Revisione dell’assegno divorzile (art. 9 l. div.)

Cass. sez. I, ord. 14/05/2024  n. 13.192, rel. Meloni:

fatto e diritto mescolati assieme:

<<Occorre premettere che con ricorso 12 ottobre 2017 il sig. De.Ma. chiedeva lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio e la revoca dell’assegno di mantenimento a favore della moglie per diversi motivi: una ulteriore contrazione dei suoi redditi a fronte del suo obbligo di mantenere in via esclusiva i figli, l’autonomia economica raggiunta dalla moglie, la possibilità per la stessa di trarre reddito dai suoi immobili e, ultimo, la insussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per la concessione dell’assegno di divorzio. Nel prosieguo le parti raggiungevano un accordo su tutte le condizioni di divorzio e con successiva sentenza emessa in data 14.01.2019, pubblicata in data 25.01.2019, il Tribunale di Sondrio disponeva le condizioni di divorzio, in conformità agli accordi raggiunti dalle parti (doc. 6), tra cui, in particolare, i seguenti:

– l’affidamento condiviso del figlio Davide, all’epoca minorenne, con suo collocamento presso il padre, con possibilità per la madre di vederlo e tenerlo con sé in base alle esigenze e alle richieste del medesimo;

– l’obbligo per il padre di mantenere in via esclusiva i figli (anche El., nel frattempo diventata maggiorenne) con obbligo a suo carico di provvedere al 100% delle loro spese straordinarie, stabilendo però che ciascuno dei genitori provvederà al mantenimento ordinario dei figli quando si trovino presso di sé;

– l’obbligo per il sig. De.Ma. di versare alla signora Fr.Vi. un contributo di mantenimento pari a Euro 300,00 mensili.

Queste le condizioni che con il procedimento di revisione che è stato introdotto dal De.Ma.

Ciò premesso nel caso concreto, la censura risulta fondata. Infatti, posto che “La revisione dell’assegno divorzile richiede la presenza di “giustificati motivi” e impone la verifica di una sopravvenuta, effettiva e significativa modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi sulla base di una valutazione comparativa delle rispettive situazioni reddituali e patrimoniali. Ove, pertanto, le ragioni invocate per la revisione siano tali da giustificare la revoca o la riduzione dell’assegno divorzile, è indispensabile accertare con rigore l’effettività dei mutamenti e verificare l’esistenza del nesso di causalità tra gli stessi e la nuova situazione economica instauratasi (Cass. 354/2023)”.  Risulta non contestato il miglioramento patrimoniale della signora Fr.Vi. (che nel luglio 2019 aveva ereditato un appartamento in centro S appartenente alla categoria A/2 di mq 134 locato per Euro 450,00 e altri beni, tra cui un una ulteriore quota di proprietà degli antichi locali in cui è ubicato un noto ristorante della V, Il Ristorante “omissis”, per un valore complessivo di oltre Euro 500.000,00. A Riprova il ricorrente depositava il doc: 22) che certificava gli immobili di proprietà Fr.Vi. nell’anno 2017 e il doc. 23) che certificava immobili di proprietà Fr.Vi. successivamente al divorzio.

Nel caso in esame la Corte d’appello ha omesso di spiegare perché i mutamenti economico-patrimoniali intervenuti, pur ritenuti sussistenti, siano stati ritenuti irrilevanti tanto più in presenza di un mutamento in pejus delle condizioni economico reddituali dell’ex marito avvocato, non escluso dal giudice del merito.

Infatti la Corte ha ritenuto che: A parere della Corte quindi deve essere condivisa la valutazione effettuata dal Tribunale sia con riguardo all’assegno divorzile che con riguardo alla ripartizione delle spese straordinarie per i figli (80% a carico del reclamante e 20% a carico della reclamata) poiché, pur comparando le documentate sopravvenienze in peius per il De.Ma. – avvocato – ed in melius per la Fr.Vi. con le preesistenti condizioni economico-reddituali di entrambi all’epoca del divorzio, si rileva che comunque le descritte sopravvenienze si inseriscono in un quadro economico-reddituale da cui emerge comunque un evidente divario sempre in melius in favore del De.Ma. – che peraltro convive con un’altra compagna dalla quale ha sicuramente un apporto economico. (Il Fr.Vi. percepiva nel 2019 Euro 132.334,00 lordi (dichiarazione anno 2020, doc. 12 ricorrente) detratti gli oneri deducibili con un reddito imponibile di Euro 109.924,00 che, al netto delle imposte, è pari ad Euro 9.000,00 circa al mese; nel 2020 Euro 88.111,00 lordi (dichiarazione anno 2021, doc. 28 ricorrente). detratti gli oneri deducibili con un reddito imponibile di Euro 67.000,00 che, al netto delle imposte, è pari ad Euro 5.499,00 circa al mese) mentre la De.Ma. ha un reddito da lavoro di 23.000,00 euro netti l’anno nel 2020.

Rilevante è inoltre la circostanza che il De.Ma., pur dovendo versare un assegno divorzile dallo stesso concordato e quantificato in Euro 300,00 mensili in favore della Fr.Vi. è anche vero che tale importo costituisce per lui un onere deducibile e che in parte lo recupera con le imposte; di contro per la reclamata è fonte di reddito e come tale soggetto a tassazione”. La Corte d’Appello nel riconoscere soltanto nel perdurante divario la fonte della conferma della precedente statuizione sull’assegno divorzile, ha omesso la valutazione comparativa in concreto della situazione ex ante e di quella successiva ai mutamenti indicati, sulla base della quale applicare i principi costantemente applicati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di criteri attributivi e determinativi dell’assegno. Pertanto risulta censurabile l’accertamento svolto dal giudice del merito per non essere stati esaminati e valutati in via effettiva i nuovi elementi di fatto sopravvenuti da porre in correlazione, come già rilevato con quanto stabilito Da S.U.18287 del 11/07/2018 e seguenti.

La Corte di Appello ha fatto mal governo di questi principi fermando la comparazione e riconoscendo il diritto e la determinazione dell’assegno sul solo permanere del divario di reddito tra i due coniugi in contrasto con quanto sopra>>.

Richiesto uno squilibrio economico per l’assegno divorzile

Cass. sez. I, ord. 13/05/2024  n. 12.953, rel. Meloni:

fatti

<<Con ricorso notificato l’11.03.2022 Ma.An. impugnò la sentenza n. 1167/2021 pubblicata il 19 agosto 2021 nel giudizio n. 3526/2018 dal Tribunale di Nocera Inferiore, prima sezione civile, che negava il riconoscimento di un assegno divorzile alla medesima censurandola con particolare riguardo alla insussistenza dello squilibrio economico tra i coniugi così come ritenuta dal Tribunale. L’appellante affermò nell’atto di appello di aver dovuto locare un immobile da adibire a casa familiare, inoltre evidenziò di aver iniziato a lavorare soltanto nel 2004 all’età di 47 anni, perché i coniugi di comune accordo stabilirono che la stessa dovesse sacrificare le proprie aspettative professionali per dedicarsi unicamente al menage familiare, ed infine dimostrò attraverso i modelli 730/2016,2017 e 2018 di essere titolare di un reddito imponibile di circa 25.000,00.

La Corte di Appello di Salerno, in riforma dell’impugnata sentenza, attribuì all’appellante un assegno divorzile di euro 200,00 ritenendo che: “tra i coniugi è poi, documentata una disparità reddituale, atteso che dai modelli 730/2016,2107 e 2018 di parte appellante risulta un reddito imponibile di circa 25.000,00 mentre dalla documentazione fiscale di parte appellata risulta un reddito imponibile di circa 32.000,00 euro. Allo stato, dunque, alla luce dei principi giurisprudenziali richiamati si ritiene che Ma.An. abbia diritto ad un assegno di divorzio nella misura minima di euro 200,00, considerata la situazione complessiva delle parti come sopra delineata”. (…)  La Corte di merito così ha motivato: “Orbene, nel caso di specie deve rilevarsi che il matrimonio contratto nel 1984 ha avuto lunga durata (circa 29 anni), dall’unione non sono nati figli, Ma.An., prima di iniziare l’attività lavorativa quale dipendente ASL nel 2004 (come documentato dall’estratto conto INPS) ha necessariamente contribuito con il proprio lavoro personale e casalingo al menage familiare. Dopo la cessazione della unione matrimoniale, mentre Fr.An. ha continuato a vivere nella casa familiare di sua proprietà, la moglie ha dovuto locare un appartamento, come da contratto di locazione in atti, dal quale si desume la pattuizione di un canone mensile di euro 370,00, oltre spese. Tra i coniugi è, poi, documentata una disparità reddituale, atteso che dai modelli 730/2016, 2017 e 2018 di parte appellante risulta un reddito imponibile di circa 25.000,00, mentre dalla documentazione fiscale di parte appellata risulta un reddito imponibile di circa 32.000,00 euro.” >>

Diritto:

<<Se questi sono i fatti emersi pacificamente e riconosciuti da parte dei Giudici di Appello, non emerge un sostanziale squilibrio delle rispettive condizioni reddituali delle parti trattandosi di una differenza minimale. La Corte di Appello di Salerno nel caso di specie ha applicato non correttamente l’art. 5 comma 6 della Legge 898 del 1970, avendo fondato anzitutto il suo errato convincimento sulla circostanza (Pag. 7 della sentenza – parte finale) che la ex moglie prima di iniziare l’attività lavorativa quale dipendente ASL nel 2004, avrebbe necessariamente contribuito con il proprio lavoro personale e casalingo al menage familiare. Tuttavia tale ultima circostanza non è stata provata ma risulta formulata in forma ipotetica e non all’esito di valutazione presuntiva di mezzi di prova.

In mancanza di tale riscontro e dell’allegazione di un’esigenza specifica di carattere assistenziale, il modesto squilibrio reddituale è del tutto inidoneo, in via esclusiva a fondare il diritto all’attribuzione dell’assegno di divorzio.

Si deve rammentare che le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, nr. 18287 del 11/07/2018) hanno affermato riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dell’art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto. La funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi” (sul punto anche Cass. 5603/2020 e 17098/2019).

Ciò premesso nel caso concreto, oltre alla comparazione reddituale e al mancato svolgimento di attività lavorativa in corso di matrimonio, non si ravvisa alcun altro elemento indiziante l’applicazione del criterio compensativo e, come già rilevato, non è stata allegata un’esigenza specificamente assistenziale, tenuto conto del fatto che la mancanza di figli esclude dalle statuizioni post scioglimento del vincolo quella relativa all’assegnazione della casa coniugale.

Il ricorso deve quindi essere accolto, cassata la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Salerno anche per le spese del giudizio di legittimità perché si proceda al concreto accertamento della sussistenza in concreto di elementi di fatto idonei a consentire l’applicazione del criterio compensativo>>.

Il danno antitrust , azionabile ex art. 33 L. 287/90, non è solo quello subito dai consumatori

Cass. sez. III, ord. 22/03/2024  n. 7.834, rel. Gorgoni:

<<La Corte territoriale ha correttamente richiamato e altrettanto correttamente applicato la giurisprudenza di questa Corte che ritiene legittimati a far valere la violazione della l. n. 287/1990 tutti i soggetti del mercato che abbiano subito un danno dall’illecito anticoncorrenziale.

Sin dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 2207 del 4/02/2005, è pacifico che l’art. 1 della l. 287/1990, quando vieta le intese che abbiano per effetto o per oggetto di impedire, restringere o falsare “in maniera consistente” il gioco della concorrenza “all’ interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante”, ripete l’art. 81 del TUE “salvo che per la norma comunitaria la rilevanza quantitativa è data ovviamente dall’ambito comunitario. Ma ciò che conta rispetto al problema che ne occupa è il rilievo dimensionale della fattispecie, che si spiega con il fatto che oggetto della tutela della legge n 287 del 1990, come già del Trattato, è appunto la struttura concorrenziale del mercato di riferimento, la quale ragionevolmente non viene messa in discussione da un comportamento che per quanto ontologicamente rispondente alla fattispecie di cui si tratta, per la sua dimensione, non incide significativamente sull’assetto che trova” e che “l’ampia tutela accordata dalla legge nazionale antitrust, in armonia con il Trattato, non ignora la plurioffensività possibile del comportamento di vietato (cfr. Cass. n. 827 del 1999). Un’ intesa vietata può ledere anche il patrimonio del singolo, concorrente o meno dell’autore o degli autori della intesa”.

La pronuncia – ben diversamente da quanto intende la banca ricorrente – non ha voluto restringere al consumatore la legittimazione ad agire per far valere l’illecito anticoncorrenziale, ma ha voluto dimostrare che, stante la diversità di ambito e di funzione della tutela codicistica della concorrenza sleale rispetto a quella prevista della legge antitrust, quest’ultima “non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere”. Ha dunque ampliato la platea dei soggetti tutelati dalla normativa sulla concorrenza, togliendo “alla volontà anticoncorrenziale “a monte” ogni funzione di copertura formale dei comportamenti “a valle”” (Cass., Sez. Un., 4/02/2005, n.2207, cit.)>>.

Statuizione ineccepibile, al punto che c’è responsabilità aggravata in capo al soccombente per aver sostenuto tesi contraria.

Sul danno da indisponibilità dell’immobile

Cass .  sez. III, ord. 17/04/2024 n.  10.477, rel. Gianniti:

<<In ogni caso, con recente arresto nomofilattico, le Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 33645/2022), sia pure occupandosi della diversa ipotesi del danno da occupazione illegittima di immobile, hanno reso chiarimenti direttamente rilevanti anche nel presente giudizio con riferimento alla morfologia ed alla risarcibilità del danno comunque derivante da un fatto che renda impossibile, a chi ne abbia diritto, il godimento dell’immobile e di trarne guadagno.

Con precipuo riferimento alla violazione del diritto di proprietà è stato in quella sede evidenziato che l’evento lesivo può attingere la cosa oggetto del diritto ovvero direttamente il contenuto del diritto stesso.

In entrambi i casi, ai fini dell’attivazione della tutela risarcitoria, è necessario si configuri una perdita o un mancato guadagno che rappresentino conseguenza immediata e diretta dell’illecito, alla stregua dell’art. 1223 c.c.

Nel secondo caso (evento lesivo incidente sul contenuto del diritto) può configurarsi un«danno risarcibile (…) rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione». È, questo, un danno emergente che si configura anche nell’ipotesi in cui si alleghi che detto godimento sarebbe stato concesso a terzi contro un corrispettivo corrispondente ai frutti civili. In questo caso, il criterio di liquidazione equitativa utilizzabile è omogeneo, attestandosi sul valore locativo di mercato, che rappresenta – per l’appunto – il controvalore convenzionalmente attribuito al godimento alla stregua della tipizzazione normativa del contratto di locazione.

Al lucro cessante afferiscono, invece, quelle perdite di occasioni di guadagno«da collegare non al contenuto del diritto previsto dall’art. 832 c.c., ma alla titolarità del diritto», espressioni«della possibilità di alienare quale caratteristica di tutti i diritti patrimoniali» (pag. 10). Si tratta, in concreto, del danno conseguente alla impossibilità di vendere l’immobile o locarlo a un canone superiore a quello di mercato, il quale necessita«di prova specifica, anche in via presuntiva» (pag. 11).

Dal punto di vista processuale, all’allegazione, da parte dell’attore, di una delle voci di danno suddette potrà contrapporsi la (specifica) contestazione del convenuto, la quale attiverà, in capo all’attore stesso, l’onere di provare il fatto costitutivo del risarcimento, se del caso mediante il ricorso alle presunzioni ovvero alle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. Oggetto di prova sarà, a seconda dei casi, la perdita della possibilità di godimento (diretto o indiretto), ovvero di alienazione o concessione in locazione del bene a canone maggiore di quello medio di mercato. Non potendo operare il meccanismo della non contestazione per i fatti ignoti al convenuto, la necessità di prova diretta da parte dell’attore – afferma la ricordata pronuncia delle Sezioni Unite – sarà statisticamente più frequente nell’ipotesi in cui il pregiudizio invocato assuma le forme del mancato guadagno (ove la prova potrà atteggiarsi sulla falsariga di quella del maggior danno, di cui all’art. 1591 c.c.); mentre, qualora a venire in questione sia il danno emergente, si assisterà,«a una maggiore frequenza dell’onere del convenuto di specifica contestazione della circostanza di pregiudizio allegata e ad una minore frequenza per l’attore dell’onere di provare la circostanza in discorso, data la tendenziale normalità del pregiudizio al godimento del proprietario a seguito dell’occupazione abusiva» (pag. 26).

Alla stregua di tali principi, ai quali il Collegio intende assicurare continuità, deve potersi puntualizzare che il danno diretto risarcibile da indisponibilità dell’immobile possa individuarsi nella soppressione o compressione della specifica facoltà di esercizio del diritto di goderne, che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione: sicché a tale concetto deve intanto riferirsi la soppressione o compressione della possibilità di estrinsecazione delle facoltà normalmente inerenti alla disponibilità della cosa, in relazione all’uso al quale sarebbe stata destinata anche direttamente ed immediatamente dal titolare del diritto ad essa e delle quali questo si è visto, pertanto, illegittimamente privato; con la conseguenza che il godimento diretto, la cui perdita sia suscettibile di risarcimento, va identificato nella facoltà del titolare di fruirne direttamente e di ritrarne le utilità congruenti alla destinazione del bene quali ricavabili dalla sua intrinseca struttura o da altri univoci e riconoscibili elementi.

Orbene, i suddetti principi appaiono applicabili al caso di specie, nel quale:

a) il ricorrente è per l’appunto la persona fisica proprietaria dell’immobile e, quindi lo stesso soggetto titolare del diritto al risarcimento del danno, rappresentando l’indisponibilità del bene un danno conseguenza del fatto impeditivo dell’indisponibilità dell’immobile per fatto altrui;

b) a tale riguardo, il ricorrente ha allegato: di aver contratto un mutuo per l’acquisto dell’immobile e di aver per esso chiesto l’applicazione delle agevolazioni fiscali previste per l’acquisto della prima causa; che l’immobile demolito era destinato a sua abitazione; di aver ottenuto il permesso a costruire e di averne chiesto la proroga; che anche quest’ultima era scaduta e che la nuova costruzione non è assentibile in base al nuovo PUC nelle more varato dal Comune di Poggiomarino; che, a causa dell’opposizione degli Annunziata, non riesce a ricostruire l’immobile per cui è causa ed è costretto a vivere con la sua famiglia in un immobile alla periferia di Poggiomarino, di vecchia costruzione.

In definitiva, occorre ribadire che il concetto di danno evento si distingue da quello di danno conseguenza e che soltanto quest’ultimo può essere risarcito, a condizione che lo stesso venga provato anche presuntivamente da chi formuli la richiesta risarcitoria per indisponibilità del bene per fatto altrui. La tesi del c.d. danno in re ipsa non prescinde dal predetto accertamento, ma, in termini sostanzialmente descrittivi, si limita ad affidarlo alla prova logica presuntiva sulla base del fatto che l’allegazione da parte del danneggiato di determinate caratteristiche materiali e di specifiche qualità giuridiche del bene immobile consentano di pervenire alla prova (fondata su una ragionevole certezza, la cui rispondenza logica deve essere verificata alla stregua del criterio probabilistico dell’id quod plerumque accidit) che quel tipo di immobile sarebbe stato destinato ad un impiego fruttifero, oppure anche solo che da quello sarebbe stata ritratta immediatamente e direttamente dall’avente diritto un’utilità corrispondente alle sue caratteristiche (ove, beninteso, suscettibile di valutazione economica: ciò che, peraltro, di norma appunto avviene quando si ha la disponibilità di un immobile, che offre sicuramente l’occasione di trarne giovamento anche in via diretta e immediata per il soddisfacimento di propri bisogni), ma almeno specificamente indicata (sia pure anche qui normalmente riscontrabile in caso di destinazione dell’immobile, reso indisponibile, ad abitazione del titolare persona fisica, quella integrando un bisogno essenziale della persona).

Alla luce dei suddetti principi risulta l’error in iudicando in cui, sul punto, è incorsa la Corte di merito, nella parte in cui (p. 9), pur riconoscendo la esclusiva responsabilità della Bi.Re. Costruzioni nella causazione dei danni sofferti da Annunziata e Bi.Re., ha rigettato la domanda di quest’ultimo, non essendo stato dallo stesso provato il danno sofferto e non potendo lo stesso essere liquidato ai sensi dell’art. 1226 c.c. (non trattandosi di pregiudizio impossibile o estremamente difficoltoso nel suo preciso ammontare). L’allegata indisponibilità di una soluzione abitativa è, infatti, evidente: e, solo, la liquidazione del danno conseguente andrà parametrata, se del caso -appunto – equitativamente, alla comparazione del diverso assetto derivante dalla detta indisponibilità ed imposto al titolare con quello che sarebbe conseguito dalla disponibilità invece compressa>>.

Sulla determinatezza della individuazione degli immobili nella nota di trascrizione: non è ammessa la modalità “de relato”

Cass. sez. II, ord. 26/04/2024  n. 11.213, rel. Oliva, ribadisce una regola esatta ma consolidata:

<<La Corte di Appello ha rilevato che la domanda giudiziale con la quale Fo.Wi. aveva impugnato il testamento del comune dante causa delle odierne parti, anche per lesione della quota di legittima a lei spettante, aveva ad oggetto l’intero patrimonio relitto dal de cuius, costituente l’asse ereditario, ed ha dunque escluso qualsiasi profilo di incertezza sui beni oggetto della relativa nota di trascrizione (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).

La statuizione collide con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui “Per stabilire se e in quali limiti un determinato atto relativo a beni immobili sia opponibile ai terzi, deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, dovendo le indicazioni riportate nella nota stessa consentire di individuare, senza possibilità di equivoci ed incertezze, gli estremi essenziali del negozio ed i beni ai quali esso si riferisce, senza necessità di esaminare anche il contenuto del titolo che, insieme con la menzionata nota, viene depositato presso la conservatoria dei registri immobiliari” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 4842 del 19/02/2019, Rv. 652628; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18892 del 31/08/2009, Rv. 609584; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3590 del 25/03/1993, Rv. 481562; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8066 del 27/06/1992, Rv. 477972; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10774 del 14/10/1991, Rv. 474196; nonché, in termini analoghi, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 13137 del 01/06/2006, Rv. 590715). L’unica fonte alla quale attingere per verificare la sufficienza della nota di trascrizione ai fini dell’individuazione degli immobili sui quali essa incide è dunque la nota stessa, che deve consentire con certezza l’identificazione dei detti cespiti. In tal senso, infatti, va ribadito che “Per stabilire se ed in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi, deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, senza che a nulla rilevi l’effettivo contenuto dell’atto” (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 4726 del 19/02/2019, Rv. 652832).

Il principio è stato affermato anche in relazione alla trascrizione della domanda giudiziale, poiché “Perché la trascrizione delle domande giudiziali possa produrre gli effetti previsti dall’art. 2652 cod. civ., è necessaria una precisa correlazione tra la domanda, così come riportata nella nota di trascrizione, e la sentenza che si vuole opporre ai terzi” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6851 del 18/05/2001, Rv. 546800, conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14710 del 29/05/2019, Rv. 654187).

L’unico temperamento a questo criterio è il caso in cui la nota presenti mere irregolarità. In questa specifica ipotesi, infatti, vige il principio secondo cui “In tema di trascrizione, ai sensi dell’art. 2665 c.c. l’omessa indicazione dei dati catastali degli immobili -e a fortiori l’indicazione di dati catastali non corretti- determina l’invalidità della relativa nota di trascrizione solo se induca incertezza sui soggetti, sui beni o sul rapporto cui essa inerisce e sempre che non sia consentito individuare, senza possibilità di equivoci, gli elementi essenziali del contratto” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20543 del 30/07/2019, Rv. 654894; cfr. anche Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 21758 del 04/12/2012, Rv. 624441). L’accertamento della sufficienza, o meno, degli elementi contenuti nella nota di trascrizione ai fini della corretta individuazione dei beni che ne formano oggetto si risolve in un giudizio di fatto devoluto al giudice di merito, dovendosi dare continuità, sul punto, all’ulteriore principio secondo cui “In forza dell’art. 2665 c.c. non ogni omissione od inesattezza nella nota di trascrizione determina l’invalidità della trascrizione stessa, ma solo quelle che ingenerano incertezze sulle persone, sul bene e sulla natura giuridica dell’atto; e l’accertamento dell’esistenza dello stato di incertezza, soprattutto ove incentrato sulla ritenuta idoneità dell’univocità del riferimento ritraibile dal codice fiscale, costituisce giudizio di fatto insindacabile in Cassazione se immune da vizi logici e giuridici e sorretto da congrua motivazione” (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 13543 del 30/05/2018, Rv. 648808).

A ben vedere, tuttavia, anche la disciplina dell’ipotesi eccezionale, rappresentata dalla presenza di mere irregolarità nella nota di trascrizione, non fa che confermare il criterio generale, secondo cui la nota deve comunque essere autosufficiente, e dunque contenere tutti gli elementi atti a consentire l’esatta e non equivoca individuazione dei beni sui quali essa incide. Solo nella ricorrenza di tale presupposto, infatti, può verificarsi se vi siano mere irregolarità, non suscettibili di creare incertezza sugli elementi essenziali (soggetti coinvolti, beni sui quali la trascrizione incide e tipo di atto trascritto).

Nel caso di specie, la Corte di Appello ha affermato che una nota di trascrizione, avente ad oggetto una domanda di impugnazione di un testamento per lesione dei diritti spettanti all’erede legittimo, incidesse necessariamente sull’intero patrimonio immobiliare compreso nell’asse ereditario relitto dal de cuius. Nel quale ultimo rientravano anche i beni oggetto dell’atto di alienazione oggetto della domanda.

L’affermazione, in sé corretta sul piano civilistico, non vale a superare il criterio della necessaria specificità ed autosufficienza della nota di trascrizione, il cui tenore letterale -che viene riportato a pag. 10 del ricorso- non contiene alcun elemento idoneo ad individuare con certezza i cespiti inclusi nell’asse ereditario. La nota, infatti, fa riferimento esclusivamente allo “… atto di citazione notificato a cura dell’Ufficiale Giudiziario S. Grimaldi addetto all’Ufficio Unico Notifiche presso il Tribunale di Bassano del Grappa in data 9.11.1990 a favore di Fo.Wi. contro 1) St.Ma. … 2) Fo.Fr. … 3) Fo.En. … 4) Fo.Gi. … 5) Fo.Gi.. Con il predetto atto di citazione Fo.Wi. ha convenuto i signori . dinanzi il Tribunale di Bassano del Grappa … per l’udienza del… per ivi sentire accertare la simulazione dell’atto di compravendita 2.11.88 rep. n. 2078 not. Fi., con conseguente dichiarazione di nullità dell’atto stesso, registrato a Bassano il 22.11.88 al n. 1452 mod. 2V e trascritto presso questa conservatoria il 23.11.88 al nn. 6975 rg e 5336 rp, nonché per sentir accertare, con successiva declarativa, l’invalidità del testamento olografo pubblicato il 20.6.89 dal not. De. con atto n. 17419 di rep., registrato in Bassano del Grappa il 3.7.89 al n. 795, mod. 1” (cfr. pag. 10 del ricorso).

La nota di trascrizione, dunque, non contiene alcun elemento idoneo ad individuare i beni immobili sui quali, in concreto, essa incide. Né si potrebbe affermare che il terzo sia onerato di verificare anche il contenuto degli atti richiamati nella nota stessa (compravendita e testamento), sia perché la nota deve, come già visto, contenere in sé i riferimenti opportuni e sufficienti ad individuare i cespiti che ne formano oggetto, sia perché, nel caso di specie, la compravendita del 2.11.88, oggetto della domanda di simulazione, aveva ad oggetto un immobile non coincidente con quello oggetto della compravendita del 24.6.94 di cui è causa, e sia perché, infine, il testamento olografo potrebbe, a sua volta, non contenere alcun riferimento identificativo dei cespiti, ben potendo il testatore disporre del suo patrimonio in favore degli eredi o legatari anche senza indicare i riferimenti catastali dei singoli cespiti che ne formano parte (cfr., sul punto, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1649 del 23/01/2017, Rv. 642475, secondo cui “Il testamento -olografo o pubblico che sia- non deve necessariamente contenere, a pena di nullità, le indicazioni catastali e di configurazione degli immobili cui si riferisce, essendo invece sufficiente, per la validità dell’atto, che tali beni siano comunque identificabili senza possibilità di confusioni, salva la necessità -non attinente, peraltro, ad un requisito di regolarità e validità del testamento- che gli eredi, in sede di denuncia di successione e di trascrizione del testamento medesimo, indichino specificamente gli immobili predetti, menzionandone dati catastali, confinazioni ed altro”; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1112 del 14/02/1980, Rv. 404596).

Ancora sulla funzione dell’assegno divorzile

Cass. sez. I, ord. 29/04/2024 n. 11.479, rel. Valentino:

<<6.1 – La censura è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi ed offre una peculiare interpretazione della sentenza delle S.U. citata. Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dell’art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico – patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto (Cass., S.U. n. 18287/2018). Nella motivazione della sentenza si chiarisce limpidamente la funzione e i rapporti esistenti tra i vari criteri: l’arresto di Cass., n. 11504/2017 si è “(…) pur condividendo la premessa sistematica relativa alla rigida distinzione tra criterio attributivo e determinativo, ha individuato come parametro dell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, la non autosufficienza economica dello stesso ed ha stabilito che solo all’esito del positivo accertamento di tale presupposto possano essere esaminati in funzione ampliativa del quantum i criteri determinativi dell’assegno indicati nella prima parte della norma”. La sentenza svolge la sua significativa statuizione esaltando il valore degli altri parametri in sintonia con i principi di autoresponsabilità e solidarietà, ma soltanto come elementi che incidono sulla quantificazione dell’assegno che creano vincoli ineludibili per il giudice di merito che non può considerare come parametro il pregresso tenore di vita. La Corte statuisce che: “Al fine di indicare un percorso interpretativo che tenga conto sia dell’esigenza riequilibratrice posta a base della dell’orientamento proposto dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 11490 del 1990 sia della necessità di attualizzare il diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio anche in relazione agli standards Europei, questa Corte ritiene di dover abbandonare la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, alla luce di una interpretazione dell’art. 5, c.6, più coerente con il quadro costituzionale di riferimento costituito, come già evidenziato, dagli artt. 2,3 e 29 Cost.”. “Il principio di solidarietà, posto a base del riconoscimento del diritto, impone che l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi ed all’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive sia saldamente ancorato alle caratteristiche ed alla ripartizione dei ruoli endofamiliari”. La norma regolatrice dell’assegno “conferisce rilievo alle scelte ed ai ruoli sulla base dei quali si è impostata la relazione coniugale e familiare. Tale rilievo ha l’esclusiva funzione di accertare se la condizione di squilibrio economico patrimoniale sia da ricondurre eziologicamente alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofamiliari, in relazione alla durata del matrimonio e all’età del richiedente”. Elementi tutti che la Corte di merito ha elencato e valutato con chiarezza evidenziando che la scelta di dedicarsi ad un ruolo esclusivamente endofamiliare sia stata condivisa e che le attualità difficoltà del sistema economico rendevano particolarmente complesso la ricerca di un lavoro adeguato alla specificità professionale e compatibile con il ruolo di madre della controricorrente. Si può riconoscere l’assegno divorzile soltanto sulla base del criterio assistenziale; e il mero accertamento della potenziale capacità lavorativa diviene inadeguato se la parte prova, efficacemente, che allo stato le richieste di lavoro non sono state accolte>>.

Trattamento di dati biometrici da parte dell’Università col software che controlla lo svolgimento delle prove di accesso (sul software Respondus usato da Bocconi in epoca pandemica)

Cass. sez. I, ord. 13/05/2024   n. 12.967, rel. Tricomi:

<<3.1. – In sintesi, per quanto interessa nel presente caso, il trattamento dei dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica in mancanza del consenso dell’interessato è vietato ai sensi del Regolamento 2016/6790; il divieto viene meno e il trattamento è ammesso quando è necessario per motivi di interesse pubblico rilevante, in specifiche materie, tra cui rientra l’istruzione e la formazione in ambito scolastico, professionale, superiore o universitario, secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 196/2003, con la precisazione che il trattamento “deve essere proporzionato alla finalità perseguita, rispettare l’essenza del diritto alla protezione dei dati e prevedere misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato”, in linea anche con il principio di “responsabilizzazione” dettato dall’art.5, par. 2 del Regolamento 2016/679.

3.2. – Il Tribunale ha affermato che Respondus, descritto come un software che “cattura le immagini video e lo schermo dello studente identificando e contrassegnando con un flag i momenti in cui sono rilevati comportamenti insoliti e/o sospetti mediante registrazione video e istantanee scattate a intervalli casuali per tenere traccia di comportamenti anomali… Al termine della prova, il sistema elabora il video, inserendo segnali di allerta in merito a possibili indici di comportamenti scorretti … affinché il docente … possa poi valutare se effettivamente sia stata commessa un’azione non consentita nel corso della prova” (fol.12), realizza la mera acquisizione di una foto (o una registrazione video) e non configura un trattamento di dati biometrici.

In questa sequenza, secondo il Tribunale, non vi sarebbe trattamento dei dati biometrici tesi a identificare in modo univoco una persona fisica, posto che lo studente esaminato dal software non sarebbe identificato attraverso i suoi dati biometrici raccolti e trattati dal sistema Respondus, ma dal docente chiamato a vagliare il video finale.

3.3. – La conclusione è in contrasto con le norme in materia di trattamento dei dati personali e l’errore che segna la ricostruzione del Tribunale riguarda la sussunzione della fattispecie concreta nella fattispecie astratta di trattamento di dati personali, genus nel quale rientrano i dati biometrici.

3.4. – Come si evince dalla descrizione del funzionamento del software Respondus (prima ricordata e desunta dalla sentenza impugnata), questo non si limita a registrare a video la prova di esame, ma nel corso della ripresa cattura immagini della persona fisica che svolge la prova di esame e seleziona, mediante la realizzazione di video, lo scatto di istantanee ad intervalli casuali e i momenti in cui rileva comportamenti insoliti. Proprio in ragione della contestuale selezione del materiale raccolto in merito a comportamenti anomali, al termine della prova, lo stesso software realizza un video in cui confluiscono gli elementi anomali (contrassegnati da flag) che possono attenere alla conferma o meno della corrispondenza fisica della persona esaminata con lo studente (già identificato dall’Università come da sottoporre alla prova) e a ulteriori anomalie registrate; video che viene sottoposto al docente, per la sua valutazione finale in ordine alla regolarità della prova sostenuta dalla persona.

Risulta da ciò palese che le riprese video e foto realizzate da Respondus non hanno solo la funzione di documentare la prova di esame, ma si connotano per la contestuale elaborazione e selezione del materiale, di momento in momento raccolto, selezione che converge nella individuazione ed alla segnalazione di comportamenti anomali, attraverso la produzione del video finale.

Il Tribunale ha mancato di considerare che questa complessiva attività integra un autonomo e articolato trattamento dei dati biometrici acquisiti ed elaborati dallo stesso software, e attiene anche alla conferma dell’identità della persona fisica esaminata, come previsto dall’art.4, n.14 del Regolamento, giacché l’esito di detta elaborazione risulta sottoposto solo ex post al docente per la sua valutazione in ordine alla regolarità della prova.

Come ricordato dallo stesso Tribunale, il ciclo di vita dei dati biometrici è costituito dalla sequenza in quattro fasi – secondo la Descrizione accreditata dal Garante per la protezione dei dati personali, Linee Guida in materia di riconoscimento biometrico e firma grafometrica, 12 novembre 2014 – che vede:

a) Una prima fase, con un rilevamento tramite sensori specializzati (ad es. scanner per il rilevamento dell’impronta digitale) o dispositivi di uso generale (ad es. videocamera) di caratteristiche biometriche (ad es. viso dell’individuo);

b) Una seconda fase: a seguito del rilevamento si acquisisce un campione biometrico (ad es. immagine del viso);

c) Una terza fase: dal campione biometrico vengono estratti tratti (ad es. specifici punti del viso) idonei a costituire il modello biometrico che sarà conservato in una banca dati;

d) Una quarta fase, cd. del confronto (o di match): il modello biometrico viene confrontato con le effettive caratteristiche dell’individuo ed il confronto in parola consente la identificazione univoca della persona fisica.

La decisione impugnata non risulta avere tenuto conto, rettamente, di tali indicazioni, perché ha trascurato di considerare che, nel procedimento attuato mediante l’utilizzo del software Respondus, per come descritto dalla stesso Tribunale, la quarta fase di confronto appare svolgersi nel corso di tutta la ripresa, sulla scorta della elaborazione informatica dei dati di volta in volta acquisiti ed elaborati mediante la creazione di flag relativi ai comportamenti anomali, che possono riguardare anche la conferma della corrispondenza identitaria della persona ripresa in video con quella dello studente da esaminare, proprio perché già identificato dall’Università, e che il controllo conclusivo della prova di esame, affidato al docente persona fisica non esclude (ne è incompatibile con) il trattamento automatizzato dei dati biometrici, ove già attuato mediante l’impiego del software, e non lo sottrae alla disciplina dettata dall’art.9 del Regolamento 2016/679.

3.5. – Il motivo, che è dunque fondato, va accolto e il Tribunale, in sede di rinvio, dovrà procedere al riesame, attenendosi al seguente principio di diritto:

“In tema di trattamento dei dati personali, ai sensi dell’art. 9 del Reg (UE) 2016/679, ricorre un trattamento di dati biometrici, come definiti dall’art. 4, n.14 del Regolamento 2016/679, quando i dati personali sono ottenuti mediante un trattamento tecnico automatizzato specifico, realizzato con un software che, sulla base di riprese e analisi delle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica, le elabora, evidenziando comportamenti o elementi anomali, e che perviene a un esito conclusivo, costituito da una elaborato video/foto che consente (o che conferma) l’identificazione univoca della persona fisica, restando irrilevante la circostanza che l’esito finale del trattamento sia successivamente sottoposto alla verifica finale di una persona fisica“>>.

REsponsabilità del Comune ex art. 2051 cc per dissuasori di sosta negligentemente posati a terra

Cass. sez. III, ord. 24/04/2024 n. 11.140., rel. Guizzi:

Fatto:

<<1. Ar.Si. e No.Al., in qualità di genitori esercenti la responsabilità genitoriale sul figlio Fr.An. (ancora minorenne al momento della proposizione della presente impugnazione), ricorrono, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 581/21, del 10 maggio 2021, della Corte d’appello di Lecce, che – nel respingerne il gravame esperito avverso la sentenza n. 359/18, del 29 gennaio 2018, del Tribunale di Lecce – ha confermato il rigetto della domanda risarcitoria dagli stessi proposta nei confronti del Comune di Melendugno, in relazione al sinistro occorso al loro figlio il 16 agosto 2013, esito motivato in ragione del difetto di legittimazione passiva del convenuto, per mancata prova che i dissuasori di sosta, che provocarono l’incidente, fossero di proprietà del Comune ovvero sotto il controllo oppure la custodia dello stesso.

2. Riferiscono, in punto di fatto, gli odierni ricorrenti di aver adito l’autorità giudiziaria, lamentando che il figlio(Omissis), all’uscita da un ristorante sito nella via Rinascimento del Comune di Melendugno, appoggiava il piede destro su di una catena di ferro che collegava tra loro due dissuasori di sosta, collocati sulla sede viaria. La pressione esercitata sulla catena dal peso, ancorché esiguo, del bimbo, determinava il ribaltamento di uno dei due dissuasori (che si rivelavano non ancorati al suolo), finito sull’avampiede destro del minore, procurandogli gravi lesioni personali>>.

Diritto:

<<8.1.1. Nello scrutinarlo, occorre muovere dal principio – che risulta consolidato nella giurisprudenza di questa Corte – secondo cui la responsabilità da cose in custodia (sui cui presupposti e sulla cui articolazione può qui bastare un rinvio alla motivazione di Cass. Sez. 3, ord. 28 novembre 2023, n. 33074, ove compiuti riferimenti) è ravvisabile anche in relazione ai beni demaniali (tra le più recenti, Cass. Sez. 3, sent. 22 settembre 2023, n. 27137, non massimata), e quindi pure alle strade pubbliche, di talché “agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico transito è in linea generale applicabile l’art. 2051 cod. civ., in riferimento alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze della strada, indipendentemente dalla sua estensione” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent.29 luglio 2016, n. 15761, Rv. 641162-01; nello stesso senso, tra le molte, già Cass. Sez. 3, sent.29 marzo 2007, n. 7763, Rv. 596965-01, nonché, successivamente, Cass. Sez. 3, ord.1° febbraio 2018, n. 2481, Rv. 647935-01). È stato, inoltre, precisato, sempre con riferimento alla custodia di strade pubbliche, che “la responsabilità ex art. 2051 cod. civ. postula la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa”, sussistendo – in questo, e in ogni altro caso in cui la suddetta norma risulti applicabile – “un’ipotesi di responsabilità oggettiva, il cui unico presupposto è l’esistenza di un rapporto di custodia”, essendo “del tutto irrilevante”, per contro, “accertare se il custode sia stato o meno diligente nell’esercizio della vigilanza sulla cosa” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. n. 2481 del 2018, cit.). Di conseguenza, “il danneggiato ha il solo onere di provare l’esistenza di un valido nesso causale tra la cosa ed il danno, mentre il custode ha l’onere di provare che il danno non è stato causato dalla cosa, ma dal caso fortuito, ivi compreso il fatto dello stesso danneggiato o del terzo” (cfr., nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 3, ord.n. 2481 del 2018, cit.).

D’altra parte, non irrilevante – sempre nella medesima prospettiva della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. degli enti proprietari delle strade – è la circostanza che essi, ai sensi dell’art. 14, comma 1, cod. strada, debbono provvedere, tra l’altro, “alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”, altresì “precisandosi (comma 3) che per le strade in concessione i poteri e i compiti dell’ente proprietario della strada previsti dal codice della strada sono esercitati dal concessionario, salvo che sia diversamente stabilito” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent.9 giugno 2016, n. 11802, Rv. 640205-01)>>.

Applicati al caso di specie:

<<8.1.2. Orbene, alla stregua di tali principi, ha errato la sentenza impugnata, nel rigettare la domanda risarcitoria sul presupposto che i dissuasori, presenti sul tratto di strada pubblica difronte al ristorante, fossero “posizionati agli angoli di un rettangolo delimitato da strisce bianche, che evidenziano una zona di suolo pubblico riservata allo stesso esercizio commerciale”, ritenendo, per ciò solo, che da tanto dovesse “desumersi che è stato quest’ultimo ad installare i dissuasori”, così, pertanto, escludendo che “il Comune avesse alcuna responsabilità sugli stessi”.

Al contrario, la semplice presenza dei dissuasori sul suolo pubblico – fatto non contestato dal Comune – legittimava, alla stregua dei principi sopra richiamati, la pretesa risarcitoria ex art. 2051 cod. civ. fatta valere nei suoi confronti.

Era, dunque, a carico del convenuto – come correttamente osservano i ricorrenti – la dimostrazione o del titolo amministrativo in forza del quale terzi, non solo fruivano dell’area in questione, ma erano stati abilitati all’installazione dei dissuasori e per di più in modo tale da escludere qualunque signoria di fatto sui medesimi da parte del custode della strada pubblica, ovvero che tali manufatti, in assenza di un titolo siffatto, fossero stati posti in un arco temporale così ravvicinato da non consentire il potere di controllo da parte dell’Ente proprietario dell’area demaniale. Sussistendo, infatti, la seconda delle evenienze testé delineate, avrebbe potuto trovare applicazione il principio secondo cui la pubblica amministrazione “è liberata dalla responsabilità civile ex art. 2051 cod. civ., con riferimento ai beni demaniali, ove dimostri che l’evento è stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, ovvero che l’evento stesso ha esplicato la sua potenzialità offensiva prima che fosse ragionevolmente esigibile l’intervento riparatore dell’ente custode” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord.11 marzo 2021, n. 6826, Rv. 660907-01; analogamente, Cass. Sez. 3, ord.9 marzo 2020, n. 6651, Rv. 657165-01; Cass. Sez. 3, ord.18 giugno 2019, n. 16295, Rv. 654350-01; Cass. Sez. 6-3, ord.19 marzo 2018, n. 6703, Rv. 648489-01)>>.

L’importanza del poter azionare un marchio di rinomanza, invece che ordinario

Marcel Pemsel su IPKat segnala Cancellation Division EUIPO n. C 57137 del 25 aprile 2024, Luis Vuitton c. Yang, come esempio dell’utilità pratica dell’optare per l’azione basata sulla rinomanza nei casi in cui è dubbio ricorrano i requisiti per quella sulla tutela ordinaria.

Non si può che convenirne. Ma quanto ha speso LV nei decenni per il suo marketing?

Marcbio depositato da Yang:

Abnteriuorità azionata da LV:

Ebbene, la domanda di annullamento è accolta sulla base della rinomanza.,

<<Therefore, taking into account and weighing up all the relevant factors of the present case, it must be concluded that, when encountering the contested mark, the relevant consumers will be likely to associate it with the earlier sign, that is to say, establish a mental ‘link’ between the signs. However, although a ‘link’ between the signs is a necessary condition for further assessing whether detriment or unfair advantage are likely, the existence of such a link is not sufficient, in itself, for a finding that there may be one of the forms of damage referred to in Article 8(5) EUTMR (26/09/2012, T‑301/09, CITIGATE / CITICORP et al., EU:T:2012:473, § 96)>>.

Poi sull’unfair advantgege: The Cancellation Division agrees with the applicant’s arguments. The contested sign will, through its similarity with the earlier reputed trade mark, attract more consumers to the EUTM proprietor’s goods and will therefore benefit from the reputation of the earlier trade mark. A substantial number of consumers may decide to turn to the EUTM proprietor’s goods due to the mental association with the applicant’s reputed mark, thus misappropriating its powers of attraction and advertising value. This may stimulate the sales of the EUTM proprietor’s goods to an extent that they may be disproportionately high in comparison with the size of the EUTM proprietor’s own promotional investment. It may lead to the unacceptable situation where the EUTM proprietor is allowed to take a ‘free-ride’ on the investment of the applicant in promoting and building up goodwill for the EUTM proprietor’s sign. This would give the EUTM proprietor a competitive advantage since its goods would benefit from the extra attractiveness they would gain from the association with the applicant’s earlier mark. The applicant’s leather goods are known for their traditional manufacturing methods, handcrafted from the highest quality raw materials. The earlier mark is identified with the image of luxury, glamour, exclusivity and quality of the products, and those characteristics can easily be transferred to the contested goods.

Manca del resto la due cause (difesa ai limiti della responsabilità aggravata, civilprocessualmente):

The EUTM proprietor claimed to have due cause for using the contested mark because (1) a search of trade mark registers with effect in the EU did not reveal any trade marks identical or similar to the contested sign; and (2) the name of the famous Italian Piazza Vittorio is the inspiration for the name ‘VITTORIO’. The applicant wanted to dedicate her brand to Italianism, to Rome and to the place where she lives with her family.

These EUTM proprietor arguments do not amount to ‘due cause’ within the meaning of Article 8(5) EUTMR. Due cause under Article 8(5) EUTMR means that, notwithstanding the detriment caused to, or unfair advantage taken of, the distinctive character or reputation of the earlier trade mark, registration and use by the EUTM proprietor of the mark for the contested goods may be justified if the EUTM proprietor cannot be reasonably required to abstain from using the contested mark, or if the EUTM proprietor has a specific right to use the mark for such goods that takes precedence over the earlier trade mark. In particular, the condition of due cause is not fulfilled merely by the fact that a search of trade mark registers having effect in the EU has not revealed any trade marks identical or similar to the contested sign. Nor can the fact that ‘VITTORIO’ coincides with the name of a square in Turin justify its use as part of the sign, which would take unfair advantage of the reputation built up through the efforts of the proprietor of the earlier mark.

Ci sono anche ragine considerazione in fatto suilla provba dell’uso di cu iè onerata LV ed art. 64 c.23 -3 EUTMR

la sopravvenuta stabile convivenza è causa di revisione dell’assegno divorzile

Cass. sez. I, ord. 30/04/2024 n. 11.627, rel. Meloni, sull’art. 8 legge divorzio:

<<Nel caso in esame la Corte d’appello ha ampiamente motivato in ordine al presunto giudicato: ” ritiene la Corte che il provvedimento impugnato debba essere confermato posto che si rilevano circostanze sopravvenute e provate dalla controparte tali da alterare l’equilibrio raggiunto e accertato in precedenza dal medesimo Tribunale nell’ambito del processo di divorzio, la cui sentenza è stata impugnata e poi confermata dalla Corte di Appello e, successivamente, anche dalla Suprema Corte di Cassazione, ma, a differenza di quanto sostenuto dalla reclamante, non ha delibato l’aspetto della consolidata convivenza con il Bu.Fr., che costituisce dunque l’elemento nuovo che ha legittimato la revoca dell’assegno divorzile ivi riconosciuto in suo favore: nella sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio si era fatto invece riferimento ad una precedente relazione della Gi.An., che però era da poco cessata e si fa cenno in sede di appello all’inizio di una nuova convivenza, che all’epoca dunque non era consolidata. Ed invero, la produzione dei documenti significativi della stabilità della convivenza in sede in primo grado è avvenuta in occasione dell’udienza di trattazione e comunque di questi ha preso atto il legale della reclamante che a verbale ha dichiarato di non contestarli dovendo rilevarsi che ben poteva interloquire sul punto chiedendo un termine per note sicché la produzione non può ritenersi irrituale alla luce della libertà delle forme di cui ai procedimenti di volontaria giurisdizione. In buona sostanza un elemento nuovo c’è che giustificherebbe la modifica delle condizioni di divorzio e cioè la stabile convivenza della reclamante con il Bu.Fr., che dura da moltissimi anni, tanto che gli accertamenti prodotti sono stati fatti da un’agenzia investigativa nel corso di 12 anni, ed è significativo che egli stesso abbia ricevuto la notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado qualificandosi come persona di famiglia convivente, mentre a nulla rileva a questi fini che questi mantenga la residenza anagrafica in altro Comune. Da un lato, quindi, abbiamo una relazione di convivenza stabile, un nuovo progetto famigliare che dura da anni e che non può essere messo in discussione e deve ritenersi elemento nuovo rispetto alla sentenza di divorzio.”. Sulla base di tali sovrani accertamenti di merito, non è né illogico né irrazionale concludere – come ha fatto la Corte territoriale – che, nel caso, era venuta del tutto meno la componente relativa alla funzione assistenziale dell’assegno divorzile.

Con riguardo alla componente compensativa, la Corte ha così motivato:” come ha osservato il Tribunale di Pescara, la ricorrente non ha fornito elementi, già in occasione della causa di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di aver contribuito alla comunione familiare, così come nella memoria difensiva, dovendosi ritenere all’uopo certamente non sufficiente il dato del mancato svolgimento di attività lavorativa, avendo in proposito la Suprema Corte evidenziato (Cass. n. 21228/2019, richiamata dalle Sezioni Unite sopra citate) che il giudice di merito non potrà nemmeno presumere, puramente e semplicemente, che il non aver uno dei due coniugi svolto alcuna attività lavorativa sia da ascrivere ad una scelta comune dei coniugi e neppure che il non aver svolto attività lavorativa abbia di per sé sicuramente giovato al successo professionale dell’altro coniuge”.

I motivi proposti nel presente ricorso, pertanto, non sono idonei a censurare tali passaggi argomentativi che costituiscono accertamenti di merito non rivalutabili in questa sede>>.