Sul danno da perdita del rapporto parentale

Cass. sez. III, ord. 22/04/2024  n. 10.765, rel. Vincenti:

sulla responsabilità contrattuale medica:

<<6.1.2. – Quanto al primo e al secondo motivo, giova premettere che è principio consolidato quello secondo cui, in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria (come nel caso in esame), incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di una nuova malattia (e ciò, come detto, in base alla regola del “più probabile che non”) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (tra le molte: Cass. n. 26700/2018; Cass. n. 27606/2019; Cass. n. 28991/2019; Cass. n. 26907/2020).

Va, altresì, ricordato che le linee guida, in ambito di attività medico-chirurgica, non hanno rilevanza normativa o “parascriminante”, non essendo né tassative, né vincolanti; conseguentemente, pur rappresentando un parametro utile nell’accertamento dei profili di colpa medica, esse non valgono ad eliminare la discrezionalità del giudice di valutare se le circostanze del caso concreto esigano una condotta diversa da quella prescritta nelle medesime linee guida (tra le altre: Cass. n. 34516/2023).

La Corte territoriale si è attenuta ai principi anzidetti, reputando (cfr. sintesi al par. 2 del “Ritenuto che”, cui si rinvia), sulla scorta del compendio probatorio acquisito agli atti (e, segnatamente, della CTU espletata in primo grado), sussistente, in applicazione della predetta regola probatoria, il nesso causale tra la condotta dei medici (operanti come ausiliari della struttura sanitaria) che hanno eseguito l’intervento chirurgico di sutura del tendine d’Achille su Fa.Mi. (intervento pur “di chirurgia ortopedica minore”, ma in concreto comportante un elevato rischio di complicanza tromboembolica per la lunga immobilizzazione dell’arto) e il decesso del paziente per arresto cardiocircolatorio in seguito a trombosi venosa profonda, individuando nella mancata somministrazione di eparina postoperatoria (suggerita dalla stessa letteratura medica specialistica precedente all’intervento chirurgico, avvenuto nell’ottobre 2000) e nella carenza di adeguate indagini preoperatorie sulle patologie cardiache a carico del Fa.Mi. (oltre alla trascuratezza dell’ulteriore fattore di rischio “incrementativo” costituito dal sovrappeso pur non elevato) l’inadempimento, come detto eziologicamente rilevante, della prestazione sanitaria>>.

Sulla determinazinedel danno da perdita del rapporto parentale:_

<<6.1.3.1. – Avuto, poi, riguardo alla liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale, occorre premettere che l’orientamento di questa Corte si è andato consolidando nel senso che, al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio in casi analoghi, il danno anzidetto deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul “sistema a punti”, che preveda, oltre all’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, indefettibilmente, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella (Cass. n. 10579/2021; Cass. n. 26300/2021; Cass. n. 37009/2022; Cass. n. 5948/2023; Cass. n. 8265/2023; Cass. n. 13540/2023; Cass. n. 36560/2023).

In siffatti termini, si è, quindi, ritenuto che a tanto potessero soddisfare le tabelle di liquidazione predisposte dal Tribunale di Roma e, quindi, anche quelle del Tribunale di Milano predisposte nel 2022 (così, segnatamente, le citate Cass. n. 37009/2022, Cass. n. 5948/2023 e Cass. n. 8265/2023).

Quanto, poi, alla rilevanza processuale del criterio tabellare ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, l’onere del danneggiato è quello di chiedere che la liquidazione avvenga in base alle tabelle, ma non anche quello di produrle in giudizio, in quanto esse, pur non costituendo fonte del diritto, integrano il diritto vivente nella determinazione del danno non patrimoniale conforme a diritto (Cass. n. 33005/2021; Cass. n. 20292/2022).

La Corte territoriale ha liquidato il danno da perdita del rapporto parentale subito dagli attori facendo riferimento alle tabelle romane e indicando le circostanze di fatto in concreto rilevanti per determinare l’importo risarcitorio, ossia quelle dell’età, del grado di parentela e della convivenza della vittima, così da fornire contezza dei parametri legati alla concreta vicenda processuale sui quali operare la determinazione del quantum debeatur.

In tale contesto, la mancata indicazione dei coefficienti monetari contemplati dalle tabelle anzidette non è circostanza tale da rendere la motivazione che sorregge l’impugnata sentenza “apparente” (e, dunque, al di sotto del c.d. “minimo costituzionale”), né tale da ledere il diritto di difesa dell’appellante, non avendo la stessa lamentato che di dette tabelle – di cui il giudice di appello fa espresso riferimento – non si sia discusso nei giudizi di merito e che, quindi, la relativa applicazione non sia stata fatta oggetto di previa allegazione e richiesta di applicazione e, quindi, conosciute dalla stessa ASL Roma 2>>.

Cass. sez. 3 del 27.10.2023 n. 29.859, rel., Vincenti:

<<Pertanto, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito inizia a decorrere non dal momento della verificazione materiale dell’evento di danno, bensì dal momento della conoscibilità del danno inteso nella sua dimensione giuridica; un danno ingiusto, cioè, che non soltanto sia “oggettivamente percepibile” all’esterno (elemento della conoscibilità del danno), ma che – attraverso parametri oggettivi quali la diligenza esigibile all’uomo medio e il livello di conoscenze scientifiche proprie di un determinato contesto storico – possa essere astrattamente ricondotto alla condotta colposa/dolosa di un terzo (requisito della rapportabilità causale).

Il principio così delineato (ossia, della conoscibilità del danno nella sua dimensione giuridica) trova applicazione, ai fini dell’individuazione dell’exordium praescriptionis, in tutti i casi di esercizio del diritto al risarcimento del danno, con la precisazione, tuttavia, che il carattere mobile dell’iniziale dies a quo e il suo “spostamento in avanti” si giustificherà nelle ipotesi in cui sia dato scindere, sotto il profilo temporale, il momento dell’accadimento materiale dell’evento di danno e il diverso momento della “esteriorizzazione del danno” nei termini sopra precisati.

Infatti, è solo in questi casi – a differenza di quelli in cui si possa apprezzare la coincidenza tra la verificazione dell’evento di danno e la conoscibilità del danno ingiusto patito -, che l’individuazione di un “dies a quo mobile” è sorretto dalla ratio di evitare che il termine di prescrizione inizi a decorrere in assenza della percezione di aver subito un danno ingiusto.

Ed è ciò che avviene, a titolo meramente esemplificativo, nei casi di responsabilità per danni cd. lungo-latenti, come quello di danni da emotrasfusioni infette. Non a caso la sentenza delle Sezioni Unite n. 576/2008, ha enunciato l’anzidetto principio proprio con riferimento al caso di “chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo” >>.

Poi: <<- E’ principio consolidato che, qualora l’illecito civile sia considerato dalla legge come reato ma il giudizio penale non sia stato promosso, ancorché per difetto di querela, all’azione civile di risarcimento si applica, ai sensi dell’art. 2947 c.c., comma 3, l’eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato purché il giudice civile accerti, incidenter tantum, con gli strumenti probatori ed i criteri propri del relativo processo, l’esistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, sia soggettivi che oggettivi (tra le altre: Cass. n. 24988/2014 e Cass. n. 2350/2018, richiamate anche nella sentenza impugnata).

Tuttavia, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale (pp. 8 e 9 della sentenza impugnata), non è “necessario”, a tal fine, dover coltivare “un’espressa domanda volta a ottenere in via incidentale l’accertamento dell’ipotizzato reato”, giacché – alla luce dell’orientamento del pari consolidato di questa Corte (per tutte: Cass., S.U., n. 9993/2016; Cass. n. 24260/2020; Cass. n. 21404/2021) – la deduzione circa l’applicabilità del termine prescrizionale più lungo di cui all’art. 2947 c.c., comma 3, integra una contro-eccezione in senso lato, la cui rilevazione può avvenire anche d’ufficio, nel rispetto dei termini di operatività delle preclusioni relative al thema decidendum ex art. 183 c.p.c., qualora sia fondata su nuove allegazioni di fatto.

Là dove invece essa sia basata su fatti storici già allegati entro i termini di decadenza propri del giudizio ordinario a cognizione piena, la sua proposizione è ammissibile nell’ulteriore corso del giudizio di primo grado, in appello e, con il solo limite della non necessità di accertamenti di fatto, anche in Cassazione, dove non integra una questione nuova inammissibile.

La rilevabilità ex officio della contro-eccezione e’, dunque, subordinata alla allegazione – tempestiva, giacché effettuata originariamente con l’atto introduttivo del giudizio ovvero perché le nuove circostanze fattuali sono state dedotte nei termini di cui all’art. 183 c.p.c. (così da consentirne il rilievo officioso anche oltre detti termini) – dei fatti posti a suo fondamento e, quindi, ai fini dell’applicazione dell’art. 2947 c.c., comma 3, del “fatto considerato dalla legge come reato”, ossia delle circostanze da cui evincere la sussistenza degli elementi costitutivi (oggettivi e soggettivi) del reato di omicidio colposo, ex art. 589 c.p>>.

Ancora:

<< In tema di danno non patrimoniale risarcibile, iure haereditatis, in caso di morte causata da un illecito, la tassonomia invalsa che distingue tra varie voci di danno (danno biologico terminale, danno morale terminale, danno catastrofale o catastrofico, danno da lucida agonia) risponde ad una esigenza meramente descrittiva e non viene a configurare delle categorie giuridiche.

A tal fine, infatti, ciò che rileva è la reale fenomenologia del pregiudizio ed è sotto tale profilo che, pur nell’unitarietà della liquidazione del danno non patrimoniale, si diversificano le conseguenze dannose risarcibili, le quali, dunque, se effettivamente sussistenti, sono tutte da riconoscere, senza che si verifichi una duplicazione risarcitoria ingiustamente locupletativa.

In siffatta prospettiva, la giurisprudenza di questa Corte (tra le molte: Cass. n. 26727/2018; Cass. n. 18056/2019; Cass. n. 21837/2019), assumendo a fondamento la reale fenomenologia dei pregiudizi alla persona, ha comunque tradotto l’anzidetta esigenza meramente descrittiva nei seguenti termini: a) il “danno biologico terminale” è un pregiudizio alla salute, da invalidità temporanea sebbene massimo nella sua entità ed intensità, da accertarsi con criteri medico-legali e da liquidarsi comunque, avuto riguardo alla specificità del caso concreto, se tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo; b) il “danno catastrofale” (o anche detto: “danno morale terminale”, “danno da lucida agonia”), consiste nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando, ai fini della liquidazione in via equitativa in base alle specificità del caso concreto, soltanto l’intensità della sofferenza medesima>>.

Infine;

<<. Giova, infatti, rammentare che la responsabilità della struttura sanitaria per i danni da perdita del rapporto parentale, invocati iure proprio dai congiunti di un paziente deceduto, è qualificabile come extracontrattuale, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente col paziente, e dall’altro i parenti non rientrano nella categoria dei “terzi protetti dal contratto”, potendo postularsi l’efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l’interesse, del quale tali terzi siano portatori, risulti anch’esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale (tra le altre: Cass. n. 14258/2020 e Cass. n. 21404/2021)>>.

Danno non patrimoniale e danno da perdita del rapporto parentale: ripasso generale

Cass. n° 26.140 del 7 settembre 2023, sez. 3, rel. Gianniti, sull’oggetto (segnalazione e link da avv. Flavi Zardo in linkedin), sui due concetti in oggetto (si v. anche Cass. 5 settembre 2023 n. 25.910 rel. Rubino).

Sub 1:

<<Sul piano del diritto positivo – come anche di recente precisato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le tante, Cass. n. 2788 del 2019; n. 901 e n. 7513 del 2018, n. 7766 del 2016, anche in relazione a Corte cost. n. 325/2014) – l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 cod. civ.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 cod. civ.; art. 185 cod. pen.).
Quanto al danno non patrimoniale, ne è stata originariamente affermata, su di un piano generale di ricostruzione analitica della fattispecie, la natura “unitaria” e “onnicomprensiva” dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. n. 26972 del 2008). In particolare, l’unitarietà del danno non patrimoniale va intesa nel senso che qualsiasi pregiudizio non patrimoniale sarà soggetto alle medesime regole ed ai medesimi criteri risarcitori (artt. 1223, 226, 2056, 2059 c.c.); mentre la onnicomprensività del danno non patrimoniale va intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative “in peius” della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, con il concorrente limite di evitare duplicazioni (attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici)><.

In tale prospettiva, egli [♦il g. di merito] <<deve tenere conto, oltre che di quanto statuito dalla Corte costituzionale (n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss.), di quanto disposto dal legislatore nazionale in sede di riforma degli artt. 138 e 139 c.d.a., modificati dall’art. 1, comma 17, della legge 4 agosto 2017, n. 124, la cui nuova rubrica (“danno non patrimoniale”, sostituiva della precedente, “danno biologico”), e il cui contenuto letterale impongono al giudice di distinguere, su di un piano generale ed al di là della specifica sedes materiae, il danno dinamico-relazionale dal danno morale.
Conseguentemente, nella valutazione del danno alla salute, in particolare – ma non diversamente che in quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un valore/interesse costituzionalmente protetto, giusta l’insegnamento della Corte costituzionale di cui alla sentenza 233/2003 – il giudice di merito deve valutare la fenomenologia della lesione non patrimoniale: sia nell’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale, che si colloca nella dimensione del rapporto del soggetto con sé stesso), che nell’aspetto dinamico-relazionale della vita del danneggiato (c.d. danno relazionale, che si colloca nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sé”)>>.

<<Anche (ma non solo) alla luce della novella legislativa poc’anzi ricordata – novella di cristallina chiarezza anche sul piano strettamente lessicale – occorre pertanto riaffermare il principio per cui esiste (è sempre esistita, anche prima del ricordato intervento normativo) una ontologica differenza tra danno morale e danno dinamico-relazionale, in quanto il danno alla persona, nella sua dimensione umana ancor prima che giuridica, postula il riconoscimento, da un lato, della sofferenza interiore, dall’altro, delle mutate dinamiche relazionali di una vita che cambia a seguito dell’illecito (illuminante, in tal senso, è il disposto normativo di cui all’art. 612 bis del codice penale, in tema di presupposti palesemente alternativi del reato cd. di stalking). Si tratta di danni diversi e perciò entrambi autonomamente risarcibili, sempre che, e solo se, provati caso per caso, all’esito, si ribadisce, di articolata ed esaustiva istruttoria (c.d. comprovabilità del danno non patrimoniale), tenendo conto che il danno dinamico relazionale può formare oggetto di prova rappresentativa diretta, mentre il risarcimento del danno morale può rappresentare soltanto l’esito terminale di un ragionamento deduttivo, che tenga conto (oltre che delle presunzioni) del notorio e delle massime di esperienza.
Al riguardo, giova anche osservare che il c.d. danno presuntivo è concetto autonomo e distinto rispetto al c.d. danno in re ipsa – la cui giuridica predicabilità deve peraltro ritenersi del tutto esclusa in seno all’attuale sistema della responsabilità civile: Cass. s.u. 26972/2008, cit.
Se, infatti, per quest’ultimo non è richiesta alcuna allegazione da parte del danneggiato, sorgendo il diritto al risarcimento del danno per il sol fatto del ricorrere di una determinata condizione di fatto, il primo richiede un’allegazione ed una dimostrazione, seppur presuntiva, che è sempre suscettibile di essere superata da una eventuale prova contraria allegata da controparte>>

sub 2:

<<Come noto, a fronte della morte di un soggetto causata da un fatto illecito di un terzo, il nostro ordinamento riconosce ai parenti del danneggiato un risarcimento iure proprio, di carattere patrimoniale e non patrimoniale, per la sofferenza patita e per le modificate consuetudini di vita, in conseguenza dell’irreversibile venir meno del godimento del rapporto parentale con il congiunto. Tale forma risarcitoria intende ristorare il familiare del pregiudizio subito sotto il duplice profilo, morale, consistente nella sofferenza psichica che questi è costretto a sopportare a causa dell’impossibilità di proseguire il proprio rapporto di comunanza familiare, e relazionale, inteso come significativa modificazione delle abitudini di vita – destinate, a volte, ad accompagnare l’intera esistenza del soggetto che l’ha subita.
Quanto alla prova del danno, non v’è dubbio che, in linea generale, spetti alla vittima dell’illecito altrui dimostrare i fatti costitutivi della propria pretesa e, dunque, l’esistenza del pregiudizio subito: onere di allegazione che potrà essere soddisfatto anche ricorrendo a presunzioni semplici e massime di comune esperienza (Cass. s.u. 26792/2008, cit.).
Ebbene, nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), è orientamento unanime di questa Corte (Cass. n. 11212 del 2019; n. 31950 del 2018; n. 12146 del 14 giugno 2016) che l’esistenza stessa del rapporto di parentela faccia presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è, per comune esperienza, connaturale all’essere umano. Naturalmente, trattandosi di una praesumptio hominis, sarà sempre possibile per il convenuto dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra vittima e superstite (Cass. n. 3767 del 2018)>>

In paricolare:

<<In tale quadro emergerà il significato e il valore dimostrativo dei meccanismi presuntivi che, al fine di apprezzare la gravità o l’entità effettiva del danno, richiamano il dato della maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge, convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino) secondo una progressione che, se da un lato, trova un limite ragionevole (sul piano presuntivo e salva la prova contraria) nell’ambito delle tradizionali figure parentali nominate, dall’altro non può che rimanere aperta, di volta in volta, alla libera dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali che, benché di più lontana configurazione formale (o financo di assente configurazione formale: si pensi, a mero titolo di esempio, all’eventuale intenso rapporto affettivo che abbia a consolidarsi nel tempo con i figli del coniuge o del convivente), si qualifichino (ove rigorosamente dimostrati) per la loro consistente e apprezzabile dimensione affettiva e/o relazionale>>.

Element concreti per stabilire  presunzioni di danno parentale:
<<Così come ragionevole apparirà la considerazione, in via presuntiva, della gravità del danno in rapporto alla sopravvivenza di altri congiunti o, al contrario, al venir meno dell’intero nucleo familiare del danneggiato; ovvero, ancora, dell’effettiva convivenza o meno del congiunto colpito con il danneggiato (cfr., in tema di rapporto tra nonno e nipote, Cass. n. 21230 e n. 12146 del 2016), o, infine, di ogni altra evenienza o circostanza della vita – come l’età della vittima, l’età dei superstiti (e la correlata eventuale presenza di famiglie autonome), il grado di parentela, le abitudini ed il grado rapporto di frequentazione (e, in particolare, le visite quotidiane e le vacanze trascorse insieme), i pranzi domenicali e festivi ed i momenti celebrativi passati insieme, l’eventuale abitazione in immobili contigui, il ruolo in concreto svolto dal de cuius nelle dinamiche della storia familiare dei parenti superstiti (tenuto anche conto del loro modello di famiglia di riferimento), gli eventuali atti di liberalità – che il prudente apprezzamento del giudice di merito sarà in grado di cogliere>>.

<<Tali principi hanno trovato conferma nella motivazione della sentenza di cui a Cass. n. 28989 del 2019 (che richiama sua volta quelli già espressi in Cass. nn. 901, 7513 e 23469 del 2018), collocata all’interno del cd. “progetto sanità” della terza sezione civile della Corte di legittimità, ove si afferma che, in tema di danno non patrimoniale, se costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di un risarcimento per danno biologico (o per danno parentale) e per danno cd. esistenziale, non costituisce, per converso, duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del risarcimento per danno morale e per danno da perdita del rapporto parentale inteso nel suo aspetto dinamico-relazionale.
3.4. Rimangono, in ogni caso, fermi i principi (affermati da Cass. n. 21060 del 2016 e n. 16992 del 2015) che presiedono all’identificazione delle condizioni di apprezzabilità minima del danno, nel senso di una rigorosa dimostrazione (come detto, anche in via presuntiva) della gravità e della serietà del pregiudizio e della sofferenza patita dal danneggiato, tanto sul piano morale-soggettivo, quanto su quello dinamico-relazionale, senza che tale serietà e apprezzabilità, peraltro, sconfini necessariamente in un vero e proprio radicale ed eccezionale sconvolgimento delle proprie abitudini di vita, che inciderà, se del caso, sulla personalizzazione del risarcimento, e che costituisce a sua volta onere dell’attore allegare e provare, in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche.
Come d’altronde rimane altresì ferma la netta distinzione (affermata ad es. da Cass. n. 21084 del 2015) tra il descritto danno da perdita, o lesione, del rapporto parentale e l’eventuale danno biologico che detta perdita o lesione abbiano ulteriormente cagionato al danneggiato, atteso che la morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti, oltre al danno parentale, consistente nella perdita del rapporto e nella correlata sofferenza soggettiva, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca (Corte cost. 372/1994), l’uno e l’altro dovendo essere oggetto di separata considerazione come elementi del danno non patrimoniale, ma nondimeno suscettibili – in virtù del principio della cd. “onnicomprensività” della liquidazione – di liquidazione finale unitaria>>

Per il danno da perdita del rapporto parentale, bisogna provarne l’effettività e la consistenza

Sul punto Cass., sez. VI, n° 36.297 del 13.12.2022, rel.  Scrima:

<<La Corte territoriale ha espressamente richiamato l’orientamento di questa Corte in tema di danno da perdita del rapporto parentale (Cass. 21230/16 e 7743/20), secondo cui è onere dei congiunti provare l’effettività e la consistenza della relazione parentale rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, e ha, altresì, richiamato il principio giurisprudenziale secondo cui il giudice può discostarsi dalla-misura minima prevista dalle Tabelle di Milano purché dia conto nella motivazione della specifica situazione che giustifica la decurtazione (Cass. n. 29495/19).

Dei richiamati principi la Corte di merito ha fatto corretta applicazione e, in particolare, contrariamente a quanto dedotto dal C., ha correttamente motivato il lamentato discostamento dai valori tabellari con riferimento alla situazione specifica.

Nel ritenere non provata l’effettività del rapporto parentale, con riguardo alla relazione padre figlia, la Corte territoriale ha in primis valutato la travagliata storia familiare di C.L. e, stante l’assenza di una stabile convivenza – per quanto qui rileva – con entrambi i suoi genitori, ha ancorato tale valutazione a quanto complessivamente risultante agli atti. Tale disamina è stata effettuata disgiuntamente e con ampiezza di argomentazioni in relazione ai rapporti con ognuno dei genitori, risultando così evidente la diversa consistenza di tali rapporti; non può, pertanto, essere condivisa l’argomentazione del ricorrente, il quale ha rilevato come il rapporto parentale di C.L. con la madre sia stato considerato effettivo ed abbia condotto ad un risarcimento determinato sulla base dei valori tabellari, nonostante il “trascorso di vita del tutto simile al padre”.

La Corte di appello ha concluso per la non effettività del rapporto parentale con il padre, non limitando il suo convincimento alle dichiarazioni tenute da C.L. innanzi al Tribunale per i Minorenni in data 27 settembre 2011, bensì considerando anche che, per stessa ammissione del padre, il rapporto con la figlia constava in contatti telefonici e manifestava la sua fragilità nella non partecipazione del C. agli incontri organizzati dai Servizi Sociali e nel fatto che non si fosse mai posto il problema del mantenimento della figlia.

Peraltro, va evidenziato che il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prova che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso, né gli è richiesto di dar conto, nella motivazione, dell’esame di tutte le allegazioni e prospettazioni delle parti e di tutte le prove acquisite al processo, essendo sufficiente che egli esponga – in maniera concisa ma logicamente adeguata – gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione e le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo reputarsi implicitamente disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo svolto.

Stante la chiarezza e la logicità della motivazione in merito al discostamento tra il danno liquidato in favore di C.L., per la perdita della relazione parentale con la figlia C.L., e quanto astrattamente previsto dalle Tabelle di Milano, non può considerarsi violata la disciplina della liquidazione del danno in via equitativa né risultano sussistenti gli ulteriori vizi dedotti sicché il primo motivo di ricorso è infondato.>>

la Cassazione sul danno da perdita del rapporto parentale

Si legge in Cass. ,sez. III, n. 9.010 del 21.03.2022, rel. Tatangelo:

– <<2.1 Si premette che, secondo l’indirizzo di questa Corte, in tema di liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale, nel caso in cui si tratti di congiunti appartenenti alla cd. famiglia nucleare (e cioè coniugi, genitori, figli, fratelli e sorelle) la perdita di effettivi rapporti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto può essere presunta in base alla loro appartenenza al medesimo “nucleo familiare minimo”, nell’ambito del quale l’effettività di detti rapporti costituisce tuttora la regola, nell’attuale società, in base all’id quod plerumque accidit, fatta salva la prova contraria da parte del convenuto (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 25774 del 14/10/2019, non massimata; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 3767 del 15/02/2018, Rv. 648035 – 02).

Naturalmente, anche la prova contraria può essere fornita sulla base di elementi presuntivi, tali da far venir meno la presunzione di fatto derivante dall’esistenza del mero legame coniugale o parentale (nel qual caso sarà onere del danneggiato dimostrare l’esistenza del suddetto vincolo in concreto, sulla base di precisi elementi di fatto), ovvero, quanto meno, da attenuarla considerevolmente (nel qual caso delle relative circostanze dovrà tenersi conto ai fini della liquidazione dell’importo del risarcimento, che dovrà essere inferiore a quello riconosciuto nei casi “ordinari”, come eventualmente previsto su base tabellare).>>

Con riguardo alla perdita del rapporto coniugale, in particolare, elementi idonei a far ritenere attenuata ovvero addirittura del tutto superata la presunzione di perdita di effettivi rapporti di reciproco affetto e solidarietà con il coniuge defunto, sotto il profilo dinamico-relazionale, sono stati ravvisati nella separazione, legale e/o di fatto, tra i coniugi stessi (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 1025 del 17/01/2013, Rv, 625065 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 25415 del 12/11/2013, Rv. 629166 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 28222 del 04/11/2019, Rv. 655783 – 01), ferma restando sempre la possibilità per il coniuge superstite di dimostrare la sussistenza di un vincolo affettivo particolarmente intenso nonostante la separazione, ovvero nell’assenza di convivenza, la quale, benché non costituisca, in generale, connotato minimo ed indispensabile per il riconoscimento del danno da perdita del rapporto parentale (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 18284 del 25/06/2021, Rv. 661702 – 01; Sez. 3, Ordinanza n. 24689 del 05/11/2020, Rv. 659848 – 01; Sez. 3, Ordinanza n. 7743 del 08/04/2020, Rv. 657503 – 01), è certamente rilevante almeno ai fini della determinazione del quantum debeatur>>.

Il che, applicato al caso sub iudice, porta la SC a così giudicare:

<<2.3 In particolare, la corte di appello non ha adeguatamente tenuto conto, in primo luogo, del fatto che i termini dell’effettiva convivenza tra i coniugi sono rimasti quanto meno incerti: l’attrice, infatti (per quanto sia stata sentita dal giudice, avendo anche reso l’interrogatorio formale), non è stata in grado di indicare precisamente, nel corso del giudizio, l’effettivo indirizzo della residenza coniugale, mentre la sua coabitazione con il B. (addirittura smentita dalla documentazione anagrafica) è stata affermata solo da una deposizione testimoniale oggettivamente generica, non avendo neanche la teste saputo indicare l’indirizzo preciso del luogo in cui i coniugi avrebbero convissuto, ma avendo solo fatto riferimento ad una certa zona della città di (OMISSIS).

L’incertezza in ordine ai concreti termini della convivenza dei coniugi costituisce un indizio che depone in senso contrario all’intensità del vincolo relazionale reciso dal fatto illecito e che la corte territoriale avrebbe dovuto considerare in tal senso, indizio peraltro concordante con quello, certamente a sua volta “grave e preciso”, della pacifica esistenza di una stabile relazione extraconiugale intrattenuta dal B. al di fuori del matrimonio (relazione di tipo omosessuale, come precisa la ricorrente, sebbene sia appena il caso di sottolineare che a tale mero dato oggettivo non possa attribuirsi, di per sé, uno specifico rilievo ai fini del risarcimento), che a sua volta attesta quanto meno un certo “affievolimento” della saldezza del rapporto coniugale.

Nel medesimo senso, poi, in quanto certamente rilevante ai fini della valutazione dell’aspetto dinamico e relazionale della vita dell’attrice su cui ha inciso il fatto illecito, la corte avrebbe dovuto considerare la circostanza (anch’essa pacifica) che, a breve distanza di tempo dal decesso del coniuge, la stessa aveva già ricostruito uno stabile rapporto sentimentale e di comunanza di vita con un altro uomo, con il quale, dopo non più di tre anni dalla perdita del primo marito, risultava già convivere, dopo aver generato in precedenza un figlio.

Tutte le indicate circostanze di fatto, costituenti indizi gravi, precisi e concordanti in ordine, se non alla stessa insussistenza, quanto meno ad una minore intensità (rispetto all’ordinario) del concreto vincolo affettivo esistente tra l’attrice ed il coniuge vittima del fatto illecito, non sono stati adeguatamente valutati dalla corte territoriale, in modo complessivo ed unitario, come sarebbe stato necessario, ai fini del riconoscimento e, comunque, ai fini della liquidazione del risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale in favore della D.C., quanto meno sotto l’aspetto dinamico-relazionale (fermo restando il danno relativo all’aspetto della sofferenza morale soggettiva conseguente all’evento luttuoso, questione che peraltro non risulta oggetto di specifiche censure nel ricorso).>>

– << 2.4 Sotto altro aspetto, deve poi tenersi presente che la liquidazione è pacificamente avvenuta (secondo quanto affermano le stesse parti) mediante l’applicazione delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano nel 2018, caratterizzate, per quanto riguarda la perdita del rapporto parentale, dall’individuazione di un importo minimo e di un “tetto” massimo, con un intervallo molto ampio tra l’uno e l’altro, senza utilizzazione della tecnica cd. “del punto”, nonché dalla commistione dell’aspetto dinamico-relazione conseguente all’illecito e di quello relativo alla sofferenza interiore (danno morale).

Ai fini della determinazione dell’importo del risarcimento nell’ambito dell’indicato ampio intervallo tra il valore tabellare “minimo” e “massimo”, la corte di appello ha inoltre considerato, in concreto, una serie di circostanze di fatto espressamente indicate e relative tanto all’aspetto dinamico-relazione quanto a quello della sofferenza interiore derivanti dal fatto illecito (in particolare: la giovane età della coppia, la particolare intensità del dolore e la lunghezza del periodo dell’agonia sofferta dal B., la sofferenza che necessariamente accompagna lo sgretolarsi di un progetto di vita migliore in un paese straniero, il lasso di tempo che presumibilmente i due coniugi avrebbero trascorso insieme, i benefici relazionali fatalmente perduti, le legittime aspettative di assistenza reciproca definitivamente venute meno), senza però alcuna considerazione delle altre circostanze, deponenti in senso contrario, di cui si è detto in precedenza>>.

Si v. i richiami finali di giurisprudenza cui dovrà attenersi il giudice del rinvio:

<< (…) risarcimento,  che dovrà comunque avvenire in applicazione dei criteri precisati nella più recente giurisprudenza di questa stessa Corte (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 901 del 17/01/2018, Rv. 647125 – 02 e 04; Sez. 3, Ordinanza n. 23469 del 28/09/2018, Rv. 650858 – 03; Sez. 3, Sentenza n. 28220 del 04/11/2019, Rv. 655782 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 28989 del 11/11/2019, Rv. 656223 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 25843 del 13/11/2020, Rv. 659583 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 25164 del 10/11/2020: “in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, in assenza di lesione alla salute, ogni “vulnus” arrecato ad altro valore costituzionalmente tutelato va valutato ed accertato, all’esito di compiuta istruttoria, in assenza di qualsiasi automatismo, sotto il duplice aspetto risarcibile sia della sofferenza morale che della privazione, ovvero diminuzione o modificazione delle attività dinamico-relazionali precedentemente esplicate dal danneggiato, cui va attribuita una somma che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito sotto entrambi i profili, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche“; cfr. altresì Cass., Sez. 3, Sentenza n. 10579 del 21/04/2021, Rv. 661075 – 01: “in tema di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio in casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul “sistema a punti”, che preveda, oltre all’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, indefettibilmente, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella”).>>

Il danno da perdita del rapporto parentale comprende pure il danno da perdita del frutto del concepimento

I capitol di prova sulla sofferenza post decesso (“panico, gli incubi e il mutamento delle abitudini di vita, conseguenti alla morte del feto in utero”) del feto concernono fatti rientranti nell’originaria domanda di danni non patrimoniali da perdita del frutto del cocnepimento: non sono mutamento di domanda.

Addebito medico: <<In particolare, essi attribuivano la causa dell’esito infausto della gravidanza all’omessa diagnosi di ipossia fetale e all’omesso trattamento terapeutico, nonchè ai ritardi imputabili agli operatori sanitari, i quali non avevano eseguito prontamente il taglio cesareo che, con elevata probabilità, avrebbe evitato la sofferenza del feto e la sua morte. Precisano ancora che B.T., giunta alla trentunesima settimana di gestazione, in seguito all’improvvisa comparsa di contrazioni e perdita di liquido amniotico, si era recata presso l’ospedale di (OMISSIS), i cui sanitari, dopo aver monitorato il battito cardiaco fetale, ne disposero il trasferimento presso il nosocomio di (OMISSIS), dove, riscontrato un grave peggioramento delle condizioni cliniche della nascitura, veniva data alla luce una bambina già morta>>.

Così Cass. 29.09.2021 n. 26.301, pres. est. Travaglino (segnalo spt. la parte finale sulla c.d. elaborazione del lutto):

<<La censura, oltre che ammissibile, risulta poi pienamente fondata, dal momento che quello che la sentenza impugnata definisce, circoscrivendolo nella sua reale dimensione funzionale – per vero, riduttivamente ed impropriamente – come danno “da perdita del frutto del concepimento”, altro non è se non un vero e proprio danno da perdita del rapporto parentale, avendo la Corte territoriale omesso del tutto di considerare come anche “la tutela del concepito abbia fondamento costituzionale”, rilevando in tale prospettiva non solo la previsione della tutela della maternità, sancita dall’art. 31 Cost., comma 2, ma, più in generale, quanto stabilito dall’art. 2 Cost., norma “che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito” (così esprimendosi, in motivazione, la fin troppo nota sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 1975).   (…)

Andranno, pertanto, applicati, sul punto, i principi ripetutamente affermati da questa Corte, che non solo ha ritenuto legittimati i componenti del consorzio familiare a far valere una pretesa risarcìtoria che trova fondamento negli artt. 2043 e 2059 c.c. in relazione agli artt. 2,29 e 30 Cost., nonché – ai sensi della norma costituzionale interposta costituita dall’art. 8 CEDU, che dà rilievo al diritto alla protezione della vita privata e familiare – all’art. 117 Cost., comma 1, (in tal senso, funditus, Cass. 27 marzo 2019, n. 8442), ma ha anche chiarito che pure tale tipo di pregiudizio rileva nella sua duplice, e non sovrapponibile dimensione morfologica “della sofferenza interiore eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore, e quella, ulteriore e diversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l’ha subita” (Cass. sent. 11 novembre 2019, n. 28989, approdo definitivo di un lungo e tormentato percorso interpretativo che ha finalmente colto la reale fenomenologia del danno alla persona, come confermato dallo stesso, esplicito dettato legislativo di cui al novellato art. 138 C.d.a., oltre che dalla cristallina sentenza del Giudice delle leggi n. 235/2014 che, nel pronunciarsi sulla conformità a Costituzione del successivo art. 139, e discorrendo di risarcibilità anche del danno morale al punto 10.1. della sentenza, ha definitivamente chiarito la differenza strutturale tra qualificazione della fattispecie e quantificazione del danno).

Aspetti, dunque, come il panico, gli incubi e il mutamento delle abitudini di vita, conseguenti alla morte del feto in utero, non possono considerarsi affatto come un tipo di danno “assolutamente avulso rispetto alla domanda di risarcimento formulata ex art. 2059 c.c.”, risultando tale affermazione errata in diritto, come errata appare quella secondo cui “altro sarebbe il danno non patrimoniale causato dalla perdita del frutto del concepimento, e ben altro sarebbe invece il danno consistente negli strascichi che quel lutto abbia lasciato nell’animo dei protagonisti”.

Nel riconsiderare tali aspetti del danno lamentato dai ricorrenti, il collegio di rinvio terrà altresì conto di quanto di recente affermato da questa stessa Corte (Cass. 8887/2020) in tema di danno da perdita del rapporto parentale, valorizzando appieno l’aspetto della sofferenza interiore patita dai genitori (Cass. 901/2018, 7513/2018, 2788/2019, 25988/2019), poiché la sofferenza morale, allegata e poi provata anche solo a mezzo di presunzioni semplici, costituisce assai frequentemente l’aspetto più significativo del danno de quo.

Esiste, difatti, una radicale differenza tra il danno per la perdita del rapporto parentale e quello per la sua compromissione dovuta a macrolesione del congiunto rimasto in vita – caso nel quale è la vita di relazione a subire profonde modificazioni in pejus. Una differenziazione che rileva da un punto di vista qualitativo/quantitativo del risarcimento se è vero che, come insegna la più recente ed avveduta scienza psicologica, e contrariamente alle originarie teorie sull’elaborazione del lutto, quella della cosiddetta elaborazione del lutto è un’idea fallace, poiché che camminiamo nel mondo sempre circondati dalle assenze che hanno segnato la nostra vita e che continuano ad essere presenti tra noi. Il dolore del lutto non ci libera da queste assenze, ma ci permette di continuare a vivere e di resistere alla tentazione di scomparire insieme a ciò che abbiamo perduto“.

Il vero danno, nella perdita del rapporto parentale, è la sofferenza, non la relazione. E’ il dolore, non la vita, che cambia, se la vita è destinata, sì, a cambiare, ma, in qualche modo, sopravvivendo a se stessi nel mondo>>.