Banche dati e estrazioni di dati on line

La CG si pronuncia sulla legittimità ai sensi dei diritto sui generis sulle banche dati (art. 7 dir. 96/9) dell’attività di ricerca dati (offerte di lavoro)  da parte di un motore di ricerca specializzato, effettuata su banca dati presente in internet e liberamente accessibile.

Si tratta di CG 03.06.2021, C-762/19, «CV-Online Latvia» SIA c. «Melons» SIA .

Precisamente: <<il giudice del rinvio chieda, in sostanza, se l’articolo 7, paragrafi 1 e 2, della direttiva 96/9 debba essere interpretato nel senso che un motore di ricerca in Internet specializzato nella ricerca dei contenuti delle banche di dati, che copia e indicizza la totalità o una parte sostanziale di una banca di dati liberamente accessibile in Internet, e successivamente consente ai suoi utenti di effettuare ricerche in tale banca di dati sul suo sito Internet secondo criteri pertinenti dal punto di vista del suo contenuto, procede a un’«estrazione» e a un «reimpiego» del contenuto di tale banca di dati, ai sensi di detta disposizione, e che il costitutore di una siffatta banca di dati ha il diritto di vietare tale estrazione o reimpiego di questa stessa banca di dati.>, § 20.

Le nozioni di «estrazione» e di «reimpiego» devono essere interpretate <<nel senso che si riferiscono a qualsiasi atto consistente, rispettivamente,  nell’appropriazione e nella messa a disposizione del pubblico, senza il consenso del costitutore della banca di dati, dei risultati del suo investimento, privando così quest’ultimo di redditi che dovrebbero consentirgli di ammortizzare il costo di tale investimento (sentenza del 9 novembre 2004, The British Horseracing Board e a., C‑203/02, EU:C:2004:695, punto 51)>>, § 31.

nel caso di specie il motore di ricerca specializzato sub iudice <<non utilizza i moduli di ricerca dei siti Internet nei quali consente di effettuare una ricerca e non traduce in tempo reale le richieste dei propri utenti in criteri utilizzati da tali moduli. Tuttavia, esso indicizza regolarmente tali siti e ne conserva una copia sui propri server. Inoltre, grazie al proprio modulo di ricerca, esso consente ai suoi utenti di effettuare ricerche in base ai criteri da esso proposti, ricerche che si effettuano tra i dati che sono stati indicizzati.     Se è pur vero che il funzionamento del motore di ricerca come quello di cui trattasi nel procedimento principale è diverso da quello di cui trattavasi nella causa che ha dato luogo alla sentenza del 19 dicembre 2013, Innoweb (C‑202/12, EU:C:2013:850), ciò non toglie che tale motore di ricerca consente di esplorare, seguendo un percorso diverso da quello previsto dal costitutore della banca di dati interessata, l’intero contenuto di più banche di dati simultaneamente, tra cui quella della CV-Online, mettendo tale contenuto a disposizione dei propri utenti. Tale motore di ricerca specializzato, fornendo la possibilità di effettuare ricerche simultaneamente in più banche di dati, secondo i criteri pertinenti dal punto di vista delle persone alla ricerca di lavoro, consente agli utenti l’accesso, nel proprio sito Internet, ad offerte di lavoro contenute in tali banche di dati.>>, §§ 33-34.

Pertanto, un motore di ricerca come quello di cui trattasi nel procedimento principale <<consente di esplorare tutti i dati contenuti nelle banche di dati liberamente accessibili in Internet, ivi compreso il sito Internet della CV-Online, e fornisce ai suoi utenti un accesso all’intero contenuto di tali banche di dati seguendo un percorso diverso da quello previsto dal loro costitutore. Inoltre, la messa a disposizione di tali dati si rivolge al pubblico, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 96/9, dal momento che un simile motore di ricerca può essere utilizzato da chiunque (v., in tal senso, sentenza del 19 dicembre 2013, Innoweb, C‑202/12, EU:C:2013:850, punto 51)   . 36      Inoltre, tale motore di ricerca, indicizzando e copiando sul proprio server il contenuto dei siti Internet, trasferisce il contenuto delle banche di dati costituite da tali siti verso un altro supporto.   37      Ne consegue che un simile trasferimento del contenuto sostanziale delle banche di dati interessate e che una simile messa a disposizione di tali dati al pubblico, senza il consenso della persona che le ha costituite, sono, rispettivamente, misure di estrazione e di reimpiego di tali banche di dati, vietate dall’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 96/9, a condizione che esse abbiano l’effetto di privare tale persona di redditi che dovrebbero consentirle di ammortizzare il costo di detto investimento. Come sottolineato dall’avvocato generale al paragrafo 36 delle sue conclusioni, la fornitura dei collegamenti ipertestuali verso gli annunci che compaiono nel sito Internet della CV-Online e la riproduzione delle informazioni contenute nei meta tag di tale sito sarebbero quindi solo manifestazioni esterne, di importanza secondaria, di tale estrazione e di detto reimpiego.>>

Occorre ancora esaminare <<se gli atti descritti ai punti 35 e 36 della presente sentenza siano tali da arrecare pregiudizio all’investimento del costitutore della banca di dati che è stata trasferita su un altro supporto e che è stata messa a disposizione del pubblico>>, § 38.

L’art. 7. 1 della direttiva 96/9 riserva il beneficio della tutela conferita dal diritto sui generis alle banche di dati <<la cui creazione o il cui funzionamento richiede un investimento rilevante sotto il profilo qualitativo o quantitativo.     Ne consegue che, come rilevato in sostanza dall’avvocato generale ai paragrafi 43 e 46 delle sue conclusioni, il criterio principale di bilanciamento dei legittimi interessi in gioco deve essere il potenziale pregiudizio all’investimento rilevante del costitutore della banca di dati di cui trattasi, vale a dire il rischio che tale investimento non possa essere ammortizzato>>, §§ 43-44.

Valutazione che, immancabilmente, tocca al giudice nazionale, § 46.

Responsabilità amministrativa dell’ente da reato: sul concetto di “nel suo interesse o vantaggio” ex art. 5.1 d. lgs. 231/2001:

Il concetto in oggetto (art.  5.1 d. lgs. 231/2001) è oggetto di ampio esame da parte di Cass. pen. sez. 4, n. 22.256 del 03.03.2021 (ud.), rel. Proto Pisani paola al § 3, p. 7 ss

Qui interessa il passo sulla rilevanza dell’omessa adozione di misure preventive (in particolare: di istruzioni sulla circolazione dei mezzi all’interno dell’azienda, avendo un muletto investito un lavoratore):

<<si ritiene che – onde impedire un’applicazione automatica della norma che ne dilati a dismisura l’ambito di operatività ad ogni caso di mancata adozione di qualsivoglia misura di prevenzione (che implica quasi sempre un risparmio di spesa il quale può, però, non essere rilevante) – ove il giudice di merito accerti l’esiguità del risparmio di spesa derivante dall’omissione delle cautele dovute, in un contesto di generale osservanza da parte dell’impresa delle disposizioni in materia di sicurezza del lavoro (ed in mancanza di altra prova che la persona fisica, omettendo di adottare tali cautele, abbia agito proprio allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica, e – quindi – in una situazione in cui l’omessa adozione delle cautele dovute sia plausibilmente riconducibile anche a una semplice sottovalutazione del rischio o ad un’errata valutazione delle misure di sicurezza necessarie alla salvaguardia della salute dei lavoratori), ai fini del riconoscimento del requisito del vantaggio occorre la prova della oggettiva prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto su quella della tutela della salute dei lavoratori quale conseguenza delle cautele omesse: la prova, cioè, dell’effettivo, apprezzabile (cioè non irrisorio) vantaggio (consistente nel risparmio di spesa o nella massimizzazione della produzione, che può derivare, anche, dall’omissione di una singola cautela e anche dalla conseguente mera riduzione dei tempi di lavorazione) non desumibile, sic et simpliciter, dall’omessa adozione della misura di prevenzione dovuta>>, p. 11.

In altri termini , laddove non vi sia la prova – desumibile anche dalla sistematica sottovalutazione dei rischi – che l’omessa adozione delle cautele sia il <<frutto di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi di impresa, (cioè di una specifica politica aziendale volta alla massimazione del profitto con un contenimento dei costi in materia di sicurezza, a scapito della tutela della vita e della salute dei lavoratori), e risulti, invece, l’occasionalità della violazione delle norme antinfortunistiche, dovendosi escludere il requisito dell’interesse, deve essere rigorosamente provato quello del vantaggio, che può alternativamente consistere in un apprezzabile risparmio di spesa o in un, sempre apprezzabile, aumento della produttività, e la motivazione della sentenza che riconosca tale vantaggio deve dare adeguatamente conto delle prove, anche per presunzioni, dalle quali lo ha desunto.>>

Affido super-esclusivo della figlia al padre e sindrome di alienazione parentale (PAS)

Forti perplessità dela Cassazione sulla scientificità della teoria c.d della sindrome di alienazione parentale (PAS), che non viene dunque valorizzata: con cassazione del provvedimento che aveva disposto l’affido c.d. super-esclusivo

Si tratta di Cass. 13217 de,. 17.05.2021, rel. Caiazzo.

Secondo la giurisprudenza , in tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci <<comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sè, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità del fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena (Cass., n. 6919/16)>>

Inoltre quando sia stata esperita c.t.u. medico-psichiatrica (allo scopo di verificare le condizioni psico-fisiche del minore e conclusasi con un accertamento diagnostico di sindrome dell’alienazione parentale), il giudice di merito, nell’aderire alle conclusioni dell’accertamento peritale, <<non può, ove all’elaborato siano state mosse specifiche e precise censure, limitarsi al mero richiamo alle conclusioni del consulente, ma è tenuto – sulla base delle proprie cognizioni scientifiche, ovvero avvalendosi di idonei esperti e ricorrendo anche alla comparazione statistica per casi clinici – a verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stesso piano della validità scientifica, oggetto di plurime critiche e perplessità da parte del mondo accademico internazionale, dovendosi escludere la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare (Cass., n. 7041/13).>>

Per cui nel caso concreto <<il contenuto e le conclusioni delle c.t.u. sono in molti punti generici e non chiari circa la ritenuta carenza delle capacità genitoriali della ricorrente>>.

In altri termini, il riferimento alla condotta tesa ad estraniare la figlia dal padre – sostanzialmente ricondotta alla cd. PAS, ovvero alla cd. “sindrome della madre malevola” – e la evidenziata conflittualità con l’ex-partner, <<non appaiono costituire fatti pregiudizievoli per la minore alla stregua della descrizione delle vicende occorse, tenuto comunque conto del controverso fondamento scientifico della sindrome PAS, cui le c.t.u. hanno fatto riferimento senza alcuna riflessione sulle critiche emerse nella comunità scientifica circa l’effettiva sussumibilità della predetta sindrome nell’ambito delle patologie cliniche. Sul punto, invero, va rimarcato che la Corte veneziana, esaminando le c.t.u., ha affermato che sarebbero state riscontrate psicopatologie nei confronti della ricorrente, intendendo di fatto che le stesse fossero da identificare nella citata PAS (o anche qualificata dal giudice di merito come “sindrome della madre malevola”), considerando l’assoluta mancanza di riferimenti ad altre ipotetiche patologie>>.

Sicchè nel caso specifico <<deve escludersi che la Corte d’appello, nel disporre l’affidamento esclusivo del minore al padre, abbia garantito il migliore sviluppo della personalità del minore stesso, escludendo l’affidamento condiviso su una astratta prognosi circa le capacità genitoriali della ricorrente fondata, in sostanza, su qualche episodio, sopra citato (pur grave) attraverso cui la madre avrebbe tentato di impedire che il padre incontrasse la bambina, senza però effettuare una valutazione più ampia, ed equilibrata, di valenza olistica che consideri cioè ogni possibilità di intraprendere un percorso di effettivo recupero delle capacità genitoriali della ricorrente, nell’ambito di un equilibrato rapporto con l’ex-partner, e che soprattutto valorizzi il positivo rapporto di accudimento intrattenuto con la minore, sebbene il riferimento della Corte di merito all’apparenza di tale rapporto costituisca una chiara conferma del fatto che il suo giudizio sia stato incentrato esclusivamente sul disvalore attribuito all’asserita PAS. Se è vero, in proposito, che i consulenti hanno riscontrato una forte animosità della ricorrente nei loro confronti e una certa refrattarietà a seguire i suggerimenti e le prescrizioni da loro impartite in ordine al rapporto con la minore e con l’ex partner, è altresì vero che proprio tali limiti caratteriali della madre avrebbero dovuto essere affrontati e valutati nella prospettiva di un’offerta di opportunità diretta a migliorare i rapporti con la figlia, in un percorso scevro da pregiudizi originati da postulate e non accertate psicopatologie con crismi di scientificità. Dagli atti emerge, invece, che le asprezze caratteriali della ricorrente sono state valutate in senso fortemente stigmatizzante, come espressione di un’ineluttabile ed irrecuperabile incapacità di esprimere le capacità genitoriali nei confronti della figlia, pur in mancanza di condotte di oggettiva trascuratezza o incuria verso quest’ultima, anche minime, o anche di mancata comprensione del difficile ruolo della madre. Al contrario, proprio il riferimento della Corte veneziana al buon rapporto di accudimento della minore da parte della ricorrente dimostra plasticamente il travisamento in cui lo stesso giudice d’appello è incorso nel ritenere che la B. fosse stata protagonista di un comportamento concretizzante l’invocata cd. PAS (dall’inglese: Parental Alienation Syndrome) desunto dalle predette condotte, attraverso, come esposto, un implausibile sillogismo la cui premessa principale è costituita da un ingiustificato severo stigma di comportamenti della madre fondato su un mero postulato>>.

E’ poi censurabile il  riferimento al padre <<quale unico genitore “in grado di dare equilibrio e serenità alla bambina”, affermazione che è il diretto precipitato di quanto argomentato sulla PAS. La pronuncia impugnata appare, dunque, essere espressione di una inammissibile valutazione di tatertyp, ovvero configurando, a carico della ricorrente, nei rapporti con la figlia minore, una sorta di “colpa d’autore” connessa alla postulata sindrome>>.

Il Collegio <<non intende (e non può) entrare nel merito della fondatezza scientifica della suddetta PAS, ma deve invece conclusivamente rilevare, in conformità dell’orientamento sopra citato, che i fatti ascritti dalla Corte territoriale alla ricorrente non presentano la gravità legittimante la pronuncia impugnata, in mancanza di accertate, irrecuperabili carenze d’espressione delle capacità genitoriali, considerando altresì il profilo, palesemente trascurato dalla stessa Corte di merito, afferente alle conseguenze sulla minore del c.d. “super-affido” della minore al padre in ordine alla conseguente rilevante attenuazione dei rapporti con la madre in un periodo così delicato per lo sviluppo fisio-psichico della bambina. Per quanto esposto, il decreto impugnato va cassato, con rinvio alla Corte d’appello di Brescia, in considerazione dell’opportunità che la causa sia trattata da altra Corte territoriale, anche perchè provveda sul regime delle spese del giudizio.>>

Un consiglio errato di cura sanitaria, offerto dalla rubrica di un periodico, genera responsabilità da prodotto difettoso a carico del periodico?

Una rubrica di un periodico austriaco offre consigli di cura tramite erbe (rafano grattuggiato) per i malanni al piedeo

Una lettrice li segue ma riporta forti dolori a seguito di reazione tossica

Il punto è se possa invocare contro il giornale (rectius: l’editore) la responsabilità da prodotto difettoso: se cioè il giornale possa essere ritenuto tale.

La Corte di Giustizia (CG), con sentenza 10.06.2021, C-65/20, VI c. Krone Verlag, dice di no.

Non solo non rientrano nel campo applicativo della dir. 85/374 i servizi (ma solo i bnei mobili (§§ 27-29); ma l’esito non cambia anche ravvisando una incorporazione del servizio nel prodotto fisico (nel giornale, che tale è), § 32 ss-

Conta capire quale sia la legittima aspettativa del pubblico, § 33: e <<la difettosità di un prodotto è determinata sulla base di alcuni elementi intrinseci al prodotto stesso e che riguardano, in particolare, la sua presentazione, il suo utilizzo e il momento in cui è stato messo in circolazione.>>, § 35.

pertanto nel caso di specie, <<il servizio in questione, vale a dire il consiglio inesatto, non riguarda il giornale stampato che ne costituisce il supporto. In particolare, questo servizio non riguarda la presentazione o l’uso del giornale stesso. Pertanto, tale servizio non costituisce uno degli elementi che sono intrinseci al giornale stampato e che consentono, di per sé, di valutare se quel prodotto sia difettoso.>>, § 36.

Ragionare diversamente eliminerebbe la distinzione tra responsabilità da prodotto fisico e responsabilità da prestazione di servizio, che è netta nel diritto UE., § 38

Quest’ultima è l’affermazione sistematicametne più significativa, dato che la distinzione tra prodotto e sercvizio nell’economia digitale odierna ha perso molta importanza e ancor più la perderà)

Debito per sanatoria edilizia e sua trasmissibilità propter rem

Interessante fattispecie decisa da Cass. n. 11.211 del 28.04.2021, rel. Criscuolo.

Tizio (T.) vende l’immobile a Caio (C.), assumendosi l’impegno di tenerlo indenne da eventuali esborsi a casua della irregolarità edizialia (destinazione non conforme alle previsioni urbnistiche).

C. rivende a Sempronio (S.) , che si trova ad essere proprietario nel momento in cui l’istanza di condono (presentata a suo tempo da T.) è accettata dal Comune.

Il debito da accoglimento di tale istanza, dice la SC,. è propter rem e cioè sorge in capo a chi sia proprietario al momento di tale accoglimento: non conta chi lo era nell’anteriore momento della presentazione.

Inoltre, l’impegno del venditore (T.)  nel rogito di vendita a tener indenne l’acquirente (C.) vale solo verso costui, avendo natura pattizia. Non vale invece verso il successivo acquirente (S.)  , a meno che non sia stato riprodotto  nel secondo rogito (non è chiaro come, però, dato che T. non ne sarebbe stato parte : a meno di presupporre una pattuzione nel primo rogito anche a favore di terzo, indeterminato e in incertam personam).

<<La corretta interpretazione delle norme invocate dalla ricorrente impone quindi di affermare che l’individuazione come soggetto obbligato al pagamento degli oneri economici legati al condono di colui che rivesta la qualità di proprietario alla data di conseguimento del provvedimento di sanatoria (e rispetto al quale è possibile la rivalsa da parte degli altri soggetti cui la legge riconosce l’interesse a presentare la domanda di condono), esclude che gli attori rivestano ancora la qualità di (co)obbligati rispetto al credito dedotto in giudizio, potendo la loro responsabilità solo derivare da una esplicita pattuizione contrattuale, il che esclude anche la correttezza del richiamo alla previsione di cui all’art. 1203 n. 3 c.c., in quanto non può assegnarsi alla ricorrente la qualità di soggetto tenuta con altri o per altri al soddisfacimento del debito verso il Comune>>

La SC precisa che l’irregolarità urbanistica de qua non costituisce vizio ex art. 1489 cc: <<A tal fine deve essere richiamata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui (Cass. n. 3464/2012) l’art. 1489 cod. civ., sulla vendita di cosa gravata da oneri o da diritti di terzi, non trova applicazione con riferimento al pagamento di oneri derivanti da procedimenti di regolarizzazione urbanistico-edilizia, dei quali il venditore abbia fatto menzione nell’atto di compravendita, trattandosi di pesi che non limitano il libero godimento del bene venduto (in senso conforme Cass. n. 1084/2020, non massimata, che però riconosce la validità di una clausola contrattuale che impegni il venditore a frasi carico degli oneri economici derivanti dal successivo perfezionamento della procedura di condono)>>.

Assicurazione sulla vita per il caso di morte e designazione dei beneficiari negli “eredi legittimi”

Arriva Cass. sez. un. n. 11.421 del 30.04.2021, BNP PARIBAS CARDIF VITA COMPAGNIA DI ASSICURAZIONE E RIASSICURAZIONE S.p.A c. ALESSANDRO BIAGIO GAETANO, rel. Antonio Scarpa, a dirimere la questione della valenza dell’espressione “Beneficiari in caso di morte dell’assicurato: eredi legittimi“, quale designazione dei beneficiari, contenuta in una polizza sulla vita per il caso di morte (si legge che tale tipo di designazione sarebbe alquanto diffuso)

La SC conferma l’indirizzo maggioritario (§ 6.1): l’espressione va intesa solo come mezzo per identificare i soggetti, senza diventare negozio mortis causa, e dunque senza dare rilevanza alle quote ereditarie.

Vediamo i principali passaggi:

  1. può dirsi ormai del tutto preponderante l’esegesi <<che ravvisa nell’atto di designazione del beneficiario dei vantaggi di un’assicurazione sulla vita, quale che sia la forma prescelta fra quelle consentite dell’art. 1920 c.c., comma 2, un negozio inter vivos con effetti post mortem: la morte dell’assicurato segna, cioè, il riferimento cronologico di differimento dell’esecuzione della prestazione assicurativa e di consolidamento del diritto già acquistato dal beneficiario in forza della designazione, restando la somma assicurata comunque estranea al patrimonio del de cuius che cade in successione (come può desumersi altresì dell’art. 1920 c.c., comma 2, ultimo periodo)>>
  2. L’assicurazione a favore di terzo per il caso di morte dello stipulante assicurato <<resta riconducibile, quindi, alla categoria del contratto a favore di terzi, ex art. 1411 c.c.>>
  3. la designazione del terzo è elemento <<strutturale essenziale, o comunque normale, dell’assicurazione sulla vita per il caso morte, dovendo la prestazione essere attribuita a persona diversa dallo stipulante, il cui interesse è implicito nella funzione assistenziale e previdenziale dell’operazione. Dalla mancanza della designazione discenderebbero, altrimenti, l’ingresso del credito nel patrimonio dell’assicurato e la successiva devoluzione agli eredi iure successionis.>>
  4. Essendo la designazione del beneficiario dei vantaggi di un’assicurazione sulla vita, quale che sia la forma prescelta fra quelle previste dell’art. 1920 c.c., comma 2, atto inter vivos con effetti post mortem, da cui discende l’effetto dell’immediato acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione, <<la generica individuazione quali beneficiari degli “eredi (legittimi e/o testamentari)” ne comporta l’identificazione soggettiva con coloro che, al momento della morte dello stipulante, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione ereditaria prescelto dal medesimo contraente, indipendentemente dalla rinunzia o dall’accettazione della vocazione. Deve invero sempre rammentarsi che qui il termine “eredi” viene attribuito dalla designazione allo scopo precipuo di fornire all’assicuratore un criterio univoco di individuazione del creditore della prestazione, e perciò prescinde dall’effettiva vocazione.>>
  5. L’eventuale istituzione di erede per testamento compiuta dal contraente assicurato dopo aver designato i propri “eredi (legittimi)” quali beneficiari della polizza <<non rileva, pertanto, nè come nuova designazione per attribuzione della somma assicurata, nè come revoca del beneficio, agli effetti dell’art. 1921 c.c., ove non risulti una inequivoca volontà in tal senso, operando su piani diversi l’intenzione di disporre mortis causa delle proprie sostanze e l’assegnazione a terzi del diritto contrattuale alla prestazione assicurativa>>
  6. la natura inter vivos del credito attribuito per contratto agli “eredi” designati quali beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione <<esclude l’operatività riguardo ad esso delle regole sulla comunione ereditaria, valevoli per i crediti del de cuius, come anche l’automatica ripartizione dell’indennizzo tra i coeredi in ragione delle rispettive quote di spettanza dei beni caduti in successione. La qualifica di “eredi” rivestita al momento della morte dello stipulante sopperisce, invero, con valenza meramente soggettiva, alla generica determinazione del beneficiario, in base al disposto dell’art. 1920 c.c., comma 2, che funziona soltanto al fine di indicare all’assicuratore chi siano i creditori della prestazione, ma non implica presuntivamente, in caso di pluralità di designati, l’applicazione tra i concreditori delle regole di ripartizione dei crediti ereditari>>
  7. Rimane ovviamente ferma <<la libertà del contraente, nel designare gli eredi quali beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione, di indicare gli stessi nominativamente o di stabilire in quali misure o proporzioni debba suddividersi tra loro l’indennizzo, o comunque di derogare all’art. 1920 c.c. (arg. dall’art. 1932 c.c.)>>
  8. In forza della designazione degli “eredi” quali beneficiari dell’assicurazione sulla vita a favore di terzo, <<la prestazione assicurativa vede quali destinatari una pluralità di soggetti in forza di una eadem causa obligandi, costituita dal contratto. Rispetto alla prestazione divisibile costituita dall’indennizzo assicurativo, come in ogni figura di obbligazione soggettivamente complessa (secondo quanto si argomenta in via di generalizzazione dall’art. 1298 c.c., comma 2 e dall’art. 1101 c.c., comma 1), ove non risulti diversamente dal contratto, a ciascuno dei beneficiari spetta una quota uguale (in conformità a quanto sostenne la sentenza n. 9388 del 1994), il cui pagamento ciascuno potrà esigere dall’assicuratore nella rispettiva misura.>>
  9. <<L’attribuzione del diritto iure proprio al beneficiario per effetto della designazione giustifica altresì l’applicabilità all’assicurazione sulla vita per il caso morte dell’art. 1412 c.c., comma 2, secondo il quale “la prestazione deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo se questi premuore allo stipulante, purchè il beneficio non sia stato revocato o lo stipulante non abbia disposto diversamente”, con conseguente trasmissibilità agli eredi del terzo premorto della titolarità dei vantaggi dell’assicurazione. In tal caso, l’acquisto del diritto alla prestazione assicurativa in favore degli eredi del beneficiario premorto rispetto allo stipulante opera, peraltro, iure hereditatis, e non iure proprio, e quindi in proporzione delle rispettive quote ereditarie, trattandosi di successione nel diritto contrattuale all’indennizzo entrato a far parte del patrimonio del designato prima della sua morte, nella medesima misura che sarebbe spettata al beneficiario premorto, secondo la logica degli acquisti a titolo derivativo. (…) La premorienza di uno degli eredi del contraente, già designato tra i beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione, comporta, quindi, non un effetto di accrescimento in favore dei restanti beneficiari, ma, stando l’assenza di una precisa disposizione sul punto ed in forza dell’assimilabilità dell’assicurazione a favore di terzo per il caso di morte alla categoria del contratto a favore di terzi, un subentro per “rappresentazione” in forza dell’art. 1412 c.c., comma 2 (senza che la comune denominazione delle fattispecie obliteri le evidenti differenze di ambito soggettivo ed oggettivo correnti tra detta norma e l’istituto previsto dall’art. 467 c.c.). Beninteso, il contraente potrebbe avere altrimenti espresso in sede di designazione una diversa volontà per il caso di premorienza di uno dei beneficiari, come potrebbe, a seguito della stessa, revocare il beneficio con le forme e nei limiti di cui all’art. 1921 c.c.>>

Parità di trattamento e applicazione diretta del principio costituzionale

La Corte di Giustizia (CG) ha affermato che la parità di trattamento tra lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile, posta dall’art 157 TFUE, è direttamente applicabile nelle controversie tra privati e ciò sia nel caso di <stesso lavoro>  sia nel caso di <lavoro di pari valore>.

Si tratta di CG 03.06.2021, C-624/19, vari lavoratori c. Tesco Stores ltd.

Così ragiona la CG:

<<20   Si deve anzitutto osservare che la formulazione stessa dell’articolo 157 TFUE non può suffragare tale interpretazione. Conformemente a quest’ultimo, ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Pertanto, tale articolo impone, in modo chiaro e preciso, un obbligo di risultato e ha carattere imperativo tanto per quanto riguarda uno «stesso lavoro» quanto con riferimento a un «lavoro di pari valore».

21      In tal senso, la Corte ha già dichiarato che dal momento che l’articolo 157 TFUE ha carattere imperativo, il divieto di discriminazione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile non solo riguarda le pubbliche autorità, ma vale del pari per tutte le convenzioni, che disciplinano in modo collettivo il lavoro subordinato nonché per i contratti fra singoli (sentenza dell’8 maggio 2019, Praxair MRC, C‑486/18, EU:C:2019:379, punto 67 e giurisprudenza citata).

22      Secondo giurisprudenza costante della Corte, tale disposizione produce effetti diretti creando, in capo ai singoli, diritti che i giudici nazionali hanno il compito di tutelare (v., in tal senso, sentenza del 7 ottobre 2019, Safeway, C‑171/18, EU:C:2019:839, punto 23 e giurisprudenza citata).

23     Il principio introdotto da detta disposizione può essere fatto valere dinanzi ai giudici nazionali in particolare nel caso di discriminazioni che traggano direttamente origine da norme o da contratti collettivi di lavoro, nonché qualora il lavoro sia svolto nella stessa azienda o ufficio, privato o pubblico (v., in tal senso, sentenze dell’8 aprile 1976, Defrenne, 43/75, EU:C:1976:56, punto 40, e del 13 gennaio 2004, Allonby, C‑256/01, EU:C:2004:18, punto 45).

24    Ai punti 18 e da 21 a 23 della sentenza dell’8 aprile 1976, Defrenne (43/75, EU:C:1976:56), la Corte ha rilevato, in particolare, che le discriminazioni che traggono origine da disposizioni legislative o dai contratti collettivi di lavoro rientrano tra quelle che possono essere accertate con l’ausilio dei soli criteri di identità del lavoro e di parità di retribuzione indicati dall’articolo 119 del Trattato CEE (divenuto, a seguito di modifica, articolo 141 CE, a sua volta divenuto articolo 157 TFUE), rispetto a quelle che possono essere individuate solo con riferimento a disposizioni d’attuazione più precise. La Corte ha aggiunto che lo stesso vale nel caso di una diversa retribuzione di lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile per uno stesso lavoro, svolto nella stessa azienda o ufficio, privato o pubblico, e che, in tale ipotesi, il giudice è in grado di procurarsi tutti gli elementi di fatto che gli consentono di accertare se un lavoratore di sesso femminile sia retribuito meno di un lavoratore di sesso maschile che svolge le stesse mansioni>>.

Tesco aveva invece sostenuto <<che il criterio del «lavoro di pari valore», a differenza di quello relativo a uno «stesso lavoro», deve essere precisato da disposizioni di diritto nazionale o del diritto dell’Unione.>>, § 19.

Esimente della forza maggiore per il mancato adempimento dell’obbligo tributario

La forza maggiore, oltre che nella responsabilità penale, opera anche nel rapporto di imposta.

Così si legge in  Cass. sez. 5, n° 15.415 del 03.06.2021, rel. Taddei:

<<Vero è che secondo una successiva precisazione , questa Corte non esclude che, in astratto, si possano configurare casi che giustificano l’invocarsi di assenza del dolo o di assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria ma l’ apprezzamento di tali casi è devoluto al giudice del merito e come tale è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato ed al fine di una verifica in merito è necessario che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla lamentata crisi di liquidità, dovranno investire non solo l’aspetto della non imputabilità a chi abbia omesso il versamento della crisi economica che ha investito l’azienda o la sua persona, ma anche la prova che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (non ultimo, il ricorso al credito bancario). 

In altri termini, il ricorrente che voglia giovarsi in concreto dell’ esimente, evidentemente riconducibile alla forza maggiore, dovrà dare prova che non gli sia stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili. ( cass. pen. N.10813/2014).   Nel caso in esame tali prove non sono state prodotte ,neanche sotto il profilo della rendicontazione dei rapporti intercorsi con la Provincia, essendosi limitata la ricorrente a rivendicare il proprio ruolo di società in house senza alcuna evidenza circa la situazione di crisi economico-finanziaria dedotta>>

(si noti la lunghezza e dunque la tortuosità e la non immediata comprensibilità del periodo)

Protezione del personaggio di fantasia col diritto d’autore

Trib. Roma 16.04.2021 n. 6504/2021, RG 27160/2017, UNIDIS JOLLY FILM SRL c. PARAMOUNT PICTURES CORPORATION ed altri, decide (con motivazione poco lineare) la questione della riproducibilità (meglio: evocabilità) di un personaggio cinematografico da parte di successivo film (“Rango”, diretto soprattutto a bambini, parrebbe).

Il personaggio è il cow boy cinico e astuto rappresentato da Clint Eastwood (CE) nel film di Sergio Leone <Per un pugno di dollari> del 1964, che in Rango  viene evocato per poco più di un minuto.

La tutelabilità del personaggio di fantasia, come autonoma opera dell’ingegno, è questione annosa e risolta per lo più positivamente.

La difesa dei convenuti eccepisce:

<<Paramount co la cui difesa appare riproposta anche dalle altre società eccepiva in ordine logico:
a) l’inesistenza di caratteristiche autoriali in capo al personaggio “l’uomo senza nome”,
b) La non titolarità in capo alla società attrice del diritto d’autore sul personaggio,
c) La diversità fra “l’uomo senza nome” e “Lo spirito del West” visibile nel film Rango,
d) il legittimo esercizio del diritto di parodia>>.

Il Tribunale (T.) ritiene che l’evocazione, pur indiscussa, sia all’attore Eastwood e non al personaggio del film di Leone, p. 11-13: <<Questo collegio ritiene che la citazione contenuta nei minuti dal 1.21:08 al minuto 1.22.45 sia chiaramente indirizzata all’attore, alla luce non solo della evidente sembianza fisica, vocale e di atteggiamento fra lo Spirito Del West e l’attore Clint Eastwood, ma anche del fatto che l’attore viene raffigurato anziano e con i capelli bianchi, ovverosia come appare oggi al pubblico e non come appariva all’epoca della realizzazione del film “per un pugno di dollari”.
Anche il contesto cinematografico appare suggerire un immediato riferimento all’attore: l’abbigliamento western è quello che ha utilizzato Clint Eastwood non solo nel film prodotto e realizzato dall’attrice, ma nell’intera trilogia diretta da Sergio Leone e tutti i dettagli dal sigaro, all’inquadratura in primo piano contribuiscono ad una precisa ed immediata identificazione e riconoscimento non tanto del personaggio “uomo senza nome” del quale, come si dirà, si dubita dell’esistenza, ma dello stesso attore Eastwood del quale, non a caso, vengono emblematicamente mostrati tutti gli Oscar conseguiti nella lunga e brillante carriera artistica.>>.

L”affermazione è discutibile, dato che l’attore è così evocato nella modalità scenica ideata da Leone (ad ogni modo: accertamento in fatto, a fini ad es. di eventuale ricorso in Cassazione).

Poi: <<Difettano quindi ab origine i presupposti del plagio allegato da parte attrice, anche alla luce del fatto che “lo Spirito del West” è personaggio relegato nella realizzazione dell’opera di VERBINSKY ad un ruolo temporalmente limitato alla durata di neanche due minuti; il regista ritaglia quindi per Clint Eastwood (CE) un breve “cameo” all’interno della trama del film, evidentemente al solo fine di soddisfare la smania di “citazionismo” evidente nell’opera cinematografica in questione (ed evidenziata da tutti i consulenti le cui analisi sono state prodotte in atti), per rendere un chiaro omaggio all’attore protagonista della saga degli spaghetti western ed al suo regista Sergio Leone, consona con lo scenario dell’opera “Rango”.>>, p. 13.

Mortivazione ultronea e confondente, se il richiamo non è all’opera dell’ingegno leoniana.

Soprattutto confondente ,laddove evoca il fair use statunitense (p. 14 e p. 19), senza minimamente curarsi do collocarlo nelle categorie giuridico-dogmatiche nazionali (e/o europee, vista l’armonizazione in materia). Operazione di trapianto giuridico da respingere, dunque. La rigidità delle eccezioni al diritto di autore, pur criticabile de jure condendo, va però superata dopo apposito esame delle eccezioni vigenti e della possibilità di una loro estensione tramite analogia (legis o iuris), tenendo conto della disciplina eurounitaria.

In aggiunta per il Trib. il personaggio rapresentato da CE non è sufficientemente originale: <<Ciò che però appare difettare a “l’uomo senza nome” nella ricostruzione fornita da parte attrice, è proprio il possesso di caratteristiche creative che lo possano identificare quale “personaggio” autoriale in senso stretto e quindi quale potenziale predicato di diritti autoriali.
Un personaggio potenzialmente oggetto di diritti autoriali è difatti un soggetto frutto di un’autonoma e personale creazione artistica da parte del suo ideatore il quale racchiuda delle caratteristiche tali da renderlo immediatamente riconoscibile in quanto tale, quale estrinsecazione della personalità artistica del creatore, anche al di fuori del contesto in cui originariamente è stato collocato ed inventato. (…) Ciò che però appare difettare a “l’uomo senza nome” nella ricostruzione fornita da parte attrice, è proprio il possesso di caratteristiche creative che lo possano identificare quale “personaggio” autoriale in senso stretto e quindi quale potenziale predicato di diritti autoriali.
Un personaggio potenzialmente oggetto di diritti autoriali è difatti un soggetto frutto di un’autonoma e personale creazione artistica da parte del suo ideatore il quale racchiuda delle caratteristiche tali da renderlo immediatamente riconoscibile in quanto tale, quale estrinsecazione della personalità artistica del creatore, anche al di fuori del contesto in cui originariamente è stato collocato ed inventato. Nel caso di specie “l’uomo senza nome”, che ha costituito sicuramente il protagonista della trilogia di Sergio Leone, non è successivamente più comparso in alcuna altra opera cinematografica al di fuori della nota trilogia (in cui naturalmente è riapparso come tale in quanto le due successive opere rappresentano la prosecuzione di un percorso narrativo iniziato con la prima), non appare frutto di un’idea creativa ed originaria, quanto la rielaborazione personale e non evolutiva (bensì contestualizzata nel mondo western) da parte di Sergio Leone di prototipi noti alla narrazione letteraria e cinematografica (quali quelli ben evidenziati dalle convenute) e non ha acquisito ad avviso del collegio una penetrazione ovvero una permanenza nel pubblico, nella critica cinematografica o nelle successive opere tale da renderlo qualificabile come opera creativa ed identificabile come tale>>, p. 14-15

Sulla distinzione necessaria tra personaggio e attore: <<Un personaggio autoriale, quando addiviene ad una caratterizzazione tale da farlo diventare immediatamente percepibile come tale dal pubblico o dalla critica, e quindi potenzialmente latore di diritti autoriali, deve necessariamente diversificarsi dall’attore che lo impersona; si pensi per esempio al personaggio di “James Bond” o al personaggio narrativo di Sherlock Holmes, i quali, caratterizzati da una nota ed inequivocabile iconografia, senz’altro sono soggetti a titolarità autoriale in quanto assolutamente determinati nel contesto narrativo e potenzialmente interpretabili da una pluralità di attori ed in contesti storici e geografici totalmente differenti>>, p. 16.

Il collegio non ritiene pertanto <<di percepire nel “l’uomo senza nome” quello scarto semantico rispetto ai precedenti archetipi necessario a configurarlo quale momento creativo del regista Sergio Leone. Se si sottopone invero ad un attento vaglio autoriale rispetto alla letteratura ed iconografia precedente “l’uomo senza nome”, emergono molteplici e ricorrenti caratteristiche già note nella letteratura (lo stereotipo dell’eroe negativo, ambiguo, doppiogiochista, straniero, fuorilegge risale ai primordi della letteratura occidentale con l’Odissea) e nello specifico settore cinematografico.>>, p. 17.

Anche qui, osservazioni estranee alla ratio decidendi, se è vero che poco sopra aveva accertato che il film censurato non si riferiva al personaggio ma all’attore.

Sulla parodia (anche qui in modo ultroneo, alla luce dell’accoglimento della prima difesa ed anzi ancor prima della citata non evocazione del personaggio ma solo di CE): il Trib. la nega nel secondo film , dicendo <<nel caso di specie non ritiene questo collegio che quanto visibile nel film “Rango” appartenga alla sfera interpretativa della parodia, in quanto tutti i contenuti riferibili alle opere cinematografiche menzionate nel film Rango, pur essendo immediatamente riconoscibili, non assumono una funzione dissacratoria o comunque rielaborativa con finalità difformi da quelli dell’opera originale>>, p. 18-19.

Purtuttavia , a parere del Tribunale, il fair use permetterebbe un diffuso “citazionismo” e cioè la plurima evocaozione di opere anteriori e/o dei loro personaggi: <<purtuttavia anche in questo caso, che come si è detto precedentemente è inquadrabile nell’alveo del cosiddetto “citazionismo”, questo collegio deve osservare come lo stesso, analogamente al diritto di parodia e con i medesimi criteri di immediata percepibilità ed innocuità, appaia lecito e non foriero di responsabilità per violazione del diritto d’autore nel momento in cui la citazione avviene in forma manifesta e limitata a dei singoli spezzoni che non assumono significato nell’economia dell’opera artistico letteraria secondo la precedentemente menzionata dottrina del “fair use”.
In sostanza anche un chiaro richiamo ad un’opera precedente, lungi dal costituire violazione del diritto d’autore, è ammissibile nel momento in cui evoca sobriamente l’opera antecedente come breve omaggio, tributo all’attore o al regista, in quanto è lo stesso autore/regista che “confessa” la propria estraneità all’opera autoriale precedente e la incorpora come tale nella propria al solo fine di denunciare i propri riferimenti narrativi o bibliografici.>>, p. 19