L’interpretazione del regolamento condominiale contrattuale non può essere estensiva, laddove pone limiti alle facoltà individuali

Cass. sez. II, ord. 23/05/2024 n. 14.377, rel. Besso Marcheis, circa una clausola contenente  la <<previsione di orari per lo svolgimento di lavori di ordinaria e straordinaria manutenzione (taglio erba, giardinaggio, manutenzioni dell’immobile, etc.), consentiti solo dal lunedì al sabato in determinate fasce orarie e vietati nei giorni festivi>>:

<<La giurisprudenza di questa Corte sottolinea, infatti, come il regolamento contrattuale può imporre divieti e limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in esclusiva proprietà, sia mediante elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare, ma “la compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive deve risultare da espressioni incontrovertibilmente rilevatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l’individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti” (così Cass. n. 21307/2016)>>.

Violazione di servitù reciproche condominiali: i divieti di certi usi delle parti di proprietà esclusiva devono essere “chiari ed espliciti”

Cass. sez.- II n- 15.222 del 30 maggio 2023 rel. Scarpa, circa la legittimità dell’uso di un immoibile condominiale come asilo nido.

L’art. 9 del regolamento di condominio era finalizzato <<ad impedire di “destinare gli appartamenti e gli altri enti dello stabile a uso diverso da quello figurante nel rogito di acquisto”, aggiungendo “e’ vietato destinare gli alloggi a uso sanitario, gabinetti di cura, ambulatorio per malattie infettive e contagiose, scuole di musica, di canto, di ballo e pensioni”>>.

sulla non ncessità di litisconsorzio verso il pripreitario condoiuno per le azioni di cessazione, bastando la presenza del  conduttore:

<<2.6.1. L’azione intentata dal Condominio di via (Omissis) per l’asserita violazione, in immobile condotto in locazione, di una prescrizione contenuta nel regolamento condominiale di non destinare i singoli locali di proprietà esclusiva dell’edificio a determinati usi, recante altresì la domanda di cessazione dell’attività abusiva e di accertamento della illegittimità dell’attività svolta nell’immobile alla stregua del divieto regolamentare, non poteva proporsi nei confronti della sola conduttrice Child Care s.r.l., essendo la proprietaria dell’unità immobiliare Talvera s.a.s. litisconsorte necessario in un tale giudizio. Ciò si comprende in quanto il giudizio che sia diretto a verificare l’esistenza e l’opponibilità di una siffatta clausola del regolamento, la quale preveda limitazioni all’uso delle unità immobiliari in proprietà esclusiva, accerta la sussistenza di servitù reciproche che riguardano immediatamente la cosa e perciò deve coinvolgere anche il proprietario, e non soltanto il conduttore.

Deve invero considerarsi che l’azione del condominio diretta a curare l’osservanza del regolamento ed a far riconoscere in giudizio l’esistenza della servitù che limiti la facoltà del proprietario della singola unità di adibire il suo immobile a determinate destinazioni, si configura come confessoria servitutis, e perciò vede quale legittimato dal lato passivo in primo luogo colui che, oltre a contestare l’esistenza della servitù, abbia un rapporto attuale con il fondo servente (proprietario, comproprietario, titolare di un diritto reale sul fondo o possessore suo nomine), potendo solo nei confronti di tali soggetti esser fatto valere il giudicato di accertamento, contenente, anche implicitamente, l’ordine di astenersi da qualsiasi turbativa nei confronti del titolare della servitù o di rimessione in pristino, mentre gli autori materiali della lesione del diritto di servitù possono essere eventualmente chiamati in giudizio quali destinatari dell’azione ex art. 1079 c.c. ove la loro condotta si sia posta a titolo di concorso con quella di uno dei predetti soggetti o abbia comunque implicato la contestazione della servitù (arg. da Cass. n. 1332 del 2014; n. 1383 del 1994).

Il condominio, quindi, sempre che sia provata l’operatività della clausola limitativa, ovvero la sua opponibilità al condomino locatore, può chiedere, comunque, nei diretti confronti del conduttore di una porzione del fabbricato condominiale, la cessazione della destinazione abusiva e l’osservanza in forma specifica delle istituite limitazioni, giacché il conduttore non può venire a trovarsi, rispetto al condominio, in posizione diversa da quella del condomino suo locatore, il quale, a sua volta, è tenuto ad imporre contrattualmente al conduttore il rispetto degli obblighi e dei divieti previsti dal regolamento, a prevenirne le violazioni e a sanzionarle anche mediante la cessazione del rapporto di locazione (cfr. Cass. n. 24188 del 2021; n. 11383 del 2006; n. 4920 del 2006; n. 16240 del 2003; n. 23 del 2004; n. 15756 del 2001; n. 4963 del 2001; n. 8239 del 1997; n. 825 del 1997; n. 5241 del 1978).

Le aspirazioni del conduttore di destinare l’immobile locato al soddisfacimento delle proprie esigenze abitative o all’esercizio della sua attività produttiva non hanno, invero, spazio per alcuna rivendicazione nei confronti della collettività condominiale, e vengono relegate al piano dei rimedi sinallagmatici esperibili verso il locatore. Il nostro ordinamento, diversamente da altri, non differenzia, in termini di opponibilità al conduttore, tra clausole del regolamento condominiale trascritte prima o dopo la stipula del contratto di locazione. Il conduttore convenuto dal condominio sull’assunto della violazione della norma regolamentare non può perciò invocare alcuna verifica giudiziale di meritevolezza della limitazione al suo godimento, ma solo rilevare, eventualmente, la mancata approvazione o l’inopponibilità di quel regolamento che rappresenta la condizione costitutiva dell’esperita azione>>

e poi:

<<2.6.5. Configurandosi, appunto, tali restrizioni di godimento delle proprietà esclusive come servitù reciproche, intanto può allora ritenersi che un regolamento condominiale ponga limitazioni ai poteri ed alle facoltà spettanti ai condomini sulle unità immobiliari di loro esclusiva proprietà, in quanto le medesime limitazioni siano enunciate nel regolamento in modo chiaro ed esplicito, dovendosi desumere inequivocamente dall’atto scritto, ai fini della costituzione convenzionale delle reciproche servitù, la volontà delle parti di costituire un vantaggio a favore di un fondo mediante l’imposizione di un peso o di una limitazione su un altro fondo appartenente a diverso proprietario. Il contenuto di tale diritto di servitù si concreta nel corrispondente dovere di ciascun condomino di astenersi dalle attività vietate, quale che sia, in concreto, l’entità della compressione o della riduzione delle condizioni di vantaggio derivanti – come qualitas fundi, cioè con carattere di realità – ai reciproci fondi dominanti, e perciò indipendentemente dalla misura dell’interesse del titolare del Condominio o degli altri condomini a far cessare impedimenti e turbative. Non appaga, pertanto, l’esigenza di inequivoca individuazione del peso e dell’utilità costituenti il contenuto della servitù costituita per negozio la formulazione di divieti e limitazioni nel regolamento di condominio operata non mediante elencazione delle attività vietate, ma mediante generico riferimento ai pregiudizi che si ha intenzione di evitare (quali, ad esempio, l’uso contrario al decoro, alla tranquillità o alla decenza del fabbricato), da verificare di volta in volta in concreto, sulla base della idoneità della destinazione, semmai altresì saltuaria o sporadica, a produrre gli inconvenienti che si vollero, appunto, scongiurare (Cass. n. 38639 del 2021; n. 33104 del 2021; n. 24188 del 2021; n. 21307 del 2016; n. 23 del 2004).

2.6.6. La condivisa esigenza di chiarezza e di univocità che devono rivelare i divieti ed i limiti regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva, coerente con la loro natura di servitù reciproche, comporta che il contenuto e la portata di detti divieti e limiti vengano determinati fondandosi in primo luogo sulle espressioni letterali usate. L’art. 1362 c.c., del resto, allorché nel comma 1 prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile>>.

Sulla necessitàò di precisa indiduazione della servitu cioè meglio del “peso” concordato sul fondo servente: ovvia, visto l’art. 1346 cc e la fonte contrattuale dela servitù. Meno ovvio è il criterio letterale che impedisce applicazioni estensive o analogiche (diremmo se si tratasse di norma legislativa invece che di patto)

<<2.6.7. Nella interpretazione del divieto di “destinare gli appartamenti e gli altri enti dello stabile a uso diverso da quello figurante nel rogito di acquisto”, occorre allora considerare che il contenuto di un diritto reale di servitù non può consistere in un generico divieto di disporre del fondo servente, dovendo il titolo costitutivo contenere tutti gli elementi atti ad individuare la portata oggettiva del peso imposto sopra un fondo per l’utilità di altro fondo appartenente a diverso proprietario, con la specificazione dell’estensione (Cass. n. 18349 del 2012).

Si insegna in dottrina che la servitù è un “diritto reale speciale”, sicché contenuto di essa, ove il peso imposto consista in un non facere, non può mai essere un indeterminato divieto di astensione da ogni diversa destinazione all’utilizzazione del fondo servente, che ne svuoti la proprietà.

La questione rievoca il complesso dibattito sui vincoli convenzionali alla destinazione d’uso dei beni immobili e sulla inidoneità degli stessi a valicare l’efficacia meramente obbligatoria. Già la più risalente giurisprudenza sosteneva l’invalidità delle clausole contrattuali degli atti di vendita che vietassero sine die all’acquirente di imprimere una diversa destinazione al bene, per l’effetto di disintegrazione del diritto di proprietà da esse discendenti (Cass. n. 1056 del 1950; n. 1343 del 1950; n. 4530 del 1984).

La costituzione della servitù, concretandosi in un rapporto di assoggettamento tra due fondi, importa, allora, una restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente, ma tale restrizione, seppur commisurata al contenuto ed al tipo della servitù, non può risolversi nella totale elisione delle facoltà di disposizione del fondo servente (Cass. n. 1037 del 1966), precludendo al titolare dello stesso ogni possibile mutamento di destinazione.

Avendo, peraltro, la Corte d’appello di Milano analizzato la nozione legislativa della “destinazione d’uso”, occorre precisare che la decisione in esame non pone una questione di interpretazione delle disposizioni di legge, la quale è regolata dall’art. 12 preleggi assegnando un valore prioritario al dato letterale ed individuando, quale ulteriore elemento, l’intenzione del legislatore, quanto questione di interpretazione contrattuale in senso stretto, la quale, come già considerato, ha ad oggetto la determinazione della volontà dei contraenti.

Nella interpretazione, invece, del divieto di “destinare gli alloggi a uso sanitario, gabinetti di cura, ambulatorio per malattie infettive e contagiose, scuole di musica, di canto, di ballo e pensioni”, occorre preservare il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, avendo riguardo alle limitazioni enunciate nel regolamento in modo chiaro ed esplicito, e cioè alla elencazione delle attività vietate risultanti dall’atto scritto, non potendosene desumere ulteriori e diverse in ragione delle possibili finalità pratiche perseguite dai condomini contraenti in rapporto ai pregiudizi che si aveva intenzione di evitare (quale, ad esempio, evitare tutte le attività parimenti “rumorose”).

3. Alla stregua dei principi enunciati, dovrà procedersi in sede di rinvio ad accertare se l’art. 9 del regolamento condominiale fosse opponibile alla condomina locatrice Talvera s.a.s. e se lo stesso rechi un divieto chiaro ed esplicito di destinare le unità immobiliari di proprietà esclusiva ad asilo nido>>.

Probabilmente, stante l’affermata interpretazione letterale, la SC avrebbe potuto ex art. 384/2 cpc decidere nel merito, dato che l’asilo nido non rientra negli usi proibiti elencati  nel regol..

Sul regolamento condominiale apponente limiti -rectius: servitù reciproche- alle proprietà individuali (regolamento contrattuale)

Utilissime e chiarissime precisazioni sull’oggetto in Cass. n° 24.526 del 09.08.2022, sez. 2, rel. Manna:

  • a giurisprudenza di questa Corte è costante, innanzi tutto, nell’affermare che i divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro ed esplicito, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l’individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti
  • La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito ormai da tempo che le clausole dei regolamenti condominiali predisposti dall’originario proprietario dell’edificio condominiale ed allegati ai contratti di acquisto delle singole unità immobiliari, nonché quelle dei regolamenti condominiali formati con il consenso unanime di tutti i condomini, hanno natura contrattuale soltanto qualora si tratti di clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni ovvero attributive ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto agli altri, mentre, qualora si limitino a disciplinare l’uso dei beni comuni, hanno natura regolamentare. Ne consegue che, mentre le clausole di natura contrattuale possono essere modificate soltanto dall’unanimità dei condomini e non da una deliberazione assembleare maggioritaria, avendo la modificazione la medesima natura contrattuale, le clausole di natura regolamentare sono modificabili anche da una deliberazione adottata con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., comma 2 (S.U. n. 943/99).Di riflesso, la necessità della forma scritta, che limitatamente alle clausole del regolamento aventi natura contrattuale, è imposta dalla circostanza che queste incidono sui diritti immobiliari dei condomini sulle loro proprietà esclusive o sulle parti comuni oppure attribuiscono a taluni condomini diritti di quella natura maggiori di quelli degli altri condomini (v. S.U. n. 943/99; conformi, nn. 5626/02 e 24146/04).Il fatto che la medesima tecnica contrattuale (scilicet, il rinvio al regolamento predisposto dal costruttore contenuto nei singoli contratti di trasferimento delle unità singole) sia impiegata per dar vita a un regolamento che contenga tanto le previsioni sull’uso delle cose comuni, quanto eventuali limitazioni incidenti sulle proprietà individuali, non significa che tutto ciò che il regolamento stesso contenga sia, per ciò solo e ad ogni effetto, di natura contrattuale. Al contrario, dove c’e’ disposizione regolamentare, nell’accezione propria del termine ai sensi dell’art. 1138 c.c., comma 1, non c’e’ contratto o convenzione, come si desume dall’art. 1138 c.c., comma 4, e viceversa.
  • principio di dirityo : “Le clausole contenute in un regolamento condominiale di formazione contrattuale, le quali limitino la facoltà dei proprietari delle unità singole di adibire il proprio immobile a determinate destinazioni, hanno natura contrattuale e, pertanto, ad esse deve corrispondere una tecnica formativa di pari livello formale e sostanziale, che consiste in una relatio perfecta attuata mediante la riproduzione delle suddette clausole all’interno dell’atto d’acquisto della proprietà individuale, non essendo sufficiente, per contro, il mero rinvio al regolamento stesso”
  • 6.3. – Dalla sentenza impugnata non è dato desumere, inoltre, se l’odierno ricorrente abbia acquistato il proprio immobile dal costruttore o da un precedente condomino. Ciò è rilevante in quanto, in tale sola ultima ipotesi, è necessario che le limitazioni di cui si discute, ove non espressamente contenute nell’atto stesso di vendita, risultino trascritte contro detta proprietà in data anteriore all’acquisto fattone dal D.. Ed in tal caso non è indispensabile la loro riproduzione nel contratto stesso.La necessità di tale accertamento scaturisce dal principio della relatività degli effetti negoziali, ai sensi dell’art. 1372 cpv. c.c.. Principio che ha posto in giurisprudenza la questione del se e del come, in ambito condominiale, si possa predicare un’efficacia ultra partes delle clausole che limitino l’uso o la destinazione delle proprietà individuali.La giurisprudenza di questa C.S. ha espresso nel tempo opinioni divergenti, avendole ricondotte a tre diverse categorie giuridiche: onere reale, obligatio propter rem o servitù.
  • L’onere reale, infatti, (i) consiste in un’obbligazione periodica di dare o di facere (ma in realtà gli unici casi censiti e censibili prevedono solo un dare, ben dubbie essendo altre ipotesi quali l’art. 960 c.c., comma 1, e art. 981 c.c., comma 1) in favore del proprietario di un altro fondo o del medesimo fondo (ove il proprietario sia diverso dal possessore oblato), giustificata dal vantaggio che al soggetto obbligato deriva dal possedere un bene altrui ovvero dalla necessità di compensare il dominio concorrente sul bene stesso o altre prestazioni del creditore che arrecano utilità al fondo; (ii) in caso di mancato pagamento il relativo credito è assistito dalla garanzia reale sul medesimo bene onerato; (iii) si estingue mediante il c.d. abbandono liberatorio; e, infine, (iv) pacificamente può essere previsto solo dalla legge o nei casi da quest’ultima consentiti.Nessuna di queste caratteristiche è ravvisabile nelle limitazioni all’uso delle proprietà singole.
  • 6.3.3. – Anche se solo di recente, la giurisprudenza di questa Corte può ritenersi assestata sulla tesi per cui le restrizioni alle facoltà inerenti al godimento della proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio, volte a vietare lo svolgimento di determinate attività all’interno delle unità immobiliari esclusive, costituiscono servitù reciproche e devono perciò essere approvate mediante espressione di una volontà contrattuale, e quindi con il consenso di tutti i condomini, mentre la loro opponibilità ai terzi, che non vi abbiano espressamente e consapevolmente aderito, rimane subordinata all’adempimento dell’onere di trascrizione (così, da ultimo, n. 17159/22, non massimata, che a sua volta cita le nn. 6769/18, 23/04, 5626/02, 4963/01, 49/92, 4554/86; cui adde le nn. 277/64, 4781/83, 49/92, 11688/99, 4920/06, 1064/11, 14898/13 e 21024/16).
  • La necessaria premessa di tale orientamento, cui va assicurata continuità, risiede nell’ammissibilità (pacifica in dottrina e in giurisprudenza: v. sentenza n. 3258/83) sia di servitù atipiche, tipico essendo il solo genus così come regolato dall’art. 1027 c.c. e ss., sia di servitù reciproche (anch’esse senz’altro ammesse dalla giurisprudenza di questa Corte: cfr. ex pluribus e tra le più recenti, le nn. 524/21, 14820/18 e 5336/17). Queste ultime comportano che ciascun fondo e’, ad un tempo, servente e dominante, data la corrispondenza biunivoca del peso imposto da un’apposita previsione contenuta nel regolamento contrattuale, a carico ed a favore di ciascuna unità di proprietà singola.Trattandosi di servitù, la loro opponibilità ai terzi acquirenti di ciascuna unità singola dipende dalla trascrizione, prevista dall’art. 2643 c.c., n. 4, che deve riguardare la specifica convenzione che contenga la servitù stessa, con particolare richiamo alle clausole relative e al loro contenuto. Con la creazione del condominio per effetto della prima alienazione, la servitù è costituita a favore e contro il primo immobile di proprietà singola, da un lato, ed a favore e contro i restanti fondi ancora invenduti, dall’altro, e così via finché con l’ultima vendita ciascuna unità singola diviene servente e dominante verso ognuna delle altre.
  • n assenza di trascrizione, può essere sufficiente anche il solo contenuto dell’atto di vendita, ma alla duplice condizione che: a) esso sia corredato della specifica indicazione delle clausole impositive della servitù, essendo del tutto insufficiente, come s’e’ detto supra al par. 6.2., il mero rinvio al regolamento condominiale; e b) dette clausole siano ripetute nei successivi atti di trasferimento, poiché diversamente torna ad operare il limite dell’art. 1372 c.c., Non senza precisare, però, che in tal modo, atteso che il richiamo alla servitù diviene parte integrante di ogni titolo d’acquisto della proprità (dal primo ai successivi), tecnicamente non si può parlare di opponibilità della servitù, bensì dell’iterazione della sua preesistenza negli atti traslativi del medesimo bene immobile.

 

  • “Le clausole contenute in un regolamento condominiale di formazione contrattuale, le quali limitino la facoltà dei proprietari delle unità singole di adibire il loro immobile a determinate destinazioni, costituiscono servitù reciproche a favore e contro ciascuna unità immobiliare di proprietà individuale, e sono soggette, pertanto, ai fini dell’opponibilità ultra partes, alla trascrizione in base all’art. 2643 c.c., n. 4, e art. 2659 c.c., comma 1, n. 2”.

Sull’interpretazione del regolamento condominiale

Cass.  sez. 6 8 aprile 2022, n. 11.502, rel. Scarpa:

<<Un regolamento condominiale può porre limitazioni ai poteri ed alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti comuni, purché tali limitazioni siano enunciate in modo chiaro ed esplicito. E l’interpretazione delle clausole di un regolamento contrattuale contenenti limiti nel godimento delle cose comuni è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale ovvero per l’omesso esame di un fatto storico, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.>>

E quindi (punto importante assai nelle realtà condominiali) <<La Corte d’appello di Torino ha spiegato che il divieto di “ingombrare il cortile comune” contenuto nel regolamento condominiale, art. 15, lett. c), non implica altresì un impedimento al diritto di parcheggio, tenuto altresì conto del comportamento complessivo dei condomini successivo alla redazione del medesimo regolamento, come risultante dalle dichiarazioni rese dai testimoni T. e N..

In tal modo, i giudici del merito, sulla base di apprezzamento di fatto della volontà contrattuale non sindacabile in questa sede, hanno fatto corretto uso dell’art. 1362 c.c., che nel comma 1, pur prescrivendo all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cass. Sez. 2, 22/08/2019, 21576).>>

Infatti <le prescrizioni del regolamento aventi natura solo organizzativa, come quelle che disciplinano le modalità d’uso delle parti comuni, possono essere interpretate, giusta l’art. 1362 c.c., comma 2, altresì alla luce della condotta tenuta dai comproprietari posteriormente alla relativa approvazione ed anche “per facta concludentia”, in virtù di comportamento univoco (arg. da Cass. Sez. 6 – 2, 18/05/2017, n. 12579). Il ricorso va perciò dichiarato inammissibile, senza doversi provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, perché gli intimati non hanno svolto attività difensive.>