Precisazioni sul patto di non concorrenza ex art. 2125 cc. (in particolare sulla delimitazione territoriale)

Cass. sez. lav., 16/05/2025 n. 13.050, rel. Amirante:

In generale:

<<5.1. Questa Corte ha, infatti, precisato che le clausole di non concorrenza sono finalizzate, da un canto, a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi “esportazione presso imprese concorrenti” del patrimonio immateriale dell’azienda, trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle aziende concorrenti, e, d’altro canto, a tutelare il lavoratore subordinato, affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti (da ultimo, Cass. n. 9790 del 2020, conf. a Cass. n. 24662 del 2014). Il legislatore, proprio perché la regola è che, alla cessazione del rapporto, il lavoratore recuperi la piena ed assoluta libertà di collocare le proprie prestazioni in ogni settore del mercato e della produzione, ha, peraltro, dettato – nell’ambito della generale disciplina ex art. 2596 c.c. in tema di limitazioni (legali o volontarie) alla concorrenza – una specifica regolamentazione che porta a differenziare integralmente il lavoratore subordinato da tutti gli altri soggetti pur essi destinatari del divieto di concorrenza (cfr. al riguardo gli artt. 1751 bis, 2557,2301 e 2390 c.c.), affinché detta libertà, pur se assoggettabile a condizionamenti in ossequio alla regola dell’autonomia contrattuale, non possa essere limitata in modo tale da compromettere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore, pregiudicandone ogni potenzialità reddituale. In ragione di ciò, l’art. 2125, co. 1, c.c., ha subordinato la validità del patto di non concorrenza a specifiche condizioni – espressamente indicate dalla norma – di forma, di corrispettivo, di limiti di oggetto, di tempo e di luogo, presidiando l’eventuale violazione con la più grave delle sanzioni negoziali la nullità del patto.

6. Ciò premesso, deve ritenersi necessario che, ai fini del rispetto dell’art. 2125 c.c., i limiti di oggetto, di tempo e di luogo del patto di non concorrenza, siano determinati o, quantomeno, determinabili sin dal momento della conclusione di tale negozio giuridico in modo da consentire una corretta formazione del consenso delle parti in sede di stipula. La ratio della disposizione, chiaramente ispirata all’intento di bilanciare i contrapposti interessi delle parti, riposa, infatti, sull’esigenza che il lavoratore abbia sicura contezza, fin dall’assunzione dell’impegno, della area geografica in relazione alla quale si esplicherà il vincolo, per assumere le determinazioni più opportune sulle scelte lavorative, le quali verrebbero ostacolate ove essa fosse soggetta alle determinazioni unilaterali della controparte.>>

Sul caso specifico manca la determinabilità territoriale:

<7. Tali argomentazioni rendono, conseguentemente, non condivisibile l’assunto della Corte territoriale che, senza tener conto dello specifico rilievo di nullità svolto dalla lavoratrice sin dal ricorso, ha ritenuto i limiti geografici del patto “chiari e ben precisi poiché l’ambito territoriale è limitato alla Regione Toscana”, in base ad una valutazione ex post e non, come corretto, ex ante. Il patto di non concorrenza in esame, stipulato tra le parti in causa in data 23 giugno 2015, prevedeva, infatti, quanto all’ampiezza territoriale, che il divieto di attività lavorativa in concorrenza si estendesse alla area geografica della Regione Toscana ovvero “a quella della diversa Regione ove risulti ubicata la sede di lavoro in atto al momento della cessazione del rapporto di lavoro e anche a quella diversa procedente ove la diversa nuova assegnazione sia intervenuta da meno di un anno. In ogni caso l’area territoriale dell’obbligo di non concorrenza deve ritenersi comunque estesa a province “fuori Regione” se rientranti nel raggio di 250 km dalla sede di lavoro” e, quanto alle limitazioni di attività, impegnava il lavoratore “anche dopo la cessazione di detto rapporto, e per un periodo di dodici mesi da tale cessazione, a non svolgere alcuna attività- direttamente o indirettamente, in forma autonoma, subordinata e/o imprenditoriale, per conto proprio e/o di terzi- a favore di Società di Gestione, di Assicurazioni, di Banche e di SIM di gestione ovvero intrinsecamente ordinate e funzionali alla intermediazione finanziaria, nei settori della gestione di portafogli finanziari della clientela anche istituzionale, della intermediazione finanziaria, e comunque in tale ambito in concorrenza con la nostra società”. Come reso evidente dal tenore del patto, l’area geografica cui si estendeva il divieto era suscettibile non solo di modifica, circostanza già di per sé rilevante, in dipendenza di una diversa nuova assegnazione, ma anche di successivo ampliamento posto che, in caso di trasferimento del lavoratore, disposto da meno di un anno alla data di cessazione del rapporto di lavoro, all’area della Regione di ubicazione della sede di lavoro, estesa alle province fuori Regione nel raggio di 250 km, si sarebbe aggiunta l’area della regione “diversa precedente”.

E comunque sul corrispettivo:

<<8. Occorre, inoltre, evidenziare che, quand’anche si ritenesse determinato o determinabile al momento della stipula del patto un limite di luogo di tal fatta, si renderebbe, in ogni caso, necessario che la valutazione di congruità e proporzionalità del compenso pattuito venga effettuata rispetto alla limitazione delle possibilità lavorative dallo stesso imposta tanto in generale quanto con riguardo all’attribuzione al datore di lavoro della possibilità di ampliare senza sostanziali limitazioni l’ambito territoriale di estensione della clausola. Anche sotto tale aspetto la decisione impugnata non risulta conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell’art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, e che il patto non sia di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale; all’eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale consegue comunque la nullità dell’intero patto (cfr. Cass. n. 9790/2020, n. 5540/2021, n. 23723/2021, n. 33424/2022).>>

Sul patto di non concorrenza ex art. 2125 cc

Cass. sez. lav., 08/04/2025 n. 9.256 , rel,. Amirante:

Fatti storico-processuali:

<<1. Con ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato in data 14 dicembre 2015, Intesa Sanpaolo Private Banking Spa adiva il Tribunale di Milano, sezione lavoro, al fine di sentir inibire a Cr.Da., suo ex dipendente quale private banker, previo accertamento della violazione, da parte di quest’ultimo dell’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. e del patto di non concorrenza stipulato il 30/11/14, lo svolgimento dell’attività concorrenziale a favore di Allianz Bank Financial Advisor Spa fino alla naturale scadenza del patto (20 mesi successivi alla data di cessazione del rapporto lavorativo, avvenuta il 17/11/15 per dimissioni) e di ottenere il risarcimento dei danni (patrimoniali e non) subiti come quantificati in ricorso o in subordine, nell’ipotesi di nullità del patto di non concorrenza, al fine di ottenere la restituzione degli importi percepiti dal predetto a titolo di corrispettivo del suddetto patto.

2. Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 2673/16, dichiarava nullo il patto di non concorrenza in quanto contrastante con il disposto dell’art. 2125 c.c. per l’indeterminatezza e l’incongruità del corrispettivo pattuito (somma lorda di Euro 10.000 all’anno, da pagarsi in 2 rate semestrali posticipate per 3 anni, pari al 17,5% della RAL), e condannava il Cr.Da. alla restituzione degli importi percepiti come compenso del patto ai sensi dell’art. 2033 c.c. Rigettava nel resto il ricorso e respingeva altresì le domande avanzate dal Cr.Da. in via riconvenzionale ed aventi ad oggetto l’accertamento della giusta causa di recesso ed il risarcimento del danno.>>

Ora l’insegnamento della Corte :

<<5.1. È opportuno preliminarmente ricordare che questa Corte ha, ormai, chiarito che, al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell’art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, conseguendo comunque la nullità dell’intero patto alla eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale (Cass. n. 5540 del 01/03/2021, Rv. 660541 – 01; Cass. n. 9790 del 26/05/2020, Rv. 657784 – 01).

5.2. Ciò premesso, occorre osservare che, come puntualmente ricordato anche nell’ordinanza rescindente, questa Corte ha ripetutamente affermato, (Cass. Cass. n. 16489/2009, Rv. 610157 – 01; Cass. Sez. L, Ordinanza n. 5540 del 2021) che il patto di non concorrenza costituisce una fattispecie negoziale autonoma, dotata di una causa distinta, configurando un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, in virtù del quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di danaro o altra utilità al lavoratore e questi si obbliga, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, a non svolgere attività concorrenziale con quella del datore (Cass. n. 2221 del 1988). Il patto di non concorrenza, dunque, anche se è stipulato contestualmente al contratto di lavoro subordinato, rimane autonomo da questo, sotto il profilo prettamente causale. In virtù della predetta autonomia, il rapporto di lavoro si riduce a mera occasione di stipula di quel patto, atteso che quest’ultimo è destinato a regolare i rapporti fra le parti, per definizione, proprio a partire da un momento successivo alla cessazione del rapporto di lavoro.

5.3. Posto, dunque, che il corrispettivo del patto costituisce il compenso per tale autonoma obbligazione di “non facere”, non rilevando, a tal fine, se lo stesso venga erogato in costanza di rapporto di lavoro oppure al termine o dopo la cessazione di questo, ad es. periodicamente per la durata dell’obbligazione di non facere (cfr. ancora Cass. n. 16489/2009), cristallizzandosi, in ogni caso, i rispettivi obblighi al momento della sottoscrizione, la sua congruità va valutata ex ante, ossia alla luce del tenore delle clausole e non per quanto poi in concreto possa accadere>>.

Il punto più interessante è il controllo giudiziale sulla congruità. Nessuna norma lo permette espressamente nè la SC lo motiva, come avrebbe dovuto. Forse deriva dalla “retribuzione proporzionata” etc. etc. ex art. 36 Cost.? Forse si, anche se farebbe propendere per la negativa l’accento posto dalla SC sull’autonomia del patto di non concorrenza dal contratto di lavoro.

Patto di non concorrenza tra datore di lavoro e lavoratore: nullità per condizione meramente potestativa

Poco chiara sentenza della SC sul tema del patto in oggetto, relativo al periodo successico allo scioglimento del rapporto, regolato dalla’rt. 2125 cc.

Si tratta di Cass. 23.723 del 01.09.2021, Canova c. Adecco , rel. Cinque.

La particolarità stava nel fatto che era stato pure stipulato il recesso da tale patto a favore del datore, che venne di fatto esercitato sei anni prima dello scioglimento del rapporto.

La Corte di merito avedva rilevato  <<che il patto de quo era sottoposto ad una condizione potestativa a favore di parte datoriale, che si era riservata, al momento della risoluzione del rapporto, di decidere se avvalersene o meno e che una siffatta clausola era stata ritenuta nulla, per contrasto con norme imperative, in sede di legittimità. Tuttavia, la Corte territoriale ha sottolineato che, nella fattispecie, il contrasto con le norme imperative non era ravvisabile perché il datore di lavoro aveva esercitato il diritto di recesso ben sei anni prima della risoluzione del rapporto di lavoro per cui la lavoratrice non aveva subito alcun sacrificio, in relazione alla facoltà di riorganizzare il proprio futuro lavorativo e da indennizzare con la indennità pretesa>>, § 2.

Così risponde la SC: <Invero, è stato affermato che la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative; inoltre, è stato  altresì precisato, sempre con la richiamata giurisprudenza di legittimità, che il fatto che, nella fattispecie, il recesso del patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro non rileva, poiché i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto, il che impediva al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprimeva la sua libertà; ma detta compressione, appunto ai sensi dell’art. 2125 cc, non poteva avvenire senza l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore: corrispettivo che, nella specie, finerebbe per essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo (cfr. Cass. n. 3 del 2018)>>

Tali argomentazioni rendono, conseguentemente, non condivisibile l’assunto della Corte territoriale <<secondo cui, la circostanza che il recesso fosse avvenuto in costanza di rapporto di lavoro, addirittura diversi anni prima (oltre sei) dallo scioglimento dello stesso, non concretizzava alcuna compressione della libertà del lavoratore di progettare il proprio futuro lavorativo.             8. Pertanto, premesso che l’obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto sorge,  nella fattispecie, sin dall’inizio del rapporto di lavoro (Cass. n. 8715 del 2017), tamquam non esset va considerata la successiva rinuncia al patto stesso appunto perché, mediante questa, si finisce per esercitare la clausola nulla, tramite cui la parte datoriale unilateralmente riteneva di potersi sciogliere dal patto, facendo cessare ex post gli effetti, invero già operativi, del patto stesso, in virtù di una condizione risolutiva affidata in effetti a
mera discrezionalità di una sola parte contrattuale (Cass. n. 3 del 2018).>>

Certamente erra la corte di appello nel vanificare la nullità con la tempestività del recesso.

Dubbio invece che il diritto di recesso renda nullo il patto di non concorrnza: lo stesso allora potrebbe dirsi per qualunque pattuizione di recesso aggiunta ad un contratto. Come patto accessorio, andrebbe probabilmente vagliato ai sensi dell’art. 1419 cc sulla nullità parziale.

Infine, se si tien ferma la nullità, dovrebbe discenderne il diritto alle restituzioni (prestazioni già eseguite) e l’estinzione degli obblighi (prestazioni ancora da eseguire).