Il servizio (filtrato?) di Gmail può fruire del safe harbour ex § 230 CDA

Eric Goldman riferisce (e dà link al testo) di US District court-East. Distr. of California 24 agosto 2023, No. 2:22-cv-01904-DJC-JBP, Republican National Committee v. Google.

Il gruppo politico di destra accusa Google (G.) di filtraggi illegittimi delle sue mail.

G. si difende con successo eccependo il safe harbour ex 230.c.2.a (No provider or user of an interactive computer service shall be held liable on account of—
(A) any action voluntarily taken in good faith to restrict access to or availability of material that the provider or user considers to be obscene, lewd, lascivious, filthy, excessively violent, harassing, or otherwise objectionable, whether or not such material is constitutionally protected;)

Il punto critico è l’accertamento dei requisiti di objectionable  e della buona fede.

Come osserva Eric Goldman, interessante è pure la considerazione di policy della corte:

<<Section 230 also addresses Congress’s concern with the growth of unsolicited commercial electronic mail, and the fact that the volume of such mail can make email in general less usable as articulated in the CAN-SPAM Act. See 15 U.S.C. § 7701(a)(4), (6).   Permitting suits to go forward against a service provider  based on the over-filtering of mass marketing emails would discourage providers from offering spam filters or significantly decrease the number of emails segregated. It would also place courts in the business of micromanaging content providers’ filtering systems in contravention of Congress’s directive that it be the provider or user that determines what is objectionable (subject to a provider acting in bad faith). See 47 U.S.C. § 230(c)(2)(A) (providing no civil liability for “any action voluntarily taken in good faith to restrict access to . . . material that the provide or user considers to be . . . objectionable” (emphasis added)). This concern is exemplified by the fact that the study on which the RNC relies to show bad faith states that each of the three email systems had some sort of right- or left- leaning bias. (ECF No. 30-10 at 9 (“all [spam filtering algorithms] exhibited political biases in the months leading up to the 2020 US elections”).) While Google’s bias was greater than that of Yahoo or Outlook, the RNC offers no limiting principle as to how much “bias” is permissible, if any. Moreover, the study authors note that reducing the filters’ political biases “is not an easy problem to solve. Attempts to reduce the biases of [spam filtering algorithms] may inadvertently affect their efficacy.” (Id.) This is precisely the impact Congress desired to avoid in enacting the Communications Decency Act, and reinforces the conclusion that section 230 bars this suit>>.

Determinazione del danno non patrimoniale subito da ente lucrativo a seguito di violenza privata (art. 610 c.p.)

Cass. sez. III del 24/10/2023, n. 29.472, rel. Tassone (da segnalazione Ondif):

<<7.1 L’art. 1226 c.c. (rubricato “Valutazione equitativa del danno”) stabilisce che “se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa”.

E’ opinione costante e risalente della giurisprudenza e della dottrina, scaturente dalla analisi della genesi storica della norma, che questa previsione abbia natura “sussidiaria” e “non sostitutiva”. [distinzione di assai dubbia utilità]

La liquidazione equitativa del danno ha natura sussidiaria, perché presuppone l’esistenza d’un danno oggettivamente accertato. Essa attribuisce al giudice di merito non già un potere arbitrario, ma una facoltà di integrazione in via equitativa della prova semipiena circa l’ammontare del danno.

La liquidazione equitativa ha, poi, natura non sostitutiva, perché ad essa non può farsi ricorso per sopperire alle carenze o decadenze istruttorie in cui le parti fossero incorse (tanto colpevoli quanto incolpevoli, sopperendo in quest’ultimo caso il rimedio della rimessione in termini, e non della liquidazione equitativa). (….)

7.3 Orbene, nel caso di specie la corte di merito ha affermato l’esistenza della lesione all’immagine, quale articolazione del danno non patrimoniale derivante da condotta illecita integrante reato, ritenendo che, a causa del comportamento della odierna ricorrente, tale da integrare gli estremi del reato di cui all’art. 610 c.p., la società Sammi ha patito una turbativa durante lo svolgimento della sua attività professionale di organizzazione di eventi, e, più precisamente, “ha subito l’illecito nell’ambito di una festa organizzata e già in corso, di fronte ad una pluralità di persone, invitati e personale delle varie ditte impegnate nell’evento, quindi nello svolgimento di attività proprie dell’ambito economico della Sammi, caratterizzato da una comportamento volontariamente posto in essere per creare disagio, appare giustificata l’esistenza del danno non patrimoniale, come corretta la sua valutazione in via equitativa” (p. 7 della sentenza impugnata). (….)

7.4 Ne’ risulta configurabile vizio di ultra o extrapetizione per essere il quantum risarcitorio stato liquidato di importo superiore alla cifra espressamente indicata dalla parte danneggiata nelle proprie conclusioni di merito.

Nelle proprie precisate conclusioni la Sammi s.r.l. ha sempre indicato la clausola “o della somma maggiore o minore ritenuta di giustizia”, che secondo costante orientamento di questa corte non è formula di stile, ma costituisce valida clausola di salvaguardia, quando il danno da risarcire non consente una puntuale determinazione ex ante del quantum risarcibile. Pertanto, nella originaria incertezza sulla esatta determinabilità del quantum, la indicazione di un importo chiesto a titolo risarcitorio, se accompagnata dalla formula “o la somma maggiore o minore ovvero altra somma ritenuta di giustizia”, viene di regola a manifestare, in senso ottativo, la volontà della parte diretta ad ottenere quella somma che risulterà spettante all’esito del giudizio, senza porre limitazioni al potere liquidatorio del giudice (Cass., 26/09/2017, n. 22330; Cass., 08/02/2006, n. 2641). [giusto ma ovvio: chi l’ha sollevata va sanzionato nelle spese di lite]

7.5 Risulta invece fondata la censura, su cui il terzo motivo ulteriormente si articola, di erroneità ed illegittimità della sentenza impugnata sotto il profilo della liquidazione equitativa del danno non patrimoniale accertato.

7.6 Questa Corte ha già avuto modo di affermare che il secondo presupposto per l’applicazione dell’art. 1226 c.c. è che l’impossibilità (o la rilevante difficoltà) nella stima esatta del danno sia: (a) oggettiva, cioè positivamente riscontrata e non meramente supposta; (b) incolpevole, cioè non dipendente dall’inerzia della parte gravata dall’onere della prova (Cass., 17/11/2020, n. 26051; sulla impossibilità che la liquidazione equitativa possa essere utilizzata per colmare lacune istruttorie imputabili alle parti si vedano, ex plurimis, Cass., 10/07/2003, n. 10850; Cass., 16/06/1990, n. 6056 del 6056; Cass., 16/12/1963, n. 3176).

Pertanto, si è precisato che la liquidazione equitativa del danno, legittima nel solo caso in cui il danno si accerti nella sua esistenza ontologica, richiede altresì, onde non risultare arbitraria, le indicazioni di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico sul quale è fondata (Cass., 17/11/2020, n. 26051).

Si è poi ulteriormente affermato (Cass., 14/10/2021, n. 28075) che l’evocazione in sé del giudizio equitativo non solleva il giudice dal dovere di rendere compiuta motivazione, dalla quale sia dato trarre i parametri sulla base dei quali egli si è orientato. I predetti parametri sono costituiti da criteri valutativi collegati a emergenze verificabili, o per lo meno logicamente apprezzabili e, comunque, sempre ragionevoli e pertinenti al tema della decisione.

Libero il giudizio finale equitativo, esso, non potendo ridursi a un asserto arbitrario, deve trovare necessaria giustificazione nei criteri e nei parametri, previamente individuati dal giudice ed in modo da essere – per quanto possibile – oggettivi e (oltre che non manifestamente incongrui per difetto o per eccesso) controllabili a posteriori, che ne costituiscono l’intelaiatura di legittimità.

7.7 Orbene, dopo aver correttamente accertato l’esistenza del danno non patrimoniale, la corte di merito non ha fatto buon governo dei suindicati principi, in quanto (v. p. 7 della sentenza impugnata) nel rigettare i motivi di appello dedotti sotto il profilo della erroneità della sua liquidazione equitativa, confermando la sentenza di primo grado, si è limitata, con formula stereotipata e generica, a ritenere “corretta la sua (del danno non patrimoniale: n.d.r.) valutazione equitativa”.

Una siffatta motivazione, svolta unicamente per relationem a quella della sentenza di primo grado (Cass., 11/09/2018, n. 21978; Cass., 09/03/2021, n. 6397), non supera il sindacato di legittimità, perché non fa riferimento ad alcun parametro, oggettivo, certo e verificabile e dunque non rende percepibile il ragionamento logico con cui il giudice di appello ha ritenuto di confermare la liquidazione equitativa del danno da parte del giudice di prime cure.[importante e giusto; anche se pur esso ovvio: è la motivaizone a rendere accettabile socialmente l’esito dell’esercizio della giurisdizione]

In definitiva, la gravata sentenza va cassata nella parte in cui la corte territoriale ha proceduto alla concreta liquidazione del danno non patrimoniale senza applicare alla fattispecie il seguente principio di diritto: ai fini della liquidazione di un danno non patrimoniale è necessario che il giudice di merito proceda, dapprima, all’individuazione di un parametro di natura quantitativa, in termini monetari, direttamente o indirettamente collegato alla natura degli interessi incisi dal fatto dannoso e, di seguito, all’adeguamento quantitativo di detto parametro monetario attraverso il riferimento a uno o più fattori necessariamente caratterizzati da oggettività, controllabilità e non manifesta incongruità (né per eccesso, né per difetto), idonei a consentire a posteriori il controllo dell’intero percorso di specificazione dell’importo liquidato>> [giusto , solo che a volte un parametro sensato può esser assi difficile da reperire]

In G.U.C.E. il nuovo regolamento UE sulle indicazioni geografiche per prodotti artigianali e industriali

in GUCE odierna (serie L, n. 2023/2041 con la nuova modalità di pubblicazione “atto per atto”; v. ilcaso.it) il “Regolamento (UE) 2023/2411 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 ottobre 2023, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche per i prodotti artigianali e industriali e che modifica i regolamenti (UE) 2017/1001 e (UE) 2019/1753” .

Avevo postato in settembre il link ad una prima bozza,

L’atto  è importante.

La norma centrale è quella sulla protezione, art. 40 (oltre alle definizioni iniziali, naturalmente)

Poi ricordo:

  • principio della porta aperta per le associazioni di produttori, art. 45;
  • invocabilità come anteriorità nelle ADR sull’assegnazione dei nomi di dominio (entro la UE),. art. 46;
  • l’usabilità del simbolo IGP dell’Unione (v. allegati al reg. UE 664/2014);
  • è insufficientemente precisa la regola per cui la protezione si applica anche “alle merci vendute mediante la vendita a distanza, come il commercio elettronico” (art. 40.4.b): sembra mancare ogni criterio di localizzazione territoriale entro la UE (non potendosi pensare ad una applicazione extraterritoriale mondiale).

Curioso è che siano protetti anche i prodotti industriali (e non solo quelli artigianali): cioè pure quelli “realizzati in modo standardizzato, compresa la produzione in serie e mediante l’uso di macchine” (art. 4 sub 1.b; la precedente definizione sub 1.a) pare definire infatti la artigianalità).       La reputazione legata al luogo (art. 6) rimane anche quando si passa alla produzione automatizzata/seriale?

Diritto alla copia della cartella sanitaria, esercitato invocando il GDPR

Corte di giustizia 26.10.2023 , C-307/22, in una richiesta del cliente al dentista di copia della cartella sanitaria , per valutare l’esattezza della sua prestazione professionale :

<<1)    L’articolo 12, paragrafo 5, e l’articolo 15, paragrafi 1 e 3, del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati),

devono essere interpretati nel senso che

l’obbligo di fornire all’interessato, a titolo gratuito, una prima copia dei suoi dati personali oggetto di trattamento grava sul titolare del trattamento anche qualora tale richiesta sia motivata da uno scopo estraneo a quelli di cui al considerando 63, prima frase, di detto regolamento.

2) L’articolo 23, paragrafo 1, lettera i), del regolamento 2016/679

deve essere interpretato nel senso che:

una normativa nazionale adottata prima dell’entrata in vigore di tale regolamento può rientrare nell’ambito di applicazione di detta disposizione. Tuttavia, una siffatta facoltà non consente di adottare una normativa nazionale che, al fine di tutelare gli interessi economici del titolare del trattamento, ponga a carico dell’interessato le spese di una prima copia dei suoi dati personali oggetto di tale trattamento.

3) L’articolo 15, paragrafo 3, prima frase, del regolamento 2016/679

deve essere interpretato nel senso che:

nell’ambito di un rapporto medico/paziente, il diritto di ottenere una copia dei dati personali oggetto di trattamento implica che sia consegnata all’interessato una riproduzione fedele e intelligibile dell’insieme di tali dati. Tale diritto presuppone quello di ottenere la copia integrale dei documenti contenuti nella sua cartella medica che contengano, tra l’altro, detti dati, qualora la fornitura di una siffatta copia sia necessaria per consentire all’interessato di verificarne l’esattezza e la completezza nonché per garantirne l’intelligibilità. Per quanto riguarda i dati relativi alla salute dell’interessato, tale diritto include in ogni caso quello di ottenere una copia dei dati della sua cartella medica contenente informazioni quali diagnosi, risultati di esami, pareri di medici curanti o eventuali terapie o interventi praticati al medesimo>>.

L’ar. 15.3 (diritto all’accesso) dispone: << Il titolare del trattamento fornisce una copia dei dati personali oggetto di trattamento. In caso di ulteriori copie richieste dall’interessato, il titolare del trattamento può addebitare un contributo spese ragionevole basato sui costi amministrativi. Se l’interessato presenta la richiesta mediante mezzi elettronici, e salvo indicazione diversa dell’interessato, le informazioni sono fornite in un formato elettronico di uso comune>>.

Legato di usufrutto generale a favore del legittimario, tra cautela sociniana (art. 550 cc) e legato sostitutivo di legittima (art. 551 cc)?

In questa alternativa sta la qualificazione giuridica della fattispecie esaminata da Cass. sez. 2 del 18.10.2023 n. 28.962, rel. Tedesco.

Il testatore aveva lasciato usufrutto generale alla moglie e legato altri beni a dei parenti.

Nei giudizi di merito era stato applicato l’art. 551 cc , ma la SC applica l’art 550.

Parte dicendo che l’usufrutto genrtale non è istituzione di erede ma legato (non approfondisce, pur essendo il tema assai dibattuto).

Poi precisa:

<<6. In mancanza di una chiara volontà del testatore di tacitare l’onorato, il legato in favore del legittimario si presume in conto di legittima, e quindi si considera un lascito da imputarsi alla quota, analogamente alle donazioni senza dispensa dall’imputazione. E’ tuttavia vero che, quando il legato abbia ad oggetto l’usufrutto generale, la fattispecie di riferimento, più che quella del legato in conto, è quella prevista dall’art. 550 c.c.>>

Quindi :

<<La Corte territoriale, nonostante abbia considerato erroneamente tardiva la deduzione, l’ha ritenuta comunque infondata. La sentenza impugnata, dopo avere delineato in termini scolastici la nozione dell’istituto, pone in luce la differenza fra la cautela sociniana e l’azione di riduzione, per poi concludere che “la diversità di presupposti, struttura e finalità delle disposizioni di cui agli artt. 550 e 554 c.c., comporta l’incompatibilità delle scelte, nel senso che qualora il legittimario opti per la prima, non potrà agire utilizzando lo strumento della riduzione apprestato dalla seconda delle disposizioni citate”. Queste riflessioni sembrano configurare un rapporto di alternatività fra i due strumenti, nel senso che il legittimario, nella situazione considerata dall’art. 550 c.c., potrebbe scegliere fra il conseguimento della legittima in piena proprietà o l’esercizio dell’azione di riduzione. Naturalmente non è così: quando il testatore abbia disposto nei modi stabiliti dall’art. 550 c.c., la scelta che si pone al legittimario non è fra l’abbandono della disponibile e l’esercizio dell’azione di riduzione, ma fra l’esecuzione delle disposizioni testamentarie e l’abbandono della disponibile, che gli consente di avere la legittima in proprietà, non essendoci più spazio a quel punto per l’applicabilità del rimedio della riduzione (Cass. n. 511/1995).

7. In dottrina si ritiene che la scelta di cui all’art. 550 c.c., possa essere esercitata soltanto dal legittimario chiamato all’eredità, se e in quanto l’abbia accettata; infatti, poiché l’esecuzione del testamento spetta all’erede, soltanto al legittimario che rivesta tale qualifica può prospettarsi la scelta se eseguire le disposizioni testamentarie o abbandonare la disponibile per conseguire la legittima. Secondo tale opinione, il presupposto della vocazione ereditaria del legittimario deve rimanere fermo anche nell’ipotesi dell’art. 550 c.c., comma 2. In altre parole, l’ipotesi presuppone che il testatore abbia disposto a titolo particolare di tutti i suoi beni o di una parte eccedente la disponibile, legando l’usufrutto al legittimario e la nuda proprietà a un estraneo: il legittimario è erede ab intestato e, come tale, ha l’opzione prevista dalla norma in esame in luogo della riduzione. Se invece il testatore ha assegnato al legittimario l’usufrutto universale dei beni e istituito erede l’estraneo nella nuda proprietà, l’alternativa che si pone al primo non è se eseguire o no il legato, perché il legato è eseguito dall’erede [e] non dallo stesso legatario, bensì se accettarlo, domandandone l’esecuzione all’erede, o rifiutarlo per chiedere la quota legittima [in piena proprietà] mediante riduzione dell’istituzione a titolo universale dell’estraneo, che è appunto l’opzione prevista dall’art. 551 c.c.. Secondo una diversa opinione, quando il testatore dispone della nuda proprietà di tutto l’asse, lasciando ai legittimari soltanto l’usufrutto dell’asse, si ha, o almeno si può avere, una figura di legato tacitativo, cui l’art. 550 c.c., riconnette effetti speciali. In alternativa alla rinunzia al legato e alla richiesta della legittima, non sarebbe preclusa al legittimario la possibilità di valersi della cautela>>

La locazione stipulata da un comproprietario (nel caso specifico: a favore di altro comproprietario) va inquadrata nella gestione di affari

Cass. sez. III del 18/07/2023 n. 20.885, rel. Condello;

<<4. Il primo ed il secondo motivo, strettamente connessi, possono essere congiuntamente trattati e sono infondati, avendo, del tutto correttamente, la Corte d’appello ricondotto la fattispecie qui in esame, in cui si controverte della locazione di un bene comune da parte di un solo comproprietario, all’istituto della gestione d’affari, in conformità a quanto statuito dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 11135/2012.

Con tale sentenza è stato enunciato il seguente principio: “La locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra nell’ambito della gestione di affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all’art. 2032 c.c., sicché, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore può ratificare l’operato del gestore e, ai sensi dell’art. 1705 c.c., comma 2, applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 c.c., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla rispettiva quota di proprietà indivisa”.

A tale approdo le Sezioni Unite sono pervenute all’esito di un lungo excursus delle diverse posizioni emerse nella giurisprudenza di legittimità in merito alla questione relativa alla legittimazione del comproprietario non locatore ad agire direttamente per l’esercizio dei diritti e dei poteri contrattuali derivanti dalla stipulazione del contratto da parte dell’altro comproprietario, confermando che la locazione svolge pienamente i suoi effetti anche quando il locatore abbia violato i limiti dei poteri che gli spettano ex art. 1105 c.c. e ss., essendo sufficiente ai fini della stipula della locazione che abbia la disponibilità della cosa locata.

A fronte delle diverse soluzioni prospettate dalla giurisprudenza sul tema, le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover inquadrare la fattispecie nell’ambito della gestione di affari altrui ex art. 2028 c.c., “consentendo tale disciplina di offrire una soluzione che vale a contemperare gli interessi e le posizioni dei vari soggetti coinvolti”.

Nel rilevare che l’esistenza di una situazione di contitolarità del bene da parte del gestore non è di ostacolo all’applicazione dell’art. 2028 c.c., hanno avuto cura di sottolineare che “elemento caratterizzante della gestione di affari è il compimento di atti giuridici spontaneamente ed utilmente nell’interesse altrui, in assenza di un obbligo legale o convenzionale di cooperazione” e che, a tal fine, si richiede, insieme alla spontaneità dell’intervento del gestore, all’animus aliena negotia gerendi, all’alienità dell’affare, all’utilità della gestione (utiliter coeptum), anche l’absentia domini, da intendersi non come impossibilità oggettiva o soggettiva di curare i propri interessi, bensì come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione e/o divieto del dominus.

Sulla base di tali premesse, le Sezioni Unite hanno desunto le seguenti conclusioni: l’opposizione del comproprietario non locatore rileva solo se portata a conoscenza e manifestata prima della stipula del contratto, ai sensi dell’art. 2031 c.c., rimanendo, in caso contrario, il contratto di locazione pienamente efficace, ancorché non vi sia il consenso del comproprietario che non ha stipulato il contratto; il comproprietario non locatore che abbia ratificato l’operato dell’altro comunista, ai sensi dell’art. 1705 c.c., potrà sostituirsi al comproprietario locatore per il solo esercizio dei diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato con preclusione del compimento di ogni altra azione derivante dal contratto.

Il contratto sottoscritto dal comproprietario locatore e dal conduttore è dunque valido ed efficace, cosicché la posizione del conduttore è posta al riparo da eventuali contrasti che dovessero insorgere tra i comproprietari in ordine alla gestione del bene comune, mentre il comproprietario non locatore, che sia a conoscenza dell’intenzione dell’altro comproprietario di addivenire alla stipula del contratto di locazione del bene comune, deve manifestare preventivamente il proprio dissenso, il che lo esonera dal dover adempiere le obbligazioni assunte dal gestore, ma conserva comunque la facoltà di ratificare il contratto stipulato dal comproprietario locatore (in senso conforme, Cass., sez. 3, 10/10/2019, n. 25433; Cass., sez. 3, 10/09/2019, n. 22540; Cass., sez. 3, 09/04/2021, n. 9476).

A siffatti principi occorre attenersi anche nella fattispecie in esame, a nulla rilevando, come ritenuto dalla parte ricorrente, la qualità di comproprietario del bene in capo al conduttore A.G.. Come evidenziato dai giudici d’appello, “una volta riconosciuta ad un comproprietario la detenzione esclusiva della res comune in virtù di un contratto di locazione, ad opera del comproprietario che tale detenzione possa trasferire, a tale contratto, fondante un titolo di detenzione esclusiva, dovrà farsi riferimento nei rapporti con il comproprietario conduttore, potendo poi la disciplina in tema di rendiconto dei frutti e delle rendite senz’altro rilevare nei rapporti tra comproprietario locatore, che abbia riscosso per intero il canone di locazione, e gli altri comunisti, che siano rimasti estranei al contratto di locazione”.

La logica indicata dalle Sezioni Unite, cioè quella della gestione d’affari, è perfettamente ricorrente nel caso in cui uno dei comproprietari stipuli la locazione della cosa comune con altro comproprietario. Si potrebbe pensare che essa difetti, perché il comproprietario che assume le vesti di conduttore non potrebbe connotarsi contemporaneamente come soggetto per cui il comproprietario che assume la veste di conduttore agisca coma gerente. Ma, data la diversità della posizione di comproprietario e di quella di stipulante la locazione come conduttore, non si configura alcuna incompatibilità, trattandosi di posizioni giuridicamente distinte. Semmai, il comproprietario che riceve la res in locazione dovrà essere considerato – per un evidente principio di non contraddizione – automaticamente ratificante, per così dire ilico et immediate l’operato del suo collega stipulante come locatore.

In questa ottica, dunque, il contratto concluso dal comproprietario locatore, C.R., e A.G. conserva piena validità ed è dunque opponibile all’odierna ricorrente, comproprietaria del bene, che, come accertato dalla Corte d’appello, non essendosi preventivamente opposta alla stipula del contratto di locazione, non può pretendere la risoluzione del medesimo contratto, ma può soltanto chiedere il pagamento pro quota dei canoni di locazione maturati in data successiva alla intervenuta ratifica, coincidente con la data di notificazione dell’atto di intimazione dello sfratto per morosità>>.

Risarcimento del danno da micropermanenti

Cass. sez. III del 21/09/2023 n. 26.985, rel. Gianniti:

<<2.3.2. Sull’interpretazione da attribuire alle disposizioni ora richiamate, questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di risarcimento del danno da cd. micropermanente che l’art. 139, comma 2, ultimo periodo, D.Lgs. n. 209 del 2005 deve essere ancora interpretato, pur dopo la modifiche introdotte dalla L. n. 124 del 2017 e la pronuncia Corte Cost. n. 98 del 2019 nel senso che la prova della lesione e del postumo non deve essere data esclusivamente con un referto di accertamento clinico strumentale (radiografia, Tac, risonanza magnetica, ecc.), poiché è l’accertamento medico legale corretto, riconosciuto dalla scienza medica, a stabilire se tale lesione sussista, e quale percentuale del detto postumo sia ad essa ricollegabile (v. Cass., 8/4/2020, n. 7753).

Si è al riguardo altresì precisato che la disposizione contenuta nell’art. 32, comma 3 ter, D.L. n. 1 del 2012 (conv., con modif., nella L. n. 27 del 2012) [id est modifica all’art. 148 cod. assic. priv.] , costituisce non già una norma di tipo precettivo bensì una “norma in senso lato”, cui può essere data un’interpretazione compatibile con l’art. 32 Cost., dovendo essa essere intesa nel senso che l’accertamento della sussistenza della lesione dell’integrità psico-fisica deve avvenire con criteri medico-legali rigorosi ed oggettivi, ma l’esame clinico strumentale non è l’unico mezzo utilizzabile (salvo che ciò si correli alla natura della patologia), non essendo precluse fonti di prova diverse dai referti di esami strumentali, i quali non sono l’unico mezzo utilizzabile ma si pongono in una posizione di fungibilità ed alternatività rispetto all’esame obiettivo (criterio visivo) e all’esame clinico (v. Cass., 16/10/2019,, n. 26249; Cass., 19/1/2018, n. 1272).

D’altro canto, l’accertamento medico legale non può essere imbrigliato con un vincolo probatorio che si traduca in una limitazione della prova della lesione.

Pertanto, il suindicato rigore va inteso nel senso che, accanto a situazioni nelle quali in ragione della natura della patologia e della modestia della lesione l’accertamento strumentale risulta in concreto l’unico idoneo a fornirne la prova richiesta dalla legge richiede, ve ne possano essere altre per le quali in ragione della natura della patologia e della modestia della lesioni è possibile pervenire ad una diagnosi attendibile anche senza la relativa effettuazione, tenuto conto del ruolo insostituibile della visita medico legale e dell’esperienza clinica dello specialista alla cui stregua debbono risultare fondate le conclusioni scientificamente documentate e giuridicamente ineccepibili.

I criteri scientifici di accertamento e di valutazione del danno biologico tipici della medicina legale (e cioè il criterio visivo, il criterio clinico ed il criterio strumentale) non sono tra di loro gerarchicamente ordinati e neppure vanno unitariamente intesi, ma vanno utilizzati dal medico legale, secondo le legis artis, nella prospettiva di una “obiettività” dell’accertamento, che riguardi sia le lesioni che i relativi eventuali postumi.

Ad impedire il risarcimento del danno alla salute con esiti micropermanenti, dunque, non è di per sé l’assenza di riscontri diagnostici strumentali, ma piuttosto l’assenza di una ragionevole inferenza logica della sua esistenza stessa, che ben può essere compiuta sulla base di qualsivoglia elemento probatorio od anche indiziario, purché in quest’ultimo caso munito dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c.

La normativa vigente, dunque, valorizza, e al contempo grava di maggiore responsabilità, il ruolo del medico legale, imponendogli la corretta e rigorosa applicazione di tutti i criteri medico legali di valutazione e stima del danno alla persona.

Pertanto, è risarcibile anche il danno i cui postumi non sono “visibili” o insuscettibili di accertamenti strumentali, sempre che la relativa sussistenza possa essere affermata sulla base di un’ineccepibile e scientificamente inappuntabile criteriologia medico-legale.

Conclusione invero consentanea con il rilievo delle Sezioni Unite di questa Corte “che nel passaggio dal codice di procedura civile del 1865 al codice vigente l’istituto peritale è fatto oggetto, nel rinnovato assetto valoriale che ha posto il giudice al centro dell’ordinamento processuale, di un profondo ripensamento che, ben più di quanto non rendano percepibile l’assunzione di una nuova denominazione e la nuova collocazione nella topografia del codice, ne ha mutato alla radice la natura in nome di una diversa concezione del ruolo che – già in allora, ma tanto più oggi di fronte alla preponderante lievitazione del contenzioso ad alto tasso di specialità – l’apporto del sapere tecnico gioca nella risoluzione delle controversie civilistiche” (v. Cass., Sez. Un., 1/ 2/2022, n. 3086)>>.

Due insegnamenti sul trust (uno scontato, l’altro no)

Cass. sez. 3 del 6 ottobre 2023 n. 28.146, rel. Gorgoni:

1° la revoca dell’atto istitutivo del trust travolge pure l’atto traslativo che vi dà esecuzione ;

2° l’atto istitutivo non è oneroso e/o dovuto ma libero e dunque gratuito:

1° : <<la Corte territoriale ha rigettato il terzo motivo di appello con cui i ricorrenti, all’epoca appellanti, avevano denunciato la decisione del Tribunale per avere ritenuto revocabili gli atti istitutivi dei trust, con una doppia ratio decidendi: a) in applicazione del principio espresso da questa Corte nelle pronunce nn. 10498/2019 e 19376/2017, a mente del quale “l’atto avente natura dispositiva è quello mediante il quale il quale il bene conferito viene intestato al “trustee”, ma tanto non comporta che la domanda revocatoria debba essere necessariamente rivolta avverso questo negozio e non possa, invece, essere utilmente proposta nei confronti dell’atto istitutivo del “trust”, in quanto l’inefficacia dell’atto istitutivo, conseguente al vittorioso esperimento di un’azione revocatoria, comporta pure l’inefficacia dell’atto istitutivo”; b) posto che, dal tenore degli atti costitutivi dei (Omissis) e (Omissis) era dato evincere che a un parte introduttiva, nella quale si faceva riferimento all’istituzione dei trust, seguiva una parte dispositiva con cui erano stati individuati i beni conferiti, le conclusioni dell’atto di citazione di primo grado, indicando la richiesta di revoca “degli atti istitutivi del trust”, non erano volte a delimitare l’oggetto della domanda, ma solo “ad individuare l’atto impugnato secondo la sua iniziale intitolazione, richiamandolo integralmente soprattutto quanto al contenuto della parte dispositiva, alla quale ha esteso certamente la domanda (…)”;
i ricorrenti hanno censurato solo la prima ratio decidendi, peraltro, con argomentazioni immeritevoli di accoglimento, considerando che:
– “quand’anche il giudice del merito avesse dichiarato inefficace l’atto di costituzione del trust nella sola parte in cui ha disposto il trasferimento dei beni immobili”, i ricorrenti “non ne avrebbero tratto alcun vantaggio giuridico, dal momento che i rispettivi creditori avrebbero comunque potuto aggredire in executivis gli immobili” nei confronti del trustee avente causa” (Cass. 27/06/2018, n. 16897);
– “la constatazione che nel caso in cui all’istituzione del trust abbia fatto poi seguito l’effettiva intestazione del bene conferito al trustee – secondo quanto accaduto nella fattispecie concretamente in esame – la domanda di revocatoria, che a oggetto assume l’atto istitutivo, appare comunque idonea a produrre l’esito di inefficacia (dell’atto dispositivo) a cui propriamente tende la predetta azione (ove la dichiarazione di inefficacia potesse essere emessa anche in assenza dell’effettiva esistenza di un atto dispositivo, per contro, si fuoriuscirebbe senz’altro dalla funzione di conservazione patrimoniale che risulta specificamente connotare, nel sistema del c.c., come ripreso anche nella sede della normativa fallimentare, lo strumento dell’azione revocatoria)”, in quanto “l’atto di trasferimento e intestazione del bene conferito al trustee non risulta essere atto isolato e autoreferente. Nella complessa dinamica di un’operazione di trust, lo stesso si pone, per contro, non solo come atto conseguente, ma prima ancora come atto dipendente dall’atto istitutivo.
E’ in quest’ultimo atto, cioè, che l’atto dispositivo recupera la sua ragion d’essere e causa (in ipotesi) giustificatrice. E’, del resto, corrente osservazione in letteratura che il trustee risulta titolare di un
“ufficio”, o di una “funzione”; e che, quindi, è proprietario non già nell’interesse proprio, bensì nell’interesse altrui: secondo i termini e i modi volta a volta appunto consegnatigli dell’atto istitutivo.
La peculiare proprietà del trustee non potrebbe perciò “sopravvivere” all’inesistenza, o al caducarsi, dell’atto che viene nel concreto a conformare tale diritto (…). L’inefficacia dell’atto istitutivo, come prodotta dall’esito vittorioso di un’azione revocatoria, reca con sè, dunque, pure l’inefficacia dell’atto dispositivo.
La domanda di revoca dell’atto istitutivo viene, in altri termini, a colpire il fenomeno del trust sin dalla sua radice” (Cass. 15/04/2019, n. 10498);
non è stata attinta da censure la ratio decidendi riassunta supra sub lett. b); perciò deve applicarsi la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’impugnazione di una decisione basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l’uno dallo altro, e ciascuno, di per sè solo, idoneo a supportare il relativo dictum, per poter essere ravvisata meritevole di ingresso, deve risultare articolata in uno spettro di censure tale da investire, e da investire utilmente, tutti gli ordini di ragioni cennati, posto che la mancata critica di uno di questi o la relativa attitudine a resistere agli appunti mossigli comporterebbero che la decisione dovrebbe essere tenuta ferma sulla bade del profilo della sua ratio non, o mal, censurato e priverebbero il gravame dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (Cass. 19/05/2021, n. 13595);>> [affermazione interessante]

2°  : <<- le nozioni di atto di disposizione patrimoniale e di terzo, contenute nell’art. 2901 c.c., “vanno parametrate alle peculiarità di un istituto che attribuisce alla disposizione del patrimonio un contenuto differente dalla tradizionale visione della circolazione dei beni” (Cass. n. 13388 del 29/5/2018, n. 13388);
“l’istituzione di trust familiare non integra, di per sè, adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura – ai fini della revocatoria ordinaria – un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti” (così Cass.
03/08/2017, n. 19376; nella specie, il trust era finalizzato a fare fronte alle esigenze di vita e di studio della prole);
– “il negozio istitutivo di un trust, per considerarsi a titolo oneroso, deve essere posto in adempimento di un obbligo e dietro pagamento di un corrispettivo. Tanto si verifica, ad es., nei c.d. trust di garanzia, che sono istituiti da un debitore in seguito ad un accordo con i propri creditori. Al contrario, se il trust viene posto in essere in virtù di una spontanea determinazione volitiva del disponente e in mancanza di un vantaggio patrimoniale, l’atto costitutivo del trust deve essere considerato a titolo gratuito” (Cass. 04/04/2019, n. 9320)>>; [esatto, ma scontato]

Copyright e standards

La corte di appello del distretto di Columbia , 12.09.2023, No. 22-7063, AMERICAN SOCIETY FOR TESTING AND MATERIALS, ET AL v. PUBLIC.RESOURCE.ORG, INC., dà qualche interessante insegnamento sul tema (qui la pagina della corte mentre  qui il link diretto al pdf).

Tre organizzazioni, che predispongno standard per certi settori di impresa, fanno causa a public.resource.org, per aver pubblicato centinaia di standards: il che violerebbe il copyright su di essi gravante.

Di questi la maggior parte era anche stata inserita (incorporate) nella legislazione usa.

La corte di appello dice che tale pubblicaizone da parte di https://public.resource.org/ costituisce fair use (per la parte incorporated).

I primi tre fattori del 17 us code § 107 sono a favore del convenuto.

L’ultimo (effetti economici sul mercato dell’opera protetta) è invece incerto: ma non basta a controbilanciare gli altri tre.

<<n ASTM II, we noted that Public Resource’s copying may harm the market for the plaintiffs’ standards, but we found the extent of any such harm to be unclear. 896 F.3d at 453. We noted three considerations that might reduce the amount of harm: First, the plaintiffs themselves make the incorporated standards available for free in their reading rooms. Second, Public Resource may not copy unincorporated standards—or unincorporated portions of standards only partially incorporated. Third, the plaintiffs have developed and copyrighted updated versions of the relevant standards, and these updated versions have not yet been incorporated into law. We asked the parties to address these issues, among others, on remand. See id.
The updated record remains equivocal. The plaintiffs press heavily on what seems to be a common-sense inference: If users can download an identical copy of an incorporated standard for free, few will pay to buy the standard. Despite its intuitive appeal, this argument overlooks the fact that the plaintiffs regularly update their standards—including all 185 standards at issue in this appeal. And regulators apparently are much less nimble in updating the incorporations. So, many of the builders, engineers, and other regular consumers of the plaintiffs’ standards may simply purchase up-to-date versions as a matter of course. Moreover, some evidence casts doubt on the plaintiffs’ claims of significant market injury. Public Resource has been posting incorporated standards for fifteen years. Yet the plaintiffs have been unable to produce any economic analysis showing that Public Resource’s activity has harmed any relevant market for their standards. To the contrary, ASTM’s sales have increased over that time; NFPA’s sales have decreased in recent years but are cyclical with publications; and ASHRAE has not pointed to any evidence of its harm. See ASTM III, 597 F. Supp. 3d at 240.
The plaintiffs’ primary evidence of harm is an expert report opining that Public Resource’s activities could put the plaintiffs’ revenues at risk. Yet although the report qualitatively describes harms the plaintiffs could suffer, it makes no serious attempt to quantify past or future harms. Like the district court, we find it “telling” that the plaintiffs “do not provide any quantifiable evidence, and instead rely on conclusory assertions and speculation long after [Public Resource] first began posting the standards.” ASTM III, 597 F. Supp. 3d at 240.
Finally, our analysis of market effects must balance any monetary losses to the copyright holders against any “public benefits” of the copying. Oracle, 141 S. Ct. at 1206. Thus, even if Public Resource’s postings were likely to lower demand for the plaintiffs’ standards, we would also have to consider the substantial public benefits of free and easy access to the law. As the Supreme Court recently confirmed: “Every citizen is presumed to know the law, and it needs no argument to show that all should have free access” to it. Georgia v. Public.Resource.Org., Inc., 140 S. Ct. 1498, 1507 (2020) (cleaned up)>>.

Sintesi sul quarto:

<<We conclude that the fourth fair-use factor does not significantly tip the balance one way or the other. Common sense suggests that free online access to many of the plaintiffs’ standards would tamp down the demand for their works. But there are reasons to doubt this claim, the record evidence does not strongly support it, and the countervailing public benefits are substantial.>>

Sintesi comlpèessiva: <<In sum, the first three factors under section 107 strongly favor fair use, and the fourth is equivocal. We thus conclude that Public Resource’s non-commercial posting of incorporated standards is fair use>>

Altro rigetto di registrazione come marchio per la suola Birkenstock

Marcel Pemsel su IPKat comunica la decisione del Bundespatentgericht 21 agopsto 2023 che il pattern trademark (marchi costiotuiti da motivi ripetuti o seriali) de quo manca di distintività, confondendosi copn ll’aspetto tipico delle suole di calzari (purtroppo decisione in tedesco)