Quando l’insegna del negozio vale uso del marchio sui prodotti ivi venduti

In tema di decadenza per non uso quinquennale del marchio, Trib UE 20.06.25, T-372/24, K-Way c. EUIPO – Gubbini , dà dei chiarimenti sulla particolare questione in oggetto.

<<33  Nel caso di specie, al punto 57 della decisione impugnata, la commissione di ricorso ha rilevato che tutti i negozi presentavano lo stesso allestimento, con il marchio contestato «ben in vista». Essa ha considerato che l’uso del marchio contestato sulle insegne dei negozi monomarca servisse a corroborare le prove dell’uso del segno di cui trattasi sui prodotti interessati e dimostrasse l’uso non meramente simbolico di tale segno. Tuttavia, a suo avviso, l’uso del marchio contestato sulle insegne dei negozi monomarca non significava automaticamente che ogni singolo prodotto venduto in tali negozi contenesse detto marchio.

34 A tal riguardo, occorre ricordare che, conformemente alla giurisprudenza cui fa riferimento la ricorrente, l’uso della denominazione sociale, del nome commerciale o di un’insegna può essere considerato come un uso effettivo del marchio registrato quando il segno è apposto sui prodotti commercializzati o quando, anche in assenza di apposizione, tale segno è impiegato in modo da creare un nesso tra il segno che rappresenta la denominazione sociale, il nome commerciale o l’insegna e i prodotti commercializzati o i servizi forniti [sentenza del 26 aprile 2023, Rochem Group/EUIPO – Rochem Marine (R.T.S. ROCHEM Technical Services), T‑546/21, non pubblicata, EU:T:2023:221, punto 61; v. anche, in tal senso, sentenza dell’11 settembre 2007, Céline, C‑17/06, EU:C:2007:497, punti 22 e 23].

35 Si deve altresì rilevare che, al punto 76 della sentenza dell’8 luglio 2020, Euroapotheca/EUIPO – General Nutrition Investment (GNC LIVE WELL) (T‑686/19, non pubblicata, EU:T:2020:320), è stato dichiarato che era dimostrato un nesso tra un segno rappresentato su un’insegna e prodotti commercializzati con tale insegna, dato che le fotografie di insegne all’interno dei punti vendita servivano a designare le vendite di tali prodotti. In tale sentenza, il Tribunale ha tenuto conto, in particolare, del fatto che il titolare del marchio in questione vendesse i propri prodotti e li pubblicizzasse al fine di creare e mantenere una quota di mercato per i prodotti controversi.

36 Tuttavia, è palese che, nel caso di specie, la commissione di ricorso non ha disatteso la giurisprudenza citata al precedente punto 34, alla quale fa riferimento la ricorrente. Infatti, come risulta dal punto 57 della decisione impugnata, essa ha ritenuto che l’uso del marchio contestato nell’insegna dei negozi monomarca della ricorrente fosse pertinente in quanto serviva a corroborare l’uso di detto marchio.

37 A tal riguardo, si deve altresì rilevare che, nella causa che ha dato luogo alla sentenza dell’8 luglio 2020, GNC LIVE WELL (T‑686/19, non pubblicata, EU:T:2020:320), le fotografie dell’insegna dei negozi che riproducevano il marchio interessato erano solo uno tra più elementi che consentivano di concludere nel senso dell’uso effettivo di detto marchio. Invece, contrariamente a quanto sostiene la ricorrente nel caso di specie, non se ne può dedurre che il fatto che alcuni prodotti siano venduti in negozi recanti un’insegna corrispondente a un marchio dell’Unione europea basti a dimostrare, in ogni caso, l’uso effettivo di tale marchio per tutti detti prodotti.

38 Peraltro, come risulta dal fascicolo (punti 45 e 46 della decisione impugnata) e come sostiene l’EUIPO, la ricorrente utilizza più marchi per i prodotti che commercializza. Ebbene, questa circostanza può essere tale da impedire che il consumatore percepisca un nesso tra l’uso del marchio rappresentato sull’insegna dei negozi e i prodotti, commercializzati in tali negozi, sui quali il marchio in questione non è stato apposto [v., in tal senso, sentenza del 15 ottobre 2020, Decathlon/EUIPO – Athlon Custom Sportswear (athlon custom sportswear), T‑349/19, non pubblicata, EU:T:2020:488, punto 73].

39 Tale valutazione non può essere messa in discussione dal fatto, dedotto dalla ricorrente in udienza come risposta a una domanda del Tribunale, che essa utilizzi taluni dei suoi marchi unicamente per prodotti specifici e altri, come il marchio contestato, genericamente, sulle confezioni e nella pubblicità, per identificare la sua attività nel complesso.

40 In proposito, si deve ricordare che, conformemente alla giurisprudenza citata al precedente punto 24, l’uso effettivo di un marchio non può essere dimostrato da probabilità o da presunzioni, ma deve basarsi su elementi concreti ed oggettivi che provino un’utilizzazione effettiva e sufficiente del marchio nel mercato interessato.

41 Ne consegue che la commissione di ricorso non è incorsa né in errori di diritto né in errori di valutazione nell’esame degli elementi di prova relativi ai negozi monomarca della ricorrente, per cui la presente parte del motivo unico deve essere respinta>>.

C’è giurisdizione italiana sull’azione di danno contro ENI e soci per emissioni climalteranti

Ineccepibile il ragionamento condotto da Cass. sez. un. (in sede di regolamento di giurisdizione) 21.07.2025 n. 20.381, rel. Mercolino, in Greenpeace-Recommon ETS e altri c. ENI-Ministero dell’economia-Cassa depositi e prestiti.

Sulla domanda svolta:

<<7. La natura processuale della questione, nella cui soluzione questa Corte è chiamata ad operare come giudice anche del fatto, consente di procedere all’esame diretto degli atti di causa, e segnatamente dell’atto di citazione, dal quale si evince che la domanda proposta dinanzi al Tribunale di Roma ha ad oggetto a) l’accertamento dell’inottemperanza dell’ENI, del Ministero e della Cassa DDPP al raggiungimento degli obiettivi climatici internazionalmente riconosciuti, volti a garantire il contenimento dell’incremento della temperatura entro 1,5 C, b) la conseguente dichiarazione della responsabilità solidale dei convenuti per tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subìti e subendi dagli attori in conseguenza del cambiamento climatico, per violazione del combinato disposto degli artt. 2 e 8 della CEDU e degli artt. 2043, 2050 e 2051 cod. civ., c) la condanna dell’ENI a limitare il volume annuo aggregato di tutte le emissioni di CO2 in atmosfera, in misura tale che a fine 2030 lo stesso venga ridotto di almeno il 45% rispetto ai livelli del 2020, ovvero in altra misura che garantisca il rispetto degli scenari elaborati dalla comunità scientifica internazionale, con la fissazione di una somma di denaro da pagarsi in caso d’inottemperanza o ritardo nell’esecuzione del provvedimento, d) la condanna del Ministero e della Cassa DDPP, ai sensi dell’art. 2058 cod. civ. e dell’art. 614bis cod. proc. civ., ad adottare una policy operativa che definisca e monitori gli obiettivi climatici di cui l’ENI dovrebbe dotarsi, con la fissazione di una somma di denaro da pagarsi in caso d’inottemperanza o ritardo nell’esecuzione del provvedimento, e) in subordine, la condanna dei convenuti alla adozione di ogni iniziativa necessaria a garantire il rispetto degli scenari elaborati dalla comunità scientifica internazionale per contenere l’aumento della temperatura entro 1,5 C.

Lo specifico riferimento agli artt. 2043,2050,2051 e 2058 cod. civ. rende evidente che attraverso la domanda in esame gli attori hanno inteso far valere una responsabilità extracontrattuale dei convenuti per i danni cagionati dall’inottemperanza dell’ENI al dovere di adottare, nell’esercizio dell’attività industriale e commerciale svolta sia direttamente che attraverso le società da essa partecipate, le misure necessarie per ridurre il volume di emissioni di CO2 in atmosfera, in misura tale da consentire di raggiungere l’obiettivo fissato dagli accordi internazionali in tema di contrasto del cambiamento climatico, consistente nella limitazione dell’incremento della temperatura globale entro il limite dell’1,5 C rispetto ai livelli preindustriali. Il fondamento di tale responsabilità viene individuato nella violazione degli obblighi derivanti dai predetti accordi, e segnatamente dall’Accordo di Parigi del 12 dicembre 2015, ritenuto vincolante anche nei confronti dei privati, per effetto dell’ordine di esecuzione impartito con legge n. 104 del 2016, e nella conseguente lesione del diritto alla vita ed al rispetto della vita privata e familiare, previsto dagli artt. 2 e 8 della CEDU, ritenuti a loro volta produttivi di obblighi positivi e negativi a carico non solo degli Stati aderenti alla Convenzione, ma anche dei privati, nonché nella violazione degli art. 9, terzo comma, e 41, secondo e terzo comma, Cost., come modificati dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, che, nel sancire il principio della tutela dell’ambiente, precisano che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare danno allo stesso o alla salute, prevedendo inoltre che la stessa debba essere indirizzata e coordinata a fini ambientali.>>

Si noti che:

i) ENI e Cassa Dep. Prest. sono citati in giudizio come soci di riferimento di Eni;

ii) il regolamento è stato chiesto dagli attori (ipotesi rara ma, dice la SC, ammissibile).

Differenza rispetto all’azione c.d. Giudizio Universale, decisa dal Tribunale di Roma nel 2024 , in cui  convenuto era lo Stao italiano e che venne rigettata per carenza assoluta di giurisdizione.

<<A differenza delle predette ipotesi, la fattispecie in esame si configura come una comune azione risarcitoria, fondata sull’allegazione di un danno, consistente nella lesione del diritto alla vita ed al rispetto della vita privata e famigliare, la cui ingiustizia viene predicata in virtù del richiamo da un lato agli obblighi positivi e negativi derivanti dagli artt. 2 e 8 della CEDU, e dall’altro ai doveri d’intervento previsti dalle fonti internazionali in tema di contrasto del cambiamento climatico, obblighi e doveri dei quali viene affermata l’efficacia vincolante non solo a carico degli Stati che hanno aderito alla CEDU ed agli Accordi richiamati, ma anche a carico dei singoli soggetti pubblici e privati, segnatamente di quelli operanti direttamente o a mezzo di altri soggetti da loro partecipati nel settore della produzione, del trasporto e della commercializzazione di combustibili fossili, al quale la c.d. attribution science, cui si deve l’approfondimento di tali fenomeni, imputa il maggior contributo alle emissioni di CO2 nell’atmosfera, responsabili dell’incremento della temperatura globale. In tal senso dev’essere intesa anche l’invocazione degli artt. 2050 e 2051 cod. civ., ritenuti idonei a fondare una responsabilità oggettiva o presunta dei predetti soggetti, in ragione dell’intrinseca pericolosità dell’attività svolta, che impone a chi la esercita di adottare tutte le misure idonee evitare che la stessa arrechi danno a terzi, o comunque del dinamismo dannoso connesso alla natura dei materiali trattati, che implica un dovere di custodia e controllo a carico di chi ne abbia la disponibilità. Sulla base di tali allegazioni in fatto ed in diritto, viene poi chiesto l’accertamento della responsabilità solidale dell’ENI, in quanto esercente direttamente la predetta attività industriale e commerciale, e degli altri due convenuti, in quanto titolari di una posizione di controllo (inteso in senso privatistico) che consente loro d’intervenire indirettamente su tale attività, con la condanna degli stessi ad adottare le misure idonee a ridurre le emissioni entro i limiti previsti dalle fonti internazionali indicate.>>

Sul criterio di collegamento ex art. 4.1 e art. 7 n. 2 reg. 1215/2022:

<<8.1. Ai fini dell’applicazione dei predetti criteri di collegamento, occorre poi considerare che le emissioni climalteranti, pur avendo la loro origine nel luogo in cui si svolgono la produzione, il trasporto e la commercializzazione dei combustibili fossili, hanno una portata naturalmente diffusiva, estendendo i loro effetti all’intera atmosfera terreste, nell’ambito della quale si determina l’incremento della temperatura globale che produce il cambiamento climatico; la lesione del diritto alla vita ed alla vita privata e familiare allegata a sostegno della domanda si verifica invece nel luogo in cui gli attori risiedono, dove è destinata a determinarsi quella compromissione dell’aspettativa di vita, delle condizioni di salute e della qualità complessiva dell’esistenza, che costituisce l’effetto ultimo della sequenza causale innescata dal cambiamento climatico, ed in cui gli attori hanno individuato il danno individuale, concreto ed attuale da loro subìto. Sulla base di tali considerazioni, nel caso di specie, il luogo in cui si verifica l’evento generatore del danno dev’essere individuato in quello (o in tutti quelli, avuto riguardo alla pluralità di luoghi e di Stati in cui si svolge direttamente o indirettamente l’attività dell’ENI) in cui si producono le emissioni climalteranti, mentre il luogo in cui si concretizza il danno fatto valere dagli attori va identificato in quello in cui gli stessi risiedono: l’applicazione di quest’ultimo criterio consente quindi di affermare che la giurisdizione in ordine alla pretesa risarcitoria avanzata dagli attori spetta all’Autorità giudiziaria italiana, mentre l’utilizzazione del primo porterebbe ad individuare una pluralità di giudici competenti, identificabili in quelli di ciascuno dei Paesi (ivi compresa l’Italia) in cui si producono le emissioni di CO2. In proposito, va peraltro evidenziato che, nel ricostruire la sequenza causale generatrice del danno allegato, gli attori ne hanno individuato l’origine nella strategia industriale e commerciale dell’ENI, la cui elaborazione, spettante in definitiva agli organi di governo della società, che operano nel luogo in cui la stessa ha la sua sede legale ed operativa, consentono di collocare la condotta dannosa nel territorio nazionale, con la conseguenza che, anche sotto tale profilo, la competenza giurisdizionale dev’essere assegnata all’Autorità giudiziaria italiana.>>

Tutela di marchio per i Non-fungible tokens (NFTs)

Avevo postato un cenno alla sentenza di primo grado nella lite Yuga Labs c. Ripps-Cahen.

Ora l’appello del nono circuito la conferma, ma non decide nel merito per insufficiente prova della confondibilità (23.07.2025 , n° 24/879; notizia e link offerti da Tyler Ochoa nel blog di Eric Goldman).

Qui ricordo solo i) l’affermazione per cui gli NFT sono “goods” a tutti gli effetti (I.A, 21 ss) e ii) quella per cui il creatore mantiene la legittimazione ad invocare la tutela del segno distgintivo nonostante le vendite degli NFT (I.B.2, 28 ss, profilo partiocolarmente interessante).

Per il concetto di NFT v. l’iniziale descrizione (Background- I) What is an NFT?, 6 ss) e il saggio Hannah Bobek, To Mint or Not to Mint: Non-fungible Tokens and the Right of Publicity, 92 Fordham L. Rev. (spt. sub I.B)
639 (2023).https://ir.lawnet.fordham.edu/flr/vol92/iss2/12 , citata e ampiamente usata dal collegio.

Il pericolo di evizione nel preliminare di vendita (sull’art. 1381 cc)

Cass. sez. II, 25/07/2025 n. 21.254, rel. Maccarrone:

<<L’art. 1481 co 1 c.c. riconosce al compratore la possibilità di sospendere il pagamento del prezzo “quando ha ragione di temere che la cosa o una parte di essa possa essere rivendicata da terzi, salvo che il venditore presti idonea garanzia”: la sospensione del pagamento – da parte del compratore – o la prestazione di garanzia – da parte del venditore – sono pertanto i rimedi che la norma prevede per l’ipotesi di pericolo di evizione a tutela del compratore.

La facoltà del compratore di sospendere il pagamento del prezzo, a norma dell’art. 1481 c.c. costituisce applicazione alla compravendita del principio generale “inadimplenti non est adimplendum”, disciplinato all’art. 1460 cod. civ., e richiede che l’esercizio dell’autotutela così riconosciuta sia conforme a buona fede: il pericolo di perdere la proprietà o parte di essa deve cioè essere serio e concreto e risultare inoltre attuale, non già soltanto ipotizzabile in futuro o meramente presuntivo (cfr., in particolare, Cass. 8002/2012).

I presupposti oggettivi di operatività dell’art. 1481 c.c. sono quindi il pericolo di rivendica, relativo anche ad una parte del bene compravenduto, l’effettività del pericolo, che non può rinvenirsi nel mero timore o in una presunzione non grave e non circostanziata dell’acquirente, e la gravità, serietà e concretezza del pericolo stesso e di conseguenza quantomeno la verosimiglianza dell’esistenza di un diritto altrui sul bene.

Sotto il profilo soggettivo la sospensione del pagamento del prezzo disciplinata dall’art. 1481 c.c. presuppone, secondo il disposto del secondo comma della norma, che il compratore non avesse consapevolezza del pericolo di rivendica: è irrilevante invece la situazione soggettiva del venditore, significativa solo sotto il profilo della responsabilità da inadempimento – cfr., in tal senso, tra le altre, Cass. n. 8002/2012; Cass. n. 31314/2019 -.

La norma in esame è dettata per la compravendita ma trova pacificamente applicazione per analogia anche per i contratti preliminari di compravendita. (…) Orbene, il semplice fatto che un bene immobile provenga da donazione e possa essere teoricamente oggetto di una futura azione di riduzione per lesione di legittima esclude di per sé che esita un pericolo effettivo di revindica e che il compratore possa sospendere il pagamento o pretendere la prestazione di una garanzia. Non si è in tal caso nemmeno verificato il presupposto per l’azione restitutoria ex art. 582 c.c., e che cioè, vi sia un erede che, ritenendo lesa la legittima in conseguenza della donazione, abbia esercitato l’azione di riduzione e manifestato l’intenzione di proporre, per la probabilità della vana escussione dei beni del donatario, anche l’azione di restituzione nei confronti degli aventi causa del donatario)”; nello stesso, in ipotesi di bene compravenduto proveniente da donazione, si è espressa di recente Cass. n. 8571/2019).

(…)

Rispetto ad un contratto preliminare il ricorso al disposto dell’art.1481 c.c. permette la sospensione dell’obbligazione di contrarre il contratto definitivo e del pagamento del prezzo (ove siano previsti pagamenti in acconto prima e in vista della stipula del definitivo), ferma restando la possibilità che prima della stipula la parte promittente venditrice trovi una soluzione alla questione e/o offra idonea garanzia: è questa la forma di tutela riconosciuta al promissario acquirente per l’ipotesi di pericolo di evizione.

Ne consegue che la richiesta del promissario acquirente di “regolarizzazione” della situazione con il terzo potenzialmente rivendicante entro un dato termine, rivolta al promittente venditore, si pone al di fuori dell’operatività propria della norma in esame ove sia finalizzata a costituire il presupposto dell’eventuale scioglimento del vincolo, attraverso il recesso o la risoluzione, perché sposta la valutazione del comportamento delle parti dal rischio di evizione nell’ambito della considerazione degli adempimenti a carico di ognuna di esse e delle conseguenze della loro violazione.

Dalla sospensione dell’obbligazione di contrarre il contratto definitivo in capo al promissario acquirente deriva cioè da una parte l’impossibilità per il promittente venditore di far valere nei suoi confronti l’obbligo a contrarre e, dall’altra, la necessità che il pericolo di evizione sia “neutralizzato” prima della stipula del contratto definitivo, a nulla valendo per l’operatività della disposizione in esame l’imposizione unilaterale di termini intermedi (potenzialmente rilevanti nell’ambito proprio dell’adempimento contrattuale).

L’esistenza del pericolo di evizione unitamente alle iniziative della parte promissaria acquirente per la sollecita definizione del rischio evidenziato e della sua incidenza sull’oggetto promesso in vendita, con indicazione di un termine entro cui la parte promittente venditrice avrebbe dovuto operare, riguardano più propriamente il profilo di sussistenza dei presupposti per l’esercizio del recesso, ex art. 1385 c.c., primo tra tutti l’inadempimento della controparte, presupposti che debbono essere esaminati con l’utilizzo degli stessi criteri -in particolare quanto a gravità e proporzionalità – previsti dagli art. 1453 e 1455 c.c. – così già Cass. n. 398/1989, secondo cui “La disciplina dettata dal secondo comma dell’art. 1385 cod. civ., in tema di recesso per inadempimento nell’ipotesi in cui sia stata prestata una caparra confirmatoria, non deroga affatto alla disciplina generale della risoluzione per inadempimento, consentendo il recesso di una parte solo quando l’inadempimento della controparte sia colpevole e di non scarsa importanza in relazione all’interesse dell’altro contraente. Pertanto nell’ indagine sull’inadempienza contrattuale da compiersi al fine di stabilire se ed a chi spetti il diritto di recesso, i criteri da adottarsi sono quegli stessi che si debbono seguire nel caso di controversia su reciproche istanze di risoluzione, nel senso che occorre in ogni caso una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto, in modo da stabilire quale di essi abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l’interesse dell’altro al mantenimento del negozio. (V 4011/84, mass n. 435931; (V 4011/84, mass n 435982; (Conf. 4451/85, mass n 441912)”; (le pronunce successive sono conformi: cfr., tra le altre, Cass. n. 409/2012, Cass. n. 12549/2019; Cass. n. 21206/2019; Cass. n. 21209/2019)>>.

Sui presupposti per la determinazione equitativa del danno ex art. 1226 cc

La penna del Cons. Rossetti dietro il cristallino insegnamento sul tema in oggetto, leggibile in Cass. sez. III, 28/07/2025 n. 21.607 (si trattava di danno chiesto da una soceità commerciale al Ministero dell’Interno per non aver fatto sgomberare propri appartamenti abusivamente occupati da terzi):

<<2.3. Per rimediare a questo stato di cose il codice del 1942 introdusse l’attuale art. 1226 c.c. (corrispondente all’art. 56 del progetto del “Libro delle obbligazioni”, approvato con r.d. 30.1.1941-XIX), con il quale si volle:

(a) da un lato, accordare espressamente al giudice il potere di liquidazione equitativa del danno nel caso di impossibilità di una esatta stima di esso;

(b) dall’altro, consentire tale potere solo nei casi in cui l’esistenza del danno fosse indiscutibile, ma discutibile ne fosse l’ammontare.

Questi principi sono espressi nella relazione ministeriale al libro delle obbligazioni, ove si afferma che la liquidazione equitativa è consentita dall’art. 1226 c.c. solo per il danno “di cui è sicura l’esistenza” (Relazione ministeriale alla Maestà del Re Imperatore, Cap. XV, par. 38, in fine). La genesi dell’art. 1226 c.c. svela dunque che primo ed indefettibile presupposto per il ricorso alla liquidazione equitativa è la dimostrata esistenza d’un danno certo, e non soltanto eventuale od ipotetico.

2.3. La conclusione appena esposta è confermata dalla sintassi dell’art. 1226 c.c. La norma è infatti costruita come un periodo ipotetico dell’eventualità, nel quale la pròtasi è l’impossibilità di provare il danno, e l’apodosi il ricorso al potere equitativo del giudice.

È dunque evidente che in tanto è consentito al giudice il ricorso alla liquidazione equitativa, in quanto sia stata previamente dimostrata l’esistenza certa, ovvero altamente verosimile, d’un effettivo pregiudizio. È l’impossibilità di quantificare un danno certamente esistente che rende possibile il ricorso alla stima equitativa. Se, invece, è l’esistenza stessa d’un pregiudizio economico ad essere incerta, eventuale, possibile ma non probabile, spazio non v’è alcuno per l’invocabilità dell’art. 1226 c.c.

Questo principio costituisce da oltre cinquantanni jus receptum nella giurisprudenza di legittimità (a partire da, Sez. 3, Sentenza n. 1536 del 19/06/1962, secondo cui “la valutazione equitativa del danno presuppone che questo, pur non potendo essere provato nel suo preciso ammontare, sia certo nella sua esistenza ontologica”; nello stesso senso, ex plurimis, Sez. 2, Sentenza n. 838 del 03/04/1963; Sez. 3, Sentenza n. 1327 del 22/05/1963; Sez. 2, Sentenza n. 2125 del 16/10/1965; Sez. 3, Sentenza n. 1964 del 25/07/1967; Sez. 2, Sentenza n. 181 del 22/01/1974; Sez. 1, Sentenza n. 3418 del 23/10/1968; Sez. 3, Sentenza n. 3977 del 03/07/1982; Sez. 1, Sentenza n. 7896 del 30/05/2002; Cass. Sez. 6, 17/11/2020, n. 26051).

Ne consegue che in tanto il giudice di merito può avvalersi del potere equitativo di liquidazione del danno, in quanto abbia previamente accertato che un danno esista, indicando le ragioni del proprio convincimento. Ciò vuol dire che, nel caso di danno patrimoniale consistito nella distruzione di un bene, il ricorso alla liquidazione equitativa in tanto è ammissibile, in quanto sia certo (per essere stato debitamente provato da chi si afferma danneggiato) che la cosa distrutta avesse un concreto valore oggettivo, e non meramente ipotetico o d’affezione.>>

L’0impossibilità di prova, poi, deve essere oggettiva ed incolpevole.

Prinmcipio di diritto:

“la liquidazione equitativa del danno, ex art. 2056 c.c., presuppone che l’impossibilità di determinarne l’esatto ammontare non dipenda dalla renitenza del danneggiato a descrivere l’entità del danno e fornirne almeno i relativi indizi”.

“La liquidazione equitativa del danno non è una liquidazione “a senso”, ma esige che il giudice esponga nella motivazione il valore monetario di base da cui il ragionamento ha preso le mosse ed il criterio con cui quel valore è stato elaborato per pervenire alla stima equitativa del danno”.

Le vendite di prodotti usati ma marcati dal produttore costituiscono “uso”, che evita la decadenza; analogamente l’uso sui pezzi di ricambio può valere come uso circa il veicolo (sul marchio )

Ha fatto il giro dei siti di informazione giuridica di settore al decisione Trib UE 2 luglio 2025, T-11033/25, Ferrari spa c. EUIPO, interv. Hesse , chiarendo aspetti di notevole importanza pratica:

<<30   According to the case-law, the resale, as such, of a second-hand product bearing a trade mark does not mean that that mark is being put to ‘use’ within the meaning of Article 51(1)(a) of Regulation No 207/2009. That mark was used when it was affixed by its proprietor to the new product when that product was first put on the market. However, if the proprietor of the trade mark concerned actually uses that mark, in accordance with its essential function which is to guarantee the identity of the origin of the goods for which it was registered, when reselling second-hand goods, such use is capable of constituting ‘genuine use’ of that mark within the meaning of Article 51(1)(a) of Regulation No 207/2009 (see, to that effect, judgment of 22 October 2020, Ferrari, C‑720/18 and C‑721/18, EU:C:2020:854, paragraphs 55 and 56).

31      Article 13(1) of Regulation No 207/2009, which concerns the exhaustion of the rights conferred by a trade mark, confirms that interpretation. According to that provision, a trade mark does not entitle the proprietor to prohibit its use in relation to goods which have already been put on the market in the European Union under that trade mark by the proprietor or with its consent. It follows that a trade mark is capable of being put to use in respect of goods already put on the market under that trade mark. The fact that the proprietor of the trade mark cannot prohibit third parties from using its trade mark in respect of goods already put on the market under that mark does not mean that it cannot use it itself in respect of such goods (see, to that effect, judgment of 22 October 2020, Ferrari, C‑720/18 and C‑721/18, EU:C:2020:854, paragraphs 58 and 59).

32      In addition, under Article 15(2) of Regulation No 207/2009, use of the trade mark with the consent of the proprietor is deemed to constitute use by the proprietor. Therefore, as the Board of Appeal correctly pointed out in paragraph 76 of the contested decision, the conclusion set out in paragraph 31 above also applies to use of the mark by third parties with the consent of the proprietor, which, moreover, the parties do not dispute. Consequently, it remains open to the proprietor of the trade mark to show that it has been put to genuine use in respect of second-hand goods sold under that mark by third parties with its consent>>.

Inoltre:

<<97  The Court of Justice has held that the use, by or with the consent of its proprietor, of a registered trade mark in respect of replacement parts forming an integral part of the goods covered by that mark is capable of constituting ‘genuine use’, within the meaning of Article 51(1)(a) of Regulation No 207/2009, not only for the replacement parts themselves but also for the goods covered by that mark. It is irrelevant in that regard that the registration of that mark covers not only entire goods but also replacement parts thereof (see, to that effect, judgment of 22 October 2020, Ferrari, C‑720/18 and C‑721/18, EU:C:2020:854, paragraph 35).

98 Accordingly, a trade mark registered in respect of a category of goods and replacement parts thereof must be regarded as having been put to ‘genuine use’, within the meaning of Article 51(1)(a) of Regulation No 207/2009, in connection with all the goods in that category and the replacement parts thereof, if it has been so used only in respect of some of those goods, such as high-priced luxury sports cars, or only in respect of replacement parts or accessories of some of those goods, unless it is apparent from the relevant facts and evidence that a consumer who wishes to purchase those goods will perceive them as an independent subcategory of the category of goods in respect of which the mark concerned was registered (see, to that effect, judgment of 22 October 2020, Ferrari, C‑720/18 and C‑721/18, EU:C:2020:854, paragraph 53).

99 The Board of Appeal must therefore assess in a concrete manner – primarily in relation to the goods or services for which the proprietor of a mark has furnished proof of use of its mark – whether those goods or services constitute an independent subcategory in relation to the goods and services falling within the class of goods or services concerned, so as to link the goods or services for which genuine use of the mark has been proved to the category of goods or services covered by the registration of that trade mark (see, to that effect and by analogy, judgment of 22 October 2020, Ferrari, C‑720/18 and C‑721/18, EU:C:2020:854, paragraph 41 and the case-law cited)>>.

Si noti che il Trib. invoca precedenti europei sempre coinvolgenti la Casa di Maranello.