anche mediante presunzioni, che lo squilibrio effettivo e di non modesta entità delle condizioni economico-patrimoniali delle parti sia causalmente riconducibile, in via esclusiva o prevalente, alle scelte comuni di conduzione della vita familiare; l’assegno divorzile, infatti, deve essere anche adeguato sia a compensare il coniuge economicamente più debole del sacrificio sopportato per avere rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali – che il coniuge richiedente l’assegno ha l’onere di dimostrare – al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, sia ad assicurare, in funzione perequativa, sempre previo accertamento probatorio dei fatti posti a base della disparità economico-patrimoniale conseguente allo scioglimento del vincolo, un livello reddituale adeguato al contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e, conseguentemente, alla formazione del patrimonio familiare e personale dell’altro coniuge, rimanendo, in tal caso, assorbito l’eventuale profilo prettamente assistenziale.

Il riconoscimento dell’assegno divorzile è collegato all’altrui stato di bisogno, inteso quale mancanza di adeguati redditi propri e in termini di incapacità di procurarseli, in ossequio al principio di autoresponsabilità economica di ciascun coniuge: esso, quindi, deve essere negato in presenza di mezzi adeguati dell’ex coniuge richiedente o delle effettive possibilità di procurarseli.

L’assegno divorzile deve essere valutato, sia nell’an sia nel quantum, alla luce dell’evidenza che il divorzio ha reso ciascun ex coniuge una persona sola auto-responsabile. Dunque, l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi o all’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive richiede una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti che tenga conto del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.

Secondo il principio di autodeterminazione e responsabilità, nella determinazione dell’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge rilevano la capacità dello stesso di procurarsi mezzi propri di sostentamento e le sue potenzialità professionali e reddituali, che egli stesso è chiamato a valorizzare attraverso una condotta attiva e non passiva limitata ad attendere nuove opportunità lavorative.

Ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, assumono rilievo la capacità di quest’ultimo di procurarsi i propri mezzi di sostentamento e le sue potenzialità professionali e reddituali piuttosto che le occasioni concretamente avute dall’avente diritto di ottenere un lavoro. Se la solidarietà post coniugale si fonda sui principi di autodeterminazione e autoresponsabilità, non si potrà che attribuire rilevanza alle potenzialità professionali e reddituali personali, che l’ex coniuge è chiamato a valorizzare con una condotta attiva facendosi carico delle scelte compiute e della propria responsabilità individuale, piuttosto che al contegno, deresponsabilizzante e attendista di chi si limiti ad aspettare opportunità di lavoro riversando sul coniuge più abbiente l’esito della fine della vita matrimoniale.

Alla luce di questi principi la Corte d’Appello ha escluso la impossibilità di autonomo sostentamento ed ha precisato che la breve durata del matrimonio rende del tutto indimostrato che la moglie abbia concorso alla formazione del patrimonio del marito che invece pare averlo acquisito per ragioni familiari (successione dal padre titolare dell’impresa, avvenuta in epoca successiva alla separazione). Ed inoltre precisa: “Se le parti si erano accordate perché la madre seguisse i figli non si ha certezza che tale sarebbe stato l’accordo per gli anni a venire e non piuttosto la ricerca di un lavoro indipendente. Infine, non vi è traccia delle ragioni della separazione. Il fatto quindi che l’ex marito sia molto benestante nella situazione come descritta è assolutamente indifferente non sussistendo nessuno dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile” (stessi principi ribaditi da Cass., n. 14160/2022; Cass., n. 9144/2023; Cass., n. 10614/2023)>>.

Marcare un profumo col nome di vitigno veneto non comporta inganno nel pubblico e quindi non ne produce la decadenza

Trib. Venezia sez. spec. impr. 14-02.2023 n. 823 , RG 5951/2021, Glerage c. Montagner, rel. Tosi, sul marchio Glera per profumi:

<<I profumi in commercio solitamente portano nomi di pura fantasia, eventualmente solo evocativi di luoghi, sentimenti, sostanze (“Sicily”, “Opium”, “Poison”, fra i molti noti) ma sui quali il pubblico non fa riposare alcuna aspettativa relativamente all’intrinseco del prodotto. L’uso del nome di un’uva nota (almeno nel Veneto) per la produzione del Prosecco, i vari richiami di confezione e lancio pubblicitario alla vite, l’affermazione che il profumo sia un “tributo al Veneto” e ed anche il richiamo pubblicitario (nella stessa intervista alla Montagner) alla “piramide olfattiva del Glera vitigno” non sono nulla di più che una suggestione commerciale, idonea forse ad attrarre il pubblico, ma non ad ingannarlo.
In effetti l’apposizione del nome Glera ad un profumo non fa sorgere nel pubblico, in ragione delle normali aspettative che circondano questo tipo di prodotto, inganno o equivoco sulla natura del prodotto (che continua ad apparire evidentemente come un profumo) né sulla sua provenienza geografica (irrilevante per i profumi) e neppure a creare inganno riguardo alla qualità del prodotto.
Il nome del profumo Glera non basta infatti a creare aspettative sul tipo di sentori dello stesso (si pensi ad “Opium” che non desta aspettative di aromi dell’oppio) tanto più che non può certo dirsi patrimonio generale la conoscenza degli specifici sentori dell’uva Glera.
L’accenno della intervista alla lunga elaborazione del prodotto, all’opera di maestri profumieri, alla distanza del prodotto dai profumi commerciali, anche se eventualmente non vero, concreta informazione autonoma e indipendente dall’uso del segno Glera>>.

Proprietà fondiaria: distanza tra costruzioni e distanza dal confine e le rispettive diverse discipline

Cass. sez. II, 19/03/2025 n. 7.290, rel. Picaro:

<< Gli originari attori, infatti, hanno agito in giudizio, contro l’attuale ricorrente, lamentando che il muro di contenimento di un terrapieno artificiale realizzato sul confine con la loro proprietà ed il garage di quest’ultima, erano lesivi della distanza dal confine di cinque metri imposta dalla normativa locale (individuata negli articoli 32 e 33 delle norme tecniche di attuazione del PRG del Comune di Osimo e nell’art. 61 sub 2 e sub 3 del regolamento edilizio del Comune di Osimo in vigore), chiedendone l’arretramento, e domandando altresì il risarcimento dei danni subiti a causa della violazione di tale distanza legale, ed hanno ottenuto l’accoglimento di tali loro richieste, dal giudice di primo grado, con la motivazione dell’inapplicabilità del criterio codicistico della prevenzione, perché derogato dalla normativa locale sulla distanza dal confine da osservare, e dal giudice di secondo grado, con la motivazione della mancata prova in concreto della prevenzione da parte di Sp.Lo., senza che mai sia stato attribuito rilievo al fatto se i fabbricati delle parti fossero, o meno frontistanti.

La ragione del mancato rilievo attribuito a tale accertamento, va individuata nella giurisprudenza consolidata di questa Corte, che riconosce che le norme dei regolamenti edilizi che stabiliscono le distanze tra le costruzioni, e di esse dal confine, sono volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive tra edifici frontistanti, ma anche a tutelare l’assetto urbanistico di una data zona e la densità edificatoria in relazione all’ambiente, sicché, ai fini del rispetto di tali norme, rileva la distanza in sé, a prescindere dal fatto che le costruzioni si fronteggino e dall’esistenza di un dislivello tra i fondi su cui esse insistono (Cass. 26.4.2024 n.11193; Cass. 11.9.2018 n. 22054; Cass. 18.2.2014 n. 3854; Cass. 24.9.2008 n. 24013; Cass. 4.10.2005 n. 19350; Cass. 28.9.2004 n. 19449; Cass. 23.9.1989 n. 1517). Era quindi necessario accertare, trattandosi di distanza dal confine prevista dalla normativa locale, e non di distanza tra costruzioni, la violazione della distanza legale di cinque metri dal confine delle costruzioni della ricorrente, senza che avesse rilievo verificare se le costruzioni delle parti fossero o meno frontistanti>>.

Poi:

<< La ricorrente richiama, a sproposito, la giurisprudenza di questa Corte, che in materia di violazione di distanze tra costruzioni, ascrive all’attore l’onere di provare la preesistenza del suo fabbricato rispetto a quello del convenuto (Cass. 8.1.2016 n. 144; Cass. 7.8.2002 n. 11899; Cass. 16.5.1991 n. 5472), mentre nel caso in esame si tratta di violazione della distanza di costruzioni dal confine, per cui una volta accertata la violazione da parte dei fabbricati della attuale ricorrente della distanza assoluta dal confine imposta (cinque metri), non doveva essere fornita prova della preesistenza della costruzione degli originari attori da parte degli stessi, essendo tale manufatto ininfluente sulla violazione lamentata.

Occorre poi ricordare che, secondo la sentenza delle sezioni unite di questa Corte n. 10318 del 19.5.2016, la portata integrativa delle norme locali sulle distanze legali è estesa anche alla prevenzione, ma i regolamenti locali possono escludere l’operatività della prevenzione prescrivendo una distanza minima dal confine, o negando espressamente la facoltà di costruire in appoggio, o in aderenza.

Nel caso di specie, le norme tecniche di attuazione del PRG del Comune di Osimo, da ritenersi integrative dell’art. 873 cod. civ., nella zona di ubicazione dei fabbricati delle parti, prescrivevano una distanza dal confine pari ad un mezzo dell’altezza dell’edificio ma non meno di 5,00 ml “salvo il caso di costruzioni a confine conformi a quanto previsto al punto C4 del D.M. n. 39/1975”.

Il suddetto punto C4 del D.M. n. 39/1975, intitolato “Edifici contigui”, stabilisce che due edifici non possono essere costruiti a contatto, a meno che essi non costituiscano un unico organismo statico realizzando la completa solidarietà strutturale, e che nel caso in cui due edifici contigui formino organismi distaccati, essi dovranno essere forniti di giunto tecnico.

Ne deriva che, ricadendo il Comune di Osimo in zona sismica di seconda categoria, l’unica deroga consentita all’osservanza della distanza minima delle costruzioni dal confine di cinque metri prevista, era quella dell’esistenza sul confine di due edifici costituenti un unico organismo statico dotato della necessaria solidità strutturale, o dell’esistenza di due edifici contigui forniti di un giunto tecnico, mentre nella normativa locale applicabile nella zona B2-3 del PRG non era prevista una generalizzata facoltà di costruire in aderenza, o sul confine, che consentisse di ritenere compatibile la distanza di cinque metri dal confine imposta, con l’applicazione del principio codicistico della prevenzione (ricavato dagli articoli 873,874,876 e 877 cod. civ.), e per tale ragione la sentenza del Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Osimo, emessa in primo grado, sulla base della CTU espletata, che aveva escluso l’esistenza sul confine di edifici contigui aventi le caratteristiche strutturali indicate dal D.M. n.39/1975, costituente l’unica deroga consentita alla distanza di cinque metri dal confine imposta, aveva correttamente ritenuto non invocabile l’istituto della prevenzione (vedi nel senso dell’inapplicabilità del criterio della prevenzione in ipotesi di distanza dal confine imposta dalla normativa locale, che preveda la possibilità di costruire in aderenza solo col consenso del confinante, quando manchi la prova di tale consenso Cass. 11.7.2016 n. 14139; Cass. 28.3.1988 n. 2607).

La giurisprudenza consolidata di questa Corte, infatti, ritiene che mentre nei casi in cui la normativa locale si limiti ad imporre una distanza tra costruzioni più severa rispetto a quella di tre metri sempre tra costruzioni prevista dall’art. 873 cod. civ., non devono ritenersi derogate la facoltà di costruire in aderenza, o sul confine ed il connesso principio della prevenzione (vedi Cass. sez. un. 19.5.2016 n. 10318), la facoltà di costruire in aderenza debba essere specificamente autorizzata da una norma del piano regolatore locale ove quest’ultimo stabilisca anche o soltanto la distanza minima dei fabbricati dal confine (in tal senso, Cass. 26.4.2024 n.11193; Cass. 14.5.2018 n. 11664; Cass. 6.11.2014 n.23693; Cass. 9.4.2010 n. 8465; Cass. 30.10.2007 n.22896; Cass. 20.4.2005 n. 8283), ed in assenza di una specifica previsione ad opera della normativa locale della facoltà di costruire in aderenza, o sul confine, che deroghi alla distanza imposta dal confine, non possono applicarsi le regole ed i principi previsti dal codice civile per la disciplina delle distanze su fondi finitimi, ivi compreso il principio della prevenzione.>>

Perdita della possibilità di procreare e danno risarcibile al figlio per l’impossibilità di avere uno o più fratelli

Cass. sez. III, 11/03/2025 n.6517, rel. Porreca:

<<Se è vero che la perdita della capacità di procreare del genitore cagiona al figlio del danneggiato principale la lesione dell’interesse, costituzionalmente protetto dall’art. 29 Cost., a stabilire un legame affettivo con uno o più fratelli e, quindi, un danno non patrimoniale risarcibile, tuttavia è necessario che vi siano elementi, anche presuntivi, sufficienti a far ritenere che tale legame sarebbe stato acquisito e che la sua mancanza abbia determinato un concreto pregiudizio. Non viene in gioco, anche ai fini dell’emersione del “danno-conseguenza”, il numero dei fratelli o delle sorelle, come se la mancanza di una pluralità di questi significhi strutturalmente un pregiudizio; il pregiudizio, perché sia risarcibile, deve concernere la relazione parentale effettivamente risultata attesa e quindi persa nella singolare concretezza della vicenda di vita, ossia nel richiamato contesto specifico di famiglia nonché nella connessa dimensione individuale da illuminare in relazione a quello e alla plausibile evoluzione psicologica, per quanto si palesi ricostruibile al momento dell’accertamento (nella specie, i Giudici hanno escluso il risarcimento del danno, in favore della figlia, per la perdita della possibilità di avere uno o più fratelli a seguito di una infezione manifestatasi dopo il parto, a seguito della quale la madre aveva dovuto sottoporsi a un successivo intervento di isterectomia che l’aveva resa sterile, atteso che i ricorrenti non avevano effettuato le specifiche allegazioni richieste, che avrebbero potuto implicare valutazioni fattuali e presuntive, in chiave probabilistica)>> (massima in DeJure)

Dalla motivazione:

<< ritiene questo Collegio che vada in primo luogo sottolineato come la fattispecie di un rapporto parentale già instaurato e quello di un tale rapporto futuro ed eventuale, non siano paragonabili, perché la seconda ipotesi attiene al danno da perdita di chance, ovvero di un’apprezzabile e non prettamente aleatoria “possibilità” del rapporto parentale – come non a caso indicato dallo stesso precedente di questa Corte sopra richiamato – viceversa soggetto per natura a mutevoli accadimenti e intendimenti;

in secondo luogo, pur nell’ottica residuata da quanto ancora sub iudice, deve in ogni caso sussistere l’allegazione non solo del progetto di famiglia più numerosa, ma anche, inevitabilmente in termini di coerenza sistematica, del connesso tipo di pregiudizio i cui si chiede il ristoro, rispetto allo specifico soggetto familiare che lo domanda;

al riguardo i ricorrenti valorizzano il perfezionato matrimonio concordatario con finalità procreativa, e discorrono di “gioia di un fratello o una sorella germani”, con pregiudizio “più evidente allorquando la piccola Clara diverrà adolescente prima ed adulta poi, stante che le verrà a mancare quel rapporto di fratellanza e/o sorellanza, connotato da saldo, genuino ed unico sostegno emotivo, conforto personale, che sarebbe di certo un valido sostegno una volta che la stessa prenderà atto delle proprie condizioni e limitazioni personali in relazione al contesto sociale in cui dovrà confrontarsi, a maggior ragione quando un giorno, come è naturale che sia, perderà entrambi i genitori, la propria famiglia di origine” (pag. 17);

al riguardo occorre rimarcare che:

i) l’elemento dato dalla menzionata tipologia di matrimonio nulla di univoco può indicare rispetto all’allegazione e prova del progetto di vita in concreto sviluppato ovvero afferente alla comunità familiare a venire plausibilmente ipotizzabile nell’ipotesi specifica, idoneo, di conseguenza, a costituire indice del preteso pregiudizio relativo alla perdita di quel potenziale rapporto di fratellanza;

ii) come ancora una volta sottolineato dalla Procura Generale, neppure viene in gioco, anche ai fini dell’emersione del “danno-conseguenza”, il numero dei fratelli o delle sorelle, come se la mancanza di una pluralità di questi significhi strutturalmente un pregiudizio;

iii) rimanendo nella logica fatta propria dalla Corte distrettuale, e divenuta definitiva, secondo cui il danno in parola deve dirsi predicabile in astratto, una volta affermato quello da perdita della capacità di procreare, salva prova delle conseguenze da ristorare in concreto, il pregiudizio, perché sia risarcibile, deve concernere la relazione parentale effettivamente risultata attesa e quindi persa nella singolare concretezza della vicenda di vita, ossia nel richiamato contesto specifico di famiglia nonché nella connessa dimensione individuale da illuminare in relazione a quello e alla plausibile evoluzione psicologica, per quanto si palesi ricostruibile al momento dell’accertamento;

i ricorrenti, pertanto, con correlato profilo di aspecificità del ricorso, non indicano né dimostrano in quale atto processuale, ovvero quando e come sarebbero state effettuate queste necessarie quanto puntuali allegazioni – ossia quelle appena delineate oltre che complessivamente quelle stesse che la difesa istante in questa sede prospetta – le quali avrebbero potuto implicare appropriate valutazioni fattuali e presuntive, in chiave probabilistica, e che avrebbero, quindi, dovuto costituire il precisato perimetro della discussione davanti al giudice di appello, prima che del confronto con le censure da specificare davanti a questa Corte; il secondo motivo è logicamente assorbito; il terzo motivo è in parte assorbito, in parte infondato; la regolazione delle spese sull’assunto della fondatezza delle proprie istanze è logicamente assorbito prima che neppure definibile come tale, non integrando sul piano logico una censura; quanto al resto, va ribadito che la facoltà di disporre la compensazione delle spese di lite tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale neppure è tenuto a dare ragione, con un’espressa motivazione, del mancato uso di tale sua facoltà, sicché la pronuncia di condanna alle suddette spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in sede di legittimità, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (v., ad esempio, Cass., 26/04/2019, n. 11329);>>

Contribuisce alla capacità di provvedere a sè stesso, rendendo così non necessaria l’amministrazione di sostegno, anche l’esistenza di aiuti familiari stabili

Cass. sez. I, 26/02/2025 n. 5.088, rel. Tricomi:

In generale:

<<L’amministrazione di sostegno, introdotta dalla legge n. 6 del 2004, art. 3 innovando il sistema delle tutele previste in favore dei soggetti deboli, persegue la finalità di offrire, a chi si trovi – all’attualità – nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi per una qualsiasi “infermità” o “menomazione fisica” non necessariamente di ordine mentale (Cass. n. 12998/2019), uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la “capacità di agire” e che – a differenze dell’interdizione e dell’inabilitazione – sostenga la libertà decisionale delle persone deboli, aiutandole a svolgere i compiti quotidiani senza sostituire la loro volontà, sulla base di un decreto adottato da un giudice, e sia idoneo a adeguarsi alle esigenze del beneficiario, in ragione della sua flessibilità e della maggiore agilità della relativa procedura applicativa.

Secondo principi consolidati “In tema di amministrazione di sostegno, nel caso in cui l’interessato sia persona pienamente lucida che rifiuti il consenso o, addirittura, si opponga alla nomina dell’amministratore, e la sua protezione sia già di fatto assicurata in via spontanea dai familiari o dal sistema di deleghe (attivato autonomamente dall’interessato), il giudice non può imporre misure restrittive della sua libera determinazione, ove difetti il rischio una adeguata tutela dei suoi interessi, pena la violazione dei diritti fondamentali della persona, di quello di autodeterminazione e la dignità personale dell’interessato.” (Cass. n. 22602/2017), ciò perché “L’amministrazione di sostegno, ancorché non esiga che la persona versi in uno stato di vera e propria incapacità di intendere o di volere, nondimeno presuppone una condizione attuale di menomata capacità che la ponga nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi mentre è escluso il ricorso all’istituto nei confronti di chi si trovi nella piena capacità di autodeterminarsi, pur in condizioni di menomazione fisica, in funzione di asserite esigenze di gestione patrimoniale, in quanto detto utilizzo implicherebbe un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona, tanto più a fronte della volontà contraria all’attivazione della misura manifestata da un soggetto pienamente lucido.” (Cass. n. 29981/2020) opposizione che deve essere opportunamente considerata, a meno che non sia provocata da una grave patologia psichica tale da rendere l’interessato inconsapevole del bisogno di assistenza (Cass. n. 325421/2022).

Inoltre, ove ricorrano i presupposti per disporre l’amministrazione di sostegno, la valutazione della congruità e conformità del contenuto dell’amministrazione di sostegno alle specifiche esigenze del beneficiario, riservata all’apprezzamento del giudice di merito, richiede che questi tenga essenzialmente conto, secondo criteri di proporzionalità e di funzionalità, del tipo di attività che deve essere compiuta per conto dell’interessato, della gravità e durata della malattia o della situazione di bisogno in cui versa l’interessato, nonché di tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie, in modo da assicurare che il concreto supporto sia adeguato alle esigenze del beneficiario senza essere eccessivamente penalizzante (v. Cass. n. 13584/2006, n. 22332/2011; Cass. n. 18171/2013; Cass. n. 6079/2020; nel senso che l’ambito dei poteri dell’amministratore debba puntualmente correlarsi alle caratteristiche del caso concreto, v. Corte Cost. n. 4 del 2007)>>.

Andando al punto specifico:

<<Ciò rende evidente che la censura, da un lato prospetta erroneamente, alla luce dei principi ricordati, una sovrapponibilità immediata e diretta tra una condizione di infermità e la sottoponibilità ad amministrazione di sostegno, sulla scorta della quale insiste a dolersi della mancata attivazione di poteri officiosi volti ad accertare la prospettata infermità, nonostante il Tribunale congruamente escluso la sussistenza di elementi da cui desumere la ricorrenza di una patologia; dall’altro – e ciò risulta decisivo per disattendere la doglianza – omette di considerare l’altro polo su cui si fonda la ratio decidendi, e cioè l’accertata insussistenza della impossibilità per Ve.Fr. a provvedere ai propri interessi, perché questi ha dimostrato di gestire i suoi interessi avvalendosi dell’assistenza di una rete familiare e professionale di sostegno da lui stesso individuata, in maniera non pregiudizievole per i suoi interessi. Questa specifica e decisiva ratio non viene presa in alcuna considerazione nella censura, con evidenti ricadute anche in termini di inammissibilità del motivo, atteso che, in assenza del pregiudizio per la possibilità di poter curare i propri interessi, non può trovare ingresso la misura di protezione.>>

Ancora sulla responsabilità delle piattaforme per violazione di copyright e sul safe harbour ex § 512 DMCA

Il 9 circuito 13.01.2025, 21-2949(L) Capitol Records v. Vimeo nega la resp. di Vimeo specificando la red flag data dalla competenza di un dipendente.

Ribadisce inoltre che serve la conoscenza della illiceità dei file contestati, non di una generica possibile/probabile illiceità all’interno di tutti i materiali ospitati.

<<However, we also acknowledged in Vimeo I that it is “entirely possible that an employee of the service provider who viewed a video did have expertise or knowledge with respect to the market for music and the laws of copyright.” Id. at 97 (emphasis added). Thus, as an alternative way to establish red flag knowledge, a plaintiff could produce evidence to demonstrate that an employee (1) was not an “ordinary person” unfamiliar with these fields, and (2) was aware of facts that would make infringement objectively obvious to a person possessing such specialized knowledge. See id.
We noted, though, that “[e]ven an employee who was a copyright expert cannot be expected to know when use of a copyrighted song has been licensed,” id., and, as discussed below, even a copyright expert may similarly struggle to identify instances of fair use.
Thus, in order to carry their burden of demonstrating that Vimeo had actual or red flag knowledge of the specific instances of infringement, Plaintiffs needed to show that Vimeo employees were aware of facts making it obvious to (a) a person who has no specialized knowledge or (b) a person that Plaintiffs have demonstrated does possess specialized knowledge that: (1) the videos contained copyrighted music; (2) the use of the music was not licensed; and (3) the use did not constitute fair use>>.

Poi

<<The fact that licensing music, as a general matter, can be challenging or confusing does not make it obvious that music accompanying a particular user-uploaded video was not licensed. Even if a person without specialized knowledge would have intuited a likelihood that many of the posted videos were not authorized, that would not make it obvious that a particular video lacked authorization to use the music.

This is all the more true in view of the uncontested fact that, since 2011, Vimeo had run a store from which users could purchase licenses to use music in videos. Accordingly, Vimeo employees were aware of the existence of simplified opportunities available to purchase licenses. Furthermore, because Plaintiffs have not proved that Vimeo employees had specialized knowledge of the music industry, those employees’ awareness that music found on their videos was under copyright did not show that they knew whether the music they heard on user videos came from EMI or another label. Plaintiffs’ evidence does not support it being apparent to Vimeo employees that the music they heard on any particular video came from a label that did not offer licenses through Vimeo’s store or otherwise.

Plaintiffs also rely on the contention that EMI’s cease-and-desist letter, sent to Vimeo in 2008, put Vimeo employees on notice that any EMI music used on the website was unauthorized. Plaintiffs cite EMI Christian Music Grp., Inc. v. MP3tunes, LLC, 844 F.3d 79, 93 (2d Cir. 2016), where we explained that the defendant’s subjective awareness that there had been no legal online distribution of Beatles songs could support red flag knowledge that any online electronic copies of Beatles songs on defendant’s servers were unlicensed. But the same logic does not necessarily apply here. As the district court pointed out, an awareness that EMI sent a letter in the past demanding removal of its music gave no assurance that EMI did not thereafter make contracts licensing the use of its music, especially in view of evidence that some users who posted the videos containing EMI music asserted that EMI had provided them with authorization to use the music. The DMCA does not require service providers to perform research on mere suspicion of a user’s infringement to determine the identity of the music in the user’s video, identify its source, and determine whether the user acquired a license. See Vimeo I, 826 F.3d at 98-99 (explaining, in the context of a contention of willful blindness, that requiring service providers “constantly to take stock of all information their employees may have acquired that might suggest the presence of infringements in user postings, and to undertake monitoring investigations whenever some level of suspicion was surpassed, . . . would largely undo the value of § 512(m)”).
Even if we concluded that Vimeo had red flag knowledge that EMI’s music in user videos was not authorized or licensed, that would be insufficient to satisfy Plaintiffs’ burden. Plaintiffs needed in addition to show that it would be apparent to a person without specialized knowledge of copyright law, or, alternatively, persons who have been demonstrated to possess specialized knowledge of copyright law, that the particular use of the music in the Videos-in-Suit was not fair use>>.

(segnalazione e link offerti dal blog di Eric Goldman)

Non necessità di omologa per l’accordo a latere rispetto alle condizioni di separazione/divorzio e censura in Cassazione dell’interpretazione del contratto

Cass. sez. I, ord. 28/01/2025, n. 1.985, rel. Tricomi:

<<3.2.- Questa Corte ha già affermato che l’accordo transattivo relativo alle attribuzioni patrimoniali, concluso tra le parti in occasione di un giudizio di separazione o di divorzio, ed estraneo all’oggetto del giudizio di divorzio (status, assegno di mantenimento per il coniuge o per i figli, casa coniugale), seppure avente causa nella crisi coniugale, ha natura negoziale e produce effetti senza necessità di essere sottoposto neppure al giudice per l’omologazione (Cass. n. 24621/2015); ha, altresì, chiarito che la soluzione dei contrasti interpretativi tra una pattuizione a latere ed il contenuto di una separazione omologata o sentenza di divorzio, spetta al Giudice di merito ordinario, il quale dovrà fare ricorso ai criteri dettati dagli artt. 1362 s.s. c.c. in tema di interpretazione dei contratti (Cass. n. 1324/2025).

L’interpretazione del contratto è rimessa al giudice di merito; in sede di legittimità questa interpretazione è sindacabile solo nei limiti dell’applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale e della logica della sua motivazione (Cass. n. 435/1997). Nell’interpretazione del contratto, funzione fondamentale assume l’elemento letterale. Nel contempo, il senso letterale della singola parola, anche nella sua chiarezza, è insufficiente (come l’art. 1362 primo comma cod. civ. presuppone) a delineare la comune intenzione delle parti (obiettivo dell’interpretazione), la quale emerge solo (come l’incondizionata, affermazione dell’art. 1363 cod. civ. esige) attraverso la connessione degli elementi letterali (“le une per mezzo delle altre”), la relativa integrazione (“il senso che risulta dal complesso dell’atto”), e la valutazione del complessivo comportamento delle parti (art. 1362 secondo comma cod. civ.) (Cass. n. 34687/2023; Cass. n. 6233/2004): passaggi necessari del procedimento interpretativo, di funzione non subordinata, bensì concorrente (Cass. n. 6389/1998).

Questa progressiva dilatazione degli elementi dell’interpretazione contrattuale si sviluppa man mano dalle singole parole alla clausola, alla connessione delle clausole, al complesso dell’atto, ed al comportamento complessivo delle parti (Cass. n. 5960/1999; Cass. n. 8574/1999), il quale non costituisce un canone sussidiario, bensì un parametro necessario ed indefettibile (“si deve valutare”: art. 1362 secondo comma cod. civ.). In tal modo, le disposizioni degli artt. 1362 primo comma, 1363 e 1362, secondo comma, cod. civ. sono fondate sulla stessa logica, che, esprimendo l’intrinseca insufficienza della singola parola (e del suo formale significato: come, in diverso campo ed in diversa misura, segnala l’art. 12 primo comma delle preleggi), prescrive la più ampia dilatazione degli elementi di interpretazione: le singole espressioni letterali devono essere inquadrate nella clausola, questa nelle altre clausole, queste nel complesso dell’atto, e l’atto nel complessivo comportamento delle parti.

Ciò comporta che la censura in sede di legittimità dell’interpretazione di una clausola contrattuale offerta dal giudice di merito imponga al ricorrente l’onere di fornire, con formale autosufficienza, gli elementi alla complessiva unitarietà del testo e del comportamento non adeguatamente considerati dal giudice di merito, nella loro materiale consistenza e nella loro processuale rilevanza (Cass. n. 34687/2023).

Nella specie, si verte in ipotesi di accordo stipulato tra ex coniugi, al momento della separazione e del successivo divorzio, al fine di disciplinare le questioni patrimoniali insorte nella coppia ed il ricorrente ha illustrato in maniera specifica e circostanziata gli elementi di fatto posti a fondamento delle critiche ed ha individuato le regole di ermeneutica contrattuale, letterale e secondo il comportamento delle parti, a suo parere, distintamente violate dalla Corte di appello, di guisa che il motivo risulta pienamente ammissibile>>.