Vale tacita rinuncia ai crediti, sub iudice e illiquidi, e non compresi nel bilancio finale di liquidazione, estinguere la società tramite cancellazione dal registro imprese in pendenza di lite (con impossibilità di trasferimento ai soci anche ai fini dell’art. 110 cod. proc. civ.)?

Cass. sez. I ord interl. 13 giugno 2024 n. 16.477, rel. Terrusi, rinvia la questione alle sezioni unite per contrasto giurisprudenziale (e per la particolare importanza della questione stssa):

<< VIII. – In definitiva può osservarsi che, dopo le sentenze delle Sezioni Unite all’inizio citate, si è perpetuato un contrasto in seno alla Corte, vertente in particolare sulla possibilità di configurare la tacita rinuncia ad alcuni dei crediti della società, sub iudice e illiquidi, e non compresi nel bilancio finale di liquidazione, ove questa venga cancellata dal registro delle imprese in pendenza di lite, con conseguente estinzione e impossibilità di trasferimento ai soci anche ai fini dell’art. 110 cod. proc. civ.

Secondo l’orientamento sotteso alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 6070 del 2013, condiviso da altre immediatamente susseguenti anche non massimate, andrebbe constata in casi del genere una presunzione pressoché assoluta di rinuncia, correlata a un intento abdicativo di per sé discendente dalla cancellazione.

Cosa peraltro determinativa di non secondarie criticità: (a) per l’irrazionalità della configurazione che pone a elemento distintivo l’idoneità della posta creditoria a essere iscritta nel bilancio finale, in contrasto col principio contabile generale per cui ogni credito, in verità, ancorché illiquido o incerto, va iscritto (e quindi può essere iscritto) in bilancio al valore presumibile di realizzo (art. 2426 cod. civ.); (b) per l’automatica riconduzione della formalità pubblicitaria (la cancellazione dal registro delle imprese) alla fattispecie della rinuncia, pur in presenza di circostanze logicamente non compatibili, come la coltivazione del giudizio per l’accertamento del credito da parte del liquidatore; (c) per l’oggettiva difficolta di sostenere l’assunto sul piano degli effetti pratici, giacché mantenendosi l’automatismo ne deriverebbe una perdita potenziale in pregiudizio degli stessi creditori, in ragione della impossibilità di far conto della posta attiva in esito a una scelta abdicativa a loro estranea.

In ragione di tanto le due decisioni citate, della Prima sezione (Cass. Sez. 1 n. 9464-20) e della Prima sottosezione delle Sesta (Cass. Sez. 6-1 n. 30075-20), hanno ritenuto di poter trovare un punto di equilibrio nell’affermazione di una presunzione inversa, escludente (di fatto) ogni automatismo: la cancellazione della società non determina la automatica rinuncia del credito controverso, perché la remissione del debito presuppone una volontà inequivoca in tal senso, che deve essere specificamente allegata e provata.

Di contro, l’arresto della Terza sezione ha posto nuovamente al centro del problema l’automatismo discendente dalla distinzione operata dalle Sezioni Unite del 2013, ridimensionandone il profilo – certo – ma sull’opposto versante della ripartizione dell’onere della prova: la volontà abdicativa si presume fintanto che non sia dimostrato il contrario, vale a dire che il credito, originariamente azionato dalla società e per definizione illiquido, non è stato implicitamente rinunciato>>.

La cancellazione della società dal registro imprese “causa pendente” non equivale a rinunzia del credito azionato

Cass. sez. I, 14/06/2024 n. 16.607, rel. Fidanzia:

<<La Corte d’Appello ha ritenuto che, alla stregua dei principi enunciati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 6070/2013, dovrebbe presumersi che la società correntista, con la cancellazione dal registro delle Imprese, abbia inteso rinunciare al credito vantato nei confronti della banca, con conseguente intrasmissibilità del medesimo ai soci.

Questo Collegio non condivide una tale impostazione giuridica.

Va osservato che questa Corte, nella sentenza n. 9464/2020 (conf. Cass. n. 28439/2020), proprio in un’analoga fattispecie in cui era stata proposta una domanda di ripetizione di indebito bancario, ha enunciato il principio – cui questo Collegio intende dare continuità – secondo cui l’estinzione di una società conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, ove intervenuta nella pendenza di un giudizio dalla stessa originariamente intrapreso, non determina anche l’estinzione della pretesa azionata, salvo che il creditore abbia manifestato, anche attraverso un comportamento concludente, la volontà di rimettere il debito comunicandola al debitore e sempre che quest’ultimo non abbia dichiarato, in un congruo termine, di non volerne profittare.

La predetta pronuncia, nel suo articolato (e pienamente condivisibile) percorso argomentativo, dopo essersi diffusamente soffermata sull’istituto della remissione di debito, a norma dell’art. 1236 cod. civ., evidenziandone i caratteri della univocità e concludenza, da valutare con particolare rigore e cautela, ha osservato che tali requisiti devono essere riscontrati nel comportamento della società nel momento in cui essa si cancella dal registro delle imprese, e ciò al fine di individuarvi anche la rinuncia in ordine ai diritti di credito ancora non esatti o non liquidati, con la conseguenza che, ove difettino indici univoci sulla volontà remissoria, deve essere esclusa la volontà di remissione del debito.

Né ad una diversa conclusione si può pervenire per effetto delle decisioni delle Sezioni unite (Cass. nn. 6070 – 6072 del 2013), le quali avevano, piuttosto, evidenziato che la remissione del debito per effetto della cancellazione della società dal registro delle imprese fosse una delle varie evenienze solo “possibili”. Pertanto, in presenza di una domanda della cancellazione della società dal registro delle imprese, non è sufficiente – pena il ritenere ingiustificatamente sempre estinto il credito in tali evenienze, sulla base di una presunzione assoluta priva dei caratteri ex art. 2729 c.c. – che la cancellazione sia domandata ed eseguita.

La predetta sentenza n. 9464/2020 ha, infine, evidenziato che “..All’opposto, la mancata dichiarazione del difensore, ai sensi dell’art. 300 c.p.c. ai fini della interruzione del processo e la prosecuzione del medesimo, pur dopo l’avvenuta cancellazione della società costituisce un elemento in senso contrario rispetto ad un’ipotizzata volontà abdicativa: essendo ragionevolmente presumibile, piuttosto, in generale che il difensore, mandatario della società, avesse in tal senso concordato con la stessa la linea difensiva da tenere, anche nell’interesse dei soci, il cui sostrato personale riemerge proprio nel momento della cancellazione del soggetto collettivo. Il relativo accertamento, concretandosi in un giudizio di fatto, sfugge al sindacato di legittimità; ma costituisce giudizio di diritto escludere che la mera cancellazione dal registro delle imprese possa, di per sé sola, per la sua invincibile equivocità, reputarsi sufficiente a dedurne una volontà abdicativa”.

Orbene, anche questo Collegio è concorde nell’escludere che la mera cancellazione di una società dal registro delle imprese possa, di per sé sola, per la sua evidente equivocità, reputarsi sufficiente a dedurne la remissione del credito fatto valere in giudizio, la quale deve essere, invece, allegata e provata con rigore da chi intenda farla valere, dimostrando tutti i presupposti della fattispecie, ossia la inequivoca volontà remissoria e la destinazione dichiarazione ad uno specifico creditore (Cass. n. 30075/2020).

Ne consegue che, in difetto di altri indici univoci sulla volontà remissoria – nel caso di specie, non accertati dalla sentenza impugnata, né comunque evidenziati dalla banca ricorrente – può ragionevolmente ritenersi che sia avvenuta, per effetto della cancellazione della società dal registro delle imprese, un trasferimento dei diritti di quest’ultima ai soci>>.

Affermazione ineccepibile, anche se tutto sommato scontata.

Legato di liberazione da debito , imputazione in conto di legittima e azione di riduzione da parte del legittimario

Cass. 27.07.2022 n. 23.404, sez. 2, rel Scarpa:

la disposizione testamentaria: <<: “(i) miei figli mi hanno sempre impedito di esercitare i miei diritti di usufrutto sui beni della mia prima moglie, impedendomi di utilizzarli e di riscuotere i relativi fitti. Per tale ragione avrebbero dovuto restituirmi svariate centinaia di milioni. Rimetto a loro questo debito ma dispongo che dette somme vengano conteggiate sulla loro quota di legittima”>>

Il dictum della CAss.: <

1.3. Si ha riguardo ad un legato di liberazione da debito (legatum liberationis), ai sensi ai sensi dell’art. 658 c.c., comma 1, in conto di legittima, effettuato, cioè, senza dispensa dalla imputazione e perciò costituente un acconto sulla quota riservata al legittimario, sulla quale finisce per gravare proprio in forza dell’imputazione.

1.3.1. Che la disposizione testamentaria con cui V.G. “rimetteva” ai propri figli A. e R.M.C. il debito per avergli “impedito di esercitare” i “diritti di usufrutto sui beni della… prima moglie” integrasse un legato in conto di legittima è frutto di un apprezzamento di fatto operato dai giudici del merito, immune da violazione dei canoni ermeneutici, congruamente motivato e perciò non sindacabile per violazione di norme di diritto in sede di legittimità (Cass. Sez. 2, 09/09/2011, n. 18583; Cass. Sez. 2, 12/02/2000, n. 1573; per un precedente in tema di “legatum liberationis” in sostituzione della legittima, Cass. Sez. 2, 15/05/1997, n. 4287).>

Ora l’ipotesi del legato di “liberazione da debito”, contemplata dall’art. 658 c.c., comma 1, viene preferibilmente <<ricostruita in dottrina come vicenda che attribuisce, in realtà, al legatario un diritto di credito vantato nei suoi confronti dal testatore, dal che discende l’effetto dell’estinzione dell’obbligo per confusione, venendosi a riunire nella stessa persona le qualità di creditore e di debitore. Rimane estranea al “legaturn liberationis” la fattispecie della remissione ex art. 1236 c.c., in quanto il legato è pur sempre una disposizione liberale a titolo particolare in favore del debitore e si configura come negozio unilaterale non recettizio, sicché l’effetto della liberazione del legatario si produce immediatamente all’apertura della successione.

1.7. Ove poi, come avvenuto nella specie, accogliendo la domanda del legittimario che si ritenga leso nella sua quota di riserva, sia disposta la riduzione della disposizione testamentaria contenente un “legato di liberazione da debito”, questo rimane inefficace “ex nunc” nei confronti del legittimario vittorioso, di tal che viene meno anche l’effetto estintivo del credito del testatore nei confronti del legatario e il medesimo credito può essere incluso nella porzione della divisione assegnata per soddisfare il legittimario>>.

Canoni locatizi non richiesti per sette anni e poi richiesti ex abrupto: perdita del relativo diritto per abuso (o Verwirkung) del diritto?

Cass. 14.06.2021 n. 16.743, Bellini e Chiari srl c. Bellini, rel. Fiecconi, decide sulla qualificazione di una condotta omissiva del locatore (una s.r.l.) che per sette anni non aveva chiesto i canoni al conduttore e poi glieli chiede tutto all’improvviso .

Si trattava di srl a base famigliare ,che aveva inviato l’intimazione di pagamento, prima mai inviata, solo dopo la rottura dei rapporti tra soci/parenti (genitore/figlio)

La sentenza inquadra la richiesta nell’abusto del diritto , ricondubicile alla buona fede contrattuale : il silenzio per anni ha creato un affidamento di non dovutezza dei canoni, per cui l’improvvisa richiesta è abusiva.

La SC discute anche la introducibilità nel ns. ordinamento dell’istituto della Verwirkung (perdita) del diritto a seguito di silenzio o altra condotta concludente del creditore, ritenendola problematica.

La sentenza  è ricca di passaggi interessanti (talora forse eccesivi rispetto alla necessità del decidere) e sarà oggetto di ampi commenti.

Ad es.: <<Va rilevato che, in virtù di tale accezione dell’ obbligo solidaristico in sede contrattuale, negli ordinamenti di area continentale europea tende vieppiù ad affermarsi il principio, basato appunto sulla clausola di buona fede, di matrice romanistica, secondo cui, anche prima del decorso del termine prescrizionale, il mancato esercizio del diritto, protrattosi per un conveniente lasso di tempo, imputabile al suo titolare e che abbia fatto sorgere nella ontroparte un ragionevole ed apprezzabile affidamento sul definitivo non esercizio del diritto medesimo, porta a far considerare che un successivo atto di esercizio del diritto in questione possa integrare un abuso del diritto, nella forma del ritardo sleale nell’esercizio del diritto, con conseguente negazione della tutela. Al di là delle definizioni teoriche, pertanto, la Verwirkung nel senso appunto di abuso del diritto nel senso di subitaneo e ingiustificato revirement rispetto a una sua protratta opposta modalità di esercizio (a ben guardare, anche la remissione è una forma di esercizio del diritto, potendo concederla solo chi ne è titolare) costituisce un istituto idoneo a venire in gioco, anche nel nostro ordinamento, allorché appunto si prospetti un abusivo esercizio del diritto dopo una prolungata inerzia del creditore o del titolare di una situazione potestativa che per lungo tempo è stata trascurata e ha ingenerato un legittimo affidamento nella controparte. In tal caso, a seconda delle circostanze, può ravvedersi, nel tempo, un affidamento dell’altra parte nell’abbandono della relativa pretesa, idoneo come tale a determinare la perdita della situazione soggettiva nella misura in cui il suo esercizio si riveli un abuso.>, § 16,

Il canone generale della buona fede che regola infatti anche la dinamica contrattuale, cioè l’intrecciarsi degli opposti diritti/interessi nella esecuzione di quanto si è cristallizzato nel patto negoziale, <<impedisce che i diritti siano esercitati in modalità astratte, imponendo invece il rispetto dell’affidamento che questa ha acquisito proprio in conseguenza della modalità esecutiva fino ad allora praticata, l’affidamento costituendo una species di interesse insorto da una specifica percezione della dinamica contrattuale in atto. Dinamica che peraltro l’insorgenza di tale affidamento conduce ad una stabilizzazione favorevole, che può essere infranta dalla controparte soltanto, appunto, con un abuso, che concretizza, nel fondo della sua sostanza, la violazione del canone di solidarietà che, pur essendo contrapposti gli interessi delle parti contrattuali, costituisce il background della confluenza di detti interessi nel negozio stipulato, e permane quindi, come regola fondante, nella sua esecuzione, id est nel suo reciproco adempimento>>, § 17.

Molto interessante poi è la precisazione per cui l’eccezione di abuso è rilevabile d’ufficio, non essendo invocabile la disposizione sulla prescrizione, art. 2938 cc, § 18.

Problema centrale è la prorzionalità dei mezzi usat (§ 24) e cioè se ricorra un interessa apprezzabile del creditore, § 25

Ma nel caso, se non c’è rinuncia tacita, § 26, l’esercizio <<repentino del diritto installatosi in una circostanziata situazione di maturato affidamento della sua intervenuta abdicazione, correlata a un assetto di interessi pregresso, ha integrato un abuso del diritto per quanto detto sopra e ha comportato, altresì, la negazione di tutela dell’interesse di controparte in considerazione di sopravvenute circostanze nelle quali il giudice di merito – illustrando ciò con adeguata motivazione – ha riscontrato un conflitto tra le parti determinatosi per altre questioni, pacificamente non collegate al contratto> § 28

In altre parole, questa è <<l’esatta identificazione dell’istituto da applicarsi: i diritti disponibili in quanto tali possono essere oggetto di rinuncia anche se sono stati inseriti in un sinallagma contrattuale, e la rinuncia può essere effettuata a mezzo di fatti concludenti, vale a dire come forma specifica di esecuzione del contratto dalla parte del creditore. Dove il comportamento inerte di quest’ultimo non è ascrivibile a rinuncia, come nel caso concreto è risultato, ma a un – ben protratto – prodromo di un esercizio abusivo del diritto, il decorso di un tale spiccato periodo di tempo di oggettiva apparenza remittente non può non assumere valore ai fini dell’estinzione/consumazione del diritto per il periodo de quo, trattandosi di diritto a esecuzione continuata e periodica. Pertanto, indipendentemente dall’indagine sulla volontà di rinunciare al diritto o dal decorso del termine di prescrizione del medesimo, il repentino esercizio del diritto, dopo una situazione di durevole inerzia non altrimenti giustificata, può costituire esso stesso una violazione del principio di affidamento circa la oggettiva abdicazione. (…)  In siffatto contesto, collegato alla causa del contratto di locazione e alla protratta inerzia del locatore nel richiedere il pagamento del corrispettivo di locazione per oltre sette anni, la repentina richiesta di adempimento per la parte del credito eventualmente non caduta in prescrizione è da valutarsi alla stregua dell’esercizio abusivo del diritto, e dunque in violazione di obblighi solidaristici collegati alla salvaguardia dell’interesse del conduttore a non perdere una acquisita situazione di vantaggio determinatasi a suo esclusivo favore, laddove non si dimostri di avere sino a quel tempo comportato un apprezzabile sacrificio per il locatore, rimasto inerte sin dall’origine, a fronte del grave onere imposto repentinamente sulla controparte >>, §§ 29 e 31.

Importante poi la precisazione dell’interferenza (sotto il profilo causale, direi) del rapporto locatizio con quello societario/familiare: <<L’accertamento fattuale della eventuale violazione della fondamentale obbligazione solidaristica in un caso come quello di cui si tratta, laddove si consideri che il rapporto negoziale si era formalmente instaurato tra una società commerciale con accentuato carattere personalistico e una naturale flessibilità dell’organizzazione sociale – come è oggi intesa la società a responsabilità limitata – , proprietaria del bene locato, e un socio, non può d’altronde – si nota peraltro ad abundantiam – non tener conto della mutazione di comportamento della società creditrice non appena il socio è, nei fatti, forzosamente uscito dalla compagine sociale e i rapporti con il socio di riferimento, il padre, si sono incrinati per vicende estranee alla conduzione della società e del contratto di locazione; pertanto, la iniziativa della società di attivarsi, tra l’altro in un contesto di accesa conflittualità tra soci, appartenenti a un medesimo contesto familiare, dopo che la società per anni era rimasta inerte senza fornire adeguata giustificazione, è da ritenersi un comportamento certamente innaturale in un contesto societario ove le questioni interne tra i soci non sono normalmente in grado di mutare l’assetto degli interessi sottesi al contratto sociale, se non cristallizzati in altrettanti reciprochi impegni tra la società e i soci (Sez. 1, Sentenza n. 12956 del 22/06/2016; Sez. 1, Sentenza n. 14629 del 21/11/2001)>>, § 32.

Ragionando secondo questi principi, quindi, <<è sostenibile che un credito nascente da un rapporto ad esecuzione continuata, mai preteso sin dall’origine del rapporto negoziale, anche se formalmente menzionato nelle scritture contabili di una società a responsabilità limitata per più esercizi, in assenza di altri indici di segno contrario, possa ugualmente costituire un fattore di generazione di un affidamento di oggettiva rinuncia del credito sino ad allora maturato nei confronti del socio. Pertanto, la repentina richiesta di adempimento dell’obbligazione di pagamento, indipendentemente dalla presenza di indici idonei a denotare una volontà di rinuncia del medesimo, se corrispondente a una situazione di palese conflittualità tra socio (allora ex socio) e gli altri soci, non giustificata da altri fattori, costituisce un abuso del diritto ove riveli l’intento di arrecare un ingiustificato nocumento>>, § 34.

Ed allora ecco il principio di diritto: <«il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 e 1375 cod.civ. legittima in punto di diritto l’insorgenza in ciascuna parte dell’affidamento che, anche nell’esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive ed esecuzione continuata, ciascuna parte si comporti nella esecuzione in buona fede, e dunque rispettando il correlato generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, anche a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere generale del “nerninem laedere”; ne consegue che in un contratto di locazione di immobile ad uso abitativo l’assoluta inerzia del locatore nell’escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del corrispettivo sino ad allora maturato, protrattasi per un periodo di tempo assai considerevole in rapporto alla durata del contratto, e suffragata da elementi circostanziali oggettivamente idonei a ingenerare nel conduttore un affidamento nella remissione del diritto di credito da parte del locatore per facta concludentia, la improvvisa richiesta di integrale pagamento costituisce esercizio abusivo del diritto>>, § 36.

Il credito non evidenziato nel bilancio finale di liquidazione non è rinunciato (finalmente!) (nonchè le Sez. Unite a dicembre 2020)

Sull’annosa questione del se un credito non evidenziato nel bilancio finale di liquidazione (con successica cancellazione della società dal registro imprese), interviene Cass. 14.12.2020 n. 28439. E’ dovuta all’ottima penna del dr. Rossetti.

Dice che, tranne circostanze ineqivoche in senso opposto, il  mero fatto della omessa evidenziazione del credito non può essere inteso come sua rinuncia (rectius: remissione).

Finalmente! Ci sono state molte pronunce in senso opposto, ma senza alcun fondamento.

Così infatti si legge nella cit. Cass. 28439/2020:

<<La remissione del debito, infatti, è pur sempre un atto negoziale che richiede una manifestazione di volontà. Tale manifestazione di volontà ovviamente potrà essere anche tacita, ma deve essere tuttavia inequivoca. Il silenzio, infatti, nel nostro ordinamento giuridico non può mai elevarsi a indice certo d’una volontà abdicativa o rinunciataria d’un diritto, a meno che non sia circostanziato, cioè accompagnato dal compimento di atti o comportamenti di per sé idonei a palesare una volontà inequivocabile.

La mancata appostazione d’un credito nel bilancio finale di liquidazione, tuttavia, non possiede i suddetti requisiti di inequivocità. Essa, infatti, potrebbe teoricamente essere ascrivibile alle cause più varie, e diverse da una rinuncia del credito: ad esempio, l’intenzione dei soci di cessare al più presto l’attività sociale; l’arriere-pensee di coltivare in proprio l’esazione del credito sopravvenuto o non appostato; la pendenza delle trattative per una transazione poi non avvenuta, e sinanche, da ultimo, la semplice dimenticanza o trascuratezza del liquidatore>>

E, poco dopo, la riformulazione nel principio di diritto formalmente enunciato:

<<la remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco; un comportamento tacito, pertanto, può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo quando non possa avere alcun’altra giustificazione razionale, se non quella di rimettere al debitore la sua obbligazione.

Ne consegue che i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnati da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l’omessa appostazione in bilancio altra causa non potesse avere, se non la volontà della società di rinunciare a quel credito>>.

Perfetto: nulla da osservare.

La SC si è poi pronunciata ancora nello stesso senso (medesimi estensore e presidente) con Cass. sez .3  n. 1724 del 26.01.2021.

LE SEZIONI UNITE A DICEMBRE 2020:

Restano però orientamenti opposti quando si tratta di <mere pretese> e al più alto livello: <<E’ acquisito nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui, in caso di cancellazione di una società di persone dal registro delle imprese, i singoli soci non sono legittimati all’esercizio di azioni giudiziarie la cui titolarità sarebbe spettata alla società prima della cancellazione ma che essa ha scelto di non esperire, sciogliendosi e facendosi cancellare dal registro, atteso che, in tal modo, la società ha posto in essere un comportamento inequivocabilmente inteso a rinunciare a quelle azioni, facendo così venir meno l’oggetto stesso di una trasmissione successoria ai soci (Cass., Sez. I, 16 luglio 2010, n. 16758).               Su questa base, è stato chiarito che non si verifica la successione dei soci nella titolarità di mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, e di crediti ancora incerti o illiquidi che, ove non compresi nel bilancio finale di liquidazione, devono ritenersi rinunciati dalla società a favore della conclusione del procedimento estintivo, con la conseguenza che gli ex soci non hanno la legittimazione a farli valere in giudizio (Cass., Sez. I, 15 novembre 2016, n. 23269; Cass., Sez. I, 19 luglio 2018, n. 19302).            Più in generale, qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno successorio, in virtù del quale si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, nè i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato (Cass., Sez. Un., 12 marzo 2013, n. 6072)>> (Cass. sez. un. – 18/12/2020, n. 29108, rel. Giusti, sub § 3 Ragioni della decisione).

E poi, diconseguenza: <<E’ esatta la premessa in diritto enunciata dalla sentenza impugnata: il mancato espletamento, da parte della società, dell’attività volta ad ottenere la condanna del soggetto responsabile al risarcimento del danno consente di ritenere che la società abbia rinunciato al credito risarcitorio, con esclusione della successione dei soci; la scelta della società di cancellarsi dal registro, senza prima intraprendere alcuna attività giudiziale volta a far accertare il credito risarcitorio e ad ottenere la conseguente pronuncia di condanna, può ragionevolmente essere interpretata come un’univoca manifestazione di volontà di rinunciare a quel credito (incerto o comunque illiquido) a favore di una più rapida conclusione del provvedimento estintivo.>>, § 5.

Presunzione priva di fondamento. La SC a sezioni unite limita però la perentorietà dell’affermazione richiedendo però la conoscibilità del credito, nel caso di credito illiquido perchè risrcitorio: <<Ritiene tuttavia il Collegio che, in presenza di un credito risarcitorio da illecito extracontrattuale, in tanto un’interpretazione abdicativa della cancellazione appare giustificata, in quanto la società fosse in grado, al tempo della cancellazione, con l’uso dell’ordinaria diligenza, di avere conoscenza non solo del danno, ma anche dell’illecito e della derivazione causale dell’uno dall’altro.

Poichè, dunque, la presunzione di una volontà dismissiva non può prescindere dalla conoscenza o dalla conoscibilità dell’esistenza del diritto rinunciato, nel caso di specie occorreva, per ritenere configurabile la rinuncia al credito risarcitorio, che la società avesse reale e concreta percezione o fosse in grado di conoscere con l’ordinaria diligenza che il pregiudizio sofferto, derivante dall’esondazione del fiume, era la conseguenza, non di una mera calamità naturale dovuta ad eccezionali precipitazioni, ma di un fatto illecito addebitabile alla colpa del terzo.>>, § 6.

Sul profilo temporale le Sez. Un. osservano : <<Invero, applicandosi il principio enunciato da Cass., Sez. Un., 22 febbraio 2010, n. 4060, l’effetto estintivo della società di persone si è avuto dal 1 gennaio 2004, ancorchè la cancellazione sia intervenuta in un momento precedente (nel marzo 1997).   Si è infatti chiarito (cfr., altresì, Cass., Sez. Un., 12 marzo 2013, n. 6072, cit.):

– che l’effetto estintivo è destinato ad operare in coincidenza con la cancellazione, se questa abbia avuto luogo in epoca successiva al 1 gennaio 2004, data di entrata in vigore della riforma del diritto societario attuata dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, o a partire da quella data se si tratti di cancellazione intervenuta in un momento precedente;

– che per ragioni di ordine sistematico, desunte anche da disposto del novellato L. Fall., art. 10, la stessa regola è applicabile anche alla cancellazione volontaria delle società di persone dal registro, quantunque tali società non siano direttamente interessate dalla nuova disposizione dell’art. 2495 c.c. e sia rimasto per esse in vigore l’invariato disposto dell’art. 2312 c.c. (integrato, per le società in accomandita semplice, dal successivo art. 2324);

– che la situazione delle società di persone si differenzia da quella delle società di capitali, a tal riguardo, solo in quanto l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto che le cancella ha valore di pubblicità meramente dichiarativa, superabile con prova contraria; tale prova contraria non potrebbe vertere sul solo dato statico della pendenza di rapporti non ancora definiti facenti capo alla società, perchè ciò condurrebbe in sostanza ad un risultato corrispondente alla situazione preesistente alla riforma societaria; per superare la presunzione di estinzione occorre, invece, la prova di un fatto dinamico: cioè che la società abbia continuato in realtà ad operare – e dunque ad esistere – pur dopo l’avvenuta cancellazione dal registro>>, § 9.

Si badi però che la non menzione del credito nel bilancio finale di liquidazione di per sè non  equivale a rinuncia (almeno nel caso de quo): <<Una volontà abdicativa del diritto al risarcimento del danno neppure può essere nella specie desunta dalla mancata iscrizione del relativo credito nel bilancio finale di liquidazione. Poichè, infatti, la cancellazione della società Bocinsky ha avuto luogo senza passare attraverso la fase della liquidazione, non appare possibile, in assenza di bilancio di liquidazione, far leva sul dato della mancata iscrizione del credito risarcitorio nel detto bilancio finale per distinguere tra i diritti trasferiti ai soci e quelli destinati all’estinzione (cfr. Cass., Sez. I, 25 ottobre 2016, n. 21517)>>, § 10.

Nota alla sentenza di Niccolini G. in Foro it., 2021/2, I, 482.