Si conferma pesante la responsabilità da prospetto dell’amministratore bancario non esecutivo (il caso Banca Popolare di Vicenza)

Cass . sez. II, 28/02/2025 n. 5.299, rel. Guida, in tema di opposizione a sanzioni Consob ex rt. 191 TUF:

<<12.2. la decisione, che ha ravvisato specifici profili di responsabilità del ricorrente, nonostante il suo ruolo di componente del CdA privo di deleghe, collima con la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 21502/2024; in termini, Cass. nn. 29963/2024, 8581/2024), che ha sottoposto a un’approfondita disamina le questioni di diritto in tema di sanzioni inflitte dalla Banca d’Italia ai componenti del CdA di un ente creditizio per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni. È stato osservato che “ai fini del contenimento del rischio creditizio nelle sue diverse configurazioni, nonché dell’organizzazione societaria e dei controlli interni, l’art. 53, lett. b) e d), del D.Lgs. n. 385 del 1993 e le disposizioni attuative dettate con le istruzioni di vigilanza per le banche, mediante la circolare n. 229 del 1999 (e successive modificazioni e integrazioni), sanciscono doveri di particolare pregnanza in capo al consiglio di amministrazione delle società bancarie, che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicché rispondono del mancato utile attivarsi”, e si è chiarito che “in caso di irrogazione di sanzioni amministrative, la Banca d’Italia, anche in virtù della presunzione di colpa vigente in materia, ha unicamente l’onere di dimostrare l’esistenza dei segnali di allarme che avrebbero dovuto indurre gli amministratori non esecutivi, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo, mentre spetta a questi ultimi provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o, comunque, mirante a scongiurare il danno (Cass. n. 22848 del 2015; Cass. n. 19556 del 2020)”. La Corte aggiunge che “(i)l dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie, sancito dagli artt. 2381, commi 3 e 6, e 2392 c.c., non va, del resto, rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega. Questa interpretazione non vale ad accollare una responsabilità oggettiva agli amministratori non esecutivi, essendo gli stessi perseguibili ove ricorrano comunque sia la condotta d’inerzia, sia il fatto pregiudizievole antidoveroso, sia il nesso causale tra i medesimi, sia, appunto, la colpa, consistente nel non aver rilevato colposamente i segnali dell’altrui illecita gestione, pur percepibili con la diligenza della carica (anche indipendentemente dalle informazioni doverose ex art. 2381 c.c.), e nel non essersi utilmente attivati al fine di evitare l’evento. Sotto il profilo probatorio, ciò comporta che spetta al soggetto il quale afferma la responsabilità allegare e provare, a fronte dell’inerzia dei consiglieri non delegati, l’esistenza di segnali d’allarme (anche impliciti nelle anomale condotte gestorie) che avrebbero dovuto indurli ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo (con la richiesta di convocazione del consiglio di amministrazione rivolta al presidente, il sollecito alla revoca della deliberazione illegittima o all’avocazione dei poteri, l’invio di richieste per iscritto all’organo delegato di desistere dall’attività dannosa, l’impugnazione delle deliberazione ex art. 2391 c.c., la segnalazione al p.m. o all’autorità di vigilanza, e così via); assolto tale onere, è, per contro, onere degli amministratori provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna, che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno”.

In precedenza, era stato chiarito (Cass. n. 16517/2020, punto 2) che “(l)a tesi secondo cui la responsabilità dei consiglieri sarebbe predicabile solo se questi ultimi abbiano ricevuto informazioni in modo completo ed esauriente sulle singole operazioni poste in essere dai titolari di deleghe operative, è già stata motivatamente respinta, in fattispecie analoghe, da questa Corte e non trova alcun sostegno nei precedenti richiamati in ricorso. Nello specifico settore delle attività bancarie o di intermediazione finanziaria, ai fini del contenimento del rischio creditizio nelle sue diverse configurazioni, nonché dell’organizzazione societaria e dei controlli interni, l’art. 53, lettere b) e d), D.Lgs. 385/1993 e le disposizioni attuative dettate con le istruzioni di vigilanza per le banche, sanciscono doveri di particolare pregnanza in capo al Consiglio di amministrazione nel suo complesso e ai singoli consiglieri (anche se privi di deleghe operative). Questi ultimi sono sempre tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei requisiti di professionalità di cui sono e devono essere in possesso, ad impedire possibili violazioni. Tale dovere, sancito dall’art. 2381 c.c., commi terzo e sesto, e dall’ art. 2392 c.c., non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i singoli consiglieri devono possedere e attivare una costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero Consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi in tutti i settori di operatività della banca, oltre che ad attivarsi in modo da esercitare efficacemente la funzione di monitoraggio sulle scelte compiute, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri di direttiva o avocazione riguardo alle attività rientranti nella delega (Cass. 2737/2013; Cass. 17799/2014; Cass. 18683/2014; Cass. 5606/2019; Cass. 24851/2019). L’àmbito entro il quale deve esprimersi la diligenza dei consiglieri non è mutato neppure a seguito della riforma del diritto societario adottata con D.Lgs. 6/2006. L’art. 2381, comma sesto, c.c., nel testo in vigore, impone un dovere di agire in modo informato, disponendo infine che “ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società”. Il comma terzo recita che il consiglio di amministrazione “può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega”. Il comma secondo dell’art. 2392 c.c. continua a prevedere che gli amministratori “sono in ogni caso solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose” (Cass. 24851/2019). Resta da confermare che la responsabilità degli amministratori privi di deleghe operative non discende da una generica condotta di omessa vigilanza, né implica l’imputazione della responsabilità a titolo oggettivo o per le condotte altrui, ma deriva dal fatto di non aver impedito “fatti pregiudizievoli” dei quali abbiano acquisito (o avrebbero potuto acquisire) conoscenza anche di propria iniziativa, ai sensi dell’obbligo previsto dall’art. 2381 c.c. (Cass. n. 17441 del 2016; Cass. 2038/2018)”;

12.3. né d’altra parte è condivisibile la lettura delle circolari della Banca d’Italia prescelta dal ricorrente che, secondo la sua prospettazione, condurrebbe all’esonero dalla responsabilità degli amministratori non esecutivi. A parte il fatto che le violazioni in esame attengono ai servizi di investimento, ai quali maggiormente si attagliano le previsioni del Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob del 29/10/2007, comunque, è indubitabile che la circolare n. 285 del 2013 non ha affatto travolto gli assetti ed i rapporti societari fissati da norme primarie, a cominciare dall’art. 2381 c.c. Milita in tal senso la circostanza che le disposizioni regolamentari sono volte a rafforzare proprio l’assetto configurato dal codice civile, con l’individuazione di regole più specifiche per il settore bancario, e nel rispetto delle fonti di derivazione comunitaria (in particolare la direttiva 2013/36/UE), ma sempre in vista di un armonico coordinamento tra la disciplina societaria di carattere generale e quella settoriale bancaria, ed il tutto in correlazione con il regolamento (UE) n. 575/2013, con il quale va a comporre il quadro normativo di disciplina delle attività bancarie, il quadro di vigilanza e le norme prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento.

Le previsioni della circolare, sebbene richiamino l’esigenza di una chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità degli organi, aggiungendo che l’articolazione della struttura interna deve comunque assicurare l’efficacia dei controlli e l’adeguatezza dei flussi informativi, tuttavia non possono essere intese come un’autorizzazione alla preventiva deresponsabilizzazione dei componenti del CdA. Ove anche si riconosca che la circolare della Banca d’Italia, in vista del buon funzionamento delle imprese bancarie, abbia suggerito delle strutture rigide e chiaramente individuatrici delle competenze e delle funzioni, le sue disposizioni non possono certo avallare la conclusione, erronea, secondo cui non sarebbe esigibile, da parte degli amministratori non esecutivi, la verifica di ogni singolo atto di impresa, dovendosi, quanto agli indici di allarme, fare affidamento sulle rassicurazioni offerte dagli uffici interni deputati al controllo circa la correttezza delle azioni delle singole articolazioni societarie;>>

Sui concreti segnali di allarme:

<<Ciò precisato, si deve escludere che la sentenza sia viziata da falsa applicazione della disposizione codicistica in tema di prova presuntiva (art. 2729 c.c.). Infatti, il giudice di merito ha ritenuto fondata le contestazioni alla luce di specifiche circostanze di fatto che, secondo la sua insindacabile ricostruzione della vicenda, dimostravano la violazione, da parte dell’amministratore (benché privo di deleghe), degli obblighi informativi nei confronti degli investitori in relazione agli aumenti di capitale deliberati dalla banca.

In particolare, per il giudice di merito, l’agire negligente e imprudente del ricorrente trova riscontro nel fatto che egli era a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza di macroscopiche anomalie concernenti i criteri di stima delle azioni (la cui mancanza di chiarezza era stata portata all’attenzione degli organi di vertice da un socio nel corso di una assemblea dei soci), nonché del fenomeno dei finanziamenti correlati (dei quali, tra l’altro, avevano beneficiato gli stessi amministratori), e della corsa della clientela alla vendita dei titoli azionari illiquidi, e nella constatazione che, conseguentemente, al pari degli altri componenti del CdA, egli avrebbe dovuto attivarsi al fine di compiere gli approfondimenti del caso;>>

La stipula di preliminare di vendita di bene relitto costituisce accettazione tacita

Cass. Sez. II, Ord., 10 aprile 2025 n. 9.436, rel. Pirari:

<<L’accettazione tacita dell’eredità postula, ex art. 476 c.c., la ricorrenza delle due condizioni del compimento di un atto presupponente necessariamente la volontà di accettare e la qualificazione di tale atto, nel senso che ad esso non sia legittimato se non chi abbia la qualità di erede. Di conseguenza, la stessa stipulazione di un contratto preliminare di vendita avente ad oggetto un bene relitto da parte dei chiamati all’eredità costituisce in sé accettazione tacita dell’eredità>>.

(massima di Ferrandi Francesca in Ondif)

Valido il marchio figurativo costituito da griglia per radiatore di autovettura

Alessandro Cerri in IPKat ci notizia di un’interessante (anche se breve) decisione di appello amministrativo sull’oggetto , concernente la griglia Mercedes, BoA EUIPO  7 aprile 2025, Case R 2316/2024-1 .

Questo il marchio:

Il BoA riforma così la decisione di rigetto di prima istanza , che l’aveva considerato privo di distintività ex art. 7.1.b reg.  2017/1001:

<<However, the contested decision fails to take account of the fact that the sign does not consist solely of a mesh-like structure typical of a radiator grille, but of a specific combination of this structure with the circularele applied thereon, which is inserted into a central strip, the ends of which tapers outwards. This combination produces a figurative effect which is capable of making an impression on the targeted consumer and enabling him to distinguish the radiator grille of the applicant from those of other manufacturers.
This is the case irrespective of whetherthe targeted  public recognises in the circular element a component which may serve to holda logo. This is because, on account of the specific arrangement of this elementwithin the central strip, it is not limited merely to a space holder, but, together with the shape of the grid structure and the central strip, forms a design as awhole which departs significantly from the designs identified by the examiner>>.

Doveri informativi della banca in caso di interest rate swap

Cass. sez. I, 17/02/2025 n. 4.076, rel. Zuliani:

<<6.1. La Corte territoriale ha escluso qualsiasi profilo di invalidità del contratto in virtù della duplice valutazione che si trattasse di un IRS con funzione di copertura del rischio tasso connesso al sottostante contratto di leasing e che la mancata indicazione del mark to market fosse irrilevante, trattandosi di elemento “pienamente determinabile in via oggettiva” sulla base dei dati esplicitati nel contratto medesimo (“durata, date di pagamento, capitale di riferimento, tasso fisso pattuito, regola di computo degli interessi”). Quanto al fatto che il mark to market iniziale (valore teorico del contratto sulla base delle previsioni sul futuro andamento dell’Euribor) fosse negativo per la cliente della banca, senza che fosse prevista un’apposita contropartita (upfront), la Corte milanese ha statuito che ciò “potrebbe semmai determinare l’obbligo a carico della banca di restituire al cliente tale importo, in quanto non esplicitamente pattuito”, ma non certo determinare la nullità del contratto.

6.2. La sentenza impugnata non è conforme, in parte qua, al ripetuto e condivisibile orientamento espresso da questa Corte in merito alla causa e alle condizioni di validità dei contratti derivati di IRS (v., in particolare, Cass. S.U. n. 8770/2020, nella parte non ex professo dedicata al tema più specifico della possibilità che siffatti contratti siano validamente stipulati dagli enti pubblici locali).

È stato innanzitutto affermato che non è sufficiente, al fine di affermare la liceità della causa del contratto di IRS, il solo accertamento della funzione di copertura di un rischio connesso alla stipulazione di un sottostante contratto di finanziamento (Cass. n. 32705/2022). Il contratto rimane intrinsecamente aleatorio e l’alea integra una causa meritevole di tutela soltanto in presenza di determinate condizioni, dal momento che l’ordinamento – e, in particolare, l’art. 23, comma 5, del T.U.I.F. – “non intende autorizzare sic et simpliciter una scommessa, ma delimitare, con un criterio soggettivo, la causa dello swap, ricollegandola espressamente al settore finanziario” (Cass. S.U. n. 8770/2020, cit.).

Da qui la necessità “che gli elementi ed i criteri utilizzati per la determinazione del mark to market siano resi preventivamente conoscibili da parte dell’investitore, ai fini della formazione dell’accordo in ordine alla misura dell’alea, in assenza del quale la causa del contratto resta sostanzialmente indeterminabile”, con la conseguente nullità del contratto, “che – è bene precisare – non è quella, virtuale (art. 1418, comma 1, c.c.), di cui si sono occupate due ben note pronunce delle Sezioni Unite (Cass. Sez. U. 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725) per escludere che essa abbia a prospettarsi in caso di inosservanza degli obblighi informativi da parte dell’intermediario, ma una nullità strutturale (art. 1418, comma 2, c.c.), inerente ad elementi essenziali del contratto” (Cass. n. 24654/2022).

6.3. La Corte territoriale si è discostata da tali principi di diritto nella misura in cui si è affidata alla propria soggettiva convinzione circa la chiarezza dell’oggetto del contratto e della struttura dell’alea invece di “verificare – ai fini della liceità dei contratti – se si sia in presenza di un accordo tra intermediario ed investitore sulla misura dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti ed oggettivamente condivisi, perché il legislatore autorizza questo genere di “scommesse razionali” sul presupposto dell’utilità sociale delle scommesse razionali, intese come specie evoluta delle antiche scommesse di pura abilità. E tale accordo non deve limitarsi al mark to market, ma investire, altresì, gli scenari probabilistici, poiché il primo è semplicemente un numero che comunica poco in ordine alla consistenza dell’alea. Esso dovrebbe concernere la misura qualitativa e quantitativa dell’alea e, dunque, la stessa misura dei costi pur se impliciti” (Cass. S.U. n. 8770/2020 cit.).

Nel caso di specie il mark to market non era indicato nel contratto e il giudice d’appello ha ritenuto irrilevante tale circostanza sulla base del rilievo che “il c.d. mark to market non è l’oggetto del contratto di Interest Rate Swap, posto che, palesemente, oggetto del contratto sono le reciproche obbligazioni delle due parti di pagare l’una all’altra, a seconda dei casi, a scadenze prestabilite, il differenziale sussistente tra due somme, calcolate su un medesimo capitale di riferimento, con applicazione di due determinati parametri differenziati per le due parti”. L’osservazione che il mark to market non è l’oggetto del contratto è in sé corretta, ma non lo è la conseguenza tratta in merito all’irrilevanza, ai fini della validità del contratto, dell’effettivo accordo tra intermediario e investitore, non solo sul mark to market, ma, più in generale, “sulla misura dell’alea”, in modo che sia assicurato il “presupposto dell’utilità sociale” che rende meritevoli di tutela le (sole) “scommesse razionali” stipulate nel qualificato e regolamentato contesto del “settore finanziario”.

(…) principio di diritto:  “gli elementi ed i criteri utilizzati per la determinazione del mark to market devono essere preventivamente conoscibili da parte dell’investitore, ai fini della formazione dell’accordo in ordine alla misura quantitativa e qualitativa dell’alea, investendo, altresì, gli scenari probabilistici; in assenza di tale accordo la causa del contratto rimane sostanzialmente indeterminabile; la conoscibilità dei predetti elementi assume altresì rilievo ai fini dell’affermazione della responsabilità della banca per la violazione degli obblighi informativi e di correttezza posti a suo carico dal D.Lgs. n. 58 del 1998 e dal regolamento Consob n. 11522 del 1 luglio 1998”  >>.

Il marchio, portante il nome di uno stilista, diventa (probabilmente) decettivo, se lo stilista non collabora più con l’azienda

Giuste le Conclusioni 27.03.2025 dell’AG Emiliou in PMJC sas c. [W] [X], [M] [X], [X] Créative SAS , C-168/24 .

<< Alla luce delle suesposte considerazioni e d’accordo con le posizioni espresse dal governo francese e dalla Commissione, ritengo che l’articolo 20, lettera b), della direttiva 2015/2436 debba essere interpretato nel senso che non osta alla dichiarazione di decadenza di un marchio costituito dal cognome di un creatore con la motivazione che esso è usato, successivamente alla cessione, in condizioni tali da far credere in modo effettivo al pubblico che il creatore, il cui cognome costituisce il marchio, continui ancora a partecipare alla creazione dei prodotti contrassegnati da tale marchio, quando invece ciò non avviene più. Inoltre, ritengo che, per determinare se tale uso di un marchio debba essere considerato ingannevole, ai sensi di tali disposizioni, debba risultare dalle prove addotte che il marchio di cui trattasi non può più svolgere la sua funzione essenziale di indicazione d’origine, in particolare perché il comportamento del suo titolare crea effettivamente, nella mente del pubblico destinatario, la falsa impressione di un’associazione tra i prodotti contrassegnati dal marchio e il creatore, o quando l’uso del marchio comporta un rischio sufficientemente grave di tale inganno, e qualora non ci si possa più ragionevolmente aspettare che il pubblico destinatario non presuma che il creatore di cui trattasi abbia partecipato all’ideazione degli specifici prodotti contrassegnati dal marchio>>.

La norma considerata è l’art. 12.2.b) dir. 2008/95, non più in vigore.

La prima sezione sulla funzione giuridica del’assegno divorzile

Cass. sez. I, 14/04/2025 n. 9.785, rel. Reggiani, ci permette di ripassare il tema in oggetto:

<<4.3. Com’è noto, la giurisprudenza più recente di questa Corte (Cass., Sez. U, Sentenza n. 18287 dell’11/07/2018) ha stabilito che il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dell’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno.

L’attribuzione dell’assegno divorzile non dipende dal tenore di vita godibile durante il matrimonio, dovendosi piuttosto tenersi conto dello squilibrio economico patrimoniale tra i coniugi come precondizione fattuale, il cui accertamento è necessario per l’applicazione dei parametri di cui all’art. 5, comma 6, prima parte, L. n. 898 del 1970, in ragione della finalità composita, assistenziale e perequativo-compensativa, di detto assegno (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 32398 del 11/12/2019).

L’unico denominatore comune e condicio sine qua non nell’esame del diritto all’assegno di divorzio, sia che abbia funzione assistenziale sia che abbia funzione perequativo-compensativa, deve rinvenirsi nella precondizione dello squilibrio economico-patrimoniale e reddituale, conseguente allo scioglimento del vincolo. In caso di sostanziale parità o di squilibrio di entità modesta, infatti, non si procede alla fase successiva di verifica dell’applicabilità dei criteri elaborati dalle Sezioni Unite (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 27536 del 23/10/2023).

Nell’ipotesi in cui emerga una condizione di squilibrio conseguente allo scioglimento del vincolo, occorre verificare se la condizione di svantaggio dell’ex coniuge che richiede l’assegno può essere eziologicamente conseguente alle modalità di conduzione della vita familiare. [è il passaggio più importante]

Come spiegato chiaramente dalle Sezioni Unite del 2018, “… l’accertamento del giudice non è conseguenza di un’inesistente ultrattività dell’unione matrimoniale, definitivamente sciolta tanto da determinare una modifica irreversibile degli status personali degli ex coniugi, ma della norma regolatrice del diritto all’assegno, che conferisce rilievo alle scelte ed ai ruoli sulla base dei quali si è impostata la relazione coniugale e la vita familiare. Tale rilievo ha l’esclusiva funzione di accertare se la condizione di squilibrio economico patrimoniale sia da ricondurre eziologicamente alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofamiliari, in relazione alla durata del matrimonio e all’età del richiedente. Ove la disparità abbia questa radice causale e sia accertato che lo squilibrio economico patrimoniale conseguente al divorzio derivi dal sacrificio di aspettative professionali e reddituali fondate sull’assunzione di un ruolo consumato esclusivamente o prevalentemente all’interno della famiglia e dal conseguente contribuito fattivo alla formazione del patrimonio comune e a quello dell’altro coniuge, occorre tenere conto di questa caratteristica della vita familiare nella valutazione dell’inadeguatezza dei mezzi e dell’incapacità del coniuge richiedente di procurarseli per ragioni oggettive. Gli indicatori, contenuti nella prima parte dell’art. 5.c.6, prefigurano una funzione perequativa e riequilibratrice dell’assegno di divorzio che permea il principio di solidarietà posto a base del diritto… Ne consegue che la funzione assistenziale dell’assegno di divorzio si compone di un contenuto perequativo-compensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza, secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente. Il giudizio di adeguatezza ha, pertanto, anche un contenuto prognostico riguardante la concreta possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico derivante dall’assunzione di un impegno diverso. Sotto questo specifico profilo il fattore età del richiedente è di indubbio rilievo al fine di verificare la concreta possibilità di un adeguato ricollocamento sul mercato del lavoro. L’eliminazione della rigida distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell’assegno di divorzio e la conseguente inclusione, nell’accertamento cui il giudice è tenuto, di tutti gli indicatori contenuti nell’art. 5 comma 6 in posizione equiordinata, consente, in conclusione, senza togliere rilevanza alla comparazione della situazione economico-patrimoniale delle parti, di escludere i rischi d’ingiustificato arricchimento derivanti dalla adozione di tale valutazione comparativa in via prevalente ed esclusiva, ma nello stesso tempo assicura tutela in chiave perequativa alle situazioni, molto frequenti, caratterizzate da una sensibile disparità di condizioni economico-patrimoniali ancorché non dettate dalla radicale mancanza di autosufficienza economica ma piuttosto da un dislivello reddituale conseguente alle comuni determinazioni assunte dalle parti nella conduzione della vita familiare.” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 18287 del 11/07/2018).

La funzione perequativo-compensativa dell’assegno, dunque, conduce al riconoscimento di un contributo, nella constatata sussistenza di uno squilibrio patrimoniale tra gli ex coniugi che trovi ragione nelle scelte fatte durante il matrimonio, la cui prova in giudizio spetta al richiedente (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 9144 del 31/03/2023; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 23583 del 28/07/2022; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 38362 del 03/12/2021).

In proposito, le Sezioni Unite hanno precisato che “l’autoresponsabilità deve… percorrere tutta la storia della vita matrimoniale e non comparire solo al momento della sua fine: dal primo momento di autoresponsabilità della coppia, quando all’inizio del matrimonio (o dell’unione civile) concordano tra loro le scelte fondamentali su come organizzarla e le principali regole che la governeranno, alle varie fasi successive, quando le scelte iniziali vengono più volte ridiscusse ed eventualmente modificate, restando l’autoresponsabilità pur sempre di coppia. Quando poi la relazione di coppia giunge alla fine, l’autoresponsabilità diventa individuale, di ciascuna delle due parti: entrambe sono tenute a procurarsi i mezzi che permettano a ciascuno di vivere in autonomia e con dignità, anche quella più debole economicamente. Ma non si può prescindere da quanto avvenuto prima dando al principio di autoresponsabilità un’importanza decisiva solo in questa fase, ove finisce per essere applicato principalmente a danno della parte più debole” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 18287 del 11/07/2018).

In tale ottica, come pure successivamente ribadito da questa Corte, occorre effettuare un rigoroso accertamento per verificare se lo squilibrio presente al momento del divorzio fra la situazione reddituale e patrimoniale delle parti è l’effetto del sacrificio da parte del coniuge più debole a favore delle esigenze familiari o dell’altro coniuge, il che giustifica il riconoscimento di un assegno “perequativo”, cioè di un assegno tendente a colmare tale

squilibrio reddituale e a dare ristoro, in funzione riequilibratrice, al contributo dato dall’ex coniuge all’organizzazione della vita familiare, senza che per ciò solo si introduca il parametro, in passato utilizzato e ormai superato, del tenore di vita endoconiugale. In assenza della prova di questo nesso causale, l’assegno può essere solo eventualmente giustificato da una esigenza strettamente assistenziale, la quale, tuttavia, consente l’attribuzione dell’assegno solo se il coniuge più debole non ha i mezzi sufficienti per un’esistenza dignitosa e non può procurarseli per ragioni oggettive (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 35434 del 19/12/2023; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 26520 del 11/10/2024).

Questa stessa Corte (v. ancora Cass., Sez. 1, Sentenza n. 35434 del 19/12/2023) ha, poi, precisato che l’assegno divorzile in funzione perequativo-compensativa deve essere adeguato sia a compensare il coniuge economicamente più debole del sacrificio sopportato per avere rinunciato, in particolare, a realistiche occasioni professionali-reddituali (che il coniuge richiedente l’assegno ha l’onere di dimostrare nel giudizio), al fine di contribuire ai bisogni della famiglia (funzione propriamente compensativa), sia ad assicurare, sempre previo accertamento probatorio dei fatti posti a base della disparità economico-patrimoniale conseguente allo scioglimento del vincolo, un livello reddituale adeguato al contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e, conseguentemente, alla formazione del patrimonio familiare oltre che personale dell’altro coniuge (funzione propriamente perequativa).

In sintesi, la funzione perequativo-compensativa dell’assegno dà attuazione al principio di solidarietà posto a base del diritto del coniuge debole, con la conseguenza che detto assegno deve essere riconosciuto, in presenza della precondizione di una rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale tra gli ex coniugi, non solo quando vi sia una rinuncia a occasioni professionali da parte del coniuge economicamente più debole frutto di un accordo intervenuto fra i coniugi, ma anche nelle ipotesi di conduzione univoca della vita familiare – che, salvo prova contraria, costituisce espressione di una scelta comune tacitamente compiuta dai coniugi – a fronte del contributo, esclusivo o prevalente, fornito dal richiedente alla formazione del patrimonio familiare e personale dell’altro coniuge, anche sotto forma di risparmio di spesa (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 4328 del 19/02/2024).

Ciò che rileva, per la funzione perequativo-compensativa dell’assegno, sempre in presenza di un significativo squilibrio tra le condizioni economiche delle parti, è l’apporto fornito dal coniuge richiedente che, pur in mancanza di prova della rinuncia a realistiche occasioni professionali-reddituali, dimostri di aver contribuito in maniera significativa alla vita familiare, facendosi carico in via esclusiva o preminente della cura e dell’assistenza della famiglia e dei figli, anche mettendo a disposizione, sotto qualsiasi forma, proprie risorse economiche, come il rilascio di garanzie, o proprie risorse personali e sociali, al fine di soddisfare i bisogni della famiglia e di sostenere la formazione del patrimonio familiare e personale dell’altro coniuge (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 24795 del 16/09/2024)>>.

Sui parametri per la determinazione dell’assegno divorzile

Cass. sez. I, 16/04/2025  n. 10.035, rel. Valentino:

<<L’art.5, comma 6, L.n. 898/1970 prevede, innanzitutto, che il giudice tenga conto: delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, valutando tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del rapporto. Nel disporre l’assegno di divorzio deve considerare la condizione dell’insussistenza di mezzi adeguati e dell’impossibilità di procurarli per ragioni obiettive, in capo all’ex coniuge che richieda l’assegno. Con sentenza delle Sez. Unite n.18287/2018 è stato chiarito che all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate.

L’assegno di divorzio, che ha una funzione, oltre che assistenziale, compensativa e perequativa, presuppone l’accertamento, anche mediante presunzioni, che lo squilibrio effettivo e di non modesta entità delle condizioni economico-patrimoniali delle parti sia causalmente riconducibile, in via esclusiva o prevalente, alle scelte comuni di conduzione della vita familiare; l’assegno divorzile, infatti, deve essere anche adeguato sia a compensare il coniuge economicamente più debole del sacrificio sopportato per avere rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali – che il coniuge richiedente l’assegno ha l’onere di dimostrare – al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, sia ad assicurare, in funzione perequativa, sempre previo accertamento probatorio dei fatti posti a base della disparità economico-patrimoniale conseguente allo scioglimento del vincolo, un livello reddituale adeguato al contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e, conseguentemente, alla formazione del patrimonio familiare e personale dell’altro coniuge, rimanendo, in tal caso, assorbito l’eventuale profilo prettamente assistenziale.

Il riconoscimento dell’assegno divorzile è collegato all’altrui stato di bisogno, inteso quale mancanza di adeguati redditi propri e in termini di incapacità di procurarseli, in ossequio al principio di autoresponsabilità economica di ciascun coniuge: esso, quindi, deve essere negato in presenza di mezzi adeguati dell’ex coniuge richiedente o delle effettive possibilità di procurarseli.

L’assegno divorzile deve essere valutato, sia nell’an sia nel quantum, alla luce dell’evidenza che il divorzio ha reso ciascun ex coniuge una persona sola auto-responsabile. Dunque, l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi o all’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive richiede una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti che tenga conto del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.

Secondo il principio di autodeterminazione e responsabilità, nella determinazione dell’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge rilevano la capacità dello stesso di procurarsi mezzi propri di sostentamento e le sue potenzialità professionali e reddituali, che egli stesso è chiamato a valorizzare attraverso una condotta attiva e non passiva limitata ad attendere nuove opportunità lavorative.

Ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, assumono rilievo la capacità di quest’ultimo di procurarsi i propri mezzi di sostentamento e le sue potenzialità professionali e reddituali piuttosto che le occasioni concretamente avute dall’avente diritto di ottenere un lavoro. Se la solidarietà post coniugale si fonda sui principi di autodeterminazione e autoresponsabilità, non si potrà che attribuire rilevanza alle potenzialità professionali e reddituali personali, che l’ex coniuge è chiamato a valorizzare con una condotta attiva facendosi carico delle scelte compiute e della propria responsabilità individuale, piuttosto che al contegno, deresponsabilizzante e attendista di chi si limiti ad aspettare opportunità di lavoro riversando sul coniuge più abbiente l’esito della fine della vita matrimoniale.

Alla luce di questi principi la Corte d’Appello ha escluso la impossibilità di autonomo sostentamento ed ha precisato che la breve durata del matrimonio rende del tutto indimostrato che la moglie abbia concorso alla formazione del patrimonio del marito che invece pare averlo acquisito per ragioni familiari (successione dal padre titolare dell’impresa, avvenuta in epoca successiva alla separazione). Ed inoltre precisa: “Se le parti si erano accordate perché la madre seguisse i figli non si ha certezza che tale sarebbe stato l’accordo per gli anni a venire e non piuttosto la ricerca di un lavoro indipendente. Infine, non vi è traccia delle ragioni della separazione. Il fatto quindi che l’ex marito sia molto benestante nella situazione come descritta è assolutamente indifferente non sussistendo nessuno dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile” (stessi principi ribaditi da Cass., n. 14160/2022; Cass., n. 9144/2023; Cass., n. 10614/2023)>>.

A quali motivi di nullità testamentaria si applica la conferma ex art. 590 c.c.?

Risponde Cass. civ. sez. II, 16/04/2025 n. 9.935 rel. Giannaccari:

<<6.Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 590 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n.3 c.p.c., per avere la Corte d’Appello ritenuto che non fosse applicabile la conferma delle disposizioni testamentarie nulle in caso di annullamento del testamento per vizio della volontà, mentre tale regola iuris riguarderebbe solo l’ipotesi di nullità del testamento per sottoscrizione apocrifa. Nel caso di specie, poiché il testamento era stato dichiarato nullo per incapacità naturale della testatrice, la disposizione testamentaria avrebbe prodotto i suoi effetti in quanto l’erede Ri.At. avrebbe eseguito le disposizioni testamentarie annullate, chiedendo la pubblicazione del testamento ed avviando trattative per l’acquisto del terreno oggetto di legato in favore del ricorrente.

6.1. Il motivo è fondato.

6.2.L’art. 590 c.c., nel prevedere la possibilità di conferma od esecuzione di una disposizione testamentaria nulla da parte degli eredi, presuppone, per la sua operatività, l’oggettiva esistenza di una disposizione testamentaria che sia comunque frutto della volontà, anche viziata, del de cuius, sicché la conferma delle disposizioni testamentarie nulle non trova applicazione solo in ipotesi di accertata sottoscrizione apocrifa del testamento, la quale esclude in radice la riconducibilità di esso al testatore (Cassazione civile sez. II, 04/07/2012, n.11195; Cassazione civile sez. II, 23/06/2005, n.13487).

La giurisprudenza di questa Corte ha, quindi, ammesso la conferma ex art. 590 c.c., della disposizione testamentaria nulla in ogni caso diverso dalla sottoscrizione apocrifa, e dunque, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, anche nel caso di annullabilità del testamento per incapacità del de cuius (Cassazione civile sez. II, 13/07/2017, n.17392; Cass. nn. 719/65 e 1689/64).

Nell’ipotesi di vizi della volontà del testatore, il giudice di merito è tenuto ad accertare sia la volontà del beneficiario di attribuire efficacia all’atto invalido, sia la conoscenza della causa d’invalidità.

La manifestazione di tale volontà e scienza non comporta l’adozione di formule sacramentali ed è anzi implicita nell’esecuzione volontaria della disposizione nulla da parte di chi conosceva la causa invalidante; solo se la convalida avviene mediante atto formale, quest’atto deve contenere i requisiti previsti dall’art 1444 c.c., per la convalida dell’atto annullabile, cioè l’indicazione del negozio invalido e della causa d’invalidità, nonché la dichiarazione che si intende convalidarlo (cfr. Cass. n. 1545/74; l’equiparazione tra l’art. 590 c.c. e l’art. 1444 c.c. è confermato anche da Cass. n. 1403/70).

6.3. La Corte di merito ha errato nell’affermare che l’art. 590 cc non sia applicabile alle ipotesi di invalidità del testamento per vizi della volontà perché, nel caso in esame, era stato accertato che il testamento era riconducibile alla volontà della de cuius, sebbene priva della capacità di intendere e di volere.

I precedenti citate nella pronuncia impugnata si riferiscono a casi in cui il testamento non sia in radice riconducibile al testatore, quali il testamento falso (Cass. civ. N. 6747/18) ed il testamento apocrifo (Cass. civ. N. 11195/12 e n. 18616/17).

Ne consegue che la norma è astrattamente applicabile al caso in esame e spetterà al giudice del rinvio accertare se ricorressero i presupposti, previsti dalla norma per la conferma per facta concludentia, consistenti in primo luogo nella conoscenza da parte del convenuto della causa d’invalidità del testamento, oltre che nel compimento di atti inequivoci di esecuzione volontaria del testamento invalido.

Il giudice di rinvio applicherà, quindi, il seguente principio di diritto

” L’art. 590 c.c., nel prevedere la possibilità di conferma od esecuzione di una disposizione testamentaria nulla da parte degli eredi, presuppone, per la sua operatività, l’oggettiva esistenza di una disposizione testamentaria che sia comunque frutto della volontà, anche viziata, del de cuius, sicché la conferma delle disposizioni testamentarie nulle non trova applicazione solo in ipotesi di accertata sottoscrizione apocrifa del testamento, che esclude in radice la riconducibilità di esso al testatore.”

“Nell’ipotesi di testamento invalido per vizi della volontà del testatore, il giudice di merito è tenuto ad accertare sia la volontà del beneficiario di attribuire efficacia all’atto invalido, sia la conoscenza della causa d’invalidità” >>.

Le spese straordinarie per i figli e il loro recupero da parte del fgenitore collocatario

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 10 aprile 2025, n. 9392, rel. Valentino:

<<In tema di spese straordinarie sostenute nell’interesse dei figli, il genitore collocatario non è tenuto a concordare preventivamente e ad informare l’altro genitore di tutte le scelte dalle quali derivino tali spese, qualora si tratti di spese sostanzialmente certe nel loro ordinario e prevedibile ripetersi e riguardanti esigenze destinate a ripetersi con regolarità, ancorché non predeterminabili nel loro ammontare (come ad es. le spese scolastiche, spese mediche ordinarie), riguardando il preventivo accordo solo quelle spese straordinarie che per rilevanza, imprevedibilità ed imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita della prole; tuttavia, anche per queste ultime, la mancanza della preventiva informazione ed assenso non determina automaticamente il venir meno del diritto del genitore che le ha sostenute, alla ripetizione della quota di spettanza dell’altro, dovendo il giudice valutarne la rispondenza all’interesse preminente del minore e al tenore di vita familiare.
Nel caso di mancata concertazione preventiva e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, spetta al giudice di merito verificare la rispondenza delle spese all’interesse del minore, commisurando l’entità della spesa rispetto all’utilità e alla sua sostenibilità in rapporto alle condizioni economiche dei genitori>>.

(massima di Ferrandi Francesca in Ondif)

Lo stoccaggio all’estero del prodotto illecitamente marcato è violazione di marchio se destinati al paese del suo titolare

Le conclusioni dell’AG Dean Spielmann 27.03.2025, C-76/24, Tradeinn Retail Services S.L. contro PH , di cui ci notizia Marcel Pemsel in IPKat:

<<Dall’insieme di tale giurisprudenza risulta che l’elemento essenziale che permette di stabilire se il titolare di un diritto di proprietà intellettuale possa avvalersene di fronte ad atti compiuti all’estero è in sostanza il fatto che tali atti, quali la vendita, l’offerta in vendita o l’immissione in commercio dei prodotti di cui trattasi, siano rivolti ai consumatori che si trovano nel territorio in cui il diritto di proprietà intellettuale in questione è protetto.

39. Indipendentemente dallo specifico contesto di tali sentenze, le considerazioni relative ai rimedi a disposizione del titolare di un diritto di proprietà intellettuale di fronte a un’asserita violazione di tale diritto tramite atti compiuti all’estero, al di fuori del territorio nel quale detto diritto è protetto, sono di natura trasversale e, pertanto, a mio avviso, applicabili al caso di specie.

40. Infatti, analogamente, nella presente causa, occorre evitare che il terzo il quale ha fatto uso di un segno identico a un marchio nazionale, in assenza del consenso del titolare di tale marchio, per prodotti identici a quelli per i quali quest’ultimo è registrato, possa opporsi all’applicazione dell’articolo 10, paragrafo 3, lettera b), della direttiva 2015/2436 e quindi pregiudicare l’effetto utile di tale disposizione facendo valere il luogo di stoccaggio dei prodotti, qualora intenda offrirli o immetterli in commercio nel territorio in cui tale marchio è protetto.

41. Poiché lo stoccaggio di prodotti al fine di offrirli o immetterli in commercio è uno degli usi, ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2015/2436, che può essere vietato dal titolare di un marchio, espressamente contemplato al paragrafo 3, lettera b), di tale disposizione, il titolare di un marchio nazionale, a mio avviso, deve poter opporvisi, in forza del diritto esclusivo conferitogli dal marchio.

42. L’articolo 10, paragrafo 3, lettera b), della direttiva 2015/2436 deve dunque essere interpretato nel senso che esso garantisce la protezione di un marchio nazionale dallo stoccaggio di un prodotto lesivo dei diritti correlati a tale marchio al di fuori del suo territorio di protezione, qualora tale stoccaggio avvenga allo scopo di offrire il prodotto o di immetterlo in commercio nel paese in cui detto marchio è protetto.

43. Poiché deve sussistere un pertinente elemento di collegamento con il territorio nazionale nel quale il marchio è protetto, una simile interpretazione di tale disposizione è conforme al principio di territorialità. Essa è altresì conforme alla giurisprudenza consolidata della Corte, la quale ha più volte ricordato che il diritto esclusivo del titolare del marchio è stato concesso al fine di permettere a quest’ultimo di proteggere i propri interessi specifici in quanto titolare del marchio, ossia al fine di garantire che tale marchio possa adempiere le proprie funzioni. L’esercizio del diritto suddetto deve essere riservato ai casi in cui l’uso del segno da parte di un terzo pregiudichi o possa pregiudicare le funzioni del marchio, tra le quali occorre annoverare la funzione essenziale del marchio, che è di garantire al consumatore o all’utente finale l’identità di origine del prodotto provvisto di un marchio, permettendo loro di distinguere, senza possibilità di confusione, tale prodotto da quelli aventi una diversa provenienza>>

Il punto però è che non viene spiegato quando ricorra <<lo scopo di offrire il prodotto o di immetterlo in commercio nel paese in cui detto marchio è protetto.>>. Come al solito in questi casi, bisogna provare il foro interiore (impossibile) oppure bastano prove oggettive?

Inoltre non spiega che tipo di stoccaggio, dato che il titolare aveva lamentato la presenza di fotografie su internet. Se anche questo fosse stoccaggio (ma così non è ; del resto la discussione sul concetto di stoccaggio nei §§ 45 ss  tratta di altro), allora la situaizone cambierebbe, dato che la pagina web è raggiungibile da qualunque località mondaile e dunquie anche dal paese del titolare. Se invece stoccaggio è solo il deposito fisico nei magazzini, allora non ci sarebbe contatto con tale paese.