Registrazione di licenza di marchio UE chiesta dopo la cessione del marchio stesso, in presenza di dissenso del nuovo tuitolare: un chiaro errore giuridico del Tribunale UE

Palese e dunque strano errore del Trib al Ue in Oy Shaman Spirits Ltd c., EUIPO-Global Drinks Finland Oy, del 22.11.2023, T-679/22 -di cui dà notizia Marcel Pemsel in IPkat.

Il reg. 1001 del 2017 prevede la forma scritta di entrambe le parti solo per la cessione (art. 20.3), non per la licenza (art. 25.3). Per quest’ultima basta la “richiesta” di una delle parti ai limitati fini della registrazione: la forma scritta quindi è solo per detta istanza amministrativa (non per l’atto da registrare) e basta che riguardi il consenso di una sola aprte.

Da noi v. artt. 138-139 cpi (ma non è necessaria forma scritta ad substantiam actus, nemmeno per la cessione).

Irrilevante ciò che dice la normativa secondaria d’esecuzione, che cmq non dice ciò che il T. vorrebbe

Interessante il richiamo dell’art. 27.1 sulla opponibilità , concetto giuridico spesso sfuggente.

Dato il chiaro dettato normativo sui consensi, è irrilevante ragionare sulla opponibilità. Però, se proprio residuasse del dubbio, un contratto opponibile all’acquirente lo deve essere anche nel senso di poter prescindere dal suo consenso per  registrarlo.

Marcel opportunamente ricorda i vantaggi della registrazione del contratto, offrendo pure  il link alle guidelines dell’Ufficio sul punto.

La violazione di norme fiscali comporta nullità civilistica (di trasferimento/licenza di marchio)? No, dice Trib. Milano (con un’applicazione della rivendica ex art. 118 c.1 cod. propr. ind.)

Trib. Milano dep. 16.06.2023 n° 5025/2023, RG 38556/2020, rel. Marangoni:

<<5.1 La questione relativa alla rilevanza di un intento elusivo di norme fiscali sulla validità dei contratti civilistici connessi è stabilmente pervenuta ad un principio di tendenziale non interferenza.
La giurisprudenza formatasi su tale questione – come ricostruita da Cass. SU 23601/17 – aveva rilevato come, in assenza di disposizioni che sancissero testualmente la nullità del negozio giuridico elusivo di una norma tributaria, non fosse nemmeno configurabile una nullità virtuale del contratto per frode alla
legge (art. 1344 c.c.) o per violazione di una norma imperativa (art. 1418, comma 1, c.c.). Ciò in quanto la norma fiscale non avrebbe carattere imperativo, tenuto conto della distinzione tra norme imperative e norme inderogabili, nonché del peculiare carattere settoriale dell’interesse sotteso. Le norme tributarie,
essendo poste a tutela di interessi pubblici di carattere settoriale e non ponendo, in linea di massima, divieti, pur essendo inderogabili, non possono qualificarsi imperative, presupponendo tale qualificazione che la norma abbia carattere proibitivo e sia posta a tutela di interessi generali che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico.
Tale orientamento – ha rilevato ancora Cass. SU 23601/17 – è stato poi recepito dallo stesso legislatore tributario nell’art. 10, comma 3, I. 27 luglio 2000, n. 212 (cd. Statuto dei diritti del contribuente), a mente del quale “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto” mentre il successivo art. 10 bis della stessa I. n. 212 del 2000 (articolo aggiunto legge dall’art. 1 del d.lgs. n. 128 del 5 agosto 2015, che ha abrogato e sostituito l’art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600), stabilisce la mera inopponibilità all’amministrazione finanziaria dei fatti, degli atti e dei contratti che siano sprovvisti di “sostanza economica” e finalizzati, “pur nel
rispetto formale delle norme fiscali” a realizzare “essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.
In assenza di specifica disposizione di legge – nella fattispecie non sussistente – deve dunque confermarsi che le pattuizioni contenute in un contratto che siano dirette ad eludere, in tutto o in parte, la normativa fiscale, non implicano di per sé la nullità del contratto stesso, trovando nel sistema tributario le relative sanzioni (v. Cass. SU 23601/17 cit., Cass. 4785/07, Cass. 17475/20)>>

Suul’art. 118/1 cpi:

<<7. Ritiene il Collegio che le valutazioni innanzi espresse quanto all’inesistenza di diritti sorti in capo a GIADA s.p.a. rispetto alla presunta utilizzazione autonoma dei marchi JACOB COHËN debbano essere estese anche ai segni di fatto rappresentati dal cd “Baffo” e dalle cifre “688”, “613” e “622”, segni che sono stati oggetto di domande di registrazione comunitaria e nazionale da parte della stessa GIADA s.p.a.
Quanto al segno “Baffo”, deve rilevarsi che parte attrice ha depositato documenti dai quali si evince che l’utilizzazione di tale segno era precedente all’inizio della licenza con GIADA s.p.a. (v. docc. da 23 a 26 attr.), mentre per i segni costituiti dalle menzionate cifre risultano depositate fatture So.Ge.Tex s.r.l. – prima licenziataria dei marchi JACOB COHËN – risalenti agli anni 2003/04 che presentavano codici identificativi dei prodotti aventi come cifra iniziale il numero “6” (doc. 88 attr., documenti allegati alla dichiarazione Paolo Soncin).
Ritiene il Collegio che la funzione di marchi accessori e secondari rispetto ai marchi registrati JACOB COHËN che detti segni di fatto per concorde indicazione delle parti hanno rivestito nel corso del lungo rapporto di licenza intercorso tra le parti consenta di ritenere che anche su di essi sia individuabile un uso continuativo e rilevante riconducibile alla titolare dei marchi principali registrati. In effetti GIADA s.p.a. non ha motivato la sua decisione di procedere al deposito formale delle domande di registrazioni di tali marchi se non come conseguenza della sua tesi relativa alla presunta interruzione della catena delle cessioni dei marchi registrati cui sarebbe conseguita la decadenza per non uso degli stessi, situazione che avrebbe consentito ad essa di acquisire in autonomia tutti i diritti su di essi (e quindi anche sui marchi accessori e secondari).
La fondatezza di tale tesi è stata negata e dunque a tale proposito non si può che ritenere che l’uso dei segni di fatto rappresentati dal cd “Baffo” e dalle cifre “688”, “613” e “622” abbiano seguito la stessa  sorte dei marchi registrati, in quanto pacificamente utilizzati sui prodotti oggetto di licenza, realizzati
ed approvati dalla licenziataria e rispetto ai quali tutti i diritti devono ritenersi ad essa spettanti (v. contratto 20.6.2006, in doc. 18 attr.: art. 3.3, in cui il Concessionario si era impegnato a non registrare qualsiasi altro marchio del Concedente o con esso confondibile; contratto di licenza 1.8.2013, in doc. 1
attr.: art. 6.3 che impedisce alla licenziataria la commercializzazione di prodotti che non siano stati approvati dalla licenziante, art. 9.2 che impedisce alla licenziataria di apporre sui prodotti marchi d iversi da quelli licenziati) in quanto utilizzati con il suo consenso.
7.1 Deve dunque riconoscersi la fondatezza del richiamo al primo comma dell’art. 118 c.p.i. svolta da parte attrice per ciò che concerne le domande nazionali di registrazione del segno “Baffo”, rispetto alle quali va affermato che l’uso precedente e continuo di tale segno di fatto – realizzato mediante l’attività
della licenziataria – è riconducibile alla JACOB COHEN COMPANY s.p.a. e che ciò consente di ritenere l’insorgenza in favore della stessa del diritto di procedere alla sua registrazione, diritto che appare violato dai depositi del medesimo segno eseguiti dalla ex-licenziataria>>.

La disciplina della contitolarità di un marchio (unanimità o maggioranza per la concessione di licenza) spetta al diritto nazionale, non a quello armonizzato europeo

Così Corte di Giustizia 27.04.2023 , C-686/21, caso Legea.

Vediamo il passo circa il reg. 40/94:

Quanto al regolamento n. 40/94, quest’ultimo, pur riconoscendo la comproprietà di un marchio dell’Unione europea, non contiene alcuna disposizione che disciplini le condizioni di esercizio, da parte dei contitolari di un tale marchio, dei diritti conferiti da quest’ultimo, tra cui quello di decidere di concedere una licenza d’uso o di recedere dal relativo contratto.

37 Orbene, dall’articolo 16, paragrafo 1, del regolamento n. 40/94 si evince che il marchio dell’Unione europea, in quanto oggetto di proprietà, è assimilato a un marchio nazionale registrato nello Stato membro determinato secondo le norme stabilite in detto articolo. Ne consegue che, in assenza di disposizioni di tale regolamento che disciplinino le modalità di adozione, da parte dei contitolari di un marchio dell’Unione europea, della decisione di concedere una licenza d’uso di quest’ultimo o di recedere dal relativo contratto, dette modalità sono disciplinate dal diritto di tale Stato membro.

Motivazione leggerina ma forse esatta nell’esito.

v. mio post sulle conclusioni dell’AG , un pò più consistenti sotto il profilo teorico.

 

Maggioranza o unanimità per disporre (dare in licenza) del diritto di marchio in contitolarità?

La Cassazione n° 30.749 del 2021 aveva sollevato la questione in oggetto tramite un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia (v. mio post ove anche le due questioni, riprese dall’AG, relative alla costituzione del rapporto di licenza e alla sua cessaziine).

Sono state ora depositate le conclusioni dell’AG Sanchez Bordona 8 dicembre 2022, C-686/21.

Questione nella pratica assai importante: il diritto UE regola questo punto o è invece lasciato ai diritti nazionali?

E’ nel secondo senso la proposta di soluzione vanzata dall’AG.

<< Il regolamento n. 40/94 non specifica le condizioni per la conclusione dei contratti di licenza, né per la loro risoluzione. Da tale silenzio si evince che dette condizioni sono disciplinate dal diritto nazionale, sia che si tratti di un unico proprietario del marchio dell’Unione, sia che la titolarità di quest’ultimo sia condivisa tra più persone (26).

54.      Infatti, come rilevato dalla Commissione (27), per tutto quanto non regolato direttamente a livello europeo con riferimento alla disciplina del marchio dell’Unione in quanto «oggetto di proprietà», si applica il diritto nazionale pertinente.

b)      Marchio nazionale

55.      Se quanto sin qui esposto vale per la disciplina che configura lo status dei marchi dell’Unione, a maggior ragione varrà in un contesto di minore intensità normativa, come quello dell’armonizzazione dei marchi nazionali ai sensi della direttiva 89/104.

56.      La direttiva 89/104 sancisce l’esclusività del diritto del titolare sul marchio (articolo 5) e la possibilità di concedere licenze (articolo 8), ma non si addentra nella disciplina degli aspetti relativi alla contitolarità del marchio o alla decisione di concedere dette licenze (28).

57.      In tale contesto, per stabilire come debba formarsi la volontà collettiva per concedere l’uso di un marchio in comproprietà occorre fare riferimento, in primo luogo, alle norme nazionali. Queste possono, a loro volta, fare riferimento agli accordi tra i contitolari. In subordine, si applicheranno le norme generali di diritto civile di ciascuno Stato membro (29).

c)      Effettività del diritto dellUnione

58.      I principi di cooperazione leale, del primato e dell’effettività del diritto dell’Unione esigono che il diritto nazionale, compresa la disciplina della comproprietà dei marchi, tuteli la piena efficacia del diritto dell’Unione (30).

59.      Nel presente procedimento, nessun elemento menzionato nella domanda di pronuncia pregiudiziale o nelle osservazioni presentate alla Corte induce a ritenere che la disciplina della comproprietà dei marchi in Italia renda impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione.>>

Nè viene reso per questo meno effettivo il diritto UE: §§ 58-59.

Impostazione che vale anche per la cessazione del rapporto (recesso): § 63-64.

Non dovrebbe essere rilevante l’art. 17 della Carta dei diritti fondametnali della UE. E’ vero che dice che ancbe la PI è protetta, ma da ciò nulla emerge circa il regime degli atti dispositivi e in particolare circa quale sia il consenso richiesto per la contitolarità.

Rinvio alla Corte di Giustizia sui poteri dispositivi di ciascun contitolare in caso di comunione di marchio (il caso Legea)

La Cassazione rinvia alla Corte di Giustizia UE  per la corretta soluzine dei seguenti quesiti:

1) “Se le succitate norme comunitarie, nel prevedere il diritto di esclusiva in capo al titolare di un marchio della UE e nel contempo anche la possibilità che la titolarità appartenga a più persone pro quota, implichino che la concessione in uso del marchio comune a terzi in via esclusiva, a titolo gratuito e a tempo indeterminato, possa essere decisa a maggioranza dei contitolari ovvero se necessiti invece dell’unanimità dei consensi”.

2) “Se, in questa seconda prospettiva, in caso di marchi nazionali e comunitari in comunione tra più soggetti, sia conforme ai principi di diritto comunitario un’interpretazione che sancisca l’impossibilità di uno dei contitolari del marchio dato in concessione a terzi con decisione unanime, a titolo gratuito e a tempo indeterminato, di esercitare unilateralmente il recesso dalla suddetta decisione; ovvero in alternativa se invece debba considerarsi conforme ai principi comunitari un’interpretazione opposta, che escluda cioè che il contitolare sia vincolato in perpetuo alla manifestazione originaria, per modo da potersi svincolare da essa con effetto sull’atto di concessione”.

Si tratta di Cass. n.30.749 del 29.10.2021, rel. Terrusi.