Estensione del brevetto, interpretazione delle rivendicazioni, contraffazione per equivalenti (c.d. triple test e teoria del nucleo inventivo)

Un pò di insegnamenti di diritto brevettuale in Cass. sez. I, 17/01/2025 n. 1.160, rel. Campese:

<<3.1. Come rimarcato in dottrina, uno degli aspetti più controversi della normativa interna in materia di brevetti concerne il ruolo della Descrizione e dei Disegni nell’interpretazione delle Rivendicazioni. Ad oggi, può dirsi che l’unico elemento strutturale del brevetto è rappresentato dalle Rivendicazioni in quanto, solo grazie ad esse, l’inventore ne definisce l’oggetto e, conseguentemente, delinea il perimetro di protezione della propria privativa. Invero, l’ordinamento italiano, nel tempo e sotto le influenze del diritto internazionale, ha riconosciuto autonomia alle Rivendicazioni che, in origine, erano collocate ai margini della Descrizione: tanto trova conferma nell’attuale formulazione dell’art. 52, comma 1, c.p.i. (D.Lgs. n. 30 del 2005), ove se ne evidenzia il ruolo autonomo e preminente (“Nelle rivendicazioni è indicato, specificamente, ciò che si intende debba formare oggetto del brevetto”). Descrizione e Rivendicazioni, dunque, vengono distinte, con funzione di preminenza riconosciuta a queste ultime: la prima è una dichiarazione di scienza; le seconde sono dichiarazioni di volontà, tese a determinare “l’oggetto ed il contenuto dell’esclusiva richiesta”. Le Rivendicazioni, allora, con preminenza assolvono ad una duplice funzione: strutturale ed interpretativa. Nella specie, interessa proprio quest’ultima.

3.2. Va osservato, poi, che il codice della proprietà industriale, all’art. 52, comma 2, individua i principi interpretativi del brevetto nazionale, parificandoli alla legislazione Europea e statuisce che “i limiti della protezione sono determinati dalle rivendicazioni; tuttavia, la descrizione e i disegni servono ad interpretare le rivendicazioni”. Nessuna norma stabilisce, in maniera puntuale, come vanno effettivamente interpretate le Rivendicazioni. La dottrina e la giurisprudenza, dopo anni di opinioni contrastanti, sono giunte ad affermare che le Rivendicazioni hanno criteri di interpretazione propri, diversi da quelli previsti dal nostro ordinamento in materia di contratti, in quanto, se l’inventore venisse qualificato come parte contrattuale ed il brevetto dovesse essere interpretato alla luce della propria volontà, vi sarebbe uno squilibrio eccessivo rispetto agli interessi dei terzi, contrariamente a quanto stabilito a livello internazionale (cfr. Cass. 10 maggio 2023, n. 12499, in cui si afferma che la Rivendicazione va interpretata alla luce del dato tecnico risultante dalla descrizione e dai disegni allegati, senza necessità che la relativa valutazione sia operata da un soggetto esperto del ramo).>>

Poi:

<<3.3.1. La Corte d’Appello, dopo aver esaminato le due tipologie di contraffazione – letterale e per equivalenti -, evidenziandone le differenze, ha riconosciuto configurabile, nella specie, quest’ultima.

3.3.2. In particolare, la presenza di una variante rispetto al modello originario l’ha indotta ad escludere l’ipotesi di contraffazione letterale. A suo avviso, il prodotto in contraffazione non riproduce in forma identica il brevetto e, pertanto, non attua una contraffazione cd. primaria. Successivamente, la stessa corte ha proceduto alla valutazione dell’ipotesi della contraffazione per equivalenti (fattispecie che si configura quando il prodotto in contraffazione, pur formalmente diverso dall’invenzione brevettata, può essere comunque a quest’ultima equiparato e così ricondotto nell’ambito di protezione della privativa e mira, in tal modo, a tutelare i diritti del titolare ed a garantirgli una protezione effettiva, non subordinata alla riproduzione integrale e letterale di tutti gli elementi dell’invenzione. Ne deriva un ampliamento delle ipotesi contraffattive rilevabili, con un passaggio da una impostazione letterale ad un approccio più sostanziale, che tenga conto di tutti gli elementi descrittivi rappresentati in sede di domanda volta tenimento del titolo di privativa).

3.3.3. Come spiegato dalla dottrina, il concetto di equivalenza origina e prende forma nell’ambito dell’esperienza giurisprudenziale statunitense degli anni ’50 che, per vagliarne la sussistenza, ricorre al metodo del cd. triple identity test. Secondo tale metodo, se un elemento svolge la medesima funzione di altro elemento oggetto di tutela, se tale funzione viene attuata attraverso le medesime modalità e se, infine, essa produce lo stesso risultato, allora si configura contraffazione per equivalenti. La giurisprudenza italiana, invece, ha privilegiato il diverso metodo di matrice tedesca della ovvietà (in base al quale l’equivalenza deve ravvisarsi ogni qual volta il trovato in contraffazione costituisca, in virtù della tecnica nota e per il tecnico medio del ramo, un’ovvia variante rispetto a quanto rivendicato). Essa, peraltro, per lungo tempo, ha continuato ad ancorare il giudizio di equivalenza all’invenzione complessivamente intesa, tentando di risalire alla medesima idea inventiva o cuore del brevetto e finendo, in tal modo, per distinguere – nell’ambito delle caratteristiche rivendicate – quelle “essenziali”, che devono, pertanto, essere riprese dall’invenzione in contraffazione, da quelle “non essenziali” che, contrariamente, possono anche mancare. Nelle pronunce più recenti, tuttavia (cfr., ed esempio, Cass. n. 120 del 2022; Cass. n. 12499 del 2023), si è sottolineato il ruolo fondamentale delle Rivendicazioni, tanto in sede di valutazione dei requisiti di brevettabilità quanto in sede di accertamento della contraffazione, superando l’approccio precedente.

3.3.4. Nella specie, la Corte d’Appello ha censurato la valutazione del giudice di prime cure per aver ravvisato la peculiarità inventiva del brevetto nella sola funzione di protezione dell’utente dall’aumento della temperatura delle pareti laterali del portacandela e non anche in quella, principale, di autopulizia ed è giunta a ritenere sussistente la contraffazione per equivalenti poiché il prodotto in contraffazione persegue entrambe le funzioni dell’invenzione brevettata: tanto la funzione “primaria” di autopulizia, con le medesime modalità, quanto quella di protezione dell’utente dall’esposizione del calore e dalla fiamma.

3.4. Va rimarcato, poi, che la corte capitolina, da un lato, ha dichiarato di avvalersi del criterio del cd. triple test per accertare la contraffazione per equivalenti; dall’altro, sembra avere continuato a rifarsi ad impostazioni (ormai superate) quali, appunto, il riferimento al nucleo inventivo del brevetto.

3.4.1. Il contrasto, tuttavia, è solo apparente. La corte, infatti, attribuisce un ruolo primario alle Rivendicazioni e ricostruisce l’esame della contraffazione per equivalenti secondo l’approccio elemento per elemento, determinando previamente l’ambito di protezione conferito dal brevetto, individuando analiticamente le singole caratteristiche del trovato, come espressamente rivendicate nel testo brevettuale, interpretate anche sulla base della loro descrizione e dei disegni allegati, e verificando, infine, se ogni elemento così rivendicato si ritrovi nel prodotto accusato di contraffazione, anche solo per equivalenti. In altri termini, benché abbia parlato di nucleo inventivo (funzione di autopulizia del candelabro), il criterio qualificante dalla stessa utilizzato è stato, in realtà, quello della modesta variante, data dalla realizzazione di un’unica componente mediante una saldatura attraverso una piastra dei supporti descritti nella rivendicazione. Lo stesso riferimento al nucleo inventivo non è stato argomentato in modo astratto dalla rivendicazione, ma sottolineando la coincidenza di soluzione espressiva, che si distingue solo per il profilo della saldatura. Pertanto, grazie proprio all’utilizzo del cd. triple test, che implica un raffronto tra funzioni, modalità di realizzazione e risultati citati nelle Rivendicazioni, la corte distrettuale si è riappropriata di un’idea oggettiva di equivalenza pur facendo riferimento, in apparenza, a concetti superati (nucleo inventivo)>>.

Assegnazione della casa familiare nel solo interesse del minore

Cass. sez. I, ord., 19 maggio 2025 n. 13.138, rel. Caprioli

<<La decisione assunta dalla Corte è coerente con i principi affermati da questa Corte che ha chiarito che l’assegnazione della casa familiare prevista dall’art. 155-quater c.c. è finalizzata unicamente alla tutela della prole e non può essere disposta come se fosse una componente dell’assegno previsto dall’art. 156 c.c. (Cass., sez. 6-1, 29 settembre 2016, n. 19347); dovendo ritenersi estranea alla decisione di assegnazione della casa coniugale ogni valutazione relativa alla ponderazione tra interessi di natura solo economica dei coniugi o dei figli, ove in tali valutazioni non entrino in gioco le esigenze della prole di rimanere nel quotidiano ambiente domestico (Cass., sez. 1, 12 ottobre 2018, n. 25604).

Ciò, in quanto va tutelato l’ambiente “ove il minore ha cominciato a vivere e a relazionarsi come persona”, tanto da considerare quell’abitazione come “la proiezione nello spazio della sua identità all’interno di uno specifico contesto ambientale e sociale” (Cass., sez. 1, 2/8/2023, n. 23501).

Deve, dunque, valutarsi l’esistenza di uno stabile legame fra il minore l’immobile già adibito a casa familiare, verificando, in caso di allontanamento e in considerazione del tempo trascorso, la persistenza di tale legame tra il minore e l’abitazione (Cass., sez. 1, 13/10/2021, n. 27907; Cass., 13/12/2018, n. 32231).

Valutazione questa che è stata compiuta dal giudice di merito che proprio valorizzando le dichiarazioni del padre ha rilevato che la durata di 4 dell’allontanamento volontario della minore avesse compromesso lo stabile legame fra i medesimi e l’immobile già adibito a casa familiare escludendo quindi la possibilità di rinsaldare e consolidare il rapporto con la casa coniugale.

A fronte di tale valutazione il ricorrente propone un difforme, apprezzamento in fatto delle risultanze probatorie già scrutinate dai giudici del merito sottratto al sindacato di legittimità, in quanto, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione del giudice di merito, a cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., n. 32505/23)>>.

Quando scatta la responsabilità solidale in caso di scissione: sull’art. 2506 bis c. 3 cc

Cass. sez. I, 13/03/2025 n. 6.675 rel. Campese, con esame molto interessante di questioni in tema di scissione e di danno ambientale (qui in particolare in presenza di significativa distanza cronologica tra i fatti produttivi del danno e il suo successivo accertamento, essendo nel mezzo interveniuta la scissione).

<<La ricorrente principale sostiene che: i) ai fini della norma suddetta, debbono venire in considerazione gli elementi del passivo per i quali non sia possibile individuare alcuna allocazione, “neppure implicita”, “alla luce di un esame complessivo del progetto di scissione”; ii) solo nell’ipotesi in cui il progetto di scissione non fornisca alcun elemento interpretativo per potere affermare con certezza che un elemento del passivo sia inerente al patrimonio di una delle società coinvolte nell’operazione di scissione troverebbe applicazione il principio di solidarietà passiva tra tutte le società, a tutela dei creditori. Secondo LIVANOVA PLC, il progetto di scissione relativo alla società Sorin Spa forniva tutti gli elementi perché potesse ritenersi desumibile l’allocazione delle eventuali responsabilità ambientali, sicché la

Corte d’Appello avrebbe dovuto trarre dall’esame complessivo e sistematico del progetto la stessa conclusione alla quale era addivenuto il Tribunale, vale a dire che, essendo stato l’intero progetto di scissione propriamente ed inequivocabilmente costruito intorno alla separazione delle attività del settore biomedicale (le uniche trasferite alla beneficiaria Sorin Spa) da tutte le altre attività riferibili alla originaria Snia, le passività di natura ambientale, afferendo al settore chimico, non potevano che essere rimaste imputate a Snia.

La tesi, oltre che inammissibilmente versata in fatto quanto al contenuto implicito del progetto di scissione, non appare condivisibile giuridicamente, poiché si basa su un presunto automatismo deduttivo, da associare al concetto di inerenza del debito al settore di attività, che nella norma non esiste. Il concetto di inerenza al settore di attività è diverso da quello insito nell’espressione “destinazione” degli elementi del passivo desumibile dal progetto di scissione. L’unico concetto al quale risponde l’art. 2506-bis cod. civ., per escludere la responsabilità solidale della beneficiaria verso il terzo, è quello di effettiva e certa destinazione delle componenti del passivo in base al progetto. Nel lessico del codice civile, il termine evoca il significato di una necessaria e puntuale risultanza del progetto – e quindi, appunto, di una effettiva e certa destinazione degli elementi passivi al patrimonio dell’uno o dell’altro soggetto -, perché la norma è ispirata alla tutela dei creditori ed il regime delle passività di incerta destinazione non può esser considerato a detrimento del danneggiato. Solo nei rapporti interni (tra la società scissa e quella beneficiaria) si può discutere, nel silenzio del legislatore e dinanzi ad elementi del passivo di incerta destinazione, di un criterio di distribuzione eventualmente fondato sul principio di pertinenza, a correzione di quello residuale di eguale suddivisione di cui all’art. 1298, ultimo comma, cod. civ.

La Corte d’Appello ha accertato che la destinazione degli elementi del passivo non era desumibile dal progetto di scissione. Si tratta di una valutazione di merito. [NOO, troppo drastico: è un caso di interpretazione contrattuale]. La critica della ricorrente a tal riguardo è essa stessa critica di merito, sicché, come tale, insuscettibile di trovare ingresso nella sede di legittimità, la quale, come e noto, non può essere trasformata in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass. n. 8758 del 2017; Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. nn. 32026 e 40493 del 2021; Cass. nn. 30435, 35041 e 35870 del 2022; Cass. nn. 27522, 30878 e 35782 del 2023; Cass. nn. 10712, 19423, 25495 e 33909 del 2024; Cass. nn. 1918, 2040 e 2115 del 2025).>>

Massima poi tratta da DeJure:

<<<In tema di scissione societaria, la responsabilità solidale delle società beneficiarie ex art. 2506-bis c.c., alla luce della sent. 29 luglio 2024, causa C-713/22, della Corte di Giustizia, si applica non solo agli elementi di natura determinata del patrimonio passivo, non attribuiti nel progetto di scissione, ma anche a quelli di natura indeterminata, purché essi derivino da comportamenti della società scissa antecedenti all’operazione di scissione. (Principio applicato con riferimento a costi di bonifica e per danni ambientali che erano stati constatati, valutati e definiti dopo la scissione, ma che erano conseguenza di un disastro ambientale verificatosi prima della scissione). >>

L’omissione di alcuni beni ereditari nella divisione fa sorgere il diritto al supplemento divisionale

Cass. sez. II, 15/04/2025 n. 9.869, rel. Giannaccari:

<<7.1. L’art. 762 c.c. stabilisce che l’omissione di uno o più beni dell’eredità non è causa di nullità della divisione, ma determina esclusivamente la necessità di procedere ad un supplemento della divisione stessa (Cassazione civile sez. II, 03/09/1997, n. 8448). La divisione contrattuale può, infatti, avere per oggetto l’intera eredità o una parte soltanto di essa, permanendo in questa seconda ipotesi la comunione ereditaria per i beni non divisi. Infatti, quando i coeredi procedono alla divisione amichevole soltanto di alcuni beni della massa ereditaria, il loro consenso unanime di limitare a tali beni lo scioglimento e di mantenere lo stato di comunione per gli altri è in re ipsa, con conseguente applicabilità dell’art. 762 cod. civ., secondo cui l’omissione di uno o più beni dell’eredità non dà luogo a nullità della divisione, ma soltanto a un supplemento della divisione stessa (Sez. 2, Sentenza n. 1337 del 09/02/1987).

L’eventuale pretermissione di cespiti facenti parte del compendio comune e l’errore, non determinato da dolo, sull’essenza e sul valore dei beni da dividere trovano il loro specifico rimedio, rispettivamente, nell’art. 762 c.c., che ammette la possibilità di procedere ad un supplemento della divisione e nel successivo art. 763 che, prevedendo l’azione di rescissione per lesione oltre il quarto, mostra di considerare rilevante l’errore valutativo solo se ed in quanto abbia dato luogo ad una lesione di detta entità (Cassazione civile sez. II, 11/02/1995, n.1529).

La non impugnabilità della divisione per errore, ricavabile dagli artt. 761,762,763 cod. civ., ha ragione di sussistere solo quando l’errore sia caduto sulle operazioni divisionali, ma non quando esso sia caduto sui presupposti della divisione. A tal proposito, la risalente giurisprudenza di questa Corte richiama l’istituto della transazione, che non è impugnabile per errore di fatto, come si ricava dagli artt. 1969 e 1972 cod. civ., salvo che l’errore concerna i fatti già controversi e regolati dal negozio transattivo, e non già i fatti non controversi, da considerare quali presupposti del negozio (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 967 del 22/04/1964)>>.

Differenza tra azione di simulazione e azione revocatoria contro la creazione di fopndo patrimoniale

Cass. sez. I, 09/05/2025  n. 12.247, rel. Russo R.E., ricorda  la distinzione in oggetto:

<<6.- Quanto al resto, il ragionamento esposto dalla Corte d’Appello è ineccepibile e le censure di parte ricorrente non colgono nel segno, posto che essa ha proposto una azione volta a far accertare la simulazione, vale a dire una divergenza tra il voluto e il manifestato (art. 1414 c.c.), e non altre domande, e segnatamente non una azione revocatoria che è la azione appropriata per far accertare che l’atto era scientemente rivolto o dolosamente preordinato al fine di pregiudicare il soddisfacimento del creditore (art 2901 c.c.).

7.- La simulazione del contratto è infatti un’ipotesi di dissociazione concordata tra volontà e dichiarazione (Cass. 21995/2007; Cass. 614/2003; n. 1523 del 26/01/2010) mediante la quale le parti creano una apparenza negoziale al fine di mostrare una realtà non corrispondente, in tutto o in parte, all’effettivo assetto d’interessi. Non si discute qui, pertanto, se il fondo patrimoniale fosse stato costituito in pregiudizio dei creditori ordinari, ma se fosse effettiva la volontà delle parti di vincolare alcuni beni (la casa) al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, creando così uno schermo alle azioni esecutive che non fossero quelle consente dall’art 170 c.c., all’uopo utilizzando uno schema negoziale tipico (art. 167 c.c.) il cui effetto è esattamente quello di costituire un patrimonio separato, destinato alla garanzia di specifici creditori e segnatamente i creditori della famiglia, impedendo al creditore, consapevole che il debito è estraneo ai bisogni della famiglia, di soddisfarsi sui beni del fondo.

7.1.- La Corte d’Appello ha ritenuto correttamente che non vi fosse divergenza tra la volontà e la sua manifestazione poiché l’intento dei coniugi era effettivamente quello di produrre l’effetto segregativo proprio del fondo patrimoniale e quindi di proteggere la casa dalle azioni esecutive che non fossero quelle consentite dall’articolo 170 c.c.

La sottrazione di determinati beni alla garanzia patrimoniale generica per destinarli ai bisogni della famiglia è atto di per sé lecito, rispondendo ad uno scopo che il legislatore ha ritenuto meritevole di tutela e salva la possibilità di esperire l’azione revocatoria ordinaria pacificamente ammessa in giurisprudenza (Cass. 28593/2024Cass. 25361/2023; Cass. 24757/2008; Cass. 11537/2002). Tuttavia, come rilevato dalla Corte d’Appello, la domanda n concreto proposta non era quella di far accertare i presupposti dell’azione pauliana bensì la simulazione dell’atto>>.

Precisazioni sul patto di non concorrenza ex art. 2125 cc. (in particolare sulla delimitazione territoriale)

Cass. sez. lav., 16/05/2025 n. 13.050, rel. Amirante:

In generale:

<<5.1. Questa Corte ha, infatti, precisato che le clausole di non concorrenza sono finalizzate, da un canto, a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi “esportazione presso imprese concorrenti” del patrimonio immateriale dell’azienda, trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle aziende concorrenti, e, d’altro canto, a tutelare il lavoratore subordinato, affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti (da ultimo, Cass. n. 9790 del 2020, conf. a Cass. n. 24662 del 2014). Il legislatore, proprio perché la regola è che, alla cessazione del rapporto, il lavoratore recuperi la piena ed assoluta libertà di collocare le proprie prestazioni in ogni settore del mercato e della produzione, ha, peraltro, dettato – nell’ambito della generale disciplina ex art. 2596 c.c. in tema di limitazioni (legali o volontarie) alla concorrenza – una specifica regolamentazione che porta a differenziare integralmente il lavoratore subordinato da tutti gli altri soggetti pur essi destinatari del divieto di concorrenza (cfr. al riguardo gli artt. 1751 bis, 2557,2301 e 2390 c.c.), affinché detta libertà, pur se assoggettabile a condizionamenti in ossequio alla regola dell’autonomia contrattuale, non possa essere limitata in modo tale da compromettere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore, pregiudicandone ogni potenzialità reddituale. In ragione di ciò, l’art. 2125, co. 1, c.c., ha subordinato la validità del patto di non concorrenza a specifiche condizioni – espressamente indicate dalla norma – di forma, di corrispettivo, di limiti di oggetto, di tempo e di luogo, presidiando l’eventuale violazione con la più grave delle sanzioni negoziali la nullità del patto.

6. Ciò premesso, deve ritenersi necessario che, ai fini del rispetto dell’art. 2125 c.c., i limiti di oggetto, di tempo e di luogo del patto di non concorrenza, siano determinati o, quantomeno, determinabili sin dal momento della conclusione di tale negozio giuridico in modo da consentire una corretta formazione del consenso delle parti in sede di stipula. La ratio della disposizione, chiaramente ispirata all’intento di bilanciare i contrapposti interessi delle parti, riposa, infatti, sull’esigenza che il lavoratore abbia sicura contezza, fin dall’assunzione dell’impegno, della area geografica in relazione alla quale si esplicherà il vincolo, per assumere le determinazioni più opportune sulle scelte lavorative, le quali verrebbero ostacolate ove essa fosse soggetta alle determinazioni unilaterali della controparte.>>

Sul caso specifico manca la determinabilità territoriale:

<7. Tali argomentazioni rendono, conseguentemente, non condivisibile l’assunto della Corte territoriale che, senza tener conto dello specifico rilievo di nullità svolto dalla lavoratrice sin dal ricorso, ha ritenuto i limiti geografici del patto “chiari e ben precisi poiché l’ambito territoriale è limitato alla Regione Toscana”, in base ad una valutazione ex post e non, come corretto, ex ante. Il patto di non concorrenza in esame, stipulato tra le parti in causa in data 23 giugno 2015, prevedeva, infatti, quanto all’ampiezza territoriale, che il divieto di attività lavorativa in concorrenza si estendesse alla area geografica della Regione Toscana ovvero “a quella della diversa Regione ove risulti ubicata la sede di lavoro in atto al momento della cessazione del rapporto di lavoro e anche a quella diversa procedente ove la diversa nuova assegnazione sia intervenuta da meno di un anno. In ogni caso l’area territoriale dell’obbligo di non concorrenza deve ritenersi comunque estesa a province “fuori Regione” se rientranti nel raggio di 250 km dalla sede di lavoro” e, quanto alle limitazioni di attività, impegnava il lavoratore “anche dopo la cessazione di detto rapporto, e per un periodo di dodici mesi da tale cessazione, a non svolgere alcuna attività- direttamente o indirettamente, in forma autonoma, subordinata e/o imprenditoriale, per conto proprio e/o di terzi- a favore di Società di Gestione, di Assicurazioni, di Banche e di SIM di gestione ovvero intrinsecamente ordinate e funzionali alla intermediazione finanziaria, nei settori della gestione di portafogli finanziari della clientela anche istituzionale, della intermediazione finanziaria, e comunque in tale ambito in concorrenza con la nostra società”. Come reso evidente dal tenore del patto, l’area geografica cui si estendeva il divieto era suscettibile non solo di modifica, circostanza già di per sé rilevante, in dipendenza di una diversa nuova assegnazione, ma anche di successivo ampliamento posto che, in caso di trasferimento del lavoratore, disposto da meno di un anno alla data di cessazione del rapporto di lavoro, all’area della Regione di ubicazione della sede di lavoro, estesa alle province fuori Regione nel raggio di 250 km, si sarebbe aggiunta l’area della regione “diversa precedente”.

E comunque sul corrispettivo:

<<8. Occorre, inoltre, evidenziare che, quand’anche si ritenesse determinato o determinabile al momento della stipula del patto un limite di luogo di tal fatta, si renderebbe, in ogni caso, necessario che la valutazione di congruità e proporzionalità del compenso pattuito venga effettuata rispetto alla limitazione delle possibilità lavorative dallo stesso imposta tanto in generale quanto con riguardo all’attribuzione al datore di lavoro della possibilità di ampliare senza sostanziali limitazioni l’ambito territoriale di estensione della clausola. Anche sotto tale aspetto la decisione impugnata non risulta conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell’art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, e che il patto non sia di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale; all’eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale consegue comunque la nullità dell’intero patto (cfr. Cass. n. 9790/2020, n. 5540/2021, n. 23723/2021, n. 33424/2022).>>

Siti alias e inibitoria dinamica nella violazione del diritto di autore o di diritti connessi

Interessanti considerazioni sul sempre scivoloso tema in oggetto in Trib Milano sez. spec. imprese 20.03.2025 n. 2359, RG 6800/2019:

<<11.6. Per quanto concerne il contenuto dei provvedimenti inibitori, dal complessivo esame delle previsioni comunitarie in tema di tutela del diritto d’autore e di limiti alla responsabilità degli intermediari, si ricava che se, da un lato, l’art. 15 della direttiva 2000/31/CE osta alla pronuncia di provvedimenti che pongano a carico dei prestatori di servizi on line obblighi di vigilanza attiva e preventiva in relazione a qualsiasi futura violazione dei diritti di proprietà intellettuale; tuttavia, tale norma non preclude la pronuncia di provvedimenti che impongano all’intermediario di adottare provvedimenti che contribuiscano non solo a far cessare la violazione in atto, ma anche a prevenire nuove violazioni della stessa natura, purché si tratti di ingiunzioni efficaci, proporzionate dissuasive e tali da non creare ostacoli al commercio legittimo (Corte di Giustizia, C-324/2009 L’ OMISSIS ).

11.7. Sul punto, la Corte di Giustizia ha affermato la legittimità di un provvedimento che imponga al “prestatore di hosting di bloccare l’accesso alle informazioni memorizzate il cui contento sia identico a quello precedentemente dichiarato illecito e di rimuovere tali informazioni qualunque sia l’autore della richiesta di memorizzazione delle medesime. Tenuto conto delle specifiche circostanze del caso concreto, l’ordine può prevedere anche la rimozione di contenuti “equivalenti” a quello dichiarato illecito, purché il prestatore di servizi non sia chiamato ad effettuare una valutazione autonoma e le informazioni veicolino un messaggio il cui contenuto rimanga sostanzialmente invariato rispetto a quello che ha dato luogo all’accertamento; poiché le differenze del nuovo messaggio non sono tali da costringere il prestatore ad una valutazione autonoma di tale contenuto”. In altri termini, ciò che le previsioni applicabili ratione temporis hanno inteso escludere è che il fornitore dei servizi di internet che, per la natura del servizio e le concrete modalità con cui lo stesso venga erogato, sia neutrale rispetto ai contenuti immessi, possa essere tenuto ad un controllo generalizzato e preventivo in ordine alla liceità di detti contenuti.

Escluso, pertanto, un obbligo siffatto, secondo la Corte di Giustizia non è in contrasto con gli esposti principi il contenuto di un ordine dell’autorità giudiziaria o amministrativa che imponga al prestatore dei servizi di hosting specifici obblighi consistenti “nella ricerca di informazioni di contenuto uguale o identico a quelle dichiarate illecite” purché, per assolvere a tale obbligo, il prestatore di servizi non sia tenuto a svolgere una “valutazione autonoma” di illiceità e la selezione di tali contenuti possa avvenire con il ricorso a “tecniche e mezzi di ricerca automatizzati” (Corte di Giustizia C-18/18, G.-OMISSIS ).

11.8. Secondo l’orientamento di questo Tribunale, le condizioni descritte risultano efficacemente rispettate laddove l’inibitoria abbia ad oggetto i siti vetrina che, anche con l’uso di domain name diversi, comportino la violazione del medesimo diritto “da parte dei medesimi soggetti o comunque con collegamenti diretti con essi”, dovendo le condotte future essere riconducibili ad un medesimo fatto lesivo come oggettivamente e soggettivamente accertato. A tal fine, l’inibitoria può essere estesa a condotte che associno un diverso top level domain al medesimo second level domain utilizzato per l’erogazione dei contenuti illeciti, onerando tuttavia il titolare dei diritti di comunicare all’ OMISSIS eventuali nuovi indirizzi IP che consentano l’accesso ai medesimi contenuti protetti, ovvero la loro diffusione, ciò anche ove tali siti siano associati ad un diverso top level domain. L’inibitoria può, inoltre, essere estesa a eventuali modifiche al second level domain a condizione che “il collegamento tra i soggetti responsabili dell’attività illecita sia obiettivamente rilevabile attraverso la comunicazione ai rispettivi abbonati di specifiche indicazioni atte a raggiungere altro sito diversamente denominato ma ad essi direttamente riconducibile”, onerando della segnalazione gli stessi titolari dei diritti connessi (Tribunale di Milano, ord. 15/11/2019). Come osservato da questo Tribunale, “in presenza di specifica segnalazione da parte della ricorrente, non può ravvisarsi alcuna violazione del divieto dell’obbligo generale di sorveglianza” (Tribunale di Milano, ord. 08/05/2017).

11.9. Infine, partendo dalla considerazione per cui è ben possibile che “non esista alcuna tecnica che consenta di porre completamente fine alle violazioni del diritto di proprietà intellettuale, o che non sia praticamente realizzabile, con la conseguenza che alcune misure adottate all’occorrenza potrebbero essere aggirate in un modo o nell’altro”, la giurisprudenza dell’Unione ha evidenziato che, cionondimeno, l’intermediario possa essere destinatario di un’ingiunzione per l’adozione di misure (disattivazione dell’accesso o rimozione dei contenuti) quanto meno idonee a rendere difficilmente realizzabili o a scoraggiare le ulteriori violazioni del diritto d’autore (Corte di Giustizia C-314/2012, U.T.W. GmbH).>>

La sentenza, tratta da Onelegale, è purtroppo anonimizzarta: il che la rende difficilmente comprensibile e comunque richiede notevole impegno, come sempre nei provvedimenti anonimizzati a più parti . Il che è assurdo e va contrastato. Meritoria quindi l’azione con successo svolta al TAR dal prof. Mondoni e altri: non è invece condivisibile l’opposta opinione della d.ssa Civinini in Questione giustizia.

Se non si conoscono i soggetti, è impossibile il controllo pubblico sull’esercizio della giurisdizione: che è ciò cui mira la pubblicazione delle sentenze, priva di senso se non è permesso che avvenga anche (oggi: solo) tramite la loro divulgazione.

Ma l’argomento è complesso e meriterebbe specifico approfondimento.

Il danno non patrimoniale da violazione della distanza minima dalle vedute (art. 907 cc) è presunto, non in re ipsa

Cass. sez. II, 14/05/2025 n. 12.879, rel. Caponi:

<<2. Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 115 c.p.c., 1226, 2043, 2059, 2697 e 2727 c.c., lamentando che la Corte territoriale abbia riconosciuto il danno non patrimoniale in re ipsa, senza prova della sua effettiva sussistenza e senza che vi fosse una specifica previsione normativa in tal senso. Si sostiene che la violazione della distanza legale non comporta automaticamente un danno risarcibile, ma è necessario dimostrare un effettivo pregiudizio subito dal proprietario del fondo confinante.

Il motivo è fondato.

L’argomentazione della Corte d’Appello (“in tema di violazione delle distanze tra costruzioni, il danno che il proprietario confinante subisce, deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria, essendo il detto danno l’effetto, certo e indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà”) deve essere valutata criticamente alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale più recente sul danno in re ipsa, che ha conosciuto una tappa importante con Cass. SU 33645/2022.

Le Sezioni Unite hanno proposto di sostituire la locuzione danno in re ipsa con quella di danno presunto o danno normale, privilegiando la prospettiva di una presunzione basata sull’allegazione di specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio. Secondo le Sezioni Unite, nel caso di occupazione sine titulo di un immobile, il fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento (diretto o indiretto) che è andata perduta. Questo significa che, sebbene non si richieda una prova precisa dell’ammontare del danno (che può essere liquidato equitativamente, ad esempio tramite il canone locativo di mercato), la parte che chiede il risarcimento deve comunque allegare la concreta possibilità di godimento che ha perso a causa dell’occupazione abusiva. Il convenuto può poi contestare specificamente tale allegazione, nel rispetto dell’art. 115 co. 1 c.c. In presenza di una contestazione specifica, sorge per l’attore l’onere di provare lo specifico godimento perso, onere che può essere assolto anche tramite nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o mediante presunzioni semplici.

Pur essendo pronunciata su una fattispecie diversa da quella qui controversa, l’orientamento delle Sezioni Unite segna una tendenza da condividersi a riconfigurare l’applicazione del concetto di danno in re ipsa, riconoscendo la necessità di allegare e, se necessario, di provare il danno effettivo subito come conseguenza dell’illecito>>.

E’ quest’ultimo il punto perplesso: l’equiparazione al danno da occupazione sine titulo.  Per quest’ultima è esatto escludere il danno in re ipsa; per la fattispecie de quo, invece, lo si può probabilmente ammettere, dato che la vicinanza eccessiva della costruzione altrui dà disturbo certamente a chiunque.

Criteri di determinazione dell’assegno di mantenimento da separazione

Cass. sez. I, 03/05/2025  n. 11.611, rel. Reggiani:

<<In tale ottica, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che il giudice di merito, per quantificare l’assegno di mantenimento spettante al coniuge, cui non sia addebitabile la separazione, deve accertare, quale indispensabile elemento di riferimento, il tenore di vita di cui la coppia abbia goduto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità delle esigenze del richiedente, accertando le disponibilità patrimoniali dell’onerato. A tal fine, il giudice non può limitarsi a considerare soltanto il reddito emergente dalla documentazione fiscale prodotta, ma deve tenere conto anche degli altri elementi di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell’onerato, suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti, quali la disponibilità di un consistente patrimonio, anche mobiliare, e la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato e lussuoso, la percezione di redditi occultati al fisco, che possono essere portati ad emersione attraverso strumenti processuali officiosi, come le indagini di polizia tributaria o l’espletamento di una consulenza tecnica. (v. già Cass., Sez. 1, Sentenza n. 9915 del 24/04/2007; da ultimo, Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 22616 del 19/07/2022; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 32349 del 13/12/2024)>>.

Cass. sez. II, 13/05/2025 n. 12.660, rel. Giannaccari:

<<3.1. Nella divisione giudiziale, i condividenti debbono fornire la prova della comproprietà ma tale prova non è così rigorosa come nell’azione di rivendicazione o di quella di mero accertamento della proprietà, poiché non si tratta di accertare positivamente la proprietà dell’attore negando quella dei convenuti, ma di fare accertare un diritto comune a tutte le parti in causa (Cass. n. 1309/1966).

Con la divisione, infatti, si opera la trasformazione dell’oggetto del diritto di ciascuno, da diritto sulla quota ideale a diritto su un bene determinato, senza che intervenga fra i condividenti alcun atto di cessione o di alienazione (Cass. 10067/2020; Cass. n. 20645/2005).

Il giudice investito della domanda di scioglimento della comunione è certamente tenuto a verificare l’effettiva titolarità del diritto di comproprietà in capo ai condividenti, preferibilmente mediante l’acquisizione dei titoli di provenienza, corredati anche dalla documentazione ipo-catastale, che consente di verificare se nelle more siano intervenute delle modifiche del regime proprietario rispetto alla data cui risale il titolo di provenienza; tuttavia, ove però le parti convenute in giudizio non contestino l’effettiva appartenenza dei beni ai soggetti evocati in giudizio, e soprattutto quando, come nel caso di specie, dalle indagini svolte dal consulente tecnico d’ufficio non emergano dubbi o incertezze circa la titolarità dei beni comuni in capo alle stesse parti, il giudice può ritenere provata la situazione di comproprietà (Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 6228 del 02/03/2023).

In assenza della produzione dei titoli e della certificazione ipocatastale, il rischio che la divisione intervenga tra parti non legittimate trova, invero, adeguata tutela sul piano processuale tramite il rimedio dell’opposizione di terzo, alla quale possono ricorrere il terzo pregiudicato ovvero il litisconsorte pretermesso(Cass. n. 21716/2020).

A maggior ragione, laddove la comproprietà sia incontroversa, è possibile anche ricorrere a prove indiziarie e alle risultanze del consulente tecnico, in quanto non si fornisce la prova di un fatto costitutivo di una domanda tra parti in contrapposizione fra loro (Cassazione civile sez. VI, 02/03/2023, n. 6228; Cass. 21716/2020).

Con le citate pronunce, la giurisprudenza di questa Corte non ha ritenuto corretto l’orientamento diffuso tra i giudici di merito, che riteneva elemento costitutivo del diritto soggettivo di scioglimento della comunione la produzione relativa al titolo di proprietà e la documentazione ipocatastale>>.