La determinazione del danno biologico in caso di premorienza (nel corso del giudizio di appello, ma non a seguito dell’illecito azionato) e il rapporto tra danno morale e danno biologico

Cass. sez. III, ord. 26/11/2024 n. 30.461, rel. Cricenti:

<<La questione posta con tale motivo riguarda la liquidazione del danno biologico per il caso di premorienza. Si è detto che il danneggiato è morto durante il procedimento di appello. Il che ha comportato che il danno biologico non poteva più essere liquidato sulla base della sua aspettativa di vita, ma piuttosto sulla base dell’effettivo vissuto (9 anni).

Per operare tale liquidazione il giudice di appello ha utilizzato le tabelle milanesi, che, per il caso di premorienza, prevedono un valore decrescente di risarcimento, sul presupposto che l’invalidità permanente incide in maniera maggiore all’inizio, e minore alla fine.

Secondo la ricorrente questo criterio è illogico ed è già stato giudicato come illegittimo da questa Corte, dovendosi invece propendere per una liquidazione proporzionale e non già decrescente.

Il motivo è fondato.

È principio di diritto che ‘Qualora la vittima di un danno alla salute sia deceduta, prima della conclusione del giudizio, per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, l’ammontare del risarcimento spettante agli eredi del defunto “iure successionis” va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non a quella statisticamente probabile, sicché tale danno va liquidato in base al criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti (Cass. 41933/ 2021; Cass. 15112/ 2024).

La liquidazione del danno biologico, tenuto conto della premorienza del danneggiato, va dunque effettuata proporzionalmente e non già assegnando un maggior valore alla invalidità iniziale ed uno minore a quelle finale, ossia prossima al decesso>>.

Sul rapporto danno morale/danno biologico::

<<Dunque, il danno morale non è stato liquidato. E doveva essere preso in considerazione. La tesi, infatti, secondo cui si tratta di una duplicazione del danno biologico è infondata.

È principio di diritto consolidato che il danno morale è una voce autonoma di danno, che ovviamente va accertato e liquidato solo se verificatosi effettivamente, ma che non costituisce una duplicazione illegittima del danno biologico, né può ritenersi rilevante solo ove sia provata una personalizzazione del danno, ossia solo ove il danno abbia avuto conseguenze singolari ed eccezionali sulla vittima. Il danno morale è una voce di danno come il biologico, che può prodursi senza che si produca quest’ultimo (una ingiuria o una reputazione che determinano sofferenza interiore ma nessuna conseguenza sulla salute).

Di conseguenza va ribadito il principio di diritto secondo cui “In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in peius con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile – alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 235 del 2014) e del recente intervento del legislatore (artt. 138 e 139 C.d.A., come modificati dalla legge annuale per il Mercato e la Concorrenza del 4 agosto 2017 n. 124) – è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti”. (Cass., 901/ 2018)>>.

Ripasso su accertamento e determinazione del danno non patrimoniale alla persona (difficile quella del danno morale in caso di lesioni lievi)

Cass.  sez. 3, ord. 01/03/2024, n. 5547, rel. Iannello:

<<4.1. La più recente ed ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (tra le altre, Cass. 17/01/2018, n. 901; 27/03/2018, n. 7513; 28/09/2018, n. 23469; 4/02/2020, n. 2461; v. anche da ultimo Cass. 3/03/2023, n. 6444), in tema di risarcimento del danno alla persona ha fissato i seguenti principi, che è utile ribadire in questa sede in quanto direttamente rilevanti rispetto alla questione posta:

– sul piano del diritto positivo, l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.; art. 185 c.p.);

– la natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite della Suprema Corte (Corte cost. n. 233 del 2003; Cass. Sez. U. 11/11/2008, nn. 26972-26975) deve essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche (anche se non sotto quello fenomenologico) rispettivamente nel senso:

a. di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica;

b. di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative in pejus della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e procedendo, a seguito di articolata, compiuta ed esaustiva istruttoria, ad un accertamento concreto e non astratto del danno, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni;

– nel procedere all’accertamento ed alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss.) e delle modifiche degli artt. 138 e 139 del D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), introdotte dall’art. 1, comma 17, della legge 4 agosto 2017, n. 124 – la cui nuova rubrica (“danno non patrimoniale”, sostitutiva della precedente “danno biologico”), ed il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale causato dalle lesioni da quello morale – deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la reale fenomenologia della lesione non patrimoniale e, cioè, tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (c.d. danno morale, sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione), quanto quello dinamico-relazionale (destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto);

– nella valutazione del danno alla salute, in particolare – ma non diversamente che in quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un valore/interesse costituzionalmente protetto (Cass. nn. 8827-8828 del 2003; Cass. Sez. U. n. 6572 del 2006; Corte cost. n. 233 del 2003) – il giudice dovrà, pertanto, valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale – che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con sé stesso – quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sé”);

– nel caso di lesione della salute, costituisce, pertanto, duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico – inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali – e del danno c.d. esistenziale, appartenendo tali c.d. “categorie” o “voci” di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale (l’art. 32 Cost.);

– non costituisce, invece, duplicazione risarcitoria la differente ed autonoma valutazione compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute, come stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss. (ove si legge che la norma di cui all’art. 139 cod. ass. “non è chiusa anche al risarcimento del danno morale”), e come oggi normativamente confermato dalla nuova formulazione dell’art. 138 lett. e), cod. ass., introdotta – con valenza evidentemente interpretativa – dalla legge di stabilità del 2016;

4.2. Deriva da tali enunciati che, a fini liquidatori, si deve procedere a una compiuta istruttoria finalizzata all’accertamento concreto e non astratto del danno, dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, valutando distintamente, in sede di quantificazione del danno non patrimoniale alla salute, le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera interiore (c.d. danno morale, sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione) rispetto agli effetti incidenti sul piano dinamico-relazionale (che si dipanano nell’ambito delle relazioni di vita esterne), autonomamente risarcibili (v. Cass. n. 23469 del 2018, cit.).

4.3. Con particolare riferimento all’uso delle presunzioni in materia di danno morale, occorrerà sottrarsi ad ogni prassi di automaticità nel riconoscimento di tale danno in corrispondenza al contestuale riscontro di un danno biologico, attesa l’esigenza di evitare duplicazioni risarcitorie destinate a tradursi in un’ingiusta locupletazione del danneggiato, laddove quest’ultimo si sia sottratto a una rigorosa allegazione e prova di fatti secondari idonei a supportare, sul piano rappresentativo, la prospettata sofferenza di conseguenze dell’illecito rilevabili sul piano del proprio equilibrio affettivo-emotivo.

4.4. A tal fine, la possibilità di invocare il valore rappresentativo della lesione psico-fisica (in sé considerata come danno biologico) alla stregua di un elemento presuntivo suscettibile di (concorrere a) legittimare, in termini inferenziali, l’eventuale riconoscimento di un coesistente danno morale (v. Cass. 10/11/2020, n. 25164), dovrà ritenersi tanto più limitata quanto più ridotta, in termini quantitativi, si sia manifestata l’entità dell’invalidità riscontrata, attesa la ragionevole e intuibile idoneità di fatti lesivi di significativa ed elevata gravità a provocare forme di sconvolgimento o di debordante devastazione della vita psicologica individuale (ragionevolmente tali da legittimare il riconoscimento dalla compresenza di un danno morale accanto a un danno biologico), rispetto alla corrispettiva idoneità delle conseguenze limitate a un danno biologico di modesta entità ad assorbire, secondo un criterio di normalità (e sempre salva la prova contraria), tutte le conseguenze riscontrabili sul piano psicologico, ivi comprese quelle misurabili sul terreno del c.d. danno morale (così, del tutto condivisibilmente, in motivazione, Cass. n. 6444 del 2023, cit.).

Da tanto segue la ragionevole affermazione del principio declinabile sul piano probatorio secondo cui, al riconoscimento di danni biologici di lieve entità (come avvenuto nel caso di specie), corrisponderà un maggior rigore nell’allegazione e nella prova delle conseguenze dannose concretamente rivendicate, dovendo ritenersi normalmente assorbite, nel riscontrato danno biologico di lieve entità (salva la rigorosa prova contraria), anche le conseguenze astrattamente considerabili sul piano del c.d. danno morale (Cass. n. 6444 del 2023, cit.)>>.

Sulla (non) risarcibilità del c.d. danno tanalogico e del danno non patrimoniale: sintesi del diritto vivente

Quasi una lectio magistralis in Cass. sez. 3 del 27.12.2023 n. 35.998, rel. Porreca, sul tema in oggetto:

<< – in ipotesi di condotta colpevole del sanitario cui sia conseguita la perdita anticipata della vita, perdita che si sarebbe comunque verificata, sia pur in epoca successiva, per la pregressa patologia del paziente, non è concepibile, né logicamente né giuridicamente, un danno da “perdita anticipata della vita” trasmissibile “iure successionis”, non essendo predicabile, nell’attuale sistema della responsabilità civile, la risarcibilità del danno tanatologico (Cass., 19/09/2023, n. 26851);

– è possibile, dunque, discorrere (risarcendolo) di “danno da perdita anticipata della vita”, con riferimento al diritto “iure proprio” degli eredi, rappresentato dal pregiudizio da minor tempo vissuto dal congiunto (Cass., n. 26851 del 2023, cit.);

– in ipotesi di morte del paziente dipendente (anche) dall’errore medico, qualora l’evento risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale, tale ultima dovendosi ritenere lo stato patologico non riferibile alla prima, l’autore del fatto illecito risponde “in toto” dell’evento eziologicamente riconducibile alla sua condotta, in base ai criteri di equivalenza della causalità materiale, potendo l’eventuale efficienza concausale dei suddetti eventi naturali rilevare esclusivamente sul piano della causalità giuridica, ex art. 1223 c.c., ai fini della liquidazione, in chiave complessivamente equitativa, dei pregiudizi conseguenti, ascrivendo all’autore della condotta un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose da rapportare, invece, all’autonoma e pregressa situazione patologica del danneggiato (Cass., n. 26851 del 2023, cit., in cui si richiama l’ormai costante giurisprudenza sul punto);

e’ stato sottolineato (Cass., n. 26851 del 2023, pag. 17) che quando la vittima è già deceduta al momento dell’introduzione del giudizio da parte degli eredi “non è concepibile, né logicamente né giuridicamente, un “danno da perdita anticipata della vita” trasmissibile iure successionis (Cass., 04/03/2004, n. 4400, Cass. n. 5641 del 2018, … e Cass., Sez. U., n. 15350 del 2015,…), non essendo predicabile, nell’attuale sistema della responsabilità civile, la risarcibilità del danno tanatologico.

Esemplificando, causare la morte d’un ottantenne sano, che ha dinanzi a sé cinque anni di vita sperata, non diverge, ontologicamente, dal causare la morte d’un ventenne malato che, se correttamente curato, avrebbe avuto dinanzi a sé ancora cinque anni di vita.

L’unica differenza tra le due ipotesi sta nel fatto che, nel primo caso, la vittima muore prima del tempo che gli assegnava la statistica demografica, mentre, nel secondo caso, muore prima del tempo che gli assegnava la statistica e la scienza clinica: ma tale differenza non consente di pervenire ad una distinzione “morfologica” tra le due vicende, così da affermare la risarcibilità soltanto della seconda ipotesi di danno.

E’ possibile, dunque, discorrere (risarcendolo) di “danno da perdita anticipata della vita”, con riferimento al diritto iure proprio degli eredi, solo definendolo il pregiudizio da minor tempo vissuto ovvero da valore biologico relazionale residuo di cui non si è fruito, correlato al periodo di tempo effettivamente vissuto….

In conclusione, nell’ipotesi di un paziente che, al momento dell’introduzione della lite, sia già deceduto, sono, di regola, alternativamente concepibili e risarcibili iure hereditario, se allegati e provati, i danni conseguenti:

a) alla condotta del medico che abbia causato la perdita anticipata della vita del paziente (determinata nell’an e nel quantum), come danno biologico differenziale (peggiore qualità della vita effettivamente vissuta), considerato nella sua oggettività, e come danno morale da lucida consapevolezza della anticipazione della propria morte, eventualmente predicabile soltanto a far data dall’altrettanto eventuale acquisizione di tale consapevolezza in vita;

b) alla condotta del medico che abbia causato la perdita della possibilità di vivere più a lungo (non determinata né nell’an né nel quantum), come danno da perdita di chances di sopravvivenza.

In nessun caso sarà risarcibile iure hereditario, e tanto meno cumulabile con i pregiudizi di cui sopra, un danno da “perdita anticipata della vita” con riferimento al periodo di vita non vissuta dal paziente”;

pertanto, “quando sia certo che la condotta del medico abbia provocato (o provocherà) la morte anticipata del paziente, la morte stessa diviene, di regola, evento assorbente di qualsiasi considerazione sulla risarcibilità di chance future, salvo quanto si dirà…

Nell’esigenza di pervenire ad una terminologia chiara e condivisa, va pertanto chiarito che:

a) vivere in modo peggiore, sul piano dinamico-relazionale, la propria malattia negli ultimi tempi della propria vita a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, rappresenta un danno biologico (differenziale);

b) nel contempo, trascorrere quegli ultimi tempi della propria vita con l’acquisita consapevolezza delle conseguenze sulla (ridotta) durata della vita stessa a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, costituisce un danno morale, inteso come sofferenza interiore e come privazione della capacità di battersi ancora contro il male;

c) perdere la possibilità, seria apprezzabile e concreta, ma incerta nell’an e nel quantum, di vivere più a lungo a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, è un danno da perdita di chance;

d) la perdita anticipata della vita per un tempo determinato a causa di un errore medico in relazione al segmento di vita non vissuta, è un danno risarcibile non per la vittima, ma per i suoi congiunti, nei termini prima chiariti, quale che sia la durata del “segmento” di esistenza cui la vittima ha dovuto rinunciare.

…deve concludersi che non vi è spazio, in linea generale, per sovrapposizioni concettuali tra istituti speculari (chance e perdita anticipata della vita), salvo che si chiariscano e si accertino, motivando rispetto alla concreta fattispecie, le differenze come sinora ricostruite. Ne consegue, pertanto, che:

a) nel caso di perdita anticipata della vita (una vita che sarebbe comunque stata perduta per effetto della malattia) sarà risarcibile il danno biologico differenziale (nelle sue due componenti, morale e relazionale: art. 138 nuovo testo c.a.p.), sulla base del criterio causale del “più probabile che non”: l’evento morte della paziente, verificatasi in data X, si sarebbe verificata, in assenza dell’errore medico, dopo il tempo (certo) X+Y, dove Y rappresenta lo spazio temporale di vita non vissuta: il risarcimento sarà riconosciuto, con riferimento al tempo di vita effettivamente vissuto – e non a quello non vissuto, che rappresenterebbe un risarcimento del danno da morte (riconoscibile, viceversa, iure proprio, ai congiunti) stante l’irrisarcibilità del danno tanatologico – in tutti i suoi aspetti, morali e dinamico-relazionali, intesi tanto sotto il profilo della (eventuale) consapevolezza che una tempestiva diagnosi e una corretta terapia avrebbero consentito un prolungamento (temporalmente determinabile) della vita che va a spegnersi, quanto sotto quello della invalidità permanente “differenziale” (la differenza, cioè, tra le condizioni di malattia effettivamente sopportate e quelle, migliori, che sarebbero state consentite da una tempestiva diagnosi e da una corretta terapia);

b) il danno da perdita di chance di sopravvivenza sarà invece risarcito, equitativamente, volta che, da un lato, vi sia incertezza sull’efficienza causale della condotta illecita quoad mortem, ma, al contempo, vi sia certezza eziologica che la condotta colpevole abbia cagionato la perdita della (come detto apprezzabile) possibilità di vivere più a lungo (possibilità non concretamente accertabile nel quantum né predicabile quale certezza nell’an, a differenza che nell’ipotesi sub a). La valutazione equitativa di tale risarcimento non sarà, dunque, parametrabile, sia pur con le eventuali decurtazioni, né ai valori tabellari previsti per la perdita della vita, né a quelli del danno biologico temporaneo;

c) il danno da perdita anticipata della vita e il danno da perdita di chance di sopravvivenza, di regola, non saranno né sovrapponibili né congiuntamente risarcibili, pur potendo eccezionalmente costituire oggetto di separata ed autonoma valutazione qualora l’accertamento si sia concluso nel senso dell’esistenza di un danno tanto da perdita anticipata della vita, quanto dalla possibilità di vivere ancora più a lungo, qualora questa possibilità non sia quantificabile temporalmente, ma risulti seria, concreta e apprezzabile, e sempre che entrambi i danni siano riconducibili eziologicamente (secondo i criteri rispettivamente precisati) alla condotta colpevole dell’agente.

…fermo il generale principio, come sopra espresso, della generale irrisarcibilità dell’ulteriore danno da perdita di chance in presenza di un danno da perdita anticipata della vita, in via eccezionale possono darsi ipotesi in cui il Giudice di merito ritenga, anche sulla base della prova scientifica acquisita, che, oltre al tempo determinato di vita anticipatamente perduta, esista, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto, la seria, concreta e apprezzabile possibilità (sulla base dell’eziologica certezza della sua riconducibilità all’errore medico) che, oltre quel tempo, il paziente avrebbe potuto sopravvivere ancora più a lungo. In tal caso, sempre che e soltanto se tale possibilità non si risolva in una mera speranza, ovvero si collochi in una dimensione di assoluta incertezza eventistica, che non attinga la soglia di quella seria, concreta, apprezzabile possibilità (come lascerebbe intendere, in via di presunzione semplice, l’avvenuta morte, benché anticipata, del paziente), tale ulteriore e diversa voce di danno risulterà concretamente e limitatamente risarcibile, in via equitativa, al di là e a prescindere dai parametri (sia pur diminuiti percentualmente) relativi al danno biologico e al quello da premorienza”;

nel caso di specie, è stato accertato in fatto che, senza l’omissione del sanitario, colposamente causale, la vittima, deceduta per infarto due giorni dopo, avrebbe “più probabilmente che non” vissuto un periodo di vita determinato, di sette anni, come tale risarcibile “iure proprio” non “iure successionis”, in linea con quanto osservato anche dal Pubblico Ministero;

si osserva che quanto alla sussistenza della domanda di risarcimento del danno “non patrimoniale, “iure proprio”, in conseguenza della perdita di una persona cara”, essa, da correlare ai principî appena riaffermati, risulta da ciò che lo stesso ricorso, nella corretta cornice di specificità regolata dall’art. 366 c.p.c., n. 6, riporta alle pagine 15 e 16;

per quanto appena detto, non viene invece in discussione la domanda di danno “iure proprio” da perdita di “chance”;>>

danno morale, danno alla salute e micropermanenti

Cass. sez. III del 21.09.2023 n. 26.985, rel. Giannitti:

<<Come noto, l’art. 139 cod. ass. è stato oggetto negli ultimi anni di un duplice intervento legislativo.

Il primo realizzato con L. n. 27 del 2012, che all’art. 52 ha integrato la precedente normativa con due brevi aggiunte: a) il comma 3 ter, in base al quale “le lesioni di lieve entità che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente”; b) il comma 3 quater (dal carattere autonomo, non risultando inserito nel corpo del cod. ass.), in base al quale il danno alla persone conseguente menomazioni di tale tipo “e’ risarcito solo a seguito di riscontro medico legale da cui risulti visivamente o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione”.

Il secondo realizzato con L. n. 124/2017, che all’art. 1, comma 19, reca: “In ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, ovvero visivo, con riferimento alle lesioni, quali cicatrici, oggettivamente riscontrabili senza l’ausilio di strumentazioni, non possono dar luogo a risarcimento del danno biologico permanente”.

Il legislatore del 2017 ha pertanto aggiunto l’accertamento visivo agli altri tipi di accertamento già in precedenza previsti (quello clinico e quello strumentale), stabilendo che esso si riferisce alle lesioni “oggettivamente riscontrabili senza l’ausilio di strumentazioni” (e quindi non soltanto alla ispezione visiva, ma anche alla palpazione, all’esame della mobilità, alla percussione ed all’auscultazione).

2.3.2. Sull’interpretazione da attribuire alle disposizioni ora richiamate, questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di risarcimento del danno da cd. micropermanente che l’art. 139, comma 2, ultimo periodo, D.Lgs. n. 209 del 2005 deve essere ancora interpretato, pur dopo la modifiche introdotte dalla L. n. 124 del 2017 e la pronuncia Corte Cost. n. 98 del 2019 nel senso che la prova della lesione e del postumo non deve essere data esclusivamente con un referto di accertamento clinico strumentale (radiografia, Tac, risonanza magnetica, ecc.), poiché è l’accertamento medico legale corretto, riconosciuto dalla scienza medica, a stabilire se tale lesione sussista, e quale percentuale del detto postumo sia ad essa ricollegabile (v. Cass., 8/4/2020, n. 7753).

Si è al riguardo altresì precisato che la disposizione contenuta nell’art. 32, comma 3 ter, D.L. n. 1 del 2012 (conv., con modif., nella L. n. 27 del 2012), costituisce non già una norma di tipo precettivo bensì una “norma in senso lato”, cui può essere data un’interpretazione compatibile con l’art. 32 Cost., dovendo essa essere intesa nel senso che l’accertamento della sussistenza della lesione dell’integrità psico-fisica deve avvenire con criteri medico-legali rigorosi ed oggettivi, ma l’esame clinico strumentale non è l’unico mezzo utilizzabile (salvo che ciò si correli alla natura della patologia), non essendo precluse fonti di prova diverse dai referti di esami strumentali, i quali non sono l’unico mezzo utilizzabile ma si pongono in una posizione di fungibilità ed alternatività rispetto all’esame obiettivo (criterio visivo) e all’esame clinico (v. Cass., 16/10/2019,, n. 26249; Cass., 19/1/2018, n. 1272).

D’altro canto, l’accertamento medico legale non può essere imbrigliato con un vincolo probatorio che si traduca in una limitazione della prova della lesione.

Pertanto, il suindicato rigore va inteso nel senso che, accanto a situazioni nelle quali in ragione della natura della patologia e della modestia della lesione l’accertamento strumentale risulta in concreto l’unico idoneo a fornirne la prova richiesta dalla legge richiede, ve ne possano essere altre per le quali in ragione della natura della patologia e della modestia della lesioni è possibile pervenire ad una diagnosi attendibile anche senza la relativa effettuazione, tenuto conto del ruolo insostituibile della visita medico legale e dell’esperienza clinica dello specialista alla cui stregua debbono risultare fondate le conclusioni scientificamente documentate e giuridicamente ineccepibili.

I criteri scientifici di accertamento e di valutazione del danno biologico tipici della medicina legale (e cioè il criterio visivo, il criterio clinico ed il criterio strumentale) non sono tra di loro gerarchicamente ordinati e neppure vanno unitariamente intesi, ma vanno utilizzati dal medico legale, secondo le legis artis, nella prospettiva di una “obiettività” dell’accertamento, che riguardi sia le lesioni che i relativi eventuali postumi.

Ad impedire il risarcimento del danno alla salute con esiti micropermanenti, dunque, non è di per sé l’assenza di riscontri diagnostici strumentali, ma piuttosto l’assenza di una ragionevole inferenza logica della sua esistenza stessa, che ben può essere compiuta sulla base di qualsivoglia elemento probatorio od anche indiziario, purché in quest’ultimo caso munito dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c.

La normativa vigente, dunque, valorizza, e al contempo grava di maggiore responsabilità, il ruolo del medico legale, imponendogli la corretta e rigorosa applicazione di tutti i criteri medico legali di valutazione e stima del danno alla persona.

Pertanto, è risarcibile anche il danno i cui postumi non sono “visibili” o insuscettibili di accertamenti strumentali, sempre che la relativa sussistenza possa essere affermata sulla base di un’ineccepibile e scientificamente inappuntabile criteriologia medico-legale.

Conclusione invero consentanea con il rilievo delle Sezioni Unite di questa Corte “che nel passaggio dal codice di procedura civile del 1865 al codice vigente l’istituto peritale è fatto oggetto, nel rinnovato assetto valoriale che ha posto il giudice al centro dell’ordinamento processuale, di un profondo ripensamento che, ben più di quanto non rendano percepibile l’assunzione di una nuova denominazione e la nuova collocazione nella topografia del codice, ne ha mutato alla radice la natura in nome di una diversa concezione del ruolo che – già in allora, ma tanto più oggi di fronte alla preponderante lievitazione del contenzioso ad alto tasso di specialità – l’apporto del sapere tecnico gioca nella risoluzione delle controversie civilistiche” (v. Cass., Sez. Un., 1/ 2/2022, n. 3086)>>.

Su danno morale e alla salute:

<<3.1. Nell’impugnata sentenza il giudice dell’appello ha ritenuto non sufficienti a ritenere provati il danno morale la mera allegazione del disagio psicofisico (invero accertato nella CTU) nonché la possibilità di ritenerlo presuntivamente provato nella specie, affermando che la dedotta sofferenza costituisce una “normale” conseguenza del danno, e non già un pregiudizio di “speciale entità”, che solo avrebbe potuto consentire l’integrazione del punto base di cui all’art. 139, comma 3, cod. ass. a titolo di danno morale.

Orbene, siffatta affermazione è erronea.

3.2. Gli artt. 138 e 139 cod. ass., come modificati dall’art. 1 comma 17 L. n. 124 del 2017, sotto l’unitaria definizione di “danno non patrimoniale” distinguono il danno dinamico relazionale conseguente alle lesioni dal danno morale.

Giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, il danno morale consiste in uno stato d’animo di sofferenza interiore del tutto prescindente dalle vicende dinamico relazionali della vita del danneggiato (che pure può influenzare) ed è insuscettibile di accertamento medico-legale, sicché, ove dedotto e provato, deve formare oggetto di separata valutazione ed autonoma liquidazione rispetto al danno biologico (v. Cass., 21/3/2022, n. 9006).

Si è al riguardo precisato che non costituisce duplicazione la congiunta attribuzione del “danno biologico” e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità permanente, sostanziandosi nella sofferenza interiore (dolore dell’animo, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione, ecc.), sicché ove sia dedotta e provata l’esistenza di uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale essi debbono formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (v. Cass., 27/3/2018, n. 7513), anche nell’ambito del sistema delle micropermanenti (cfr. Cass. n. 7766 del 2016).

Deve allora ribadirsi che il danno da sofferenza interiore deve formare oggetto di specifica valutazione e liquidazione ogniqualvolta come nella specie dedotti e provati (attese le risultanze dell’espletata CTU medico-legale).

Vale al riguardo osservare come la stessa Corte Cost. n. 235 del 2014 abbia sottolineato che la norma di cui all’art. 139 cod. ass. “non è chiusa, come paventano i remittenti, alla risarcibilità anche del danno morale: ricorrendo in concreto i presupposti del quale, il giudice può avvalersi della possibilità di incremento dell’ammontare del danno biologico, secondo la previsione e nei limiti di cui alla disposizione del comma 3 (aumento del 20%)”.

Il giudice della legittimità costituzionale delle leggi ha altresì significativamente sottolineando come “l’introdotto meccanismo standard di quantificazione del danno – attinente al solo, specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità e coerentemente riferito alle conseguenze pregiudizievoli registrate dalla scienza medica in relazione ai primi nove gradi della tabella – lascia comunque spazio al giudice per personalizzare l’importo risarcitorio risultante dall’applicazione delle suddette predisposte tabelle eventualmente maggiorandolo fino a un quinto in considerazione delle condizioni soggettive del danneggiato”.

3.3. Deve dunque ribadirsi che il danno biologico da micropermanenti (definito dall’art. 139 cod. ass. come “lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato”) può essere “aumentato in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato”, secondo la testuale disposizione della norma.

Orbene, il suindicato principio è stato dal giudice dell’appello invero disatteso nell’impugnata sentenza là dove ha affermato che “Come ulteriore conseguenza nulla può essere liquidato a titolo di danno da sofferenza (ex danno morale), ovvero a titolo di personalizzazione, del quale del resto parte attorea/appellante avanza pretesa, senza alcuna specifica allegazione e prova delle ragioni che lo potrebbero giustificare. Negata, infatti, la possibilità di riconoscere un danno biologico da invalidità permanente, ne consegue che viene a cedere ogni correlata pretesa di adeguamento” >>.

Danno da perdita di chance di sopravvivenza e danno da perdita anticipata della vita a confronto

Molto interessante ripasso delle sempre poco chiara disciplina sull’oggetto in Cass. sez. III del 19.09.2023 n. 26.851, rel. Porreca  (segnalata da Ondif, da cui ho preso il titolo) in un caso di errore medico-diagnostico di patologia tumorale, con conseguente omissione terapeutica.

Lodevole il tentativo di far chiarezza, a prescindere dalla condivisibilità dell’esito.

<<Quanto alle lettere a) e b) ora riportate, è opportuno sottolineare che le conseguenze dannose della c.d. premorienza occorsa nelle more del giudizio vanno distinte a seconda che la morte sia indipendente (per tale ipotesi, cfr. Cass., 29/12/2021, n. 41933) o dipendente dall’errore medico. E’ necessario, al contempo, evidenziare che, nel caso di specie, non si discute del danno iure proprio da lesione del rapporto parentale rispetto agli eredi intervenuti in appello, coltivando la domanda già svolta, ma di quello richiesto iure successionis (cfr. in argomento, Cass., 09/03/2018, n. 5641, che traccia le linee differenziali tra il danno da perdita anticipata della vita e perdita delle chance di sopravvivenza, con esclusivo riferimento al danno iure proprio subito dagli eredi).

3.1. Riguardo al primo caso (morte indipendente dall’errore medico), questa Corte ha chiarito che, qualora la vittima di un danno alla salute sia deceduta prima della conclusione del giudizio per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito (fattispecie non sovrapponibile a quella oggi oggetto di esame da parte del Collegio), l’ammontare del risarcimento spettante agli eredi del defunto “iure successionis” va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non a quella statisticamente probabile, sicché tale danno va liquidato in base al criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale d’invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio, e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti (Cass. n. 41933 del 2021, cit.); e’ stata perciò ritenuta non conforme al criterio dell’equità l’applicazione delle c.d. tabelle milanesi sul danno da premorienza, in quanto basate sull’attribuzione al danno biologico permanente di un valore economico decrescente nel corso del tempo.

3.2. In ipotesi di morte dipendente anche, come nella fattispecie, dall’errore medico, il Collegio intende dare continuità al principio per cui, qualora la produzione di un evento dannoso risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale, tale ultima dovendosi ritenere lo stato patologico non riferibile alla prima, l’autore del fatto illecito risponde in toto, in base ai criteri di equivalenza della causalità materiale, dell’evento di danno eziologicamente riconducibile alla sua condotta, a nulla rilevando l’eventuale efficienza concausale anche dei suddetti eventi naturali, che possono invece rilevare, sul piano della causalità giuridica, ex art. 1223 c.c., ai fini della liquidazione, in chiave complessivamente equitativa, dei pregiudizi conseguenti, ascrivendo all’autore della condotta un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose da rapportare, invece, all’autonoma e pregressa situazione patologica del danneggiato, non eziologicamente riferibile, cioè, a negligenza, imprudenza o imperizia del sanitario (Cass., 21/07/2011, n. 15991, Cass., 11/11/2019, n. 28986, Cass., 23/02/2023, n. 5632, Cass., 12/05/2023, n. 13037).

3.3. Va pertanto riaffermato il principio secondo il quale, laddove la condotta dell’agente sia stata ritenuta idonea alla determinazione anche solo parziale dell’evento di danno lamentato, e si fosse prospettata una questione circa l’incidenza di una causa naturale, le due possibili alternative, sul piano della causalità materiale, risulteranno quelle per cui:

– l’accertamento processuale della rilevanza esclusiva del fattore naturale escluda tout court il nesso di causa tra condotta ed evento: in tal caso la domanda sarà rigettata;

– la causa naturale rivesta efficacia eziologica non esclusiva, ma soltanto concorrente rispetto all’evento: in assenza di prova, da parte del danneggiante/debitore, dell’esistenza di altra e diversa causa a lui non imputabile, la responsabilità dell’evento gli sarà ascritta per intero, e la domanda sarà accolta nell’an debeatur.

L’alternativa che si pone al giudice, in altri termini, è quella per cui “il convenuto è responsabile dell’evento di danno”/il convenuto non è responsabile dell’evento di danno”: altre soluzioni, sul piano della causalità materiale, non possono ritenersi predicabili, pena la violazione dell’applicabile dettato normativo di cui all’art. 41, comma 1, c.p., salvo avventurarsi (come pure talvolta accaduto in dottrina) in interpretazioni contrarie alla lettera degli art. 1227 e 2055 c.c., che limitano espressamente e inequivocabilmente il frazionamento della causalità materiale alla sola ipotesi di concorso di cause umane imputabili.

4. Il danno da perdita anticipata della vita va poi distinto da quello da perdita di “chance” di sopravvivenza, posto che, se la morte è intervenuta, come nel caso di specie, l’incertezza eventistica, che ne costituisce il fondamento logico prima ancora che giuridico (Cass. n. 5641 del 2018, cit.), è stata, di regola, smentita da quell’evento: in questo senso, fatte salve le precisazioni di cui si sta per dire, emerge, di regola, un’inammissibile duplicazione risarcitoria tra voci di danno, non risultando logicamente compatibili, in via generale, la congiunta attribuzione di un risarcimento da perdita anticipata della vita e da perdita di chance di sopravvivenza>>.

E poi:

<<4.3. Vanno, pertanto, distinte tre ipotesi:

1) la vittima è già deceduta al momento dell’introduzione del giudizio da parte degli eredi;

2) la vittima è ancora vivente al momento della decisione;

3) la vittima, vivente al momento dell’introduzione della lite, muore in pendenza della decisione.

1) La vittima è già deceduta al momento dell’introduzione del giudizio da parte degli eredi.

In questo caso non è concepibile, né logicamente né giuridicamente, un “danno da perdita anticipata della vita” trasmissibile iure successionis (Cass., 04/03/2004, n. 4400, Cass. 5641 del 2018, cit. e Cass., Sez. U., n. 15350 del 2015, cit.), non essendo predicabile, nell’attuale sistema della responsabilità civile, la risarcibilità del danno tanatologico.

Esemplificando, causare la morte d’un ottantenne sano, che ha dinanzi a sé cinque anni di vita sperata, non diverge, ontologicamente, dal causare la morte d’un ventenne malato che, se correttamente curato, avrebbe avuto dinanzi a sé ancora cinque anni di vita.

L’unica differenza tra le due ipotesi sta nel fatto che, nel primo caso, la vittima muore prima del tempo che gli assegnava la statistica demografica, mentre, nel secondo caso, muore prima del tempo che gli assegnava la statistica e la scienza clinica: ma tale differenza non consente di pervenire ad una distinzione “morfologica” tra le due vicende, così da affermare la risarcibilità soltanto della seconda ipotesi di danno.

E’ possibile, dunque, discorrere (risarcendolo) di “danno da perdita anticipata della vita”, con riferimento al diritto iure proprio degli eredi, solo definendolo il pregiudizio da minor tempo vissuto ovvero da valore biologico relazionale residuo di cui non si è fruito, correlato al periodo di tempo effettivamente vissuto, secondo i parametri di cui si dirà (infra, sub 4.4. e ss.).

In conclusione, nell’ipotesi di un paziente che, al momento dell’introduzione della lite, sia già deceduto, sono, di regola, alternativamente concepibili e risarcibili jure hereditario, se allegati e provati, i danni conseguenti:

a) alla condotta del medico che abbia causato la perdita anticipata della vita del paziente (determinata nell’an e nel quantum), come danno biologico differenziale (peggiore qualità della vita effettivamente vissuta), considerato nella sua oggettività, e come danno morale da lucida consapevolezza della anticipazione della propria morte, eventualmente predicabile soltanto a far data dall’altrettanto eventuale acquisizione di tale consapevolezza in vita;

b) alla condotta del medico che abbia causato la perdita della possibilità di vivere più a lungo (non determinata né nell’an né nel quantum), come danno da perdita di chances di sopravvivenza.

In nessun caso sarà risarcibile iure haereditario, e tanto meno cumulabile con i pregiudizi di cui sopra, un danno da “perdita anticipata della vita” con riferimento al periodo di vita non vissuta dal paziente.

2) La vittima è ancora vivente al momento della liquidazione del danno

I danni liquidabili non divergono, morfologicamente, da quelle indicate sub 1) se non per il fatto che non saranno gli eredi, ma il paziente stesso, ancora in vita, ad invocarne il risarcimento, salvo il diverso profilo del danno morale:

a) se vi è incertezza sulle conseguenze quoad vitam dell’errore medico, il paziente può pretendere il risarcimento del danno da perdita delle chance di sopravvivenza, ricorrendone i consueti presupposti (serietà, apprezzabilità, concretezza, riferibilità eziologica certa della perdita di quella “chance” alla condotta in rilievo);

b) se invece è accertato, secondo i comuni criteri eziologici, che l’errore medico anticiperà la morte del paziente, sarà risarcibile il danno biologico differenziale (peggiore qualità della vita) e il danno morale da futura morte anticipata, in questo caso sicuramente predicabile (essendo il paziente ancora in vita) a far data dalla acquisizione della relativa consapevolezza.

3) La vittima, vivente al momento dell’introduzione del giudizio, è deceduta al momento della liquidazione del [danno, direi io]:

a) se è certo che l’errore medico abbia causato la morte anticipata del paziente, si ricadrà nell’ipotesi di cui sopra, sub 1.a): il paziente può avere patito (e trasmesso agli eredi) un danno biologico (differenziale), e un danno morale da lucida consapevolezza della morte imminente, ma non un danno da “perdita anticipata della vita”, risarcibile soltanto, nel perimetro sopra chiarito, iure proprio agli eredi, che potranno altresì proporre la relativa domanda in corso di causa, per ragioni di economia di giudizi (in argomento, v. anche Cass., Sez. U., 12/12/2014, n. 26242, e Cass., Sez. U., 15/06/2015, n. 12310);

b) se è incerto che l’errore medico abbia causato la morte del paziente, il paziente può avere patito, in relazione al tempo di vita vissuto (e trasmesso agli eredi), un danno da perdita delle chance di sopravvivenza, ma non un danno da “perdita anticipata della vita”>>.

E per concludere:

<<4.4. Tanto premesso, va affermato, in via generale, il principio secondo il quale, quando sia certo che la condotta del medico abbia provocato (o provocherà) la morte anticipata del paziente, la morte stessa diviene, di regola, evento assorbente di qualsiasi considerazione sulla risarcibilità di chance future, salvo quanto si dirà infra, sub 4.5-c).

Nell’esigenza di pervenire ad una terminologia chiara e condivisa, va pertanto chiarito che:

a) vivere in modo peggiore, sul piano dinamico-relazionale, la propria malattia negli ultimi tempi della propria vita a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, rappresenta un danno biologico (differenziale);

b) nel contempo, trascorrere quegli ultimi tempi della propria vita con l’acquisita consapevolezza delle conseguenze sulla (ridotta) durata della vita stessa a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, costituisce un danno morale, inteso come sofferenza interiore e come privazione della capacità di battersi ancora contro il male;

c) perdere la possibilità, seria apprezzabile e concreta, ma incerta nell’an e nel quantum, di vivere più a lungo a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, è un danno da perdita di chance;

d) la perdita anticipata della vita per un tempo determinato a causa di un errore medico in relazione al segmento di vita non vissuta, è un danno risarcibile non per la vittima, ma per i suoi congiunti, nei termini prima chiariti, quale che sia la durata del “segmento” di esistenza cui la vittima ha dovuto rinunciare.

4.5. Traendo le fila del discorso svolto sin qui, deve concludersi che non vi è spazio, in linea generale, per sovrapposizioni concettuali tra istituti speculari (chance e perdita anticipata della vita), salvo che si chiariscano e si accertino, motivando rispetto alla concreta fattispecie, le differenze come sinora ricostruite. Ne consegue, pertanto, che:

a) nel caso di perdita anticipata della vita (una vita che sarebbe comunque stata perduta per effetto della malattia) sarà risarcibile il danno biologico differenziale (nelle sue due componenti, morale e relazionale: art. 138 nuovo testo c.a.p.), sulla base del criterio causale del “più probabile che non”: l’evento morte della paziente, verificatasi in data X, si sarebbe verificata, in assenza dell’errore medico, dopo il tempo (certo) X+Y, dove Y rappresenta lo spazio temporale di vita non vissuta: il risarcimento sarà riconosciuto, con riferimento al tempo di vita effettivamente vissuto – e non a quello non vissuto, che rappresenterebbe un risarcimento del danno da morte (riconoscibile, viceversa, iure proprio, ai congiunti) stante l’irrisarcibilità del danno tanatologico – in tutti i suoi aspetti, morali e dinamico-relazionali, intesi tanto sotto il profilo della (eventuale) consapevolezza che una tempestiva diagnosi e una corretta terapia avrebbero consentito un prolungamento (temporalmente determinabile) della vita che va a spegnersi, quanto sotto quello della invalidità permanente “differenziale” (la differenza, cioè, tra le condizioni di malattia effettivamente sopportate e quelle, migliori, che sarebbero state consentite da una tempestiva diagnosi e da una corretta terapia);

b) il danno da perdita di chance di sopravvivenza sarà invece risarcito, equitativamente, volta che, da un lato, vi sia incertezza sull’efficienza causale della condotta illecita quoad mortem, ma, al contempo, vi sia certezza eziologica che la condotta colpevole abbia cagionato la perdita della possibilità di vivere più a lungo (possibilità non concretamente accertabile nel quantum né predicabile quale certezza nell’an, a differenza che nell’ipotesi sub a). La valutazione equitativa di tale risarcimento non sarà, dunque, parametrabile, sia pur con le eventuali decurtazioni, né ai valori tabellari previsti per la perdita della vita, né a quelli del danno biologico temporaneo;

c) il danno da perdita anticipata della vita e il danno da perdita di chance di sopravvivenza, di regola, non saranno né sovrapponibili né congiuntamente risarcibili, pur potendo eccezionalmente costituire oggetto di separata ed autonoma valutazione qualora l’accertamento si sia concluso nel senso dell’esistenza di un danno tanto da perdita anticipata della vita, quanto dalla possibilità di vivere ancora più a lungo, qualora questa possibilità non sia quantificabile temporalmente, ma risulti seria, concreta e apprezzabile, e sempre che entrambi i danni siano riconducibili eziologicamente (secondo i criteri rispettivamente precisati) alla condotta colpevole dell’agente.

4.5.1. Ecco dunque che, fermo il generale principio, come sopra espresso, della generale irrisarcibilità dell’ulteriore danno da perdita di chance in presenza di un danno da perdita anticipata della vita, in via eccezionale possono darsi ipotesi in cui il Giudice di merito ritenga, anche sulla base della prova scientifica acquisita, che, oltre al tempo determinato di vita anticipatamente perduta, esista, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto, la seria, concreta e apprezzabile possibilità (sulla base dell’eziologica certezza della sua riconducibilità all’errore medico) che, oltre quel tempo, il paziente avrebbe potuto sopravvivere ancora più a lungo. In tal caso, sempre che e soltanto se tale possibilità non si risolva in una mera speranza, ovvero si collochi in una dimensione di assoluta incertezza eventistica, che non attinga la soglia di quella seria, concreta, apprezzabile possibilità (come lascerebbe intendere, in via di presunzione semplice, l’avvenuta morte, benché anticipata, del paziente), tale ulteriore e diversa voce di danno risulterà concretamente e limitatamente risarcibile, in via equitativa, al di là e a prescindere dai parametri (sia pur diminuiti percentualmente) relativi al danno biologico e al quello da premorienza>>.

V.ne ora il commento (un pò critico: v.  § 6) di  Pardolesi (R.)-Simone, Errore diagnostico/terapeutico e giurisprudenza didascalica (ovvero: sui guasti da diniego del danno da morte), in Nuova giur. civ. comm., 2024/1, 159 ss.

Danno morale e danno da perdita di chance: riepilogo del diritto vivente

Cass. n. 25910 del 5 settembre 2023 , rel Rubino sez. III, sull’oggetto (segnalazione e link da studiolegalezardo.it)in un caso di intervento chirurgico di
mastectomia sottocutanea bilaterale con contestuale ricostruzione del
seno (finalizzata alla espansione mammaria).

sulla presumibilità del danno morale :

<<Per quanto concerne il danno morale, la corte d’appello, dopo aver
confermato l’accertamento di una rilevante invalidità permanente in capo alla Gianotti, comportante un rilevantissimo danno estetico ed
anche considerevoli limitazioni funzionali subiti da una giovane donna
nel pieno della sua vita relazionale e sessuale, si è solo
apparentemente conformata all’ormai consolidatosi orientamento di
legittimità secondo il quale, in tema di danno non patrimoniale da
lesione della salute, il danno morale consiste in uno stato d’animo di
sofferenza interiore che rileva autonomamente, a prescindere dalle
vicende dinamico relazionali della vita del danneggiato (che pure può
influenzare), insuscettibile di accertamento medico-legale (Cass. nn.
901 e 7513/2018; Cass. n. 9006 del 2022).
Ha però subito dopo, in poche righe, rigettato la domanda volta al
risarcimento del danno morale, affermando che si trattasse di
pregiudizi solo allegati dall’appellante ma non provati – dovendosi
intendere rinunciate le istanze istruttorie non reiterate in sede di
precisazione delle conclusioni di primo grado – consistenti nelle
sofferenze patite in conseguenza dell’isolamento sociale e
dell’abbandono delle attività lavorative, attinenti, questi ultimi, alla
sfera dinamico relazionale della lesione subita e già valorizzate nella
liquidazione del danno biologico.
Questa affermazione, nella sua scarna lapidarietà, e nella mancanza di
ogni riscontro motivazionale dell’aver effettivamente valutato sotto
questo diverso, seppur connesso profilo, la situazione emotiva della
vittima, si pone in contrasto con il principio della integrale valutazione
del pregiudizio non patrimoniale complessivamente subito, ed in
particolare con quello secondo il quale, ai fini dell’accertamento della
sussistenza di un danno morale, in tema di danno non patrimoniale
discendente da lesione della salute, se è vero che all’accertamento di
un danno biologico non può conseguire in via automatica il
riconoscimento del danno morale (trattandosi di distinte voci di
pregiudizio della cui effettiva compresenza nel caso concreto il
danneggiato è tenuto a fornire rigorosa prova), la lesione dell’integrità
psico-fisica può rilevare, sul piano presuntivo, ai fini della
dimostrazione di un coesistente danno morale, alla stregua di un
ragionamento inferenziale cui deve, peraltro, riconoscersi efficacia
tanto più limitata quanto più basso sia il grado percentuale di invalidità
permanente, dovendo ritenersi normalmente assorbito nel danno
biologico di lieve entità (salvo rigorosa prova contraria) tutte le
conseguenze riscontrabili sul piano psicologico, ivi comprese quelle
misurabili sotto il profilo del danno morale (Cass. n. 6444 del 2023).
La corte d’appello ha invece implicitamente escluso che un rilevante
pregiudizio estetico e funzionale con deturpazione permanente del
seno, in una giovane donna, potesse risultare elemento rilevante, in
via presuntiva, ai fini dell’affermazione del danno morale, idoneo cioè
a determinare una apprezzabile compromissione dell’equilibrio
emotivo-affettivo del soggetto. Non ha valutato affatto se ad esso
potessero presumibilmente associarsi conseguenze in termini di
sofferenza interiore, omettendo di indagare in ordine alla pur
presumibile predicabilità di tale stato d’animo conseguente alla lesione
di un diritto costituzionalmente protetto.
Ha poi circoscritto il contesto probatorio sul quale fondare la
valutazione del danno morale alle sole prove orali, la cui istanza non
era stata adeguatamente reiterata, senza prendere in considerazione
la situazione della giovane come processualmente accertata e valutarla
nella sua idoneità a produrre anche uno stato di sofferenza interiore in
termini di ansia, infelicità, disaccettazione di se stessa e del proprio
corpo così significativamente e irreparabilmente vulnerato
dall’intervento sanitario>>.

Sulla pedita di chance:
<<Pertanto, la prova del danno da perdita di chance si sostanzia:
– nella dimostrazione della esistenza e della apprezzabile
consistenza di tale possibilità perduta, da valutarsi non in termini
di certezza, ma di apprezzabile probabilità – nel caso di specie,
in termini di affermazione economica o nel mondo del lavoro nel
campo prescelto – prova che può essere data con ogni mezzo, e
quindi anche a mezzo di presunzioni;
– nell’accertamento del nesso causale tra la condotta colpevole e
l’evento di danno – nella specie, le possibilità lavorative perdute
a causa delle condizioni fisiche permanenti, estetiche e
funzionali, della persona della danneggiata, con recisione delle
concrete possibilità di affermazione nel campo prescelto. Di tal
che il nesso tra condotta ed evento si caratterizza, nel territorio
della perdita di chance, per la sua sostanziale certezza eziologica
(i. e., dovrà risultare causalmente certo che, alla condotta
colpevole, sia conseguita la perdita di quella migliore possibilità),
mentre l’incertezza si colloca esclusivamente sul piano
eventistico (è incerto, in altri termini, che, anche in assenza della
condotta colpevole, la migliore possibilità si sarebbe comunque
realizzata).
Ne consegue che il soggetto che agisce per ottenere il risarcimento del
danno da perdita di chance è tenuto ad allegare e provare l’esistenza
dei suoi elementi costitutivi, ossia di una plausibile occasione perduta,
del possibile vantaggio perso e del correlato nesso causale (nei termini
sopraesposti), fornendo la relativa prova pure mediante presunzioni,
ed eventualmente ricorrendo anche ad un calcolo di probabilità (Cass.
n. 7110/2023).
In definitiva, il danno da chance perduta consiste non nella perdita di
un vantaggio, economico e/o non economico (ben potendo un danno
perdita di chance legittimamente predicarsi anche su di un piano non
patrimoniale: Cass. 7513/2018), che sia certo ed attuale, ma nella
perdita della concreta possibilità di conseguire un vantaggio sperato.
Nel rigettare la domanda della Giannotti, pertanto, la corte d’appello,
per un verso, non si conforma ai principi suesposti nel ritenere che la
valutazione in termini di danno risarcibile della chance debba essere
compiuta col metro della certezza e non piuttosto con quello della
possibilità qualificata secondo i canoni della apprezzabilità, serietà,
consistenza (Cass. 7513/2018)– così confondendo, sovrapponendoli, il
piano della causalità con quello dell’evento di danno – e, per altro
verso, omette totalmente di considerare alcune evidenze documentali
che ben avrebbe potuto, all’esito di una complessiva valutazione di tipo
inferenziale, ritenere, sia pur non determinanti o conclusive, pur
tuttavia esistenti in punto di fatto, e tali da non poter essere ignorate.
In particolare, tali fatti consistono, quanto alla limitazione della
capacità lavorativa generica, nel riconoscimento della invalidità civile
nella misura del 67%, come da verbale della Commissione medica
prodotto in atti; quanto al percorso fino a quel momento intrapreso
dalla giovane, nel book fotografico in atti predisposto dall’agenzia per
modelle con la quale la Gianotti collaborava; quanto alle prospettive
lavorative future, nelle le dichiarazioni provenienti dalla stessa agenzia
in ordine all’attività svolta all’epoca dalla ragazza – circostanze tutte da
valutare nella loro idoneità a comprovare non un avviato percorso
lavorativo in ordine al quale poter lamentare la perdita certa di una
capacità reddituale già in atto, ma la perdita della possibilità di
affermarsi nel campo che la ricorrente aveva prescelto all’epoca dei
fatti, della cui riuscita non poteva essere certa al momento dell’intervento sanitario, ma rispetto al quale aveva della apprezzabili
probabilità di conseguire un risultato diverso e migliore, che dopo
l’accaduto le sono state del tutto precluse>>.

Danno non patrimoniale e danno da perdita del rapporto parentale: ripasso generale

Cass. n° 26.140 del 7 settembre 2023, sez. 3, rel. Gianniti, sull’oggetto (segnalazione e link da avv. Flavi Zardo in linkedin), sui due concetti in oggetto (si v. anche Cass. 5 settembre 2023 n. 25.910 rel. Rubino).

Sub 1:

<<Sul piano del diritto positivo – come anche di recente precisato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le tante, Cass. n. 2788 del 2019; n. 901 e n. 7513 del 2018, n. 7766 del 2016, anche in relazione a Corte cost. n. 325/2014) – l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 cod. civ.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 cod. civ.; art. 185 cod. pen.).
Quanto al danno non patrimoniale, ne è stata originariamente affermata, su di un piano generale di ricostruzione analitica della fattispecie, la natura “unitaria” e “onnicomprensiva” dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. n. 26972 del 2008). In particolare, l’unitarietà del danno non patrimoniale va intesa nel senso che qualsiasi pregiudizio non patrimoniale sarà soggetto alle medesime regole ed ai medesimi criteri risarcitori (artt. 1223, 226, 2056, 2059 c.c.); mentre la onnicomprensività del danno non patrimoniale va intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative “in peius” della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, con il concorrente limite di evitare duplicazioni (attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici)><.

In tale prospettiva, egli [♦il g. di merito] <<deve tenere conto, oltre che di quanto statuito dalla Corte costituzionale (n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss.), di quanto disposto dal legislatore nazionale in sede di riforma degli artt. 138 e 139 c.d.a., modificati dall’art. 1, comma 17, della legge 4 agosto 2017, n. 124, la cui nuova rubrica (“danno non patrimoniale”, sostituiva della precedente, “danno biologico”), e il cui contenuto letterale impongono al giudice di distinguere, su di un piano generale ed al di là della specifica sedes materiae, il danno dinamico-relazionale dal danno morale.
Conseguentemente, nella valutazione del danno alla salute, in particolare – ma non diversamente che in quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un valore/interesse costituzionalmente protetto, giusta l’insegnamento della Corte costituzionale di cui alla sentenza 233/2003 – il giudice di merito deve valutare la fenomenologia della lesione non patrimoniale: sia nell’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale, che si colloca nella dimensione del rapporto del soggetto con sé stesso), che nell’aspetto dinamico-relazionale della vita del danneggiato (c.d. danno relazionale, che si colloca nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sé”)>>.

<<Anche (ma non solo) alla luce della novella legislativa poc’anzi ricordata – novella di cristallina chiarezza anche sul piano strettamente lessicale – occorre pertanto riaffermare il principio per cui esiste (è sempre esistita, anche prima del ricordato intervento normativo) una ontologica differenza tra danno morale e danno dinamico-relazionale, in quanto il danno alla persona, nella sua dimensione umana ancor prima che giuridica, postula il riconoscimento, da un lato, della sofferenza interiore, dall’altro, delle mutate dinamiche relazionali di una vita che cambia a seguito dell’illecito (illuminante, in tal senso, è il disposto normativo di cui all’art. 612 bis del codice penale, in tema di presupposti palesemente alternativi del reato cd. di stalking). Si tratta di danni diversi e perciò entrambi autonomamente risarcibili, sempre che, e solo se, provati caso per caso, all’esito, si ribadisce, di articolata ed esaustiva istruttoria (c.d. comprovabilità del danno non patrimoniale), tenendo conto che il danno dinamico relazionale può formare oggetto di prova rappresentativa diretta, mentre il risarcimento del danno morale può rappresentare soltanto l’esito terminale di un ragionamento deduttivo, che tenga conto (oltre che delle presunzioni) del notorio e delle massime di esperienza.
Al riguardo, giova anche osservare che il c.d. danno presuntivo è concetto autonomo e distinto rispetto al c.d. danno in re ipsa – la cui giuridica predicabilità deve peraltro ritenersi del tutto esclusa in seno all’attuale sistema della responsabilità civile: Cass. s.u. 26972/2008, cit.
Se, infatti, per quest’ultimo non è richiesta alcuna allegazione da parte del danneggiato, sorgendo il diritto al risarcimento del danno per il sol fatto del ricorrere di una determinata condizione di fatto, il primo richiede un’allegazione ed una dimostrazione, seppur presuntiva, che è sempre suscettibile di essere superata da una eventuale prova contraria allegata da controparte>>

sub 2:

<<Come noto, a fronte della morte di un soggetto causata da un fatto illecito di un terzo, il nostro ordinamento riconosce ai parenti del danneggiato un risarcimento iure proprio, di carattere patrimoniale e non patrimoniale, per la sofferenza patita e per le modificate consuetudini di vita, in conseguenza dell’irreversibile venir meno del godimento del rapporto parentale con il congiunto. Tale forma risarcitoria intende ristorare il familiare del pregiudizio subito sotto il duplice profilo, morale, consistente nella sofferenza psichica che questi è costretto a sopportare a causa dell’impossibilità di proseguire il proprio rapporto di comunanza familiare, e relazionale, inteso come significativa modificazione delle abitudini di vita – destinate, a volte, ad accompagnare l’intera esistenza del soggetto che l’ha subita.
Quanto alla prova del danno, non v’è dubbio che, in linea generale, spetti alla vittima dell’illecito altrui dimostrare i fatti costitutivi della propria pretesa e, dunque, l’esistenza del pregiudizio subito: onere di allegazione che potrà essere soddisfatto anche ricorrendo a presunzioni semplici e massime di comune esperienza (Cass. s.u. 26792/2008, cit.).
Ebbene, nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), è orientamento unanime di questa Corte (Cass. n. 11212 del 2019; n. 31950 del 2018; n. 12146 del 14 giugno 2016) che l’esistenza stessa del rapporto di parentela faccia presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è, per comune esperienza, connaturale all’essere umano. Naturalmente, trattandosi di una praesumptio hominis, sarà sempre possibile per il convenuto dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra vittima e superstite (Cass. n. 3767 del 2018)>>

In paricolare:

<<In tale quadro emergerà il significato e il valore dimostrativo dei meccanismi presuntivi che, al fine di apprezzare la gravità o l’entità effettiva del danno, richiamano il dato della maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge, convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino) secondo una progressione che, se da un lato, trova un limite ragionevole (sul piano presuntivo e salva la prova contraria) nell’ambito delle tradizionali figure parentali nominate, dall’altro non può che rimanere aperta, di volta in volta, alla libera dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali che, benché di più lontana configurazione formale (o financo di assente configurazione formale: si pensi, a mero titolo di esempio, all’eventuale intenso rapporto affettivo che abbia a consolidarsi nel tempo con i figli del coniuge o del convivente), si qualifichino (ove rigorosamente dimostrati) per la loro consistente e apprezzabile dimensione affettiva e/o relazionale>>.

Element concreti per stabilire  presunzioni di danno parentale:
<<Così come ragionevole apparirà la considerazione, in via presuntiva, della gravità del danno in rapporto alla sopravvivenza di altri congiunti o, al contrario, al venir meno dell’intero nucleo familiare del danneggiato; ovvero, ancora, dell’effettiva convivenza o meno del congiunto colpito con il danneggiato (cfr., in tema di rapporto tra nonno e nipote, Cass. n. 21230 e n. 12146 del 2016), o, infine, di ogni altra evenienza o circostanza della vita – come l’età della vittima, l’età dei superstiti (e la correlata eventuale presenza di famiglie autonome), il grado di parentela, le abitudini ed il grado rapporto di frequentazione (e, in particolare, le visite quotidiane e le vacanze trascorse insieme), i pranzi domenicali e festivi ed i momenti celebrativi passati insieme, l’eventuale abitazione in immobili contigui, il ruolo in concreto svolto dal de cuius nelle dinamiche della storia familiare dei parenti superstiti (tenuto anche conto del loro modello di famiglia di riferimento), gli eventuali atti di liberalità – che il prudente apprezzamento del giudice di merito sarà in grado di cogliere>>.

<<Tali principi hanno trovato conferma nella motivazione della sentenza di cui a Cass. n. 28989 del 2019 (che richiama sua volta quelli già espressi in Cass. nn. 901, 7513 e 23469 del 2018), collocata all’interno del cd. “progetto sanità” della terza sezione civile della Corte di legittimità, ove si afferma che, in tema di danno non patrimoniale, se costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di un risarcimento per danno biologico (o per danno parentale) e per danno cd. esistenziale, non costituisce, per converso, duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del risarcimento per danno morale e per danno da perdita del rapporto parentale inteso nel suo aspetto dinamico-relazionale.
3.4. Rimangono, in ogni caso, fermi i principi (affermati da Cass. n. 21060 del 2016 e n. 16992 del 2015) che presiedono all’identificazione delle condizioni di apprezzabilità minima del danno, nel senso di una rigorosa dimostrazione (come detto, anche in via presuntiva) della gravità e della serietà del pregiudizio e della sofferenza patita dal danneggiato, tanto sul piano morale-soggettivo, quanto su quello dinamico-relazionale, senza che tale serietà e apprezzabilità, peraltro, sconfini necessariamente in un vero e proprio radicale ed eccezionale sconvolgimento delle proprie abitudini di vita, che inciderà, se del caso, sulla personalizzazione del risarcimento, e che costituisce a sua volta onere dell’attore allegare e provare, in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche.
Come d’altronde rimane altresì ferma la netta distinzione (affermata ad es. da Cass. n. 21084 del 2015) tra il descritto danno da perdita, o lesione, del rapporto parentale e l’eventuale danno biologico che detta perdita o lesione abbiano ulteriormente cagionato al danneggiato, atteso che la morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti, oltre al danno parentale, consistente nella perdita del rapporto e nella correlata sofferenza soggettiva, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca (Corte cost. 372/1994), l’uno e l’altro dovendo essere oggetto di separata considerazione come elementi del danno non patrimoniale, ma nondimeno suscettibili – in virtù del principio della cd. “onnicomprensività” della liquidazione – di liquidazione finale unitaria>>