Il difetto di qualità nella cosa acquistata ex art. 1497 cc non impedisce di invocare solo il rimedio della riduzione del prezzo (proprio della compravendita)

Assai interessante insegnamento in Cass. sez. II  16/02/2024, n. 4.245, rel. Caponi:

<<Dinanzi ad una domanda di tutela così specificamente congegnata nella sua complessità e nel suo ordine di priorità, l’art. 1497 c.c. si limita a ricordare che, laddove la cosa venduta non abbia le qualità essenziali per l’uso a cui è destinata (come nel caso di specie è stato accertato sulla base della c.t.u.), sono applicabili le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento.

Pertanto, ciò non esclude logicamente che il compratore – se ed in quanto lo voglia in via prioritaria – abbia diritto a mantenere fermo in capo a lui (attraverso una do-manda di riduzione del prezzo) la proprietà del bene conseguita per effetto del contratto. La soluzione opposta avrebbe come conseguenza che l’ordine dei rimedi – e quindi la scala di priorità dei bisogni di tutela da soddisfare – sia dettato non già dall’attore ma dal convenuto della domanda di tutela.

Se è vero che “il processo deve dare per quanto è possibile pratica-mente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire ai sensi del diritto sostanziale”, l’attore che risulti avere ragione (non il convenuto) ha diritto di delineare il “proprio quello”. Né i “sensi del diritto sostanziale” possono essere impastoiati da vincoli fatti discendere da formulazioni letterali che – come quelle degli artt. 1492 e 1497 c.c. nelle loro relazioni reciproche – rendono ossequio ad una tradizione storica da ambientare nel clima moderno; mentre le distinzioni tra vizi attinenti ai processi di produzione, ecc., da un lato, e, dall’altro lato, le qualità afferenti alla natura della cosa, così come gli esempi addotti a loro sostegno, non estendono la loro forza al di là delle parole e delle immagini che essi impiegano nel profilarsi alla no-stra attenzione. Non esistono le qualità essenziali in sé delle cose, ma si danno le qualità predicate come essenziali (o meno) in vista di un interesse verso di esse meritevole di tutela. Ne segue che la suddivisione tra i vizi (occorsi nel procedimento di produzione e/o conserva-zione), da un lato, e, dall’altro lato, la mancanza di qualità essenziali rispetto al tipo dedotto nel contratto esprime piuttosto il tentativo di elargire ex post ragioni a un retaggio storico.

La conclusione è in linea con l’orientamento prevalente della dot-trina, secondo il quale il caso di presenza di vizi e quello di mancanza di qualità sono soggetti ad una disciplina che non conosce paratie, ma snodi di collegamento, giacché il profilo di atipicità dell’azione giudizia-ria conferisce non solo alla domanda di risoluzione ma anche a quella di riduzione del prezzo il tratto di rimedio generale a tutela dell’acquirente, che quindi può domandare la riduzione del prezzo anche nelle fattispecie contemplate dall’art. 1497 c.c.>>

Questione interessante, ma non esposta in modo chiarissimo. Ok sull’ultimo passaggio, che intenderei così: in presenza di difetto di qualità, si può qualificarlo invece come “vizio” da quanti minoris e chiedere la riduzione rpezzo. Ma la modalitò specifica quale è: 1) l’acqurente lo fa azionando appunto la disciplina dei vizi? 2) oppure senza specificare alcunchè?  3) o addirittura la risoluzione da  difetto di qualità e poi modificando la domanda  in riduzione prezzo?

Se fosse sub 1, non ci sarebbe nulla di strano: ma la SC parrebbe ammettere pure 2) e 3) (si dovrebbe leggere qualche passggio cbe sta subito prima, qui omesso)

Nel caso specifico era stata avanzata l’ulrtima dom and n via principale e quella risolutioeria in via subordinata.

Le riparazioni eseguite dal venditore, in presenza di difetto nel bene venduto, costituiscono riconoscimento di debito al fine del termine prescrizionale

Cass. sez. 2 del 30.11.2023 n. 33.380, rel. Poletti:

<<Il riconoscimento del debito, ricondotto dalla giurisprudenza
di questa Suprema Corte alla categoria degli atti giuridici in senso
stretto, privi di carattere negoziale (Cass. n. 5982/2007; n.
2758/2020), ben può manifestarsi anche in forma tacita quando il
debitore compia un atto o tenga un comportamento incompatibile con
la volontà di contestare l’esistenza del debito, non essendo necessarie
formule particolari ma solo il carattere della sua univocità (Cass. n.
12953/2007, n. 21248/2012, n. 13897/2020).
Con più specifico riguardo alla fattispecie in esame, è frequente
nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che “il
riconoscimento dei vizi della cosa venduta, che ai sensi del 2° co.
dell’art. 1495 cod. civ. rende la denunzia non necessaria, oltre che in
forma espressa può avvenire anche tacitamente e cioè mediante il
compimento di atti incompatibili con l’intenzione di respingere la
pretesa del compratore o di far valere la decadenza dal diritto alla
garanzia” (cfr. Cass. n. 16766/2019; n. 23970/2013; Cass. n.
10288/2002; Cass. n. 4219/1998).
È, questo – come correttamente affermato dalla decisione
impugnata – quanto si verifica anche per effetto del comportamento
del venditore che compia sulla cosa venduta interventi di riparazione,
come nel caso di specie in cui si contano, a partire dalla prima
riparazione consistente nella sostituzione del motorino di avviamento eseguita trascorsi tre mesi dalla consegna dell’autovettura,
innumerevoli interventi riparatori (ben diciotto!), tutti intervallati da
periodi inferiori all’anno, protrattisi fino al 15.02.2012. Tale “impegno
riparatore” del venditore, come lo definisce la sentenza impugnata,
specie se costantemente reiterato, può ritenersi certamente un fatto
incompatibile con la volontà di non riconoscere il diritto del
compratore, rispetto al quale corre il termine prescrizionale>>

Insegnamento condivisibile

Vizi della merce venduta e rimedi possibili (eccezione di inadempimento e risarcimento del danno ex art .1494 cc)

Una partita di grano viziato venduto ad un oleificio ha generato ola lite poi dcisa da Cass. n. 14.986 del 28.5.2021, rel. Scarpa.

Sul lodo irrituale: <<l‘arbitrato irrituale costituisce uno strumento di risoluzione contrattuale delle contestazioni insorte o che possono insorgere tra le parti in ordine a determinati rapporti giuridici, imperniato sull’affidamento a terzi del compito di ricercare una composizione amichevole, conciliante o transattiva. Poiché le parti si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà, il lodo irrituale ha natura negoziale ed è impugnabile ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c. Allorché, come nel presente giudizio, viene in discussione quale fosse l’oggetto della controversia deferita agli arbitri, il vizio denunciato si traduce in una questione d’interpretazione della volontà dei mandanti e si risolve, analogamente a quanto accade in ogni altra ipotesi di interpretazione della volontà negoziale, in un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, se condotto nel rispetto dei criteri di ermeneutica contrattuale e correttamente motivato (cfr. Cass. Sez. 1, 24/03/2014, n. 6830)>>

Sulla eccezione di inadempimento: <<Deve allora considerarsi come l’eccezione di inadempimento funziona quale fatto impeditivo della altrui pretesa di pagamento avanzata, nell’ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, in costanza di inadempimento dello stesso creditore. La parte evocata in giudizio per il pagamento di una prestazione rientrante in un contratto sinallagmatico può, pertanto, non solo formulare le domande ad essa consentite dall’ordinamento in relazione al particolare negozio stipulato, ma anche limitarsi ad eccepire – nel legittimo esercizio del potere di autotutela che l’art. 1460 c.c. espressamente attribuisce al fine di paralizzare la pretesa avversaria chiedendone il rigetto – l’inadempimento o l’imperfetto adempimento dell’obbligazione assunta da controparte, in qualunque delle configurazioni che questo può assumere, in esse compreso, quindi, il fatto che il bene consegnato in esecuzione del contratto risulti affetto da vizi o mancante di qualità essenziali (Cass. Sez. 2, 22/11/2016, n. 23759; Cass. Sez. 2, 04/11/2009, n. 23345; Cass. Sez. 2, 01/07/2002, n. 9517) >>

Il compratore può, del resto, sollevare l’eccezione di inadempimento, ai sensi dell’art. 1460 c.c., <<non solo quando venga completamente a mancare la prestazione della controparte, ma anche nel caso in cui dall’inesatto adempimento del venditore derivi una inidoneità della cosa venduta all’uso cui è destinata, purché il rifiuto di pagamento del prezzo risulti giustificato dall’oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, riguardato con riferimento al complessivo equilibrio sinallagmatico del contratto e all’obbligo di comportarsi secondo buona fede>>.

Syull’azine di danno ex art. 1494: <<l’azione di risarcimento dei danni proposta dall’acquirente, ai sensi dell’art. 1494 c.c., sul presupposto dell’inadempimento dovuto alla colpa del venditore, consistente nell’omissione della diligenza necessaria a scongiurare l’eventuale presenza di vizi nella cosa, ben può estendersi a tutti i danni subiti dall’acquirente, non solo quindi a quelli relativi alle spese necessarie per l’eliminazione dei vizi accertati, ma anche a quelli inerenti alla mancata o parziale utilizzazione della cosa o al lucro cessante per la mancata rivendita del bene. Da ciò consegue, fra l’altro, che tale azione si rende ammissibile in alternativa ovvero cumulativamente con le azioni di adempimento in via specifica del contratto, di riduzione del prezzo o di risoluzione del contratto medesimo (Cass. Sez. 2, 29/11/2013, n. 26852; Cass. Sez. 2, 07/03/2007, n. 5202; Cass. Sez. 2, 07/06/2000, n. 7718). Il risarcimento per l’inadempimento del venditore correlato ai vizi della cosa esige certamente un rapporto causale immediato e diretto fra tale inadempimento e danno. Questa limitazione – imposta dall’art. 1223 c.c. – è fondata sulla necessità di limitare l’estensione temporale e spaziale degli effetti degli eventi illeciti ed è orientata, perciò, ad escludere dalla connessione giuridicamente rilevante ogni conseguenza dell’inadempimento che non sia propriamente diretta ed immediata, ovvero che comunque rientri nella serie delle conseguenze normali del fatto, in base ad un giudizio di probabile verificazione rapportato all’apprezzamento dell’uomo di ordinaria diligenza. È tuttavia compito del giudice di merito accertare la materiale esistenza del rapporto che abbia i suddetti caratteri normativamente richiesti, così come verificare che il compratore non abbia colpevolmente concorso nel cagionare il danno ed, anzi, abbia mantenuto una condotta diretta a limitare le conseguenze negative dell’inadempimento del venditore: tale valutazione del giudice del merito, risolvendosi in un apprezzamento di fatto, è insindacabile in sede di legittimità se non nei limiti di cui all’art. 360 comma 1, n. 5, c.p.c.>>

Acquisto di immobile, vizi (infiltrazioni) del medesimo e non risolubilità ex art. 1491 cc

Se l’immobile è vetusto , il venditore ha ammesso che c’erano stati problemi con infiltrazioni in passato che avevano richiesto intervento manutentivo  e se in sede di tratattive è stato concessa una riduzione di prezzo (per le condizioni di vetustà, par di capire) , l’acquirente, se ugualmente ha acquistato, se ne è assunto consapevolmetne il rischio e non può invocare la garanzia contro i vizi ex art. 1491 cc.

Così Cass. 16.06.2021 n. 17.058, rel. Falaschi.

Così osserva in particolare: <<Rileva la Corte che, in caso di vendita di un bene appartenente ad un edificio condominiale di costruzione molto risalente nel tempo, i difetti materiali conseguenti al concreto ed accertato stato di vetustà ovvero alla risalenza nel tempo delle tecniche costruttive utilizzate, non integrano un vizio rilevante ai fini previsti dall’art. 1490 c.c. La garanzia in esame, infatti, è esclusa tutte le volte in cui, a norma dell’art. 1491 c.c., il vizio era facilmente riconoscibile, salvo che, in quest’ultimo caso, il venditore non abbia dichiarato che la cosa era immune da vizi.

Nel caso di specie, la corte d’appello, con apprezzamento di fatto sottratto a sindacato in sede di legittimità (Cass. n. 24731 del 2016), ha incontestatamente accertato non solo che la venditrice non aveva dato alcuna assicurazione circa l’inesistenza dei difetti poi riscontrati, ma anzi che la medesima aveva reso edotto l’acquirente della effettuazione di alcuni interventi sull’immobile per ovviare al problema dell’umidità (v. deposizione dei testi Balducci e Arcangeli). Ha, inoltre, aggiunto che si trattava di appartamento inserito in un fabbricato risalente agli anni ’60, con caratteristiche costruttive non propriamente eccellenti, come poi emerso dalla c.t.u. D’altro canto era stata dalla Aquilani Pelagalli accordata una riduzione del prezzo nel corso delle trattative proprio per le condizioni dell’immobile e dello stabile, in generale, per cui il compratore avrebbe dovuto attentamente esaminarlo, secondo il principio che colui che acquista un immobile di non recente costruzione ha l’onere di verificare con cura le condizioni di manutenzione, facendo uno sforzo di diligenza, onde riscontrarne, se non i vizi che si sono in seguito manifestati, quanto meno le cause della loro possibile verificazione, le quali, pertanto, sebbene in fatto ignorate, erano dall’acquirente, con un minimo sforzo di diligenza (e, quindi, “facilmente”), conoscibili: l’esclusione della garanzia nel caso di facile riconoscibilità dei vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1491 c.c., consegue all’inosservanza di un onere di diligenza del compratore in ordine alla rilevazione dei vizi che si presentino di semplice percezione, sebbene il grado della diligenza esigibile non possa essere predicato in astratto, ma debba essere apprezzato in relazione al caso concreto, avuto riguardo alle particolari circostanze della vendita, alla natura della cosa ed alla qualità dell’acquirente (richiamata in sentenza Cass. n. 24343 del 2016, ma già in tal senso Cass. n. 2981 del 2012). In altri termini, questa Corte ha chiarito che l’esclusione della garanzia nel caso di facile riconoscibilità dei vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1491 c.c. (che costituisce, come accennato, applicazione del principio di autoresponsabilità, e consegue all’inosservanza di un onere di diligenza del compratore in ordine alla rilevazione dei vizi che si presentino di semplice percezione), non consenta di predicare in astratto il grado della diligenza esigibile, dovendo essere apprezzato in relazione al caso concreto, avuto riguardo alle particolari circostanze della vendita, alla natura della cosa ed alla qualità dell’acquirente, essendo la garanzia in esame esclusa tutte le volte in cui, a norma dell’art. 1491 c.c. il vizio era facilmente riconoscibile salvo che il venditore abbia dichiarato che la cosa era immune da vizi. La sentenza impugnata risulta avere fatto puntuale applicazione di tali principi, sottolineando come un onere di diligenza più elevato fosse esigibile dal compratore in ragione delle condizioni non rassicuranti dello stabile nel suo complesso, evidenziando anche come la presenza di tali anomalie costruttive, il cui riscontro non richiedeva competenze tecniche particolarmente elevate, fosse evincibile anche dall’esterno del bene, di tal che la critica complessivamente mossa dal ricorrente mira piuttosto a contestare l’apprezzamento di fatto in punto di riconoscibilità del vizio operato dal giudice di merito.>>

Debito per sanatoria edilizia e sua trasmissibilità propter rem

Interessante fattispecie decisa da Cass. n. 11.211 del 28.04.2021, rel. Criscuolo.

Tizio (T.) vende l’immobile a Caio (C.), assumendosi l’impegno di tenerlo indenne da eventuali esborsi a casua della irregolarità edizialia (destinazione non conforme alle previsioni urbnistiche).

C. rivende a Sempronio (S.) , che si trova ad essere proprietario nel momento in cui l’istanza di condono (presentata a suo tempo da T.) è accettata dal Comune.

Il debito da accoglimento di tale istanza, dice la SC,. è propter rem e cioè sorge in capo a chi sia proprietario al momento di tale accoglimento: non conta chi lo era nell’anteriore momento della presentazione.

Inoltre, l’impegno del venditore (T.)  nel rogito di vendita a tener indenne l’acquirente (C.) vale solo verso costui, avendo natura pattizia. Non vale invece verso il successivo acquirente (S.)  , a meno che non sia stato riprodotto  nel secondo rogito (non è chiaro come, però, dato che T. non ne sarebbe stato parte : a meno di presupporre una pattuzione nel primo rogito anche a favore di terzo, indeterminato e in incertam personam).

<<La corretta interpretazione delle norme invocate dalla ricorrente impone quindi di affermare che l’individuazione come soggetto obbligato al pagamento degli oneri economici legati al condono di colui che rivesta la qualità di proprietario alla data di conseguimento del provvedimento di sanatoria (e rispetto al quale è possibile la rivalsa da parte degli altri soggetti cui la legge riconosce l’interesse a presentare la domanda di condono), esclude che gli attori rivestano ancora la qualità di (co)obbligati rispetto al credito dedotto in giudizio, potendo la loro responsabilità solo derivare da una esplicita pattuizione contrattuale, il che esclude anche la correttezza del richiamo alla previsione di cui all’art. 1203 n. 3 c.c., in quanto non può assegnarsi alla ricorrente la qualità di soggetto tenuta con altri o per altri al soddisfacimento del debito verso il Comune>>

La SC precisa che l’irregolarità urbanistica de qua non costituisce vizio ex art. 1489 cc: <<A tal fine deve essere richiamata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui (Cass. n. 3464/2012) l’art. 1489 cod. civ., sulla vendita di cosa gravata da oneri o da diritti di terzi, non trova applicazione con riferimento al pagamento di oneri derivanti da procedimenti di regolarizzazione urbanistico-edilizia, dei quali il venditore abbia fatto menzione nell’atto di compravendita, trattandosi di pesi che non limitano il libero godimento del bene venduto (in senso conforme Cass. n. 1084/2020, non massimata, che però riconosce la validità di una clausola contrattuale che impegni il venditore a frasi carico degli oneri economici derivanti dal successivo perfezionamento della procedura di condono)>>.

Vizi della cosa venduta e relativo onere della prova: intervengono le sezioni unite

Sulla questione dell’onere della prova in tema di vizi della cosa venduta sono intervenute le sezioni unite della Cassazione con sentenza 3 maggio 2019 numero 11.748, relatore Cosentino.

Il Collegio evidenzia che fino al 2013 non c’erano incertezze giurisprudenziali: vigeva l’orientamento per cui tocca al compratore provare i difetti. Nel 2013 questo orientamento è stato incrinato da una pronuncia, secondo cui -in applicazione della nota pronuncia di legittimità sez. un. 13533 del 2001– al compratore basta allegare l’inesatto adempimento o denunciare la presenza di vizi e difetti; rimane a carico del venditore-debitore l’onere di dimostrare di aver consegnato una cosa conforme o comunque priva di vizi. Successivamente  alcune pronunce hanno seguito questo innovativo indirizzo, mentre altre sono tornate a quello precedente.

La Corte, però, in relazione ai diritti e doveri generati dal contratto di compravendita, evidenzia oggi che si può parlare di obbligazioni in senso tecnico, cioè aventi ad oggetto una prestazione dovuta dal venditore, solo per quella di cui al n. 1 dell’articolo 1476 cc (non considera il n. 2 nè l’evizione di cui al n. 3: § 12).

Invece per la garanzia da vizi (n. 3 del medesimo articolo),  non si tratta di obbligazione in senso tecnico, in quanto non è promessa una prestazione da eseguirsi successivamente alla stipula da parte del venditore (§§ 17-21).

Alcuni per questo motivo qualificano la garanzia a carico del venditore come un indennizzo di tipo assicurativo (§ 15). Tale proposta però non viene accolta dal Collegio perché non sono ad esso riconducibili da un lato i rimedi della risoluzione e della riduzione di prezzo (anche se prescindono dalla colpa del venditore), dall’altro nemmeno quello del risarcimento del danno, che presuppone colpa nel venditore (art. 1494 cc), anche questo anomalo rispetto ai rimedi assicurativi.

Si precisa tuttavia (§ 16) di soffermarsi su questo aspetto (solo) per evidenziare che la garanzia da vizi non costituisce un rapporto obbligatorio sorto dalla compravendita. Questo contratto ha infatti per oggetto il modo di essere attuale della cosa dedotta in contratto e non una prestazione futura, come invece necessario per ravvisare un’obbligazione (§ 17).

Si aggiunge poi -ed è il punto forse più interessante- che questa considerazione non impone di uscire dal campo dell’inadempimento o meglio dell’inesatto adempimento del contratto (§ 22; la distinzione è più chiara adoperando i termini “inadempimento totale”/“inadempimento parziale”, il secondo potendo essere quantitativo oppure qualitativo). Solo che si tratta di inadempimento appunto non di un’obbligazione, bensì del contratto: o meglio in inadempimento della promessa di un certo risultato traslativo, sorta con la stipula della vendita. Quindi si tratta sempre di una violazione della lex contractus, anche se non nella forma dell’obbligo inadempiuto: <<si tratta di una responsabilità che prescinde da ogni giudizio di colpevolezza del venditore e si fonda solo sul dato obiettivo della esistenza dei vizi>> (§ 24).

Si pone allora, direi, il più ampio problema del se e in che misura possa applicarsi a questa (o altre) violazione della lex contractus, diversa dall’inadempimento di obbligazione (vizi della res venduta), la disciplina dell’obbligazione e del contratto in generale, nei casi non regolati dalla disciplina specifica della compravendita (la quale, in linea di massima, costituirà invece norma speciale e dunque prevalente sulle norme incompatibili, presenti nelle discipline generali dell’obbligazione e del contratto).

Qui va pure incidentalmente ricordato, a differenza da quanto pare dire la S.C., che anche nell’inadempimento delle obbligazioni si risponde a prescindere dalla colpevolezza: basta solamente l’oggettiva difformità del comportamento tenuto da quello dovuto (l’art. 1218 è chiarissimo). Molti autori e giurisprudenza pensano il contrario (richiedono cioè l’elemento della colpa): la differenza tra le due teorie (soggettiva e oggettiva) in tema di inadempimento, però, è più declamatoria che reale e comunque è molto più ridotta di quello che potrebbe sembrare (forse inesistente). Approfondire questo punto richiederebbe di affrontare il tema della doppia accezione di diligenza, magistralmente studiato da Mengoni nel suo saggio del 1954 <<Obbligazioni ” di risultato ” e obbligazioni ” di mezzi “>>: duplice accezione che però risulta non troppo convincente, anche se ancora in auge (ad es. alla base della teoria del duplice ciclo causale proposta da Cass. n° 18392 del 26/07/2017, rel. Scoditti). Il punto non può essere qui sviluppato ulteriormente.

Se così è, la disciplina del riparto dell’onere della prova tra venditore e compratore nelle azioni edilizie, non è compreso nell’ambito applicativo dei principi fissati dalla cit. sentenza sezioni unite del 2001, che riguardava l’inadempimento delle obbligazioni (§ 26). In tale sentenza l’esito decisionale era basato sul principio della presunzione di persistenza del diritto (id est dell’obbligazione), dicono le S.U. di oggi (in verità anche su quello della vicinanza alla prova): presunzione che non è applicabile al caso dei vizi della cosa venduta, circa i quali non può ravvisarsi alcuna obbligazione (§ 27).

Il riparto dell’onere probatorio in materia di vizi della cosa venduta, allora, non può che gravare sul compratore: il che risulta idoneo anche a soddisfare le esigenze pratiche espresse dal principio della vicinanza alla prova e del tradizionale canone negativa non sunt probanda, indicate dalle sezioni unite del 2001 (§ 28-29).

Le S.U. di oggi ricordano che il principio di vicinanza alla prova fu enunciato compiutamente per la prima volta proprio dalla cit. Cass. s.u. 15533/2001 e che esso trova ancoraggio nell’art. 24 Cost.

Al § 31 la S.C. ricorda che talora il principio di vicinanza/distanza della prova è utilizzato <<in sostanza utilizzato per distinguere i fatti costitutivi della pretesa (identificati con quelli che sono nella disponibilità dell’attore, che il medesimo ha l’onere di provare) dai fatti estintivi o modificativi o impeditivi, identificati con quelli che l’attore non è in grado di provare e che, pertanto, devono essere provati dalla controparte. In pronunce successive, per contro, il criterio della vicinanza/distanza della prova risulta scollegato dal disposto dell’art. 2697 c.c. e viene utilizzato come un temperamento della partizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, modificativi od impeditivi del diritto, idoneo a spostare l’onere della prova su una parte diversa da quella che ne sarebbe gravata in base a detta partizione>>.  Mi pare tuttavia preferibile il primo dei due orientamenti e cioè quello per cui il problema sorge quando è difficile distinguere fatti costitutivi e fatti estintivi/impeditivi. Se invece la distinzione è chiara, non può il giudice temperarla cioè modificarla in base a generiche esigenze di equità social-processuale. Egli semmai potrà sollevare questione di costituzionalità  per contrasto con l’art. 24 Cost.: da noi  il controllo di costituzionalità non è diffuso, come pensa (esplicitamente o implicitamente) certa dottrina, ma fa capo solo alla Corte Costituzionale.

Non è però necessario -aggiunge la S.C.- prendere posizione tra questi due orientamenti: entrambi nel caso specifico conducono infatti alla stessa conclusione e cioè che è il compratore gravato dell’onere di provare il vizio della cosa acquistata, per esercitare le azioni edilizie (§ 32). Qui potrebbe però obiettarsi qualcosa alla linearità della motivazione. Così dicendo, infatti, non è chiaro se la S.C. affermi (v. appena sopra) che tale riparto probatorio derivi direttamente dall’art. 2697 cc oppure da un suo “temperamento” apportato dal giudice (nel qual caso dovrebbe precisare e giustificare questo suo ruolo paralegislativo).

La S.C. tocca poi la questione dell’inadempimento parziale (o inesatto adempimento; § 33), che era stato parificato dalla pronuncia del 2001 all’inadempimento totale: con però molte critiche dottrinali su questo punto. Il Collegio implicitamente le tiene in considerazione e osserva: <<La prova dell’inesatto adempimento, al contrario, consiste nella prova di un fatto positivo diverso da quello atteso dal creditore; si tratta di una situazione più articolata e più difficilmente inquadrabile in schemi rigidamente predeterminati, potendo risultare necessario procedere ad una verifica concreta, nelle diverse tipologie di controversie, su quale sia la fonte di prova che meglio può offrire la dimostrazione dell’inesattezza dell’adempimento e su quale sia la parte che più agevolmente può accedere a tale fonte>>. La Corte sembra quindi dire che, nel caso di inadempimento inesatto e alla luce del principio negativa non sunt probanda (e, si può aggiungere anche della vicinanza alla prova, del quale il negativa non sunt probanda costituisce un’applicazione), non si può stabilire in astratto quale sia la parte più vicina alla prova e quindi quale sia quella invece da onerare. L’inciso <<potendo risultare necessario procedere ad una verifica concreta… su quale sia la fonte di prova che può meglio offrire la dimostrazione delle inesattezze di inadempimento>> sembra infatti un’apertura verso la soluzione, secondo cui, nei casi dubbi, spetta al giudice caso per caso assegnare l’onere probatorio alla parte meglio attrezzata per farvi fronte. Si tratterebbe di una regola ex post, sorta col giudizio (o meglio in sentenza) e quindi di per sè inopportuna, dato che le regole dovrebbero essere conoscibili ex ante. Però se la legge è muta e non c’è concordia dottrinale, questa soluzione non è facilmente evitabile. Il punto è di notevole importanza teorica e pratica.

In ogni caso questo passaggio del § 33 è un obiter dictum e la corte lo riconosce al § seg.  Al § 34 infatti osserva che la questione sub iudice (vizio della cosa venduta) esula dall’inadempimento delle obbligazioni, sicchè non occorre prendere posizione sul predetto problema dell’onere probatorio nel caso di inesatto adempimento. E’ invece <<sufficiente evidenziare che la prova dell’esistenza del vizio della cosa è una prova positiva (di un fatto costitutivo del diritto alla risoluzione o modificazione del contratto) e pertanto, proprio alla stregua del canone negativa non sunt probanda, va giudicata più agevole di quella (negativa) della inesistenza del vizio medesimo>>.

Infine la Corte ricorda che questa impostazione è confortata:

i) dall’orientamento della Suprema Corte in tema di vizi della cosa nel contratto di appalto e di locazione (§§ 35-37) ;

ii) dall’orientamento della Corte di Giustizia UE in tema di onere probatorio per vizi della cosa acquistata dal consumatore (CGUE 4.6.15 C-497/13, Froukje Faber c. Autobedrijf Hazet Ochten BV, §§ 49-57).

Circa il diritto europeo, segnalo due proposte di direttiva UE (ora divenute però inefficaci, precisamente  il 20 maggio 2019, come si legge nella pagina web delle direttive, sotto indicata). 1° Quella sulle forniture digitali 9.12.2015 (COM(2015) 634 final – 2015/0287 (COD)) pone in modo espresso l’onere della prova a carico del fornitore: <<Art. 9 Onere della prova: 1. L’onere della prova riguardo alla conformità al contratto al momento indicato all’articolo 10, è a carico del fornitore. 2. Il paragrafo 1 non si applica nel caso in cui il fornitore dimostri che l’ambiente digitale del consumatore non è compatibile con i requisiti di interoperabilità e altri requisiti tecnici del contenuto digitale e nel caso in cui il fornitore abbia informato il consumatore di tali requisiti prima della conclusione del contratto. 3. Il consumatore collabora con il fornitore per quanto possibile e necessario per definire il proprio ambiente digitale. L’obbligo di collaborazione è limitato ai mezzi tecnicamente disponibili che sono meno intrusivi per il consumatore. Se il consumatore non collabora, l’onere della prova riguardo alla non conformità al contratto è a carico del consumatore.>>. Dal che si desume che sul consumatore gravi solo l’onere di denuncia o di allegazione del vizio/difetto.  2° Invece nella contemporanea proposta di direttiva sulle vendite online (Proposta relativa a determinati aspetti dei contratti di vendita online e di altri tipi di vendita a distanza di beni 9.12.2015 COM(2015) 635 final – 2015/0288(COD)) rimane l’impianto della dir. sulla vendita 1999/44, dato che non parla di onere della prova della conformità/difformità ma si limita a dire: <<Articolo 8 Momento rilevante per la determinazione della conformità al contratto : 1.  Il venditore risponde di qualsiasi difetto di conformità al contratto sussistente al momento in cui: (a)il consumatore o un terzo da lui designato e diverso dal vettore acquisisce il possesso fisico del bene, oppure (b) [sta scritto (a): ma è evidente errore] il bene è consegnato al vettore scelto dal consumatore, qualora tale vettore non sia stato proposto dal venditore o il venditore non proponga alcun mezzo di trasporto. 2.   Qualora il bene sia installato dal venditore o sotto la sua responsabilità, il consumatore acquisisce il possesso fisico del bene nel momento in cui l’installazione è terminata. Qualora il bene sia concepito per essere installato dal consumatore, il consumatore acquisisce il possesso fisico del bene allo scadere di un lasso di tempo ragionevole per effettuare l’installazione, e comunque non oltre 30 giorni dal momento di cui al paragrafo 1. 3.   Qualsiasi difetto di conformità al contratto che si manifesta entro due anni dal momento di cui ai paragrafi 1 e 2 si presume che fosse sussistente in tale momento, salvo che ciò sia incompatibile con la natura del bene o con la natura del difetto di conformità.>>. Il § 3 così allunga a due anni il termine semestrale previsto per l’analoga presunzione nella dir. 1999/44 , art. 5 § 3).

Obsolescenza programmata: problemi giuridici

In un breve ma interessante articolo Mariateresa Maggiolino propone alla riflessione il tema dell’obolescenza programmata. Ne ricorda alcuni profili storici ed economici, invitando ad approfondire i profili giuridici ed anzi sollecita il legislatore a fare la sua parte, censurando in modo formale questa pratica (M. Maggiolino, Planned Obsolescence: A Strategy in Search of Legal Rules, in IIC – International Review of Intellectual Property and Competition Law , 2019, 405, editoriale del numero 4)

Ricorda che la Francia nel 2015 si è dotata della legge 2015-992, che definisce l’obsolescenza programmata come “the set of techniques by which an issuer on the market aims to deliberately reduce the lifetime of a product in order to increase its replacement rate” e la sanziona penalmente con pene sia detentive che pecuniarie (sino al 5 % del fatturato medio).

Ricorda anche il noto caso italiano di pratiche commerciali scorrette accertate da AGCM nei confronti di Apple e Samsung con i provvedeimenti del 25 settembre 2018 n. PS11039 – n. 27365 e, rispettivamente, n. PS11009 -n. 27363 .

L’estrato diffuso dall’AGCM ex art. 27 c. 8 cod. cons. è il seguente (prendo quello relativo ad Apple):

<<Le società Apple Inc, Apple Distribution International, Apple Italia S.r.l. e Apple Retail Italia S.r.l. hanno indotto i consumatori in possesso di iPhone 6/6plus/6s/6splus alla   installazione del sistema operativo iOS 10 e successivi aggiornamenti, senza fornire adeguate informazioni circa l’impatto di tale scelta sulle prestazioni degli smartphone e senza offrire (se non in misura limitata o tardiva) alcun mezzo di ripristino dell’originaria funzionalità degli apparecchi in caso di sperimentata diminuzione delle prestazioni a seguit o dell’aggiornamento (quali il downgrading o la sostituzione della batteria a costi ragionevoli). Tale pratica è stata valutata scorretta, ai sensi degli artt. 20, 21, 22 e 24 del D.Lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo) dall’Autorità Garante della Conco rrenza e del Mercato>>

Un annotatore, pur complessivamente apprezzando il provvedimento, dubita che sia stata realmente provata <<la deliberata e pianificata adozione di una strategia di obsolescenza  programmata>> (Giannaccari A., Apple, obsolescenza tecnologica (programmata) e diritti dei consumatori, Mercato Concorrenza Regole, 2019 / 1, 154-155)

Sono proponibili anche dubbi civilistici: il prodotto, progettato per durare meno di quel che potrebbe, può dirsi affetto da vizio, ai sensi della disciplina della vendita, comune o consumeristica?