Decorrenza della prescrizione nel rapporto di lavoro a tempo intedeterminato

Cass. 6 settembre 2022 n. 26.246, sez. lav., rel. Patti:

<<deve essere ribadito che la prescrizione decorra, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione “contro ogni illegittima risoluzione” nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell’art. 18, anteriore alla L. n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava. A questa oggettiva precognizione si collega l’assenza di metus del lavoratore per la sorte del rapporto di lavoro ove egli intenda far valere un proprio credito, nel corso di esso: caratterizzato dal regime di stabilità comportato da quella resistenza che assiste, appunto, il rapporto d’impiego pubblico.

Non costituisce, infatti, garanzia sufficiente, come invece ritenuto dalla Corte d’appello di Brescia (dal secondo capoverso di pg. 5 al terz’ultimo di pg. 6 della sentenza), il mantenimento della tutela reintegratoria, tanto con la L. n. 92 del 2012 (art. 18, comma 1), tanto con il D.Lgs. n. 23 del 2015 (art. 2, comma 1), per il licenziamento (non tanto discriminatorio, impropriamente richiamato in proposito, oltre che non correttamente equiparato al licenziamento intimato “per ritorsione, e dunque discriminatorio”: al sesto alinea del secondo capoverso di pg. 5 della sentenza; ma soprattutto) ritorsivo, sul presupposto di un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c. (non necessario per il licenziamento discriminatorio: Cass. 5 aprile 2016, n. 6575; Cass. 7 novembre 2018, n. 28453).>>

Non si tratta, infatti, di enucleare una condizione non meramente psicologica (siccome dipendente da una percezione soggettiva), ma obiettiva di <<metus del dipendente nei confronti del datore di lavoro, per effetto di un’immediata e diretta correlazione eziologica tra l’esercizio obiettivamente inibito) di una rivendicazione retributiva del lavoratore e la reazione datoriale di licenziamento in ragione esclusiva di essa: come sottende la Corte bresciana, laddove argomenta (al penultimo capoverso di pg. 5 della sentenza) con la possibilità per il lavoratore (in “riferimento alla facoltà… di impugnare… un licenziamento che abbia, in concreto e al di là delle ragioni apparenti addotte dal datore di lavoro, quale unica ragione quella di reagire alle rivendicazioni avanzate dal dipendente in pendenza del rapporto di lavoro”) di ottenere “una tutela ripristinatoria piena (certo essendo che se il licenziamento è invece fondato su giusta causa o giustificato motivo, oggettivi e insussistenti, e dunque su ragioni – veritiere – del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente, non si può configurare la situazione psicologica in questione).

Un tale ragionamento reputa dotato di stabilità adeguata un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in assenza di una tutela reintegratoria nelle ipotesi diverse (“del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente”: secondo l’espressione della Corte lombarda) di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in ragione di effettive ragioni organizzative e produttive dell’impresa, ovvero di licenziamento disciplinare, per grave inadempimento degli obblighi di diligenza e fedeltà del lavoratore, fino alla rottura irreversibile del rapporto di fiducia tra le parti. Ma il procedimento argomentativo si fonda sul presupposto (chiaramente esplicitato) che tali ragioni non mascherino in realtà ragioni ritorsive (eventualmente per rivendicazioni retributive in corso di rapporto), comportanti il ripristino della tutela reintegratoria, secondo l’insegnamento di questa Corte (Cass. 4 aprile 2019, n. 9468, in riferimento ad un’ipotesi di licenziamento intimato per giustificato motivo, in realtà per motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 c.c.; Cass. 22 giugno 2016, n. 12898, in riferimento ad ipotesi di licenziamento intimato per giusta causa).>>

Esso rivela come <<l’individuazione del regime di stabilità sopravvenga ad una qualificazione definitiva del rapporto per attribuzione del giudice, all’esito di un accertamento in giudizio, e quindi necessariamente ex post: così affidandone l’identificazione, o meno, al criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale (stigmatizzato al superiore p.to 6, in fine, per essere fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema).

9. In via conclusiva, deve allora essere escluso, per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità.

Da ciò consegue, non già la sospensione, a norma dell’art. 2941 c.c. (per la tassatività delle ipotesi ivi previste e soprattutto per essere presupposto della sospensione la preesistenza di un termine di decorrenza della prescrizione che, esaurita la ragione di sospensione, possa riprendere a maturare), bensì la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012.>>.

Principio di diritto:

“Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

Parità di trattamento e applicazione diretta del principio costituzionale

La Corte di Giustizia (CG) ha affermato che la parità di trattamento tra lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile, posta dall’art 157 TFUE, è direttamente applicabile nelle controversie tra privati e ciò sia nel caso di <stesso lavoro>  sia nel caso di <lavoro di pari valore>.

Si tratta di CG 03.06.2021, C-624/19, vari lavoratori c. Tesco Stores ltd.

Così ragiona la CG:

<<20   Si deve anzitutto osservare che la formulazione stessa dell’articolo 157 TFUE non può suffragare tale interpretazione. Conformemente a quest’ultimo, ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Pertanto, tale articolo impone, in modo chiaro e preciso, un obbligo di risultato e ha carattere imperativo tanto per quanto riguarda uno «stesso lavoro» quanto con riferimento a un «lavoro di pari valore».

21      In tal senso, la Corte ha già dichiarato che dal momento che l’articolo 157 TFUE ha carattere imperativo, il divieto di discriminazione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile non solo riguarda le pubbliche autorità, ma vale del pari per tutte le convenzioni, che disciplinano in modo collettivo il lavoro subordinato nonché per i contratti fra singoli (sentenza dell’8 maggio 2019, Praxair MRC, C‑486/18, EU:C:2019:379, punto 67 e giurisprudenza citata).

22      Secondo giurisprudenza costante della Corte, tale disposizione produce effetti diretti creando, in capo ai singoli, diritti che i giudici nazionali hanno il compito di tutelare (v., in tal senso, sentenza del 7 ottobre 2019, Safeway, C‑171/18, EU:C:2019:839, punto 23 e giurisprudenza citata).

23     Il principio introdotto da detta disposizione può essere fatto valere dinanzi ai giudici nazionali in particolare nel caso di discriminazioni che traggano direttamente origine da norme o da contratti collettivi di lavoro, nonché qualora il lavoro sia svolto nella stessa azienda o ufficio, privato o pubblico (v., in tal senso, sentenze dell’8 aprile 1976, Defrenne, 43/75, EU:C:1976:56, punto 40, e del 13 gennaio 2004, Allonby, C‑256/01, EU:C:2004:18, punto 45).

24    Ai punti 18 e da 21 a 23 della sentenza dell’8 aprile 1976, Defrenne (43/75, EU:C:1976:56), la Corte ha rilevato, in particolare, che le discriminazioni che traggono origine da disposizioni legislative o dai contratti collettivi di lavoro rientrano tra quelle che possono essere accertate con l’ausilio dei soli criteri di identità del lavoro e di parità di retribuzione indicati dall’articolo 119 del Trattato CEE (divenuto, a seguito di modifica, articolo 141 CE, a sua volta divenuto articolo 157 TFUE), rispetto a quelle che possono essere individuate solo con riferimento a disposizioni d’attuazione più precise. La Corte ha aggiunto che lo stesso vale nel caso di una diversa retribuzione di lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile per uno stesso lavoro, svolto nella stessa azienda o ufficio, privato o pubblico, e che, in tale ipotesi, il giudice è in grado di procurarsi tutti gli elementi di fatto che gli consentono di accertare se un lavoratore di sesso femminile sia retribuito meno di un lavoratore di sesso maschile che svolge le stesse mansioni>>.

Tesco aveva invece sostenuto <<che il criterio del «lavoro di pari valore», a differenza di quello relativo a uno «stesso lavoro», deve essere precisato da disposizioni di diritto nazionale o del diritto dell’Unione.>>, § 19.

“Accomodamenti ragionevoli” nel rapporto di lavoro con persona disabile, ragionevolezza e buona fede nell’esecuzione del contratto

La Corte di CAssazione interpreta il concetto di <accomodamenti ragionevoli> nel d. lgs. 216/2003 (Cass. 6497 del 09.03.2021 rel. Amendola). .

il D.L. 28 giugno 2013, n. 76 (art. 9, comma 4-ter), conv. con modif. dalla L. 9 agosto 2013, n. 99, ha inserito nel testo del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3 un comma 3 bis del seguente tenore: <<Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie, e strumentali disponibili a legislazione vigente>>.

Ebbene così dice la SC: <<Il legislatore … ha deliberatamente scelto di trasporre nell’ordinamento interno la formula delle fonti sovranazionali, in dichiarata attuazione della direttiva n. 78/2000/CE, affidandosi ad una nozione a contenuto variabile – categoria dogmatica estesa, nell’ambito della quale possono variamente collocarsi clausole generali, norme elastiche, concetti giuridici indeterminati, finanche i principi – che ha come caratteristica strutturale proprio l’indeterminatezza: consapevole dell’impossibilità di una tipizzazione delle condotte prescrivibili, il legislatore ha conferito all’interprete il compito di individuare lo specifico contenuto dell’obbligo, guidato dalle circostanze del caso concreto.>>, § 5.1

<<Si tratta dunque di adeguamenti, lato sensu, organizzativi che il datore di lavoro deve porre in essere al fine di “garantire il principio della parità di trattamento dei disabili” e che si caratterizzano per la loro “appropriatezza”, ovvero per la loro idoneità a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa>>, § 5.2.

Il limite del <onere sproprozinato o eccessivo> è stato già <<sottolineato da questa Corte  che ha legittimato il rifiuto dell’imprenditore all’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale attività, a mansioni diverse, ove comporti “oneri organizzativi eccessì)i”, pronuncia a sua volta ispirata dalla giurisprudenza costituzionale dell’epocà sulla “autodeterminazione” della organizzazione interna dell’impresa “in modo che ne vengano preservati gli equilibri finanziari” (cfr. Corte Cost. n. 78 del 1958; Corte Cost. n. 316 del 1990; Corte Cost. n. 356 del 1993)>>.

 Al limite espresso della “sproporzione” del costo <<si affianca quello dell’aggettivo che qualifica l’accomodamento come “ragionevole”.

Limite ulteriore perchè dotato di autonoma valenza letterale, atteso che se l’unica ragione per esonerare il datore di lavoro dal porre in essere l’adattamento, fosse l’onere “sproporzionato”, allora non sarebbe stato necessario aggiungere il “ragionevole”.

Infatti, se può sostenersi che ogni costo sproporzionato, inteso nella sua accezione più ampia di “eccessivo” rispetto alle dimensioni ed alle risorse finanziarie dell’impresa, renda l’accomodamento di per sè irragionevole, non è necessariamente vero il contrario, perchè non può escludersi che, anche in presenza di un costo sostenibile, circostanze di fatto rendano la modifica organizzativa priva di ragionevolezza, avuto riguardo, ad esempio, all’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti.>>, § 5.3-§ 5.4.

Il criterio della ragionevolezza, tradizionalmente utilizzato nei giudizi di legittimità costituzionale come controllo di razionalità della legge, <<penetra anche i rapporti contrattuali, quale forma di osservanza del “canone di correttezza e buona fede che presidia ogni rapporto obbligatorio contrattuale ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c.” (cfr, Cass. SS.UU. n. 5457 del 2009) e che risulta “immanente all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost.” (cfr. Cass. SS.UU. n. 15764 del 2011; v. pure Cass. SS.UU. n. 23726 del 2007; cfr. Cass. SS. UU. n. 18128 del 2005), esplicando “la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra” (Cass. SS.UU. n. 28056 del 2008)>> , § 5.4

<Se può tuttavia dubitarsi, nonostante talune suggestioni dottrinali, che, sulla base del diritto vivente (v. Cass. SS.UU. nn. 6030, 6031, 6032, 6033, 6034 del 1993), possa configurarsi nei rapporti di lavoro un obbligo giuridico a valenza generale,di “ragionevolezza” nell’esercizio dell’attività di impresa, tale da consentire un esteso sindacato giudiziale diretto ed ex post di congruità causale degli atti del datore di lavoro, non è invece discutibile che, laddove il legislatore esplicitamente stabilisca, come nella specie – che la condotta datoriale debba essere improntata al canone della ragionevolezza, il controllo sia dovuto anche su questo specifico profilo.>, ivi.

Dalla connotazione della ragionevolezza come espressione dei piu’ ampi doveri di buona fede e correttezza nei rapporti contrattuali si possono <<trarre indicazioni metodologiche utili per orientare prima il destinatario della norma ad individuare il comportamento dovuto e poi, eventualmente, il giudice, al fine di misurare l’esattezza dell’adempimento dell’obbligo di accomodamento nella concretezza del caso singolo.

Detta collocazione sistematica consente di fare capo a quella ricca giurisprudenza che identifica la buona fede oggettiva o correttezza come criterio di determinazione della prestazione contrattuale, costituendo fonte di integrazione del comportamento dovuto che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, sulla scorta di una nota dottrina, al compimento di tutti gli atti giuridici e materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (tra le tante: Cass. n. 1460,5 del 2004; Cass. n. 20399 del 2004; Cass. n. 13345 del 2006; Cass. n. 15669,del 007; Cass. n. 10182 del 2009; Cass. n. 17642 del 2012; da ultimo, con riferimenti, v. Cass. n. 8494 del 2020)>>., ivi.

La funzione diretta alla protezione della controparte ed il dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse “altrui” <<pongono metodologicamente al centro dell’operazione interpretativa l’esigenza di una valutazione comparata di tutti gli interessi in gioco, al fine di un bilanciato contemperamento>>, ivi.

Così pure nel caso degli accomodamenti <<occorrerà soppesare gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte: l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà; poi l’interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l’impresa, tenuto conto che l’art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge (Cass. SS.UU. n. 7755/1998 cit.) e che la stessa direttiva 2000/78/CE, al Suo considerando 17, “non prescrive… il mantenimento dell’occupazione… di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione”; non può, infine, aprioristicamente escludersi che la modifica organizzativa coinvolga, in maniera diretta o indiretta, altri, lavoratori, sicchè in tal caso, fermo il limite non valicabile del pregiudizio a situazioni soggettive che assumano la consistenza di diritti soggettivi altrui, occorrerà valutare comparativamente anche l’interesse di costoro>>, ivi.

All’esito di questo complessivo apprezzamento, potrà dirsi ragionevole <<ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un’attività che sia utile per l’azienda e che imponga all’imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo “la comune valutazione sociale” (su tale formula v. Cass. SS.UU. n. 5688 del 1979, che, proprio a proposito dell’integrazione del comportamento dovuto dal datore di lavoro ex art. 1175 c.c., ha ritenuto che quest’ultimo deve “ritenersi vincolato non solo a non frapporre ostacoli alla realizzazione dell’interesse dell’altra parte, ma anche a fare tutto ed esattamente quanto la comune valutazione sociale consideri necessario”)>>.

L’onere della prova nel rapporto di lavoro (licenziamento vs. assenza delle misure di sicurezza)

Si pronuncia sull’importante (anche a fini pratici) tema una sentenza dello scorso anno: Cass., sez. L, n° 8911 del 29.03.2019, rel. Marotta, Trenitalia c. Lorenzoni.

Quest’ultimo, macchinista in Trenitalia,  impugnava i licenziamenti disciplinari  intimatigli dalla società a fronte del suo rifiuto di condurre il treno senza la presenza in cabina di un secondo agente abilitato alla condotta-

Mi  concentro qui solo sulla parte motiva, relativa all’onere della prova.

A monte la SC si sofferma sulla natura contrattuale della resposanbilità derivante dala violazione dell’art. 2087 cc, che così recita:

<< Art. 2087.  (Tutela delle condizioni di lavoro) – L’imprenditore e’ tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarita’ del lavoro, l’esperienza  e  la tecnica,  sono  necessarie  a  tutelare  l’integrita’  fisica  e   la personalita’ morale dei prestatori di lavoro>>

Il tipo di dovere posto dall’art. 2087 è esaminato dal § 10, che riporto quasi per intero.

La natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’art. 2087 c.c. è ormai da tempo consolidata, dice la SC. Infatti l’incorporazione dell’obbligo di sicurezza all’interno della struttura del rapporto obbligatorio <<non rappresenta una mera enclave della responsabilità aquiliana nel territorio della responsabilità contrattuale, relegata sul piano del non facere. E’ fonte, invece, di obblighi positivi (e non solo di mera astensione) del datore il quale è tenuto a predisporre un ambiente ed una organizzazione di lavoro idonei alla protezione del bene fondamentale della salute, funzionale alla stessa esigibilità della prestazione lavorativa con la conseguenza che è possibile per il prestatore di eccepirne l’inadempimento e rifiutare la prestazione pericolosa (art. 1460 c.c.)>>

Prosegue così: <<alla luce della sua formulazione aperta – declinata attraverso i parametri della particolarità del lavoro, intesa come complesso di rischi e pericoli che caratterizzano la specifica attività lavorativa, della esperienza, intesa come conoscenza di rischi e pericoli acquisita nello svolgimento della specifica attività lavorativa e della tecnica, intesa come progresso scientifico e tecnologico attinente a misure di tutela su cui il datore di lavoro deve essere aggiornato – la giurisprudenza consolidata è concorde nell’assegnare all’art. 2087 c.c. il ruolo di norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante cioè anche in assenza di specifiche regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico>>, pagg. 10-11).

E’ vero, prosegue la Sc, che va attribuita alla disposizione di cui all’art. 2087 c.c. anche una funzione dinamica, <<in quanto norma diretta a spingere l’imprenditore ad attuare, nell’organizzazione del lavoro, un’efficace attività di prevenzione attraverso la continua e permanente ricerca delle misure suggerite dall’esperienza e dalla tecnica più aggiornata al fine di garantire, nel migliore dei modi possibili, la sicurezza dei luoghi di lavoro>>. Tuttavia la responsabilità datoriale <<non è suscettibile di essere ampliata fino al punto da comprendere, sotto il profilo meramente oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell’integrità psico-fisica dei dipendenti (e di correlativo pericolo). L’art. 2087 c.c. non configura infatti un’ipotesi di responsabilità oggettiva essendone elemento costitutivo la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore>>.

Si noti l’importante passaggio, precisato in quello seguente.

Nemmeno può desumersi dall’indicata disposizione un <<obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a rischio zero quando di per sè il pericolo di una lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile; egualmente non può pretendersi l’adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente impensabili (…). Questo perchè, ove applicabile, avrebbe come conseguenza l’ascrivibilità al datore di lavoro di qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile. Come più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (v….) non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto>>, pagg. 11-12-

Alla luce della cennata responsablità contrattuale discendente dalla violazione dell’art. 2087 cc (per vero indubbia: non risulta che qualcuno l’abbia mai contestato), la SC va ad applicarla alla distrbuzione dell’onere della prova al § 12.

Sul piano della ripartizione dell’onere probatorio, pertanto, <<al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonchè il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre – in parziale deroga al principio generale stabilito dall’art. 2697 c.c. – non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell’inadempimento.

Diversamente, invece, si atteggia il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza – asseritamente omesse – siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici (quali le misure previste dal D.Lgs. n. 81 del 2008 e successive integrazioni e modificazioni come dal precedente D.Lgs. n. 626 del 1994 e prima ancora dal precedente n. 547/1955), oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 c.c., che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza. Nel primo caso – riferibile alle misure di sicurezza cosiddette nominate – il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere; nonchè, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito.

La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno. Nel secondo caso – in cui si discorre di misure di sicurezza cosiddette innominate la prova liberatoria a carico del datore di lavoro (fermo restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore) risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorchè non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standards di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe>> pag. 13-14.

Il tema è di sicuro interesse, essendo al crocevia tra diritto contrattuale e processuale.

La soluzione della SC (spesso seguita in passato) lascia però perplessi

Anche sorvolando sul concetto di colpa, che la miglior dottrina ha da tempo (almeno da Osti e poi Mengoni) espunto dalla dinamica della responsabilità contrattuale (si tratta però di concetti da maneggiare con catuela, essendo facili confusioni concettuali), non si capisce perchè il dipendente sia esonerato dalla relativa prova.

L’art. 2087 infatti non contiene elementi giustificativi di una simile deroga al regime comune della responsabilità contrattuale (ex art. 1218 c.c.).

Inoltre è di dubbia fondatezza (per non dire che pare proprio errata) la distinzione tra il caso di misure specificamente previste dalla legge e il caso di misure adottande ma innominate. L’onere della prova è il medesimo nei due casi: cambieranno invece semmai solo i fatti da allegare e provare (il tema di prova).