Diritto di parola e censura in Facebook: altra pronuncia che ne nega la qualità di “state actor”

La SOUTHERN DISTRICT OF NEW YORK, 25.06.2021, Brock c. Facebook e altri, caso 1:20-cv-07513-LJL , decide un’azione basata su presunta violazione del Primo Emendamento (free speech verso lo Stato) e di altre disposizioni, a seguito di reiterate censure di post da parte di Facebook (Fb)

Qui interessa la -ormai annosa- questione del se il social network sia sottoposto al Primo Emendamento (nei confronti dei suoi utenti).

La sentenza segue l’orientameno dominante per cui non lo è, non potendo la sua condotta essere qualificdata come state action. Non ci sono analisi particolarmente interssanti.

Resta curioso che la giurisprudenza continua a non ammettere un’intepretazione analogico/evolutiva del tenore letterale del Primo Emendamento, nonostante il rischio di sua violazione oggi non provenga più dallo Stato ma da Poteri Privati.

La corte ricorda che <<The actions of a private corporation only constitute stateaction “(i) when the private entity performs a traditional, exclusive public function; (ii) when the government compels the private entity to take a particular action or (iii) when the government acts jointly with the privateentity.” Manhattan Cmty. Access Corp. v. Halleck, 139 S. Ct. 1921, 1928 (2019) (internal quotations and citations omitted). Notably, “merely hosting speech by others is not a traditional, exclusive public function and does not alone transform private entities into state actors subject to First Amendment constraints.Id.at 1930. Therefore, private companies which maintain public online forums may “exercise editorial discretion over the speech and speakersin [such] forum[s].” Id.>>

Ricorda poi che, sebbene il 2° circuito non abbia affrontato <<the question of whether a social media provider is a state actor for First Amendment purposes, other circuits that have confronted the issue have unanimously held platforms like Facebook are not state actors. For example, the D.C.Circuit recently held that Facebook, Google, Twitter,and Apple were not state actors; the court then affirmed the dismissal of First Amendment claims against the companies. Freedom Watch, Inc. v. Google Inc., 816 F. Appx 497, 499(D.C. Cir. 2020)(notingthe mere provision of “an important forum for speech” did not transform online platforms into state actors). In a similar case involving YouTube, the Ninth Circuit held that “the state action doctrine preclude[d] constitutional scrutinyof YouTube’s content moderation pursuant to its Terms of Service and Community Guidelines.” Prager Univ.v. Google LLC, 951 F.3d 991, 999 (9th Cir.2020). Othercourts throughout the country have also declined to treat Facebook as a state actor and have upheld the company’s ability to remove content. See, e.g., Ebeid v. Facebook, Inc., 2019 WL 2059662 at *6 (N.D. Cal. May 9, 2019); Zimmerman v. Facebook, Inc., 2020 WL 5877863 at *2 (N.D. Cal. Oct. 2, 2020).>>

Per l’attore, lo status di  “state actor” è  “immaterial” <<because Facebook is performing a function “traditionally” performed by the government.Dkt. No. 33 ¶ 812. The relevant function that Facebook providesis an online platform for speech. Plaintiff also analogizes Facebook’s provision of an online messaging service to the government’s traditional provision of mail services through the United States Postal Service. Id.¶ 1011>>.

Ma ciò non basta: <<[i]t is ‘not enough’ that the relevant function is something that a government has ‘exercised . . .in the past, or still does’ or ‘that the function serves the public good.Prager Univ., 951 F.3d at 998 (quotingHalleck, 139 S. Ct. at 192829). The government must have performed the function in question exclusively as well. Halleck, 139 S. Ct. at 1929. Facilitating the exchange of communicationor hosting a platformfor discussionare not activities “that onlygovernmental entities have traditionally performed.” Prager Univ., 951 F.3d at 998 (quotingHalleck, 139 S.Ct. at 1930). Thus, Plaintiff may not “avoid the state action question” by claiming that Facebook is serving a public function. Id. at99>>.

Poi c’è l’altro argomento: che FB costituisce una  “new town square”.

Ma anche questo è stato rigettato in passato da altre corti (v. spt. Prager University) , cui il giudice si adegua: <<see e.g.,Zimmerman, 2020 WL 5877863,at *2 (holdingthe operation of a “digital town square” didnot make Facebook a state actor).The Supreme Court held in Marsh v. State of Alabama, 326 U.S. 501, 506 (1946)that citizens in a companyowned town were guaranteed constitutional protections against the deprivation of their First Amendment rights by the company, but courts have refused to extend Marsh’sholding to social media cases. See, e.g.,Prager Univ., 951 F.3d at 998 (noting Marsh was “unequivocally confined. . . to the unique and rare context of company town[s] and other situations where the private actor perform[s] the full spectrum of municipal powers”) (internal citations and quotation marks omitted). Finally, Facebook’s status as a publicly held company does not make the company a state actor for the purposes of constitutional violations. See Freedom Watch, 816 F. Appx at 499 (dismissing First Amendment claims against Google, Facebook, Twitter, and Apple, which are all publicly traded companies)>>.

E’ curioso che l’attore avesse citato pure Zuckerberg e altri dirigenti di Fb personalmente. La relativa domanda è stata però rigettata  <<in the absence of anyallegations connecting Zuckerberg or Sandberg to Plaintiff’s claims>>

Safe harbour per Youtube circa la diffusione di immagini di persona fisica

La corte di Dallas 17.05.21, KANDANCE A. WELLS c. Youtube, civil action No. 3:20-CV-2849-S-BH, decide una domanda giudiziale risarcitoria (per dollari 504.000,00) basata sulla illecita diffusione (da parte di terzi utenti) della propria immagine, finalizzata alla minacaccia personale.

Diverse erano le leggi invocate come violate.

Immancabilmente Y. eccepisce il safe harbour ex § 230 CDA , unico aspetti qui esaminato.

La corte accoglie l’eccezione e giustamente.

Esamina i consueti tre requisiti e come al solito il più interssante è il terzo (che la domanda tratti il convenuto come publisher o speaker): <<Plaintiff is suing Defendant for “violations to [her] personal safety as a generalconsumer” under the CPSA, the FTCA, and the “statutes preventing unfair competition, deceptiveacts under tort law, and/or the deregulation of trade/trade practices” based on the allegedlyderogatory image of her that is posted on Defendant’s website. (See doc. 3 at 1.) All her claimsagainst Defendant treat it as the publisher of that image. See, e.g., Hinton, 72 F. Supp. 3d at 690(quoting MySpace, 528 F.3d at 418) (“[T]he Court finds that all of the Plaintiff’s claims againsteBay arise or ‘stem[ ] from the [ ] publication of information [on www.ebay.com] created by thirdparties….’”); Klayman, 753 F.3d at 1359 (“[I]ndeed, the very essence of publishing is making thedecision whether to print or retract a given piece of content—the very actions for which Klaymanseeks to hold Facebook liable.”). Accordingly, the third and final element is satisfied>>.

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Risarcimento del danno a carico del Comune per intollerabililità dei rumori provenienti dalla movida notturna, favorita dalle scelte urbanistiche del Comune stesso

Interessante decisione del Trib. Torino n. 1261/2021 del 15.03.2021,  RG 6130/2018 in tema di azione per condanna ad un facere e ai danni da rumori eccessivi, causati dal pesante disagio di chi abita un quartiere divenuto centro della movida torinese, azione promossa da un gruppo di abitanti

<<La lettura dei provvedimenti prodotti con la comparsa di costituzione e ivi elencati (cfr. paragrafo n. 2) consente di affermare che il Comune di Torino ha compiuto precise scelte a fronte dei fenomeni oggi in esame. L’aggregazione di persone che è causa di degrado, sporcizia, disturbo del riposo e della tranquillità, che produce disagi e pericoli, che provoca lo scadimento della vivibilità urbana, che turba il libero utilizzo degli spazi pubblici è posta dallo stesso Comune in relazione con l’attività degli esercizi commerciali; ai gestori è fatto carico di positive e ben specificate attività di dissuasione, da svolgere anche all’esterno dei locali e nelle loro adiacenze>>.

L’ovvia deduzione è che i provvedimenti del Comune a carico di questo variegato universo commerciale <<sono stati del tutto insufficienti. Se c’è gente ovunque significa che nessuno degli esercenti ha rispettato l’obbligo di controllarne l’afflusso nelle proprie adiacenze: dunque, assai più locali avrebbero dovuto essere sanzionati o chiusi. Se un numero imprecisato di dehors ha invaso il suolo pubblico e vi si svolgono attività, non consentite, di somministrazione di alimenti e bevande, il Comune avrebbe dovuto revocare i relativi atti autorizzativi, sino a liberare le strade e a concentrare le consumazioni all’interno dei locali. Una criticità così elevata avrebbe richiesto un adeguato piano di risanamento acustico, che, a quanto risulta, non è stato neppure intrapreso. Vi è poi, di centrale importanza, la questione del limite orario. L’ordinanza n. 46 del 6 giugno 2016 vieta la vendita e la somministrazione di bevande alcooliche e superalcooliche dalle ore 3.00 alle ore 6.00. Orari analoghi sono stati disposti nell’ordinanza n. 60 del 6 luglio 2017: nelle notti tra il lunedì, martedì, mercoledì e giovedì dalle ore 1.30, il venerdì dalle ore 2.00, il sabato, la domenica e i festivi dalle ore 3.00. Si è già accennato che, a seguito della deliberazione della Giunta comunale del 3 maggio 2018, tali limitazioni non sono più disciplinate attraverso singoli provvedimenti temporanei, ma sono regolamentate in via ordinaria dall’art. 44 ter del regolamento di polizia urbana. È evidente che fissare orari così ampi equivale a permettere tutto: nella sostanza, l’assembramento degli avventori può continuare fino a notte fonda e, verosimilmente, protrarsi, prima che la folla si diradi, ben oltre gli orari pur permissivi.>>.

E’ rigettata la domadna di condanna ad un facere (prob. come inibitoria preventiva, sistematicamente): <<Di sicuro gli orari di chiusura devono essere drasticamente ridotti, ma se ciò debba avvenire per il solo quartiere di San Salvario (con l’effetto che la movida potrebbe spostarsi altrove), o, in concomitanza, per altre determinate zone a rischio, è il Comune di Torino a doverlo decidere, nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche di gestione del territorio. Ciò che il Comune deve fare (e non ha fatto) è un’analisi approfondita della situazione complessiva, verosimilmente quella richiesta dal piano di risanamento acustico, intervenendo, nel frattempo, con misure d’urgenza assai più pregnanti di quelle fin qui adottate. Non è infine il giudice a poter organizzare il servizio di vigilanza di un intero quartiere, andando a incidere sulla distribuzione della Polizia municipale nel suo complesso e sul coordinamento con le altre Forze preposte al controllo della pubblica sicurezza. Qui non si tratta di risolvere i problemi di una strada o di una piazza o di un tratto di lungomare; né di ordinare la collocazione di pannelli antirumore lungo un’autostrada o una linea ferroviaria, ma di decidere l’assetto di un intero territorio, con effetti su tutta la città. Alla responsabilità del Comune di Torino consegue quindi il solo risarcimento dei danni>>.

E dunque sui danni: <<I ricorrenti non hanno allegato alcuna compromissione della salute che sia esitata in malattia, ma hanno parametrato la loro richiesta di risarcimento riferendosi ai criteri tabellari del Tribunale di Milano per la quantificazione del danno biologico: il riferimento non è dunque condivisibile. Né lo è la qualificazione del danno come invalidità temporanea al cinquanta per cento, sulla base di un’età media di quarant’anni. Questo criterio di liquidazione è criticabile sotto vari aspetti. In primo luogo, le tabelle milanesi non calcolano l’invalidità temporanea in base a fasce di età; in secondo luogo, non si vede per quale ragione si dovrebbe considerare un’età “media” invece dell’età di ciascun ricorrente. Ma, soprattutto, il concetto di invalidità temporanea si riferisce a un fatto foriero di danno verificatosi in un dato momento e che, a partire da quel momento, genera conseguenze pregiudizievoli provvisorie e via via meno gravi. Tale situazione non ha nulla in comune con quella in esame, in cui ciascuno dei ricorrenti ha continuato a subire, nel tempo, i medesimi effetti di una situazione pregiudizievole continuativa. Questo peculiare danno di carattere non patrimoniale non può che essere valutato con criterio equitativo, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., non potendo essere provato nel suo preciso ammontare>>.

la Corte di Giustizia si conferma circa la messa a disposizioni del pubblico nella diffusione peer to peer. Esamina inoltre la compatibilità della richiesta di informazioni con il GDPR

Corte Giustizia 17.06.2021, C-597/19, Microm c. Telenet, conferma la propria giurisprudenza in tema di comunicazione al pubblico e in particolare in tema di di quella modalità (oggi la più -l’unica- utilizzata) che è la messa a disposizione per il download.

Conferma in particolare l’orientamento in tema di reti peer to peer con la tenica Bit Torrent (v. la sentenza Ziggo The pirate Bay del 14.06.2017, C-610/95).

A nulla rileva che il file sia spezzettato in pacchetti, §§ 43 ss.

E’ riaffermata la conseueta fattispcie costitutiva della violazione, §§ 46 – 47.

Interessante è l’applicazione al caso sub iudice: <<Nel caso di specie, risulta che ogni utente della rete tra pari (peer-to-peer) di cui trattasi che non abbia disattivato la funzione di caricamento del software di condivisione client-BitTorrent carica su tale rete i segmenti dei file multimediali che ha precedentemente scaricato sul suo computer. Purché risulti – circostanza questa che spetta al giudice del rinvio verificare – che gli utenti interessati di tale rete hanno acconsentito all’utilizzo di tale software dando il loro consenso all’applicazione di quest’ultimo dopo essere stati debitamente informati sulle sue caratteristiche, si deve ritenere che detti utenti agiscano con piena cognizione del loro comportamento e delle eventuali relative conseguenze. Una volta accertato, infatti, che essi hanno attivamente acconsentito all’utilizzo di un siffatto software, l’intenzionalità del loro comportamento non è in alcun modo inficiata dal fatto che il caricamento sia automaticamente generato da tale software.>>, § 49.

E poi : <<Per quanto riguarda le reti tra utenti (peer-to-peer), la Corte ha già dichiarato che la messa a disposizione e la gestione, su Internet, di una piattaforma di condivisione che, mediante l’indicizzazione di metadati relativi ad opere protette e la fornitura di un motore di ricerca, consente agli utenti di tale piattaforma di localizzare tali opere e di condividerle nell’ambito di una simile rete costituisce una comunicazione al pubblico, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 (sentenza del 14 giugno 2017, Stichting Brein, C‑610/15, EU:C:2017:456, punto 48).   53        Nel caso di specie, come in sostanza constatato dall’avvocato generale ai paragrafi 37 e 61 delle sue conclusioni, i computer dei suddetti utenti che condividono lo stesso file costituiscono la rete tra pari (peer-to-peer) vera e propria, denominata lo «swarm», nella quale essi svolgono lo stesso ruolo dei server nel funzionamento della Rete (World Wide Web)>>, §§ 52-53.

V. la precisazione , che segue la sentenza Renckhoff del 2018, per il caso in cui l’opera fosse presente senza restrizioni in internet: << In ogni caso, anche qualora si dovesse accertare che un’opera è stata previamente pubblicata su un sito Internet, senza restrizioni che impediscano il suo scaricamento e con l’autorizzazione del titolare del diritto d’autore o dei diritti connessi, il fatto che, mediante una rete tra pari (peer-to-peer), utenti come quelli di cui trattasi nel procedimento principale abbiano scaricato segmenti del file contenente tale opera su un server privato e a ciò sia seguita una messa a disposizione mediante il caricamento di tali segmenti all’interno di questa medesima rete significa che tali utenti hanno svolto un ruolo decisivo nella messa a disposizione di detta opera a un pubblico che non era stato preso in considerazione dal titolare di diritti d’autore o di diritti connessi su quest’ultima quando ha autorizzato la comunicazione iniziale (v., per analogia, sentenza del 7 agosto 2018, Renckhoff, C‑161/17, EU:C:2018:634, punti 46 e 47).  58      Consentire una siffatta messa a disposizione mediante il caricamento di un’opera, senza che il titolare del diritto d’autore o dei diritti connessi su quest’ultima possa far valere i diritti previsti dall’articolo 3, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2001/29 non rispetterebbe il giusto equilibrio, di cui ai considerando 3 e 31 di tale direttiva, che deve essere mantenuto, nell’ambiente digitale, tra, da un lato, l’interesse dei titolari del diritto d’autore e dei diritti connessi alla protezione della loro proprietà intellettuale, garantita all’articolo 17, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali (in prosieguo: la «Carta»), e, dall’altro, la tutela degli interessi e dei diritti fondamentali degli utilizzatori dei materiali protetti, in particolare la tutela della loro libertà di espressione e d’informazione, garantita all’articolo 11 della Carta, nonché la tutela dell’interesse generale (v., in tal senso, sentenza del 9 marzo 2021, VG Bild-Kunst, C‑392/19, EU:C:2021:181, punto 54 e giurisprudenza ivi citata). Il mancato rispetto di tale equilibrio pregiudicherebbe, inoltre, l’obiettivo principale della direttiva 2001/29, che consiste, come risulta dai considerando 4, 9 e 10 della medesima, nella previsione di un elevato livello di protezione a favore dei titolari di diritti che consenta a questi ultimi di ottenere un adeguato compenso per l’utilizzo delle loro opere o di altri materiali protetti, in particolare in occasione di una messa a disposizione del pubblico>>.

Curiosa infine è la seconda questione pregiudiziale: << 60  Il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 2004/48 debba essere interpretata nel senso che un soggetto contrattualmente titolare di taluni diritti di proprietà intellettuale, che tuttavia non li sfrutta esso stesso, ma si limita a chiedere il risarcimento del danno ai presunti autori di violazioni, possa beneficiare delle misure, delle procedure e dei mezzi di ricorso di cui al capo II di tale direttiva.     61      Tale questione deve essere intesa come comprensiva di tre parti, vale a dire, in primo luogo, quella relativa alla legittimazione ad agire di un soggetto come la Mircom per chiedere l’applicazione delle misure, delle procedure e dei mezzi di ricorso di cui al capo II della direttiva 2004/48; in secondo luogo, quella inerente alla questione di stabilire se un soggetto del genere può aver subito un pregiudizio, ai sensi dell’articolo 13 di tale direttiva e, in terzo luogo, quella concernente la ricevibilità della sua richiesta di informazioni, ai sensi dell’articolo 8 della direttiva in parola, in combinato disposto con l’articolo 3, paragrafo 2, della medesima>>.

La risposta è positiva, § 96.

Segue poi la trattazione di due questioni relative al bilanciamento tra tutela della proprietà intellettuale e tutela della riservatezza: il titolare aveva infatti chiesto al gestore di ottenere dati personali (numeri IP, nome e indirizzo) dei presunti contraffattori. Precisamente le questioni terza e quarta sono così riformulate: <<il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 6, paragrafo 1, primo comma, lettera f), del regolamento 2016/679 debba essere interpretato nel senso che esso osta, da un lato, alla registrazione sistematica, da parte del titolare dei diritti di proprietà intellettuale, nonché da parte di un terzo per suo conto, di indirizzi IP di utenti di reti tra pari (peer-to-peer) le cui connessioni Internet sono state asseritamente utilizzate nelle attività di violazione e, dall’altro, alla comunicazione dei nomi e degli indirizzi postali di tali utenti a detto titolare oppure a un terzo al fine di consentirgli di proporre un ricorso per risarcimento dinanzi a un giudice civile per il danno asseritamente causato da tali utenti>>, § 101.

La risposta, come spesso, è generica , in quanto per lo più  basata su clausole generali: la disposizione cit. del GDPR non osta alla comuncazione di tali informazioni al titolare a condizione <<che le iniziative e le richieste in tal senso da parte di detto titolare o di un terzo siano [1] giustificate, [2] proporzionate e [3] non abusive e [4] abbiano il loro fondamento giuridico in una misura legislativa nazionale, ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58 [dir. sulla privacy nelle comunicazioni elettroniche] , che limita la portata delle norme di cui agli articoli 5 e 6 di tale direttiva>>, § 132 (numeri tra parentesti quadra aggiunti).

Si noti il requisito sub 4, relativo alla necessità di esistenza di disposizione nazionale ad hoc.

La violazione del limite di finanziabilità del mutuo fondiario genera nullità del contratto

Viene confermata la nullità (virtuale, perchè non espressamente sancita) del contratto di mutuo fondiario quando il finanziamento ecceda il limite di legge.

Così’ Cass. , I, 14.06.2021 n. 16.776, rel. M. Ferro.

Il limite è posto dall’art. 38.2 TUB che rinvia a determinazione di Banca di Italia in conformità a delibera CICR

La delibera CICR di solito ritenuta integrativa del TUB (che però rinvia alla Banca dei Italia: v. la norma transitoria: art. 153.1 T_UB) è la delibera <<DELIBERAZIONE 22 aprile 1995 Attuazione dell’art. 38, comma 2, del Decreto Legislativo lo settembre 1993, n. 385 (Testo Unico sulle leggi in materia bancaria e creditizia). Credit0 fondiario>>.

V. poi la Comunicazione Bankitalia in GU n. 76 del 02.04.2005 che si riferisce alle Istrizioni di Vigilanza: ed in effetti qui nel titolo V, capo 1, sez. II, si trova il “recepimento” (da vedere se tecnicametne è corretto chiamarlo così .direi di sì, dato che per il TUB è adottata <in conformità> ak CICR, e non ad es. <sentito il CICR>) della determinazione CICR (v. le Istruzioni a p. 456).

Il limite, in dette Istruzioni,  è il seguente: <<Le banche possono concedere finanziamenti di credito fondiario per un am-montare massimo pari all’80 per cento del valore dei beni immobili ipotecati o delcosto delle opere da eseguire sugli stessi, ivi compreso il costo dell’area o dell’im-mobile da ristrutturare.Il limite dell’80 per cento può essere elevato fino al 100 per cento in presenzadi garanzie integrative offerte dal cliente.Le garanzie integrative possono essere costituite da fideiussioni bancarie, dapolizze fideiussorie di compagnie di assicurazione, dalla garanzia rilasciata dafondi pubblici di garanzia o da consorzi e cooperative di garanzia fidi, da cessionidi crediti verso lo Stato, da cessioni di annualità o di contributi a carico delloStato o di enti pubblici nonché dal pegno su titoli di Stato>>.

Si badi : la fonte integrativa non è la delibera CICR , ma la determinazione Bankitalia (anche se, pare, necessariamente conforme alla prima).

Ebbene la SC conferma che la violazione del limite di finanziabilità determina nullità contattuale: <<questa Corte, con la pronuncia n. 17352del 2017, seguita daaltreconformi (Cass. 19016/2017, 13286/2018, 24138/2018, 17439/2019, 31057/2019, 1193/2020),ha affermato il principio per cui, avendo riguardoal mutuo fondiario, il limite di finanziabilità fissato,dall’art. 38, co.2, del d.lgs. n. 385 del 1993, è elemento essenziale del contenuto del contratto e il suo mancato rispetto ne determina la nullità (con possibilità, tuttavia, di conversione in ordinario finanziamento ipotecario ove ne sussistano i relativi presupposti) ecostituisce un limite inderogabile allautonomia privata in ragione della natura pubblica dellinteresse tutelato, volto a regolare il quantumdella prestazione creditizia al fine di favorire la mobilizzazione della proprietà immobiliare e agevolare e sostenere lattività di impresa; il primo precedente citato, a superamento di pregressi indirizzi e però esplicitamente raccordandosi con decisioni già assunte con riguardo al mutuo di credito edilizio (in virtù dianaloga delimitazione di finanziabilità dell’operazioneper la sola metà rispetto al valore cauzionale dell’immobile, Cass. 9219/1995), ha parimentiqualificato siccome norma imperativa la disposizione prescrivente detto limite>>.

La previsione legale dei limiti di finanziabilità per quanto non ascrivibile a un contenuto tipico predeterminato dall’autorità creditizia – <<si inserisce infatti «in ogni caso tra gli elementi essenziali perché un contratto di mutuo possa dirsi fondiario»; invero, si è precisato, il fine della disposizione, ancorché essa permetta di non ricondurre la fattispecie alla nullità testuale dell’art.117 co.8 TUB, corrisponde proprio alla necessità di disciplina analitica secondo obiettivi economici che illegislatore si è dato, accordando all’istituto erogante molteplici tutele sul versante del rapido consolidamento dell’ipoteca (art.39 TUB) e del privilegio processuale esecutivo (art.41 TUB), giustificando la compatibilità costituzionale (Corte cost.n.175del 2004) di un regime di favor che ha effettivamente contropartita di sistema nell’intento di mobilizzare la proprietà immobiliare ed altresì, eventualmente, di ricorrere a tale strumento per finanziare l’imprenditoreanche in crisi>>

Ma si è altresì puntualizzato, prosegue la SC ,  che la <<dicotomia fra regole di validità e regole di comportamento, per come affermata dalle Sezioni Unite con le sentenze 26724 e 26725 del 2007, è aperta alla ricognizione deglinteressi sottesi alla normache imponga una doverosità contrattuale, così da comprendere se la sua violazione sostanzi l’inottemperanza ad unprecetto di legge imperativoin termini di nullità virtuale, perché non espresso, in relazione all’incidenza sulla validità del contratto, com’è la vicenda di causa che concerne infatti elementi intrinseci del negozio, relativi al suo contenuto; così che «la nullità ha come conseguenza l’incapacità del contratto di produrre il proprio effetto, compresa la costituzione di un’ipoteca valida»;>>

Accordi di delimitazione/coesistenza di marchi tra concorrenti nelle pubblicità on line: non sono anticompetitivi

Il secondo circuito delle corti di appello affronta il tema in oggetto.

La 1-800 Contacts inc. (petitioner, di seguito solo: P.), operante nel settore delle lenti a contatto, aveva iniziato a fare pubblicità on line tramite motori di ricerca. Qui però anche altri concorrenti facevano lo stesso. E Tutti erano soliti fare del key advertising, usando reciprocamente i nomi commerciali altrui.

P. prima iniziava liti verso i concorrenti e poi stipulava con essi  transazioni (una anche con Luxottica) che regolavano la presenza sulle aste online per acquistare spazi pubblicitari nei search engines (spt. Google search, mancao a dirlo).

La prassi è contestata come violazione dello Sherman Act (intesa restrittiva).

Il secondo circuito in appello con sentenza 11.06.2021, Docket No. 18-3848 , 1-800 CONTACTS INC. v. FEDERAL TRADE COMMISSION ,  ribalta la decisione, ravisando la prevalenza di effetti procompetitivi; cioè accoglie gli effetti procompetitivi allegati da P.

I fatti sono a p. 6 ss, di cui riporto il maccanismo di funzionamenot delle asteo cit.: <<Search engines determine which advertisements to display on a search results page based in part on the relevance or relation of the consumer’s search to various words or phrases called “keywords.” Advertisers bid on these keywords during auctions hosted by the search engines. The highest bidders’ ads aretypically displayed most prominently on a page, though search engines consider other factors when determining where to place an ad on a results page, such as an ad’s quality and relevance to a consumer’s search. Search engines generally do not limit the keywords available to advertisers at auction. As a result, competitors often bid on each other’s brand names so that their ad runs when a consumer searches for a competitor. Brand name terms are often trademarked. Via bidding on “negative keywords,” an advertiser may also prevent its ad from being displayed when a consumer searches for a particular keyword. These negative keywords preclude ads from being displayed even when the search engine independently determined that the ad would be relevant to the consumer. The Commission suggests that this is useful when, for example, a retailer selling eyeglasses has bid on the advertising keyword “glasses” but wants to prevent its ad from appearing in response to the term “wine glasses.”>>.

E sulle transazioni stipulate (con le buone o con le cattive, parrebbe …): <<Each of these agreements includes language that prohibits the parties from using each other’s trademarks, URLs, and variations of trademarks as search advertising keywords. The agreements also require the parties to employ negative keywords so that a search including one party’s trademarks will not trigger a display of the other party’s ads. The agreements do not prohibit parties from bidding on generic keywords such as “contacts” or “contact lenses.”2 Petitioner enforced the agreements when it perceived them to be breached. >>, p. 8.

Il giudice ritiene di dover applicare la rule of reason, p. 24 ss.   Gli effetti procompetitivi allegati da P. sono due: <<reduced litigation costs and protecting Petitioner’s trademark rights>>, p. 28.

Il punto più interssante è il secondo. La FTC dice che, non essendoci addebiti di violazione della legge marchi, non va conteggiato come effetto procompetivivo la (miglior) protezione dei marchi.

Il collegio è in disaccordo: <<This was incorrect. Trademarks are by their nature non-exclusionary, and agreements to protect trademark interests are “common, and favored, under the law.” Clorox, 117 F.3d at 55. As a result, “it is difficult to show that an unfavorable trademark agreement creates antitrust concerns.” Id.at 57. This is true even though trademark agreements inherently prevent competitors “from competing as effectively as [they] otherwise might[.]” Id.at 59.>>, p. 28-29.

Anche l’allegazione della FTC, per cui le pretesa di P. di violazione di marchio  contro i concorrenti erano infondate (leggi: abusive), viene respinta: <<The Commission, however, decided that the trademark claims that led to the Challenged Agreements were likely meritless. While it claimed not to be determining the validity of Petitioner’s trademark claims, it did just that by weighing the potential validity of the trademark claims in order to show that Petitioner’s procompetitive justification was invalid.12 Even if the Commission’s analysis of the underlying trademark claims were correct, trademark agreements that “only marginally advance[] trademark policies” can be procompetitive.13Seeid. at 57. Under Clorox, “[e]fforts to protect trademarks, even aggressive ones, serve the competitive purpose of furthering trademark policies.” Id.at 61.That does not mean that every trademark agreement has a legitimate procompetitive justification. If the “provisions relating to trademark protection are auxiliary to an underlying illegal agreement between competitors,” or if there were other exceptional circumstances,14 we would think twice before concluding the challenged conduct has a procompetitive justification. See id. at 60. As in Clorox, however, there is a lack of evidence here that the Challenged Agreements are the “product of anything other than hard-nosed trademark negotiations.15Id. Consequently, we find Petitioner met its burden at step two.>>

Ampia trattazione degli accordi di delimitazione/coesistenza tra marchi in Ricolfi, Trattato dei marchi, Giappichelli, 2015, II, § 195-196, p. 1685 ss

Trattamento dati transfrontaliero e competenza/poteri delle singole Autorità nazionali

La CG ha deciso la questione sollevata dal giudice belga circa la competenza e i poteri dell’Autorità nazionale ad agire (spt. ex art. 58.5 GDPR), quando essa non sia  l’autorità capofila (art. 56 GDPR).

Con sentenza 15.06.2021, C-645/19, Facebook c. Gegevensbeschermingsautoriteit, la Cg ha risposto positivamente.

Questo il passaggio chiave: <<71    (..) occorre sottolineare che non può essere escluso l’esercizio del potere di un’autorità di controllo di uno Stato membro di rivolgersi ai giudici del suo Stato qualora, dopo aver richiesto la reciproca assistenza dell’autorità di controllo capofila, in forza dell’articolo 61 del regolamento 2016/679, quest’ultima non le fornisca le informazioni richieste. In tale ipotesi, in forza dell’articolo 61, paragrafo 8, del regolamento in esame, l’autorità di controllo interessata può adottare una misura provvisoria nel territorio del suo Stato membro e, se ritiene che sia urgente adottare misure definitive, tale autorità può, conformemente all’articolo 66, paragrafo 2, di detto regolamento, chiedere al comitato europeo per la protezione dei dati un parere d’urgenza o una decisione vincolante d’urgenza. Inoltre, ai sensi dell’articolo 64, paragrafo 2, del medesimo regolamento, un’autorità di controllo può chiedere che qualsiasi questione di applicazione generale o produttiva di effetti in più Stati membri sia esaminata dal comitato europeo per la protezione dei dati al fine di ottenere un parere, in particolare qualora un’autorità di controllo competente non si conformi agli obblighi relativi all’assistenza reciproca posti a suo carico dall’articolo 61 di quest’ultimo. Orbene, a seguito dell’adozione di un siffatto parere o di una siffatta decisione, e purché il comitato europeo per la protezione dei dati vi sia favorevole dopo aver preso in considerazione tutte le circostanze pertinenti, l’autorità di controllo considerata deve poter adottare le misure necessarie al fine di garantire il rispetto delle norme relative alla tutela dei diritti delle persone fisiche con riguardo al trattamento di dati personali contenute nel regolamento 2016/679 e, a tale titolo, esercitare il potere conferitole dall’articolo 58, paragrafo 5, del predetto regolamento.    72     La ripartizione delle competenze e delle responsabilità tra le autorità di controllo, infatti, si basa necessariamente sulla premessa di una cooperazione leale ed efficace tra tali autorità nonché con la Commissione, al fine di garantire l’applicazione corretta e coerente del suddetto regolamento, come confermato dall’articolo 51, paragrafo 2, di quest’ultimo>>.

la risposta al quesito giudoziale è dunque che <<l’articolo 55, paragrafo 1 e gli articoli da 56 a 58 nonché da 60 a 66 del regolamento 2016/679, in combinato disposto con gli articoli 7, 8 e 47 della Carta, devono essere interpretati nel senso che un’autorità di controllo di uno Stato membro, la quale, in forza della normativa nazionale adottata in esecuzione dell’articolo 58, paragrafo 5, di tale regolamento, abbia il potere di intentare un’azione dinanzi a un giudice di tale Stato membro e, se del caso, di agire in sede giudiziale in caso di presunta violazione di detto regolamento, può esercitare tale potere con riguardo al trattamento transfrontaliero di dati, pur non essendo l’«autorità di controllo capofila» ai sensi dell’articolo 56, paragrafo 1, dello stesso regolamento con riguardo a siffatto trattamento di dati, purché ciò avvenga in una delle situazioni in cui il regolamento 2016/679 conferisce a tale autorità di controllo la competenza ad adottare una decisione che accerti che il trattamento in questione viola le norme in esso contenute, nonché nel rispetto delle procedure di cooperazione e di coerenza previste da tale regolamento>>, § 75.

Opera elaborata su commissione: a chi spettano i diritti? Su di un contratto malscritto

Un autore di remix concorda con l’autore dell’opera base un lavoro appunto di remix (musicale) dela prima.

Si accorge poi di una contraffazione e agisce in giudizio.

Gli viene però eccepita la carenza di legittimazione ad agire, dato che nel contratto stava scritto:  <<I acknowledge and agree that the services rendered (or to be rendered) by Remixer hereunder do not entitle Remixer or me to any ownership or financial interest in the underlying musical composition(s) embodied in the Remix Master(s), and I specifically agree that neither Remixer nor I will make any claims to the contrary.>>

Il dubbio interpretaivo naturalmente si appunta soprattutto sull’espressione <<in the underlying musical composition(s)>>: si riferisce all’opera base oppure all’elaborazione? A quest’ultima, dice il giudice, per cui l’elaboratore ha ab initio rinunciato ai diritti di copyright sulla propria creazione, frutto dell’attività elaborativa

Si tratta di UNITED STATES DISTRICT COURT CENTRAL DISTRICT OF CALIFORNIA 08.04.2021, caso CV 19-3934 PSG (JPRx), Artem Stoliarov v. Marshmello Creative, LLC, et al..

sul punto specifico così motoiva: <<Under the Remixer Declaration, the “Remix Master(s)” are recorded performances of theRemix Composition by Plaintiff. See Remixer Declaration (each Remix Master consists of thefeatured performance by Arty of the results and proceeds of his remixing services). Therefore,the Disclaimer Provision’s reference to “the underlying musical composition(s) embodied in theRemix Master(s)” can only refer to the Remix Composition.

Accordingly, even if the phrase“underlying musical composition” is ambiguous as used elsewhere in the contract, the Disclaimer Provision resolves that ambiguity in favor of Defendants’ interpretation—i.e.,“underlying musical composition” as used in the Remixer Declaration means the RemixComposition.Accordingly, from the terms of the contract it is clear that Plaintiff disclaimed “anyownership or financial interest” in the Remix Composition. See Remixer Declaration ¶ C. Thisnecessarily includes his ownership and financial interest in the Arty Elements, which were partof the Remix Composition. See Brem-Air Disposal v. Cohen, 156 F.3d 1002, 1004 (9th Cir.1998) (“‘[A]ny’ means ‘any.’”). As such, Defendants are entitled to summary judgment onPlaintiff’s infringement claims because Plaintiff disclaimed his ownership and financial interestsin the Arty Elements>>

Pare strano che professionisti della musica non precisino l’oggetto del contratto. Ma forse l’avevano stipulato senza l’assistenza di un legale.

Avvertimento per gli operatori: precisare bene, oltre che i soggetti, pure l’oggetto degli atti dispositivi.

Canoni locatizi non richiesti per sette anni e poi richiesti ex abrupto: perdita del relativo diritto per abuso (o Verwirkung) del diritto?

Cass. 14.06.2021 n. 16.743, Bellini e Chiari srl c. Bellini, rel. Fiecconi, decide sulla qualificazione di una condotta omissiva del locatore (una s.r.l.) che per sette anni non aveva chiesto i canoni al conduttore e poi glieli chiede tutto all’improvviso .

Si trattava di srl a base famigliare ,che aveva inviato l’intimazione di pagamento, prima mai inviata, solo dopo la rottura dei rapporti tra soci/parenti (genitore/figlio)

La sentenza inquadra la richiesta nell’abusto del diritto , ricondubicile alla buona fede contrattuale : il silenzio per anni ha creato un affidamento di non dovutezza dei canoni, per cui l’improvvisa richiesta è abusiva.

La SC discute anche la introducibilità nel ns. ordinamento dell’istituto della Verwirkung (perdita) del diritto a seguito di silenzio o altra condotta concludente del creditore, ritenendola problematica.

La sentenza  è ricca di passaggi interessanti (talora forse eccesivi rispetto alla necessità del decidere) e sarà oggetto di ampi commenti.

Ad es.: <<Va rilevato che, in virtù di tale accezione dell’ obbligo solidaristico in sede contrattuale, negli ordinamenti di area continentale europea tende vieppiù ad affermarsi il principio, basato appunto sulla clausola di buona fede, di matrice romanistica, secondo cui, anche prima del decorso del termine prescrizionale, il mancato esercizio del diritto, protrattosi per un conveniente lasso di tempo, imputabile al suo titolare e che abbia fatto sorgere nella ontroparte un ragionevole ed apprezzabile affidamento sul definitivo non esercizio del diritto medesimo, porta a far considerare che un successivo atto di esercizio del diritto in questione possa integrare un abuso del diritto, nella forma del ritardo sleale nell’esercizio del diritto, con conseguente negazione della tutela. Al di là delle definizioni teoriche, pertanto, la Verwirkung nel senso appunto di abuso del diritto nel senso di subitaneo e ingiustificato revirement rispetto a una sua protratta opposta modalità di esercizio (a ben guardare, anche la remissione è una forma di esercizio del diritto, potendo concederla solo chi ne è titolare) costituisce un istituto idoneo a venire in gioco, anche nel nostro ordinamento, allorché appunto si prospetti un abusivo esercizio del diritto dopo una prolungata inerzia del creditore o del titolare di una situazione potestativa che per lungo tempo è stata trascurata e ha ingenerato un legittimo affidamento nella controparte. In tal caso, a seconda delle circostanze, può ravvedersi, nel tempo, un affidamento dell’altra parte nell’abbandono della relativa pretesa, idoneo come tale a determinare la perdita della situazione soggettiva nella misura in cui il suo esercizio si riveli un abuso.>, § 16,

Il canone generale della buona fede che regola infatti anche la dinamica contrattuale, cioè l’intrecciarsi degli opposti diritti/interessi nella esecuzione di quanto si è cristallizzato nel patto negoziale, <<impedisce che i diritti siano esercitati in modalità astratte, imponendo invece il rispetto dell’affidamento che questa ha acquisito proprio in conseguenza della modalità esecutiva fino ad allora praticata, l’affidamento costituendo una species di interesse insorto da una specifica percezione della dinamica contrattuale in atto. Dinamica che peraltro l’insorgenza di tale affidamento conduce ad una stabilizzazione favorevole, che può essere infranta dalla controparte soltanto, appunto, con un abuso, che concretizza, nel fondo della sua sostanza, la violazione del canone di solidarietà che, pur essendo contrapposti gli interessi delle parti contrattuali, costituisce il background della confluenza di detti interessi nel negozio stipulato, e permane quindi, come regola fondante, nella sua esecuzione, id est nel suo reciproco adempimento>>, § 17.

Molto interessante poi è la precisazione per cui l’eccezione di abuso è rilevabile d’ufficio, non essendo invocabile la disposizione sulla prescrizione, art. 2938 cc, § 18.

Problema centrale è la prorzionalità dei mezzi usat (§ 24) e cioè se ricorra un interessa apprezzabile del creditore, § 25

Ma nel caso, se non c’è rinuncia tacita, § 26, l’esercizio <<repentino del diritto installatosi in una circostanziata situazione di maturato affidamento della sua intervenuta abdicazione, correlata a un assetto di interessi pregresso, ha integrato un abuso del diritto per quanto detto sopra e ha comportato, altresì, la negazione di tutela dell’interesse di controparte in considerazione di sopravvenute circostanze nelle quali il giudice di merito – illustrando ciò con adeguata motivazione – ha riscontrato un conflitto tra le parti determinatosi per altre questioni, pacificamente non collegate al contratto> § 28

In altre parole, questa è <<l’esatta identificazione dell’istituto da applicarsi: i diritti disponibili in quanto tali possono essere oggetto di rinuncia anche se sono stati inseriti in un sinallagma contrattuale, e la rinuncia può essere effettuata a mezzo di fatti concludenti, vale a dire come forma specifica di esecuzione del contratto dalla parte del creditore. Dove il comportamento inerte di quest’ultimo non è ascrivibile a rinuncia, come nel caso concreto è risultato, ma a un – ben protratto – prodromo di un esercizio abusivo del diritto, il decorso di un tale spiccato periodo di tempo di oggettiva apparenza remittente non può non assumere valore ai fini dell’estinzione/consumazione del diritto per il periodo de quo, trattandosi di diritto a esecuzione continuata e periodica. Pertanto, indipendentemente dall’indagine sulla volontà di rinunciare al diritto o dal decorso del termine di prescrizione del medesimo, il repentino esercizio del diritto, dopo una situazione di durevole inerzia non altrimenti giustificata, può costituire esso stesso una violazione del principio di affidamento circa la oggettiva abdicazione. (…)  In siffatto contesto, collegato alla causa del contratto di locazione e alla protratta inerzia del locatore nel richiedere il pagamento del corrispettivo di locazione per oltre sette anni, la repentina richiesta di adempimento per la parte del credito eventualmente non caduta in prescrizione è da valutarsi alla stregua dell’esercizio abusivo del diritto, e dunque in violazione di obblighi solidaristici collegati alla salvaguardia dell’interesse del conduttore a non perdere una acquisita situazione di vantaggio determinatasi a suo esclusivo favore, laddove non si dimostri di avere sino a quel tempo comportato un apprezzabile sacrificio per il locatore, rimasto inerte sin dall’origine, a fronte del grave onere imposto repentinamente sulla controparte >>, §§ 29 e 31.

Importante poi la precisazione dell’interferenza (sotto il profilo causale, direi) del rapporto locatizio con quello societario/familiare: <<L’accertamento fattuale della eventuale violazione della fondamentale obbligazione solidaristica in un caso come quello di cui si tratta, laddove si consideri che il rapporto negoziale si era formalmente instaurato tra una società commerciale con accentuato carattere personalistico e una naturale flessibilità dell’organizzazione sociale – come è oggi intesa la società a responsabilità limitata – , proprietaria del bene locato, e un socio, non può d’altronde – si nota peraltro ad abundantiam – non tener conto della mutazione di comportamento della società creditrice non appena il socio è, nei fatti, forzosamente uscito dalla compagine sociale e i rapporti con il socio di riferimento, il padre, si sono incrinati per vicende estranee alla conduzione della società e del contratto di locazione; pertanto, la iniziativa della società di attivarsi, tra l’altro in un contesto di accesa conflittualità tra soci, appartenenti a un medesimo contesto familiare, dopo che la società per anni era rimasta inerte senza fornire adeguata giustificazione, è da ritenersi un comportamento certamente innaturale in un contesto societario ove le questioni interne tra i soci non sono normalmente in grado di mutare l’assetto degli interessi sottesi al contratto sociale, se non cristallizzati in altrettanti reciprochi impegni tra la società e i soci (Sez. 1, Sentenza n. 12956 del 22/06/2016; Sez. 1, Sentenza n. 14629 del 21/11/2001)>>, § 32.

Ragionando secondo questi principi, quindi, <<è sostenibile che un credito nascente da un rapporto ad esecuzione continuata, mai preteso sin dall’origine del rapporto negoziale, anche se formalmente menzionato nelle scritture contabili di una società a responsabilità limitata per più esercizi, in assenza di altri indici di segno contrario, possa ugualmente costituire un fattore di generazione di un affidamento di oggettiva rinuncia del credito sino ad allora maturato nei confronti del socio. Pertanto, la repentina richiesta di adempimento dell’obbligazione di pagamento, indipendentemente dalla presenza di indici idonei a denotare una volontà di rinuncia del medesimo, se corrispondente a una situazione di palese conflittualità tra socio (allora ex socio) e gli altri soci, non giustificata da altri fattori, costituisce un abuso del diritto ove riveli l’intento di arrecare un ingiustificato nocumento>>, § 34.

Ed allora ecco il principio di diritto: <«il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 e 1375 cod.civ. legittima in punto di diritto l’insorgenza in ciascuna parte dell’affidamento che, anche nell’esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive ed esecuzione continuata, ciascuna parte si comporti nella esecuzione in buona fede, e dunque rispettando il correlato generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, anche a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere generale del “nerninem laedere”; ne consegue che in un contratto di locazione di immobile ad uso abitativo l’assoluta inerzia del locatore nell’escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del corrispettivo sino ad allora maturato, protrattasi per un periodo di tempo assai considerevole in rapporto alla durata del contratto, e suffragata da elementi circostanziali oggettivamente idonei a ingenerare nel conduttore un affidamento nella remissione del diritto di credito da parte del locatore per facta concludentia, la improvvisa richiesta di integrale pagamento costituisce esercizio abusivo del diritto>>, § 36.

Raccogliere dati “pubblici” da Facebook viola le sue condizioni contrattuali? Sul data scraping e sulla tortious interference

Sulla liceità della raccolta di dati pubblicitari dai profili Facebook (senza il consenso di questi), c.d. data scraping,  pende da tempo una lite tra Facebook (Fb)  e BrandTotal (BT), azienda nel settore dell’advertising.

Si v. la voce <web scraping> in Wikipedia .

Si registra ora una nuova pronuncia: US District Court – Northern District of California, 09 giugno 2021, Case 3:20-cv-07182-JCS .

In pratica BT invita i clienti (utenti Fb) a scaricare il programma UpVoice dal Google store, con cui monitora la loro navigazione e l’offerta pubblicitaria che conseguentemente ricevono.

Ciò violerebbe la condizione generale di Fb , per cui è vietato <<collect[ing] data from our Products using automated means (without [Facebook’s] prior permission)>>

Fb accortasene, chiude l’account di BT

Attore è Fb ma in riconvenzionale Bt chiede: <<(1)declaratory judgment that BrandTotal has not violated and will not violate the CFAA; (2)declaratory judgment that BrandTotal has not violated and will not violate section 502 of the California Penal Code; (3)declaratory judgment that BrandTotal has not interfered and will not interfere with Facebook’s contractual relations, id.; (4)intentionalinterference with contract, id; (5)intentional interference with prospective economic advantage,; (6)violation of California’s Unfair Competition Law>>

Le istanze sono in parte accolte e in parte rigettate.

I contratti di BT, su cui Fb avebbe interferito, sono: 1) contracts between BrandTotal and its corporate customers, 2) contracts between BrandTotal and its individual “Panelists, 3) contracts between BrandTotal and its investors, id.138, and 4)  contract between BrandTotal and Google, p. 16, che sono poi analizzati uno per uno.