Diligenza nella prestazione del servizio di trasposto di persona disabile

Sul danno da caduta mentre scendeva dal pulmino una persona disabile (grave patologia metnale), Cass. sez. III del 20.03.2023 n. 7922, rel. Gorgoni, così insegna (accogliendo la domanda risarcitoria e cassando la contraria decisione di appello):

<< 15) ebbene, P.M. versava in condizioni di vulnerabilità accertate e note alla cooperativa ed è innegabile che per il fatto che la cooperativa avesse assunto l’obbligo di trasportarla e che si fosse instaurata una relazione con la fonte di pericolo era sorto un dovere di sorveglianza a suo carico, da intendersi alla stregua di un munus e di una funzione liberamente accettati e come tali riconoscibili all’esterno, sì da assumere rilevanza erga omnes (Cass. 16/06/2005, n. 12965), giacché il principio di affidamento implica che un soggetto viene a trovarsi nella sfera di custodia e di vigilanza di altro soggetto che sia in grado di seguirne e controllarne le azioni affinché non si verifichino effetti pregiudizievoli (Cass. 01/06/1994, n. 5306 e successiva giurisprudenza conforme);

16) non poteva non conseguirne la legittima pretesa che la cooperativa tenesse un comportamento “diligente”, da valutare ex art. 1176,2 comma, c.c. norma operante anche in ambito extra contrattuale, in ragione dello statuto dell’attività esercitata (Cass. 08/07/2020, n. 14260, la diligenza richiesta nell’espletamento delle attività di controllo e di sorveglianza non può considerarsi in astratto, o in assoluto, ma va commisurata al caso concreto e alle circostanze di tempo e di luogo di volta in volta presenti);

17) risulta, dunque, evidente che il grado di diligenza e di controllo dovesse essere più intenso proprio in considerazione della vulnerabilità dei fruitori del servizio, in ragione delle loro particolari condizioni soggettive;

ad escluderlo, non bastava, nel caso di specie, il fatto che la condizione della vittima non avesse richiesto l’adozione di misure di assistenza specifica o che la stessa non avesse dato prova di necessitarne;

quand’anche ciò possa rilevare – non può non osservarsi che la denuncia mossa alla sentenza impugnata di non avere esaminato il capitolato di appalto relativo al servizio di trasporto disabili tra la Ausl (Omissis) e la Cooperativa La Romagnola non è stata formulata, secondo le modalità prescritte dall’art. 366, (e’ 1 comma, n. 6, c.p.c., come inteso dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., da ultimo, Cass., Sez Un., 18/03/2022, n. 8540) è sufficiente osservare che il capitolato non è stato riportato nel ricorso neppure per sintesi della parte rilevante, né il ricorrente ha fatto riferimento alla sua presenza negli atti del fascicolo di merito con modalità atte a localizzarlo – implicherebbe solo il difetto di un obbligo specifico di assistenza speciale a favore di P.M., ma giammai significherebbe automatico esonero da responsabilità per la cooperativa per il sinistro occorsole, come è stato ritenuto nella sentenza impugnata dalla Corte di merito, la quale infatti dalla mancata assunzione di un obbligo specifico di assistenza ha tratto la errata conseguenza che “La Romagnola non aveva nei confronti di P.M. un obbligo di assistenza a bordo dell’automezzo utilizzato per il trasporto” (p. 5);

anche a prescindere dalle diatribe in ordine alla sussistenza di un comportamento colpevole, dipendenti dall’accezione della colpa – se criterio di valutazione del comportamento o se comportamento riprovevole di chi non abbia fatto uso delle proprie capacità e facoltà per impedire il verificarsi dell’evento dannoso deve partirsi dal presupposto che il danno di cui è stato chiesto il risarcimento era quello conseguente alla caduta dal pullmino per omessa adozione delle misure di cautela necessarie ad impedirlo;

premesso che il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva e che l‘evento dannoso è una concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata tendeva a prevenire – stante che l’omissione di un certo comportamento rileva quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto non solo da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ma anche, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l’omissione, siccome implicante l’esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell’evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell’impedimento di quell’evento – deve ritenersi che esistesse a carico della cooperativa l’obbligo di tenere la condotta omessa;>>

Significativo il richiamo dell’art. 1176 per responsabilità aquiliana: che è esatto, solo che è da vedere se non sia contrattuale (c. a favore di terzo o meglio con prestazione al terzo, nonostante la opposta soluzione per la responsabilità medica ex art. 7 L. Gelli Bianco n° 24 del 2017)

Stipula di transazione, diligenza gestoria del liquidatore di s.r.l. e limiti di sindacabilità giudiziale

Trib. Milano 28.06.2021, sent. n. 5546/2021, rg 54438/2017, rel. Marconi, decide sulla diligenza o meno del liquidatore nell’aver stipulato due transazioni: la prima con un debitore, la seconda con il locatore , che contestava il recesso da un  rapporto locatizio immobiliare.

La censura delle transazioni è sempre difficile, caratterizzando il contratto lo scambio tra aliquid datum e aliquid retentu per por fine alla lite ( si pensi alla nota questione della sua revocabilità).

Ebbene, così motiva:

<<Con riferimento alla valutazione giudiziale dell’opportunità della conclusione da parte della liquidatrice delle transazioni  che la società attrice  considera  fonte di danno, vengono in rilievo i principi espressi dalla giurisprudenza in materia di limiti al sindacato del merito delle scelte di gestione degli amministratori, essendo, analogamente, riservata in linea generale alla discrezionalità del liquidatore la valutazione  della  convenienza  delle  scelte  relative  alla  liquidazione  dell’attivo  patrimoniale  o  alle modalità di estinzione dei debiti sociali.  Come è noto, il merito delle scelte di gestione adottate dagli amministratori di società è tendenzialmente  insindacabile  in  sede giudiziale (c.d. “business  judgment  rule”), salvo il limite della palese irragionevolezza di tali scelte, desumibile dal fatto che l’amministratore non abbia usato le necessarie cautele e assunto le informazioni rilevanti (Cass. 12 febbraio 2013, n. 3409; Cass. 22 giugno 2017,  n.  15470).  Si  tratta  di  una  valutazione  da  condurre  necessariamente  ex  ante,  non  potendosi affermare  l’irragionevolezza  di  una  decisione  dell’amministratore  per  il  solo  fatto  che  essa  si  sia rivelata  ex  post  economicamente  svantaggiosa  per  la  società>>

Tutto bene, nessuna novità. Segnalo l’importanza della prospettiva ex ante (prognosi postuma, potremmo dire).

<< In  particolare,  non  può  essere  ritenuto responsabile l’amministratore che, prima di adottare la scelta gestoria contestata, si sia legittimamente affidato  alla  competenza  di  figure  professionali  specializzate  (Trib.  Milano,  15  novembre  2018,  n. 11476)>>: precisazione interessante per gli operatori.

<<  Applicando  tali  principi  anche  alle  scelte  di  convenienza  economica  a  cui  è  chiamato  il  liquidatore nell’assolvimento del suo incarico, l’accertamento di una responsabilità della Lobova nei confronti della  Mechel  Service presuppone, dunque, che siano provate tanto l’irragionevolezza ex  ante  delle transazioni  concluse  dalla  liquidatrice,  quanto  il  danno  patito  ex  post  dalla  società  per  effetto  di  tali accordi.>> : ancora sulla prospettiva ex ante.

<<Quanto alla prima transazione, non vi è prova dell’asserito danno. Non solo non è stato dimostrato che la società debitrice Sifer fosse in grado di pagare l’intero credito nel momento in cui, il 5 dicembre 2014, la liquidatrice con l’assistenza del legale della società ha concluso  la  transazione,  ma  è  emerso dalla documentazione prodotta dalla convenuta che la società debitrice aveva chiuso l’ esercizio  2015 con un patrimonio netto negativo per € 5.420.415 (doc. 20 convenuta, p. 23) e che in data 29 luglio 2016 era stata messa in liquidazione (doc. 21 convenuta, p. 4).  Non  emerge,  quindi,  ex  post  [ex post? che c’entra se la prospettiva  è ex ante?] alcun  danno  subito  dalla  società  Mechel  per  effetto  della  transazione conclusa  con  la  Sifer,  il  cui  dissesto  finanziario  avrebbe  con  ogni  probabilità  impedito  alla  società attrice  di ottenere,  all’esito del  giudizio di opposizione, il pagamento  anche solo parziale del suo credito.  Né  si  può  ritenere  ex  ante  irragionevole  la  stipulazione  della  transazione:  una  simile  conclusione potrebbe essere raggiunta solo qualora fosse praticamente inesistente il rischio di perdere la causa. Nel caso  di  specie,  invece,  l’esecutorietà  del  decreto  ingiuntivo  era  stata  sospesa  dal  giudice dell’opposizione; circostanza questa che faceva apparire tutt’altro che scontato un esito del contenzioso favorevole a Mechel Service (v. doc. 19 di parte convenuta a pag. 2). Anche  la  stipulazione  della  seconda  transazione  non  può  ritenersi  irragionevole  ex  ante.  La  natura tombale  della  precedente  transazione  con  21ABB  era  opinabile  in  relazione  ai  nuovi  vizi  occulti lamentati in un momento successivo al precedente accordo transattivo e riconosciuti dallo stesso perito  consultato  dalla  liquidatrice  (  v.  doc.  3  convenuta).  In  ogni  caso,  poi,  sarebbe  stato  necessario  un giudizio, potenzialmente di lunga durata e in ogni caso dall’esito incerto, perché fosse accertato il fatto che la precedente transazione impediva la proposizione delle nuove richieste risarcitorie.  L’ammontare della pretesa risarcitoria riconosciuto con la transazione (€ 294.000), poi, è sensibilmente inferiore sia ai danni lamentati da 21ABB (€ 580.000, v. doc. 12 convenuta), sia alla somma indicata dallo stesso perito incaricato di stimare i danni dalla Mechel  (€ 414.000, v. doc. 3 convenuta).  Comunque,  la  decisione  di  transigere  è stata presa dalla Lobova all’esito della consultazione con un avvocato,  come  emerge  da  una  comunicazione  tra  lei  e  Denis  Shamne  (amministratore  della  società controllante  dell’attrice)  a  cui  riferisce  che  «L’avvocato italiano consiglia di transigere»  (doc.  12 attrice).  Come precedentemente ricordato, non può essere ritenuta negligente la condotta dell’amministratore o del  liquidatore  che,  nell’adozione  delle  scelte  di  gestione,  acquisisca  prudentemente  il  giudizio  di esperti del settore prima di decidere.  La liquidatrice convenuta, nel caso in esame, commissionando la perizia sul danno e consultandosi con un  avvocato  esperto  dell’ordinamento  giuridico  italiano,  ha  adottato  tutte  le  cautele  necessarie  a prendere  una  decisione  informata  e  consapevole  così  che  la  convenienza  economica  della  scelta adottata non è sindacabile in sede giudiziale>>.

Spunti molto interessanti per i consulenti in caso di ipotesi transattive.

L’onere della prova nel rapporto di lavoro (licenziamento vs. assenza delle misure di sicurezza)

Si pronuncia sull’importante (anche a fini pratici) tema una sentenza dello scorso anno: Cass., sez. L, n° 8911 del 29.03.2019, rel. Marotta, Trenitalia c. Lorenzoni.

Quest’ultimo, macchinista in Trenitalia,  impugnava i licenziamenti disciplinari  intimatigli dalla società a fronte del suo rifiuto di condurre il treno senza la presenza in cabina di un secondo agente abilitato alla condotta-

Mi  concentro qui solo sulla parte motiva, relativa all’onere della prova.

A monte la SC si sofferma sulla natura contrattuale della resposanbilità derivante dala violazione dell’art. 2087 cc, che così recita:

<< Art. 2087.  (Tutela delle condizioni di lavoro) – L’imprenditore e’ tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarita’ del lavoro, l’esperienza  e  la tecnica,  sono  necessarie  a  tutelare  l’integrita’  fisica  e   la personalita’ morale dei prestatori di lavoro>>

Il tipo di dovere posto dall’art. 2087 è esaminato dal § 10, che riporto quasi per intero.

La natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’art. 2087 c.c. è ormai da tempo consolidata, dice la SC. Infatti l’incorporazione dell’obbligo di sicurezza all’interno della struttura del rapporto obbligatorio <<non rappresenta una mera enclave della responsabilità aquiliana nel territorio della responsabilità contrattuale, relegata sul piano del non facere. E’ fonte, invece, di obblighi positivi (e non solo di mera astensione) del datore il quale è tenuto a predisporre un ambiente ed una organizzazione di lavoro idonei alla protezione del bene fondamentale della salute, funzionale alla stessa esigibilità della prestazione lavorativa con la conseguenza che è possibile per il prestatore di eccepirne l’inadempimento e rifiutare la prestazione pericolosa (art. 1460 c.c.)>>

Prosegue così: <<alla luce della sua formulazione aperta – declinata attraverso i parametri della particolarità del lavoro, intesa come complesso di rischi e pericoli che caratterizzano la specifica attività lavorativa, della esperienza, intesa come conoscenza di rischi e pericoli acquisita nello svolgimento della specifica attività lavorativa e della tecnica, intesa come progresso scientifico e tecnologico attinente a misure di tutela su cui il datore di lavoro deve essere aggiornato – la giurisprudenza consolidata è concorde nell’assegnare all’art. 2087 c.c. il ruolo di norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante cioè anche in assenza di specifiche regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico>>, pagg. 10-11).

E’ vero, prosegue la Sc, che va attribuita alla disposizione di cui all’art. 2087 c.c. anche una funzione dinamica, <<in quanto norma diretta a spingere l’imprenditore ad attuare, nell’organizzazione del lavoro, un’efficace attività di prevenzione attraverso la continua e permanente ricerca delle misure suggerite dall’esperienza e dalla tecnica più aggiornata al fine di garantire, nel migliore dei modi possibili, la sicurezza dei luoghi di lavoro>>. Tuttavia la responsabilità datoriale <<non è suscettibile di essere ampliata fino al punto da comprendere, sotto il profilo meramente oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell’integrità psico-fisica dei dipendenti (e di correlativo pericolo). L’art. 2087 c.c. non configura infatti un’ipotesi di responsabilità oggettiva essendone elemento costitutivo la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore>>.

Si noti l’importante passaggio, precisato in quello seguente.

Nemmeno può desumersi dall’indicata disposizione un <<obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a rischio zero quando di per sè il pericolo di una lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile; egualmente non può pretendersi l’adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente impensabili (…). Questo perchè, ove applicabile, avrebbe come conseguenza l’ascrivibilità al datore di lavoro di qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile. Come più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (v….) non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto>>, pagg. 11-12-

Alla luce della cennata responsablità contrattuale discendente dalla violazione dell’art. 2087 cc (per vero indubbia: non risulta che qualcuno l’abbia mai contestato), la SC va ad applicarla alla distrbuzione dell’onere della prova al § 12.

Sul piano della ripartizione dell’onere probatorio, pertanto, <<al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonchè il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre – in parziale deroga al principio generale stabilito dall’art. 2697 c.c. – non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell’inadempimento.

Diversamente, invece, si atteggia il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza – asseritamente omesse – siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici (quali le misure previste dal D.Lgs. n. 81 del 2008 e successive integrazioni e modificazioni come dal precedente D.Lgs. n. 626 del 1994 e prima ancora dal precedente n. 547/1955), oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 c.c., che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza. Nel primo caso – riferibile alle misure di sicurezza cosiddette nominate – il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere; nonchè, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito.

La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno. Nel secondo caso – in cui si discorre di misure di sicurezza cosiddette innominate la prova liberatoria a carico del datore di lavoro (fermo restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore) risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorchè non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standards di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe>> pag. 13-14.

Il tema è di sicuro interesse, essendo al crocevia tra diritto contrattuale e processuale.

La soluzione della SC (spesso seguita in passato) lascia però perplessi

Anche sorvolando sul concetto di colpa, che la miglior dottrina ha da tempo (almeno da Osti e poi Mengoni) espunto dalla dinamica della responsabilità contrattuale (si tratta però di concetti da maneggiare con catuela, essendo facili confusioni concettuali), non si capisce perchè il dipendente sia esonerato dalla relativa prova.

L’art. 2087 infatti non contiene elementi giustificativi di una simile deroga al regime comune della responsabilità contrattuale (ex art. 1218 c.c.).

Inoltre è di dubbia fondatezza (per non dire che pare proprio errata) la distinzione tra il caso di misure specificamente previste dalla legge e il caso di misure adottande ma innominate. L’onere della prova è il medesimo nei due casi: cambieranno invece semmai solo i fatti da allegare e provare (il tema di prova).

La Cassazione torna sull’onere della prova nella responsabilità medica

Secondo Cass. 13.07.2018 n .18549, est.: Porreca , <<nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente danneggiato dimostrare con qualsiasi mezzo di prova l’esistenza del nesso di causalità  -secondo il criterio del <<più probabile che non>>- tra la condotta del medico e il pregiudizio di cui si chiede il ristoro : con la conseguenza che -ove al termine dell’istruttoria il suddetto nesso non risulti provato- la domanda va rigettata<< (massima de Il Foro It., 2018/11, I, 3570)

Si leggono alcune considerazioni interessanti nel § 2

  1. Nei giudizi di risarcimento contrattuale e anche extracontrattuale, la condotta colposa del responsabile e il nesso di causa costituiscono l’oggetto di due accertamenti distinti, sì che la sussistenza della prima non comporta di per sè la dimostrazione del secondo e viceversa.
  2. L’articolo 1218  solleva il creditore dell’obbligazione, che si afferma non adempiuta, dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra condotta debitoria e danno chiesto in risarcimento.
  3. Infatti :
    1. la previsione dell’articolo 1218 si giustifica nell’opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente l’onere della prova positiva dell’avvenuto adempimento , sulla base del criterio della maggiore vicinanza   alla prova, secondo cui va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla;
    2. questa maggior vicinanza del debitore non sussiste in relazione al nesso causale, per il quale dunque non ha ragion d’essere l’inversione dell’onere della prova di cui all’articolo 1218;
    3. ciò vale sia con riferimento al nesso causale materiale sia in relazione al nesso causale giuridico,
    4. trattandosi di elementi egualmente distanti da entrambe le parti (anzi -circa il secondo- maggiormente vicini al danneggiato),  non c’è spazio per ipotizzare a carico dell’asserito danneggiante una prova liberatoria rispetto al nesso di causa, a differenza di quanto accade per la prova dell’avvenuto adempimento;
    5. nè può valere in senso contrario il riferimento dell’art. 1218 alla causa non imputabile ( “(…) se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”). Infatti, come già affermato da Cass. 26.07.2017 n. 18.392, la causa in questione attiene alla non imputabilità della impossibilità di adempiere, che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione, costituente <<tema di prova della parte debitrice>>, e concerne un ciclo causale che è del tutto distinto da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato o inesatto [segue la teoria del doppio ciclo causale introdotto dalla cit. Cass. , est. Scoditti, i cui passaggi essenziali sul punto riporto nel mio post 4 dicembre u.s.]
    6. ciò non contrasta con Cass. sez. un. 11.01.2008 n. 577 [la quale secondo molta dottrina è stata la prima ad introdurre la presunzione del nesso di causalità, onerando il debitore -cioè il medico- di provarne l’eventuale assenza] : in tale decisione infatti il principio era stato affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento qualificato, allegato dall’attore, era tale da comportare di per sè, in assenza di fattori alternativi più probabili nel caso singolo di specie, la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta. La prova della prestazione sanitaria conteneva già, in questa chiave di analisi, quella del nesso causale, sicché non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale di cui all’articolo 2697 secondo comma, e non la prova liberatoria richiesta dall’articolo 1218.

responsabilità contrattuale, responsabilità sanitaria e teoria del duplice ciclo causale

Secondo Cass. 26.07.2017 n° 18.392, est. Scoditti: 1) Ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, è onere del danneggiato provare il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e l’azione o l’omissione dei sanitari; mentre è onere della parte debitrice provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione. 2) L’’onere per la struttura sanitaria di provare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile sorge solo ove il danneggiato abbia provato il nesso di causalità fra la patologia e la condotta dei sanitari». 3) La non imputabilità della causa di impossibilità della prestazione va quindi valutata alla stregua della diligenza ordinaria ai sensi dell’art. 1176, 1° comma, c.c., mentre la diligenza professionale di cui al 2° comma, quale misura del contenuto dell’obbligazione, rappresenta il parametro tecnico per valutare se c’è stato l’adempimento (diligenza determinativa del contenuto della prestazione). C’è inadempimento se non è stata rispettata la diligenza di cui all’art. 1176, 2° comma, c’è imputabilità della causa di impossibilità della prestazione se non è stata rispettata la diligenza di cui al 1° comma. Nel primo caso la diligenza mira a procurare un risultato utile, nel secondo caso mira a prevenire il danno (la distinzione è tuttavia relativa perché l’una può determinare il contenuto dell’altra) [v. sub 2.1.2].

Applica quindi la tesi di Mengoni sulla responsabilità contrattuale.

Interessante è l’iter percorso dall’estensore al § 2.1.3  per concludere come sopra: <<Emerge cosi’ un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilita’ di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilita’ di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di causalita’ fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto). Conseguenzialmente la causa incognita resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilita’ di adempiere. Se, al termine dell’istruttoria, resti incerti la causa del danno o dell’impossibilita’ di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto. Il ciclo causale relativo alla possibilita’ di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e’ causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, e’ stato determinato da causa non imputabile. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che la patologia sia riconducibile, ad esempio, all’intervento chirurgico, la struttura sanitaria deve dimostrare che l’intervento ha determinato la patologia per una causa, imprevedibile ed inevitabile, la quale ha reso impossibile l’esecuzione esperta dell’intervento chirurgico medesimo.>>