Concorso di colpa del paziente se rifiuta un iutnerevento terapueutico assai probabilmente utuile

Fugace cenno ad un tema importante in Cass. sez. III, ord. del 11/12/2023 n. 34.395, rel. Porreca:

<<la censura è sotto questo profilo ancora una volta aspecifica a mente dell’art. 366 c.p.c., n. 6, il paziente (art. 32 Cost., comma 2) ha il diritto di rifiutare il trattamento medico (al di là del fatto che se ne ipotizzi o meno l’esecuzione ad opera dello stesso medico già intervenuto) ma se il rifiuto è ingiustificato, perché correlato ad attività gravosa o tale da determinare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (cfr. Cass., 05/10/2018, n. 24522) [passaggio non cbhiarissimo…., nds], se ne potranno e dovranno trarre le conseguenze a mente del discusso concorso colposo del creditore dell’obbligazione risarcitoria (art. 1227 c.c., comma 2), sicché deve emergere che l’affermato completamento clinico rifiutato avrebbe, più probabilmente che non, portato alla guarigione o ad apprezzabili miglioramenti, senza rischi significativi ovvero estranei a quelli del percorso terapeutico inizialmente, in tesi, compiutamente consentito>>;

La fattispecie della responsabilità medica ante legge Gelli-Bianco

Cass.  Sez. III, Ord.  22/09/2023, n. 27.151, rel. Rossello:

<<5.2 Questa Corte, con orientamento consolidatosi sin dagli ultimi anni dello scorso millennio, e del tutto conforme (sino all’entrata in vigore della L. 24/2017, che ha espressamente qualificato in termini aquiliani la responsabilità del sanitario) ha chiarito che, nell’ipotesi in cui il paziente alleghi di aver subito danni in conseguenza di una attività svolta dal medico (eventualmente, ma non necessariamente, sulla base di un vincolo di dipendenza con la struttura sanitaria) in esecuzione della prestazione che forma oggetto del rapporto obbligatorio tra quest’ultima e il paziente, tanto la responsabilità della struttura quanto quella del medico vanno qualificate in termini di responsabilità contrattuale: la prima, in quanto conseguente all’inadempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto atipico di spedalità o di assistenza sanitaria, che il debitore (la struttura) deve adempiere personalmente (rispondendone ex art. 1218 c.c.) o mediante il personale sanitario (rispondendone ex art. 1228 c.c.); la seconda, in quanto conseguente alla violazione di un obbligo di comportamento fondato sulla buona fede e funzionale a tutelare l’affidamento sorto in capo al paziente in seguito al contatto sociale avuto con il medico, che diviene quindi direttamente responsabile, ex art. 1218 c.c., della violazione di siffatto obbligo (a partire da Cass., 22/1/1999, n. 589, cfr., tra le tante, Cass., 19/4/2006, n. 9085; Cass., 14/6/2007, n. 13953; Cass. 31/3/2015, n. 6438; Cass. 22/9/2015, n. 18610).

5.3 Ciò premesso, il criterio di riparto dell’onere della prova in siffatte fattispecie non è pertanto quello che governa la responsabilità aquiliana (nell’ambito della quale il danneggiato è onerato della dimostrazione di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito ascritto al danneggiante), ma quello che governa la responsabilità contrattuale, in base al quale il creditore che abbia provato la fonte del suo credito ed abbia allegato che esso sia rimasto totalmente o parzialmente insoddisfatto, non è altresì onerato di dimostrare l’inadempimento o l’inesatto adempimento del debitore, spettando a quest’ultimo la prova dell’esatto adempimento (Cass., Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533; conformi, ex multis, Cass. 11/2/2021, n. 3587; Cass., 4/1/2019, n. 98; Cass., 20/1/2015, n. 826) [però il creditore deve allegare l’inadempimento in modo circostanziato e preciso, altrimenti non potendosi ravvisare “allegaizone”]

5.4 Nelle fattispecie di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni professionali – si è ulteriormente precisato- è configurabile un evento di danno, consistente nella lesione dell’interesse finale perseguito dal creditore (la vittoria della causa nel contratto concluso con l’avvocato; la guarigione dalla malattia nel contratto concluso con il medico), distinto dalla lesione dell’interesse strumentale di cui all’art. 1174 c.c. (interesse all’esecuzione della prestazione professionale secondo le leges artis) [questo secondo è l’unico dedotto in obbligaizone e quindi rilevante] , e viene dunque in chiara evidenza la questione del nesso di causalità materiale, che rientra nel tema di prova di spettanza del creditore, mentre il debitore, ove il primo abbia assolto il proprio onere, resta gravato da quello “di dimostrare la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione” (Cass. 18392/2017; Cass., 11/11/2019, n. 28991; Cass., 31/8/2020, n. 18102).

5.5 Va, pertanto, data continuità al principio di diritto in base al quale “ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, è onere del danneggiato provare il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre è onere della parte debitrice provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione; l’onere per la struttura sanitaria di provare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile sorge solo ove il danneggiato abbia provato il nesso di causalità fra la patologia e la condotta dei sanitari” (così Cass., Sez. III, sent. 26/7/2017, n. 18392).

5.6 La Corte territoriale ha correttamente motivato nel senso che, dall’istruttoria svolta, è emerso incontrovertibilmente, come prescritto dal presidio ospedaliero (Omissis) all’atto delle dimissioni, che era compito della A.A. procurarsi il “girello” deambulatore e il rialzo per il water, che la A.A. avrebbe dovuto applicare il supporto detto “rialzo” sul water e che dette prescrizioni non erano state rispettate dalla stessa. Inoltre, l’uso improprio di una sedia per deambulare in luogo dell’apposito girello è stato posto in autonomia dalla stessa A.A.. Sulla base di tali emergenze probatorie la Corte territoriale ha ravvisato un concorso di colpa della danneggiata A.A., che ha ritenuto congruo stimare nella misura del 50% (così da p. 15, 3p., a p. 16, 2 p. della sentenza)>>.

Capacità lavorativa generica e specifica, danno biologico e danno patrimoniuakle in un caso di malpractice sanitaria con invalidità al 100 per cento

Cass.  n. 16.844 del 13.06.2023, sez. 3, rel. Cirillo:

<<La sentenza, infatti, muove da una premessa corretta – e cioè che la danneggiata “ha subito la perdita totale della capacità lavorativa generica” – per poi pervenire ad una conclusione non coerente con la premessa. Si legge nel successivo passaggio, infatti, che “non vi è prova della perdita di una concreta capacità reddituale della minore ovvero di una capacità lavorativa specifica risarcibile, nella specie non configurabile nemmeno in via potenziale e futura, dovendosi escludere che la danneggiata potrà mai intraprendere un’attività lavorativa”. Di talché, in conclusione, la Corte di merito ha ritenuto sufficiente, ai fini risarcitori, il risarcimento della capacità lavorativa generica “compresa nel danno biologico”.

Tale valutazione, però, non considera che la giurisprudenza di questa Corte alla quale la sentenza impugnata chiaramente si riferisce, pur senza richiamarla formalmente, è stata dettata per percentuali del danno biologico assai più contenute, le quali lasciano evidentemente intatta, in misura maggiore o minore, una residua capacità lavorativa. E’ stato infatti affermato da questa Corte che il danno patrimoniale futuro conseguente alla lesione della salute è risarcibile solo ove appaia probabile, alla stregua di una valutazione prognostica, che la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’infortunio, mentre il danno da lesione della “cenestesi lavorativa”, che consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa, non incidente neanche sotto il profilo delle opportunità sul reddito della persona offesa, si risolve in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo e va liquidato in modo unitario come danno alla salute, potendo il giudice, che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, anche ricorrere ad un appesantimento del valore monetario di ciascun punto (così le ordinanze 9 ottobre 2015, n. 20312, 22 maggio 2018, n. 11750, nonché la sentenza 4 luglio 2019, n. 17931).

Questa giurisprudenza, però, si riferisce – come risulta dalla lettura integrale dei provvedimenti citati e dalle fattispecie ivi regolate – a postumi di invalidità permanente bassi, o comunque contenuti entro una soglia (orientativa) del 25 per cento (v. la sentenza 12 giugno 2015, n. 12211, richiamata e chiarita dalla citata sentenza n. 17931 del 2019).

E’ evidente, invece, che in presenza di un soggetto che è divenuto invalido al 100 per cento fin dalla nascita a causa di una malpractice sanitaria, com’e’ avvenuto nel caso di specie, ogni discussione circa la distinzione tra capacità lavorativa generica e specifica e sulla possibile ricomprensione del danno patrimoniale in quello biologico è del tutto fuor di luogo. P.G., che oggi ha quasi trent’anni, non solo non è in grado di svolgere, all’attualità, alcuna attività lavorativa, ma neppure potrà mai svolgerla in futuro, data la gravità e l’irreversibilità della sua condizione (come del resto ammette la stessa Corte napoletana nel passaggio che sopra si è riportato).    In una situazione del genere non ha senso compiere alcuna previsione di quella che potrà essere, in futuro, l’attività lavorativa svolta dalla danneggiata; ma è palese che la persona danneggiata certamente ha patito, in conseguenza del fatto dannoso, la definitiva e totale perdita della sua capacità di lavoro, pur non potendosi fare riferimento alla capacità di lavoro specifica, posto che la parte non ha mai lavorato. E tale perdita dovrà essere risarcita a titolo (anche) di danno patrimoniale e non certo (soltanto) di danno biologico, proprio per il fatto che la vittima non potrà mai svolgere alcuna attività lavorativa in conseguenza del fatto dannoso.

2.3. La sentenza impugnata, quindi, deve sul punto essere cassata, in considerazione dell’errore commesso dalla Corte d’appello là dove ha automaticamente ricondotto il danno da lesione della capacità lavorativa generica (totale, nel caso in esame) al danno biologico, rigettando la domanda di risarcimento del danno patrimoniale.

A questo compito dovrà provvedere il giudice di rinvio, che potrà giovarsi della consolidata giurisprudenza di questa Corte in base alla quale “un danno patrimoniale risarcibile può essere legittimamente riconosciuto anche a favore di persona che, subita una lesione, si trovi al momento del sinistro senza un’occupazione lavorativa e, perciò, senza reddito, in quanto tale condizione può escludere il danno da invalidità temporanea, ma non anche il danno futuro collegato all’invalidità permanente che, proiettandosi appunto per il futuro, verrà ad incidere sulla capacità di guadagno della vittima” (così la sentenza 9 novembre 2021, n. 32649). Tale risarcimento spetta al soggetto già percettore di reddito da lavoro, ma anche a chi non lo sia mai stato e, in difetto di prova rigorosa del reddito effettivamente perduto o non ancora goduto dalla vittima, potrà essere liquidato con il criterio (residuale) del triplo della pensione sociale, oggi assegno sociale, in assenza di un ragionevole parametro di riferimento (v. la sentenza in ultimo citata, nonché le ordinanze 4 maggio 2016, n. 8896, e 12 ottobre 2018, n. 25370, le quali ribadiscono il carattere residuale del criterio della liquidazione con il triplo della pensione sociale)>>.

Danno alla persona (casalinga) da malpractice sanitaria

Cass. 15.06.2023 n. 17.129 , sez. 3, rel. Scoditti:

<<Ai fini della liquidazione del danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico, la prova che la vittima attendesse a tale attività può essere ricavata in via presuntiva ex art. 2727 cod. civ. dalla semplice circostanza che non avesse un lavoro, mentre spetta a chi nega l’esistenza del danno dimostrare che la
vittima, benché casalinga, non si occupasse del lavoro domestico
(Cass. n. 22909 del 2012), ed avuto riguardo all'”id quod plerumque
accidit” in relazione alla necessità per ogni persona di occuparsi,
quantomeno per le proprie personali esigenze, di una aliquota di lavoro
domestico (Cass. n. 24471 del 2014).

Pur nell’ambito della presunzione semplice, resta fermo che chi invoca il danno da riduzione della capacità di lavoro, sofferto da persona che – come la casalinga – provveda da sé al lavoro domestico, ha l’onere di dimostrare che gli
esiti permanenti residuati alla lesione della salute impediscono o
rendono più oneroso (ovvero impediranno o renderanno più oneroso in
futuro) lo svolgimento del lavoro domestico (Cass. n. 16392 del 2010),
senza che sia necessaria la prova di avere dovuto ricorrere all’ausilio
di un collaboratore domestico (Cass. n. 16896 del 2010).
Nel caso di specie la prova presuntiva del danno patrimoniale
derivante dalla riduzione della capacità di lavoro domestico è stata
desunta dal giudice di merito, sulla base di un giudizio di fatto non
sindacabile in sede di legittimità, dal tipo di patologia che aveva attinto
la mano destra e dalla concreta incidenza pertanto dell’organo leso al
livello dello svolgimento del lavoro domestico>>

La SC poi prcisa che l’applicazione delle tabelle milanesi (più favorevoli di quelle romane) è questione di diritto e non di fatto, per cui avviene ex officio (iura novit curia).

Il danno da perdita del rapporto parentale comprende pure il danno da perdita del frutto del concepimento

I capitol di prova sulla sofferenza post decesso (“panico, gli incubi e il mutamento delle abitudini di vita, conseguenti alla morte del feto in utero”) del feto concernono fatti rientranti nell’originaria domanda di danni non patrimoniali da perdita del frutto del cocnepimento: non sono mutamento di domanda.

Addebito medico: <<In particolare, essi attribuivano la causa dell’esito infausto della gravidanza all’omessa diagnosi di ipossia fetale e all’omesso trattamento terapeutico, nonchè ai ritardi imputabili agli operatori sanitari, i quali non avevano eseguito prontamente il taglio cesareo che, con elevata probabilità, avrebbe evitato la sofferenza del feto e la sua morte. Precisano ancora che B.T., giunta alla trentunesima settimana di gestazione, in seguito all’improvvisa comparsa di contrazioni e perdita di liquido amniotico, si era recata presso l’ospedale di (OMISSIS), i cui sanitari, dopo aver monitorato il battito cardiaco fetale, ne disposero il trasferimento presso il nosocomio di (OMISSIS), dove, riscontrato un grave peggioramento delle condizioni cliniche della nascitura, veniva data alla luce una bambina già morta>>.

Così Cass. 29.09.2021 n. 26.301, pres. est. Travaglino (segnalo spt. la parte finale sulla c.d. elaborazione del lutto):

<<La censura, oltre che ammissibile, risulta poi pienamente fondata, dal momento che quello che la sentenza impugnata definisce, circoscrivendolo nella sua reale dimensione funzionale – per vero, riduttivamente ed impropriamente – come danno “da perdita del frutto del concepimento”, altro non è se non un vero e proprio danno da perdita del rapporto parentale, avendo la Corte territoriale omesso del tutto di considerare come anche “la tutela del concepito abbia fondamento costituzionale”, rilevando in tale prospettiva non solo la previsione della tutela della maternità, sancita dall’art. 31 Cost., comma 2, ma, più in generale, quanto stabilito dall’art. 2 Cost., norma “che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito” (così esprimendosi, in motivazione, la fin troppo nota sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 1975).   (…)

Andranno, pertanto, applicati, sul punto, i principi ripetutamente affermati da questa Corte, che non solo ha ritenuto legittimati i componenti del consorzio familiare a far valere una pretesa risarcìtoria che trova fondamento negli artt. 2043 e 2059 c.c. in relazione agli artt. 2,29 e 30 Cost., nonché – ai sensi della norma costituzionale interposta costituita dall’art. 8 CEDU, che dà rilievo al diritto alla protezione della vita privata e familiare – all’art. 117 Cost., comma 1, (in tal senso, funditus, Cass. 27 marzo 2019, n. 8442), ma ha anche chiarito che pure tale tipo di pregiudizio rileva nella sua duplice, e non sovrapponibile dimensione morfologica “della sofferenza interiore eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore, e quella, ulteriore e diversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l’ha subita” (Cass. sent. 11 novembre 2019, n. 28989, approdo definitivo di un lungo e tormentato percorso interpretativo che ha finalmente colto la reale fenomenologia del danno alla persona, come confermato dallo stesso, esplicito dettato legislativo di cui al novellato art. 138 C.d.a., oltre che dalla cristallina sentenza del Giudice delle leggi n. 235/2014 che, nel pronunciarsi sulla conformità a Costituzione del successivo art. 139, e discorrendo di risarcibilità anche del danno morale al punto 10.1. della sentenza, ha definitivamente chiarito la differenza strutturale tra qualificazione della fattispecie e quantificazione del danno).

Aspetti, dunque, come il panico, gli incubi e il mutamento delle abitudini di vita, conseguenti alla morte del feto in utero, non possono considerarsi affatto come un tipo di danno “assolutamente avulso rispetto alla domanda di risarcimento formulata ex art. 2059 c.c.”, risultando tale affermazione errata in diritto, come errata appare quella secondo cui “altro sarebbe il danno non patrimoniale causato dalla perdita del frutto del concepimento, e ben altro sarebbe invece il danno consistente negli strascichi che quel lutto abbia lasciato nell’animo dei protagonisti”.

Nel riconsiderare tali aspetti del danno lamentato dai ricorrenti, il collegio di rinvio terrà altresì conto di quanto di recente affermato da questa stessa Corte (Cass. 8887/2020) in tema di danno da perdita del rapporto parentale, valorizzando appieno l’aspetto della sofferenza interiore patita dai genitori (Cass. 901/2018, 7513/2018, 2788/2019, 25988/2019), poiché la sofferenza morale, allegata e poi provata anche solo a mezzo di presunzioni semplici, costituisce assai frequentemente l’aspetto più significativo del danno de quo.

Esiste, difatti, una radicale differenza tra il danno per la perdita del rapporto parentale e quello per la sua compromissione dovuta a macrolesione del congiunto rimasto in vita – caso nel quale è la vita di relazione a subire profonde modificazioni in pejus. Una differenziazione che rileva da un punto di vista qualitativo/quantitativo del risarcimento se è vero che, come insegna la più recente ed avveduta scienza psicologica, e contrariamente alle originarie teorie sull’elaborazione del lutto, quella della cosiddetta elaborazione del lutto è un’idea fallace, poiché che camminiamo nel mondo sempre circondati dalle assenze che hanno segnato la nostra vita e che continuano ad essere presenti tra noi. Il dolore del lutto non ci libera da queste assenze, ma ci permette di continuare a vivere e di resistere alla tentazione di scomparire insieme a ciò che abbiamo perduto“.

Il vero danno, nella perdita del rapporto parentale, è la sofferenza, non la relazione. E’ il dolore, non la vita, che cambia, se la vita è destinata, sì, a cambiare, ma, in qualche modo, sopravvivendo a se stessi nel mondo>>.

Responsabilità sanitaria da emotrasfusiioni e onere della prova a carico del danneggiato

Cass. 22.04.2021 n. 10.592 si è occupata dell’onere della prova in tema di danno derivato da emotrasfusioni di sanguie ingfetto (virus HCV).

All’attrice va bene in prim ogrado ma male in secondo.

Ricorre dunque perchè <erroneamente la Corte d’appello ha addossato ad essa attrice l’onere di allegare e provare che l’ospedale di Caltagirone eseguì la trasfusione con sacche di plasma prelevate da un proprio centro trasfusionale>.

La SC accoglie così:

<<Il motivo è fondato. In primo grado l’attrice a fondamento della colpa dell’azienda ospedaliera aveva allegato – in sintesi – che l’obbligo di assistenza sanitaria gravante sull’ospedale comportava la garanzia del risultato di non infettare il paziente, ed aveva invocato il principio res ipsa loquitur, in virtù del quale il fatto stesso dall’infezione dimostrava di per sé che l’ospedale aveva tenuto una condotta colposa.

L’attrice dunque, nell’atto introduttivo del giudizio, aveva: -) allegato di avere subito un danno alla salute in conseguenza di un trattamento sanitario; -) invocato la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria.

L’attrice, pertanto, aveva compiutamente assolto in primo grado l’onere di allegazione dei fatti costitutivi della domanda: tale onere, infatti, quando venga invocata la responsabilità contrattuale si esaurisce nella allegazione dell’esistenza del contratto e di una condotta inadempiente.

L’attrice, di conseguenza, non aveva alcun onere di allegare e spiegare come, quando e in che modo l’ospedale di Caltagirone si fosse approvvigionato delle sacche di plasma risultate infette. Ad essa incombeva il solo onere di allegare una condotta inadempiente del suddetto ospedale.

Era, per contro, onere della struttura sanitaria allegare e dimostrare, ai sensi dell’articolo 1218 c.c., di avere tenuto una condotta irreprensibile sul piano della diligenza. Ne discende che la Corte d’appello, dinanzi alla domanda attorea sopra descritta, avrebbe dovuto in concreto accertare se l’assessorato, successore dell’azienda ospedaliera, avesse o non avesse provato la “causa non imputabile”  di cui all’articolo 1218 c.c., a nulla rilevando che l’attrice non avesse “allegato che l’ospedale abbia provveduto alle trasfusioni approvvigionandosi di sangue tramite un proprio centro trasfusionale”.

Per quanto detto, infatti, la circostanza che l’ospedale provvedesse o non provvedesse da sé all’approvvigionamento di plasma non era un fatto costitutivo della domanda, ma era un fatto impeditivo della stessa, che in quanto tale andava allegato e provato dall’amministrazione convenuta. Trascurando di stabilire se l’assessorato avesse fornito tale prova, pertanto, la Corte d’appello ha effettivamente violato gli articoli 1218 e 2697 c.c..>>

Più o meno giusto, ci pare, difficile dire stante la scarsa comprensibilità dei fatti storici.

Solo due considerazioni:

1) la SC si occupa dell’onere di allegazione, non dell’onere della prova (questa è la lettera della motivazione; e poi , altrimenti pensando, avrebbe dovuto occuparsi della distribuzione del relativo tema , alla luce di Cass. sez.un. n. 13.533 del 30 ottobre 2001 ) ;

2) è vero che basta allegare l’inadempimento del debitore, ma appunto ciò significa anche individuarlo con precisione. Non basta dire <sei stato inadempiente>: bisogna dire in che mdo. Il punto allora  è capire se ciò fu fatto. Se si tiene conto di quanto esposto sub 2.1 (In primo grado l’attrice a fondamento della colpa dell’azienda ospedaliera aveva allegato – in sintesi – che l’obbligo di assistenza sanitaria gravante sull’ospedale comportava la garanzia del risultato di non infettare il paziente, ed aveva invocato il principio res ipsa loquitur, in virtù del quale il fatto stesso dall’infezione dimostrava di per sé che l’ospedale aveva tenuto una condotta colposa), la cosa  è dubbia. Si può però dire che dal passo esposto l’attrice aveva dedotto la violazione di una garanzia, più che di un obbligo; oppure che -ma si tratta di onere della prova, non dell’allegazione- che fossa stata data pure la prova in base al riparto dell’onere prova distribuito come insegnato dalla cit. Cass. s.u. 13.533/2001 (criterio della vicinanza alla prova).

Responsabilità medica e consenso informato

Cass. 18.283 del 25.06.2021, rel. Scarano, interviene su na una fattispecie di responsabilità medica ove era anche stata dedotta una violazione del dovere di ottenere il consenso infomato(CI).

Non ci sono novità particolari ma solo un (utile) promemoria della disciplina del CI.

  • sono due distinti diritti quello al CI e all’intervento esattamente eseguito
  • il tipo di informazione da dare: <<l’informazione deve in particolare attenere al possibile verificarsi, in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso (cfr. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 30/7/2004, n. 14638), dei rischi di un esito negativo dell’intervento (v. Cass., 12/7/1999, n. 7345) e di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente (v. Cass., 14/3/2006, n. 5444), ma anche di un possibile esito di mera “inalterazione” delle medesime (e cioè del mancato miglioramento costituente oggetto della prestazione cui il medico-specialista è tenuto, e che il paziente può legittimamente attendersi quale normale esito della diligente esecuzione della convenuta prestazione professionale), e pertanto della relativa sostanziale inutilità, con tutte le conseguenze di carattere fisico e psicologico (spese, sofferenze patite, conseguenze psicologiche dovute alla persistenza della patologia e alla prospettiva di subire una nuova operazione, ecc.) che ne derivano per il paziente (cfr. Cass., 13/4/2007, n. 8826).La struttura e il medico hanno dunque il dovere di informare il paziente in ordine alla natura dell’intervento, a suoi rischi, alla portata dei possibili e probabili risultati conseguibili nonchè delle implicazioni verificabili, esprimendosi in termini adatti al livello culturale del paziente interlocutore, adottando un linguaggio a lui comprensibile, secondo il relativo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone (v. Cass., 19/0/2019, n. 23328; Cass., 4/2/2016, n. 2177; Cass., 13/2/2015, n. 2854>>.
  • il CI va ottenuto <<anche qualora la probabilità di verificazione dell’evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito o, al contrario, sia così alta da renderne certo il suo accadimento, poichè la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto e il professionista o la struttura sanitaria non possono omettere di fornirgli tutte le dovute informazioni (v. Cass., 19/9/2014, n. 19731).>>
  • non può mai essere presunto o tacito <ma sempre espressamente fornito>
  • la struttura e il medico vengono  meno all’obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato al paziente <<non solo quando omettono del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando acquisiscano con modalità improprie il consenso dal paziente (v. Cass., 21/4/2016, n. 8035).  Si è da questa Corte ritenuto ad esempio inidoneo un consenso ottenuto mediante la sottoposizione alla sottoscrizione del paziente di un modulo del tutto generico (v., da ultimo, Cass., 19/9/2019, n. 23328; Cass., 4/2/2016, n. 2177), non essendo a tale stregua possibile desumere con certezza che il medesimo abbia ricevuto le informazioni del caso in modo esaustivo (v. Cass., 8/10/2008, n. 24791) ovvero oralmente (v. Cass., 29/9/2015, n. 19212, ove si è negato che -in relazione ad un intervento chirurgico effettuato sulla gamba destra di un paziente, privo di conoscenza della lingua italiana e sotto narcosi – potesse considerarsi valida modalità di acquisizione del consenso informato all’esecuzione di un intervento anche sulla gamba sinistra, l’assenso prestato dall’interessato verbalmente nel corso del trattamento)>>
  • il consenso oralmente prestato non è detto che sia sempre necessariamanente invalido: <<In presenza di riscontrata (sulla base di documentazione, testimonianze, circostanze di fatto) prassi consistita in (plurimi) precedenti incontri tra medico e paziente con (ripetuti) colloqui in ordine alla patologia, all’intervento da effettuarsi e alle possibili complicazioni si è invero ritenuto idoneamente assolto dal medico e/o dalla struttura l’obbligo di informazione e dal paziente corrispondentemente prestato un pieno e valido consenso informato al riguardo, pur se solo oralmente formulato (cfr. Cass., 31/3/2015, n. 6439. Cfr. altresì Cass., 30/4/2018, n. 10325).>>

diligenza e linee guida nella responsabilità medica: recentissime dalla Cassazione (con un cenno all’onere dela prova del nesso causale)

La valenza giuridica delle linee guida è ben sintetizzata dal § 3.2.1 della sentenza (soprattutto dalla parte in blu)

Secondo Cass. Cass. , sez. III, 30 novembre 2018 N. 30.998 (rel. Rossetti), infatti:

<< Il motivo è infondato, poichè nessuna delle tre circostanze sopra indicate è “decisiva”, nel senso richiesto dall’art. 360 c.p.c., n. 5.
3.2.1. Che i sanitari non si attennero alle “linee-guida” generalmente condivise per la somministrazione di eparina è un fatto non decisivo per due ragioni.
In primo luogo non è decisivo perchè le c.d. linee guida (ovvero le leges artis sufficientemente condivise almeno da una parte autorevole della comunità scientifica in un determinato tempo) non rappresentano un letto di Procuste insuperabile.
Esse sono solo un parametro di valutazione della condotta del medico: di norma una condotta conforme alle linee guida sarà diligente, mentre una condotta difforme dalle linee guida sarà negligente od imprudente. Ma ciò non impedisce che una condotta difforme dalle linee guida possa essere ritenuta diligente, se nel caso di specie esistevano particolarità tali che imponevano di non osservarle (ad esempio, nel caso in cui le linee guida prescrivano la somministrazione d’un farmaco verso il quale il paziente abbia una conclamata intolleranza, ed il medico perciò non lo somministri); e per la stessa ragione anche una condotta conforme alle linee-guida potrebbe essere ritenuta colposa, avuto riguardo alle particolarità del caso concreto (ad esempio, allorchè le linee guida suggeriscano l’esecuzione d’un intervento chirurgico d’elezione ed il medico vi si attenga, nonostante le condizioni pregresse del paziente non gli consentissero di sopportare una anestesia totale).
Sicchè, non costituendo le linee-guida un parametro rigido ed insuperabile di valutazione della condotta del sanitario, la circostanza che il giudice abbia ritenuto non colposa la condotta del sanitario che non si sia ad esse attenuto non è, di per sè e da sola, sufficiente per ritenere erronea la sentenza, e di conseguenza per ritenere “decisivo” l’omesso esame del contenuto di quelle linee-guida.
In secondo luogo, nel caso di specie la Corte d’appello ha spiegato che la riduzione della somministrazione di eparina fu giustificata dalla necessità di prevenire il rischio di emorragie, rischio che rispetto ai casi analoghi si presentava aumentato per tre ragioni: sia perchè il paziente era stato sottoposto ad un intervento chirurgico; sia perchè il paziente doveva iniziare un programma fisioterapico che, comportando la mobilitazione degli arti, aumentava il rischio di emorragia; sia perchè il paziente era stato sottoposto a splenectomia.
La Corte d’appello, in definitiva, ha individuato ben tre circostanze concrete che nel caso specifico giustificavano l’allontanamento dalle linee guida: il che denota, da un lato, che quelle linee-guida furono effettivamente (sebbene implicitamente) tenute in considerazione, altrimenti non avrebbe avuto senso alcuno la motivazione sopra riassunta; e dall’altro lato che, anche se il giudice avesse omesso di considerarle, il loro esame non avrebbe portato ad esiti diversi, per la già rilevata sussistenza di peculiarità del caso concreto che imponevano di derogarvi.>>

Secondo la legge c.d. Gelli Bianco 8 marzo 2017 n. 24,  art. 5  :

<<Gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalita’ preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificita’ del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida (…) . In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali.>>

Dunque la sentenza applica i concetti della legge (anche se non la menziona, forse perchè norma successiva ai fatti di causa).

La norma del 2017 peraltro ha un tasso di innovatività assai ridotto, prossimo allo zero (salvo forse la maggior forza probatoria delle linee guida, emanate secondo i commi 1 e 3 dell’art. 5 della legge stessa, rispetto ad eventuali altre non frutto di tale procedura): si poteva , anzi doveva, infatti ricavare le stesse regole già dal generale dovere di eseguire la prestazione con diligenza.

Per il cenno all’onere della prova v. l’articolo apposito, pure di oggi

sul consenso informato : istruzioni sostanziali e processuali dalla Corte di Cassazione

secondo Cass. ord. 31234 del 04.12.2018:

  1. costituisce principio consolidato quello secondo cui la mancanza di consenso assumere rilievo a fini risarcitori quando siano configurabili conseguenze pregiudizievoli derivate dalla violazione del diritto fondamentale  all’autodeterminazione in se considerato, a prescindere dalla lesione incolpevole della salute del paziente;
  2. tale diritto, distinto da quello alla salute, rappresenta, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008), una doverosa forma di rispetto per la libertà dell’individuo, nonché uno strumento relazionale volto al perseguimento e alla tutela del suo interesse ad una compiuta informazione, che si sostanzia nella indicazione: i) delle prevedibili conseguenze del trattamento sanitario; ii) del possibile verificarsi di un aggravamento delle condizioni di salute; iii) dell’eventuale impegnatività, in termini di sofferenze, del percorso riabilitiativo post-operatorio;
  3. ad una compiuta informazione consegue infatti:
    1. il diritto, per il paziente, di scegliere tra le diverse opzioni di trattamento medico;
    2. la facoltà di acquisire, se del caso, ulteriori pareri di altri sanitari;
    3. la facoltà di scelta di rivolgersi ad altro sanitario e ad altra struttura, che offrano maggiori e migliori garanzie (in termini percentuali) del risultato sperato, eventualmente anche in relazione alle conseguenze postoperatorie;
    4. il diritto di rifiutare l’intervento o la terapia – e/o di decidere consapevolmente di interromperla;
    5. la facoltà di predisporsi ad affrontare consapevolmente le conseguenze dell’intervento, ove queste risultino, sul piano post- operatorio e riabilitativo, particolarmente gravose e foriere di sofferenze prevedibili (per il medico) quanta inaspettate (per il paziente) a causa dell’omessa informazione”;
    6. il diritto – nel caso in cui alla prestazione terapeutica conseguano pregiudizi che il paziente avrebbe alternativamente preferito non sopportare nell’ambito di scelte personali allo stesso demandate il – di optare per il permanere della situazione patologica in atti e non per le conseguenze dell’intervento medico;
    7. il diritto, se debitamente informato, a vivere il periodo successivo all’intervento con migliore e più serena predisposizione ad accettarne le eventuali conseguenze (e le eventuali sofferenze) – predisposizione la cui mancanza andrebbe realisticamente e verosimilmente imputata proprio (e solo) all’assenza di informazione.
  4. sono quindi enucleabili le seguenti ipotesi di danno: 1) intervento errato che il paziente avrebbe comunque accettato anche nel caso di omessa/insufficiente informazione: un intervento, cioè, che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi nelle medesime condizioni,hic et nunc: in tal caso, il risarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente, morale e relazionale; 2) intervento errato che il paziente avrebbe rifiutato; omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al dannoda lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente; 3) intervento correttamente eseguito che il paziente avrebbe accettato; omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute -da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l’intervento non sarebbe stato eseguito- andrà valutata in relazione alla situazione differenziale tra quella conseguente all’intervento e quella (comunque patologica) antecedente ad esso; 4) intervento correttamente eseguito che il paziente avrebbe rifiutato se edotto; omessa informazione in relazione ad un intervento che non ha cagionato danno alla salute del paziente (e che sia stato correttamente eseguito): in tal caso, la lesione del diritto all’autodeterminazione costituirà oggetto di danno risarcibile tutte le volte che, ma solo se, il paziente abbia subito le inaspettate conseguenze dell’intervento senza la necessaria e consapevole predisposizione ad affrontarle e ad accettarle, trovandosi invece del tutto impreparato di fronte ad esse [era quella del caso de quo].
  5. va ribadito  che, in astratto, sussiste un danno risarcibile connesso alle conseguenze inaspettate dell’intervento chirurgico, tali proprio perché la condotta dei sanitari non è stata preceduta da una informazione adeguata nei termini evidenziati in premessa. Il paziente, infatti, vanta la legittima pretesa di conoscere con la necessaria e ragionevole precisione le conseguenze dell’intervento medico, onde prepararsi ad affrontarle con maggiore e migliore consapevolezza, atteso che la nostra Costituzione sancisce il rispetto della persona umana in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua essenza psicofisica, in considerazione del fascio di convinzioni morali, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive (Cass. n. 21748/2007; Cass. 23676/2008, in tema di trasfusioni salvavita eseguite al testimone di Geova contro la sua volontà);
  6. nella specie, però una siffatta domanda di danni non è stata in alcun modo formulata nell’atto di citazione, in quanto il paziente si è limitato a chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale da invalidità temporanea assoluta, relativa e permanente, il danno morale e quello alla capacità lavorativa specifica, oltre al danno esistenziale ed alla vita di relazione. Danni che l’attore riconduce alla dedotta (e poi esclusa in entrambi gradi di giudizio) responsabilità medica dei singoli medici, dell’equipe e della struttura  e alla violazione dell’obbligo di acquisire un valido consenso informato (invece, acclarata).
  7. il giudice di meritò avrebbe dovuto accertare se il corretto adempimento, da parte dei sanitari, dei doveri informativi avrebbe prodotto l’effetto della non esecuzione dell’intervento chirurgico dal quale, senza colpa di alcuno, lo stato patologico è poi derivato, ovvero avrebbe consentito al paziente la necessaria preparazione e la necessaria predisposizione ad affrontare il periodo post- operatorio nella piena e necessaria consapevolezza del suo dipanarsi nel tempo;
  8. se il paziente avesse, comunque e consapevolmente, acconsentito all’intervento, dichiarandosi disposto a subirlo, indipendentemente dalle conseguenze, anche all’esito di una incompleta informazione nei termini indicati, non ricorrerebbe il nesso di causalità materiale tra la condotta del medico e il danno lamentato, perchè egli avrebbe consapevolmente scelto di subire quell’incolpevole lesione determinatasi all’esito di un intervento eseguito secondo le leges artis da parte dei sanitari;
  9. ove il paziente -come nel caso di specie- sul presupposto che l’atto medico sia stato compiuto senza un consenso consapevolmente prestato, richieda il risarcimento del danno da lesione della salute, determinato dalle non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, necessario e correttamente eseguito secundum legem artis, deve allegare e dimostrare che egli avrebbe rifiutato quel determinato intervento se fosse stato adeguatamente informato (Cass. civ. Sez. III, 9-2-2010, n. 2847);
  10. l’attore avrebbe dovuto provare, anche con presunzioni, che, se adeguatamente informato, non avrebbe autorizzato l’intervento anche nell’ipotesi di operazione salva vita.
  11. [accoglie il ricorso e, decidendo nel merito, rigetta le domande degli attori originari]

responsabilità contrattuale, responsabilità sanitaria e teoria del duplice ciclo causale

Secondo Cass. 26.07.2017 n° 18.392, est. Scoditti: 1) Ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, è onere del danneggiato provare il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e l’azione o l’omissione dei sanitari; mentre è onere della parte debitrice provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione. 2) L’’onere per la struttura sanitaria di provare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile sorge solo ove il danneggiato abbia provato il nesso di causalità fra la patologia e la condotta dei sanitari». 3) La non imputabilità della causa di impossibilità della prestazione va quindi valutata alla stregua della diligenza ordinaria ai sensi dell’art. 1176, 1° comma, c.c., mentre la diligenza professionale di cui al 2° comma, quale misura del contenuto dell’obbligazione, rappresenta il parametro tecnico per valutare se c’è stato l’adempimento (diligenza determinativa del contenuto della prestazione). C’è inadempimento se non è stata rispettata la diligenza di cui all’art. 1176, 2° comma, c’è imputabilità della causa di impossibilità della prestazione se non è stata rispettata la diligenza di cui al 1° comma. Nel primo caso la diligenza mira a procurare un risultato utile, nel secondo caso mira a prevenire il danno (la distinzione è tuttavia relativa perché l’una può determinare il contenuto dell’altra) [v. sub 2.1.2].

Applica quindi la tesi di Mengoni sulla responsabilità contrattuale.

Interessante è l’iter percorso dall’estensore al § 2.1.3  per concludere come sopra: <<Emerge cosi’ un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilita’ di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilita’ di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di causalita’ fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto). Conseguenzialmente la causa incognita resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilita’ di adempiere. Se, al termine dell’istruttoria, resti incerti la causa del danno o dell’impossibilita’ di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto. Il ciclo causale relativo alla possibilita’ di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e’ causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, e’ stato determinato da causa non imputabile. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che la patologia sia riconducibile, ad esempio, all’intervento chirurgico, la struttura sanitaria deve dimostrare che l’intervento ha determinato la patologia per una causa, imprevedibile ed inevitabile, la quale ha reso impossibile l’esecuzione esperta dell’intervento chirurgico medesimo.>>