L?azione di riduzione è ammissibile se gli eredi hanno redatto tempestivamente l’inventario

Cass. sez. II, 11/07/2024 n. 19.010, rel. Cavallino (ove richiamo di altre Cass. sul quando il chiamato, agente in riduzione, abbia o meno l’onere di accettare col beneficio di inventario, sostanzialmente dipendente dal se sia o meno stato “pretermesso”):

<<Inoltre, l’azione di riduzione non può essere proposta neppure nel caso in cui l’inventario sia stato redatto allorché sia già decorso il termine di tre mesi dalla dichiarazione di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario. Infatti, in tale ipotesi non ricorrono le condizioni per applicare il disposto dell’art. 564 cod. civ. per il caso di decadenza dal beneficio di inventario, in quanto la tardiva esecuzione dell’inventario non integra un’ipotesi di decadenza dal beneficio di inventario. Nel solco di Cass. Sez. 2 15-7-2003 n. 11030 Rv. 56506101, secondo cui la tempestiva formazione dell’inventario è un elemento costitutivo del relativo beneficio, Cass. Sez. 2 9-8-2005 n. 16739 (Rv. 584307-01), in fattispecie del tutto analoga a quella del presente giudizio, ha statuito che l’art. 484 cod. civ., nel prevedere che l’accettazione con beneficio di inventario si fa con dichiarazione, preceduta o seguita dalla redazione dell’inventario, delinea una fattispecie a formazione progressiva, di cui sono elementi costitutivi entrambi gli adempimenti ivi previsti; la dichiarazione di accettazione con beneficio di inventario ha una propria immediata efficacia, determinando il definitivo acquisto della qualità di erede da parte del chiamato, ma non incide sulla limitazione della responsabilità intra vires, che è condizionata anche alla preesistenza o alla tempestiva sopravvenienza dell’inventario, in mancanza del quale l’accettante è considerato erede puro e semplice (artt. 485,487,488 cod. civ.), non perché abbia perduto ex post il beneficio, ma perché non lo ha mai conseguito; le disposizioni che impongono il compimento dell’inventario entro determinati termini non ricollegano all’inutile decorso del termine un effetto di decadenza, ma sanciscono sempre come conseguenza che l’erede viene considerato accettante puro e semplice, mentre la decadenza è ricollegata solo ed esclusivamente ad alcune condotte, che attengono alla fase della liquidazione e sono quindi necessariamente successive alla redazione dell’inventario (nello stesso senso, Cass. Sez. 2 26-3-2018 n.7477 e Cass. Sez. 2 29-122023 n. 36459, non massimate, per tutte)>>.

Donazione indiretta vs simulazione, azione di riduzione vs collazione

Altra lezione di diritto successorio/donativo dalla penna del dr Criscuolo in Cass., sez. 2 del 12 luglio 2024 n. 19.230:

profilo processuale:

<<5. La giurisprudenza di questa Corte ha progressivamente rivisto il precedente orientamento eccessivamente rigoroso in tema di allegazioni necessarie ai fini della ammissibilità dell’azione di riduzione, addivenendo alla conclusione per cui nel caso di esercizio della stessa, il legittimario ha l’onere di precisare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, indicando gli elementi patrimoniali che contribuiscono a determinare il valore della massa ereditaria nonché, di conseguenza, quello della quota di legittima violata, senza che sia necessaria all’uopo l’indicazione in termini numerici del valore dei beni interessati dalla riunione fittizia e della conseguente lesione, e, a tal fine, può allegare e provare, anche ricorrendo a presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della riserva (Cass. n. 18199 del 02/09/2020), ma è pur sempre necessario che alla spendita della qualità di legittimario (sebbene non necessariamente finalizzata all’esercizio dell’azione di riduzione, ma alla tutela di diritto comunque correlati a tale qualità, cfr. Cass. n. 12317/2019, Cass. n. 16535/2020, Cass. n. 29821/2023).

Tuttavia è stato ribadito che effettivamente il ricorso alle agevolazioni probatorie concesse ai terzi per l’accertamento della natura simulata di atti di alienazione, in quanto dissimulanti donazioni, sebbene non direttamente suscettibili di aggressione con l’azione di riduzione, ma anche al solo fine di determinare tramite la riunione fittizia, la esatta misura della quota di riserva, suscettibile di recupero anche attraverso la rimodulazione delle quote ab intestato ex art. 553 c.c. (cfr. Cass. n. 17856/2023), presuppone in ogni caso la spendita della qualità di legittimario e l’allegazione che l’accertamento è comunque funzionale all’integrazione della quota di riserva, mediante le molteplici modalità che la legge assicura a favore del legittimario. (…) Questa Corte ha di recente puntualizzato i caratteri differenziali tra l’azione di riduzione e la richiesta di collazione, richiamando in parte le differenze puntualmente esposte nel corpo della sentenza d’appello, e ribadendo che, in tema di azione di riduzione, non sussiste l’onere di preventiva collazione da parte dei legittimari, atteso che quest’ultima attribuisce al coerede un concorso sul valore della donazione, di regola realizzato attraverso un incremento della partecipazione sul “relictum”, laddove il legittimario, per il valore che esprime la lesione di legittima, ha diritto a ricevere quel valore, in natura, con conseguente ammissibilità del concorso tra le due azioni (Cass. n. 17856 del 22/06/2023)>>.

Poi:

<<6. Una volta, quindi, reputata ammissibile la proposizione di entrambe le domande, stanti le segnalate differenze ed i diversi vantaggi che ognuna delle due offre, resta, però, altrettanto confermato il principio che dall’esercizio dell’azione di simulazione da parte dell’erede per l’accertamento di dissimulate donazioni non deriva necessariamente che egli sia terzo, al fine dei limiti alla prova testimoniale stabiliti dall’art. 1417 c.c., perché, se l’erede agisce per lo scioglimento della comunione, previa collazione delle donazioni – anche dissimulate – per ricostituire il patrimonio ereditario e ristabilire l’uguaglianza tra coeredi, subentra nella posizione del “de cuius”, traendo un vantaggio dalla stessa qualità di coerede rispetto alla quale non può avvantaggiarsi delle condizioni previste dall’art. 1415 c.c.; è invece terzo, se agisce in riduzione, per pretesa lesione di legittima, perché la riserva è un suo diritto personale, riconosciutogli dalla legge, e perciò può provare la simulazione con ogni mezzo (cfr. ex multis Cass. n. 41132 del 21/12/2021). La sentenza d’appello ha però tratto dalla infondatezza dell’azione di riduzione, per la carenza delle allegazioni necessarie a verificare la effettiva sussistenza della lesione, e dalla strumentalità dell’accertamento della donazione indiretta alla eliminazione della lesione, in via conseguenziale anche l’impossibilità di accogliere la domanda di accertamento della natura liberale della fattispecie dedotta in giudizio in vista della collazione, ma nel compiere tale affermazione non ha tenuto conto della peculiarità della donazione individuata dagli attori, in quanto rientrante nel novero delle donazioni indirette. Il ragionamento sinora esposto, circa il differente trattamento dell’erede e del legittimario sul piano delle agevolazioni probatorie, onde rimuovere il limite che l’art. 1417 c.c. pone alle parti del negozio dissimulato, opera solo ove ad essere oggetto della materia del contendere sia una donazione dissimulata, diversa dovendo invece essere la conclusione nel caso in cui si assuma che il coerede sia stato beneficiario di una donazione indiretta>>.

La donazione indiretta differisce dalla simulazione:

<<Una volta ribadito che la donazione indiretta si identifica con ogni negozio che, pur non avendo la forma della donazione, sia mosso da un fine di liberalità e abbia l’effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario, sicché l’intenzione di donare emerge solo in via indiretta dal rigoroso esame di tutte le circostanze del singolo caso, nei limiti in cui siano tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio. (Cass. n. 9379 del 21/05/2020), nella difesa degli attori si prospetta che l’acquisto dell’immobile è stato operato direttamente da parte della presunta donataria, che avrebbe assolto all’obbligo di pagamento del prezzo con denaro fornito da parte del genitore.

Si rientra pertanto nell’ipotesi di intestazione del bene a nome altrui che costituisce appunto una delle ipotesi di donazione indiretta (cfr. Cass. n. 13619/2017, secondo cui nell’ipotesi di acquisto di un immobile con danaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente intende in tal modo beneficiare, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario e, quindi, integra – anche ai fini della collazione – donazione indiretta del bene stesso e non del danaro).

Ancorché nella donazione indiretta, ai fini della stima della donazione debba guardarsi all’oggetto dell’acquisto, analogamente a quanto avviene per l’ipotesi della donazione simulata (che però resta una donazione immobiliare a tutti gli effetti), l’utilizzo di un meccanismo negoziale che assicura al donatario l’acquisto di un bene a titolo gratuito, senza che però tale bene sia mai appartenuto al donante, giustifica anche la conclusione per cui, ai fini della reintegrazione della quota di riserva ovvero della collazione, poiché non risulta messa in discussione la titolarità del bene, il valore dell’investimento finanziato con la donazione indiretta dev’essere ottenuto dal legittimario leso con le modalità tipiche del diritto di credito, con esclusione di ogni possibilità di recupero in natura del bene, in caso di riduzione, ovvero di collazione in natura, ove l’accertamento sia funzionale a tale scopo.

La donazione indiretta resta però un contratto con causa onerosa, posto in essere per raggiungere una finalità ulteriore e diversa consistente nell’arricchimento, per mero spirito di liberalità, del contraente che riceve la prestazione di maggior valore e differisce dal negozio simulato in cui il contratto apparente non corrisponde alla volontà delle parti, che intendono, invece, stipulare un contratto gratuito. Ne consegue che ad essa non si applicano i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti e simulazione – che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo.

Ne consegue che la distinzione tra la donazione simulata e donazione indiretta non consente di estendere a quest’ultima le limitazioni probatorie dettate dall’art. 1417 c.c., e che la prova dell’effettiva natura liberale (in tutto o in parte), della fattispecie negoziale oggetto della domanda può essere data anche a mezzo presunzioni, pur nel caso in cui non si alleghi a fondamento della pretesa la qualità di legittimario (Cass. n. 19400/2019 che ha confermato la sentenza gravata che aveva ritenuto l’esistenza di donazioni indirette sulla base di prove presuntive; Cass. n. 6904/2022, Cass. n. 7872/2021, Cass. n. 1986/2016). La circostanza che la Corte d’Appello ha riscontrato che la difesa degli attori si era limitata ad allegazioni inerenti alla domanda di collazione, che è destinata ad operare in via automatica una volta che risulti proposta la domanda di divisione (sulla quale i giudici di merito si sono pronunciati), non consentiva di eludere la richiesta di accertamento della donazione indiretta effettuata dal genitore alla figlia facendo solo richiamo all’infondatezza della domanda di riduzione.>>

Quando è processualmente determinata la domanda di riduzione delle disposizioni lesive da parte del legittimario leso nonchè sulla provabailità per presunzioni

Importanti precisazioni operative in Cass. sez. II, ord. 3 giugno 2024 n. 15.465, rel. Criscuolo:

<<L’onere di allegazione della parte impone di offrire un quadro soddisfacente della situazione patrimoniale del de cuius ai fini del compimento delle operazioni di riunione fittizia e di imputazione, e ciò soprattutto nel caso in cui già gli elementi probatori addotti in giudizio denotino l’esistenza di beni costituenti il relictum ovvero il compimento di atti di liberalità da parte del de cuius. Una volta soddisfatto tale onere deve reputarsi che l’attore soddisfi l’onere di specificità della domanda impostogli dalla legge una volta che, richiamata la misura della sua quota di legittima, quale dettata dalla legge, assuma che per effetto delle disposizioni testamentarie ovvero in conseguenza delle donazioni poste in essere in vita in favore di altri soggetti, e al netto di quanto ricevuto allo stesso titolo, residui una lesione.
In tal senso, non può però imporsi anche la quantificazione in termini di valore dei vari elementi destinati ad essere presi in considerazione, sia ai fini della precisazione del relictum che del donatum, e che l’individuazione della lesione debba avvenire in termini matematici con una sua precisa indicazione numerica, essendo viceversa sufficiente che si sostenga che, proprio alla luce del complesso assetto patrimoniale del defunto, quale scaturente dalle vicende successorie, il valore attivo pervenuto al legittimario sia inferiore a quanto invece la legge gli riserva>>.

(massima di Valeria Ciancolo in Ondif)

A cui va aggiunta Cass.  Sez. II, Ord., 28 maggio 2024 n. 14.881, Rel. Cons. Mondini:

<<Al riguardo deve tenersi conto del diverso principio, affermato da questa Corte, secondo cui (Cass. n. 1297 del 1971) la prova della consistenza dell’asse e della conseguente lesione dei diritti di legittimario può essere fornita anche a mezzo presunzioni purché munite dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c., principio ribadito anche di recente (Cass. n. 1357 del 2017; Cass. n. 18199 del 2020) a mente del quale, ancorché il legittimario che agisca in riduzione abbia l’onere d’indicare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, determinando con esattezza il valore della massa ereditaria, nonché quello della quota di legittima violata, può, a tal fine, allegare e provare – anche ricorrendo a presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti – a tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della riserva, aggiungendo altresì che una volta ravvisata la ricorrenza delle presunzioni come sopra connotate, risulta legittimo anche l’esperimento della C.T.U. d’ufficio, atteso che, una volta che l’attore in riduzione ha assolto il suo onere probatorio, il giudice ha il dovere di disporre la C.T.U. per stimare il valore dei beni costituenti il relictum e il donatum (in particolare, per la riduzione di donazione modale v. Cass. n. 6925 del 2015). Del resto, l’imputazione non è una condizione dell’azione, a differenza della preventiva accettazione con beneficio di inventario nel caso di azione di riduzione esperita contro soggetti non chiamati come coeredi, ma è una prodromica operazione di calcolo di natura esclusivamente contabile, diretta al riscontro della effettiva lesione della legittima ed ancor prima di determinare con precisione la stessa entità della legittima spettante al legittimario.

In ogni caso va sottolineato che la puntuale individuazione delle componenti patrimoniali, sulla scorta delle quali procedere alla ricostruzione del relictum ed eventualmente del donatum, costituisce un’attività riservata alla fase introduttiva del giudizio che soffre delle preclusioni legate alla fissazione del thema decidendum avendo questa Corte ribadito, in ragione dell’applicazione anche alle controversie in materia di scioglimento della comunione del regime delle preclusioni dettato per il processo ordinario di cognizione, per cui nel giudizio di riduzione per lesione della legittima, come anche in quello di divisione, è esclusa la possibilità di allegare ovvero provare, per la prima volta in appello, l’esistenza di altri beni idonei ad incidere sulla determinazione del “relictum” e, conseguentemente, dell’effettiva entità della lesione, dovendo il potere di specificazione della domanda manifestarsi nel rispetto delle preclusioni previste dal codice di rito (Cass. n. 28272 del 2018), tuttavia ben potrebbe la stessa allegazione da parte delle convenute degli elementi patrimoniali da prendere in considerazione ai fini della riunione fittizia o in particolare in vista dell’imputazione ex se, ove connotata da specificità (ad esempio con la puntuale individuazione delle donazioni non indicate in citazione ovvero dei beni relitti del pari non indicati da parte attrice), consentire al giudice di poter comunque procedere, se del caso avvalendosi anche di una CTU (che proprio perché chiamata a valutare ben individuati componenti patrimoniali non avrebbe carattere esplorativo) alla verifica della ricorrenza della lesione ovvero della corretta individuazione del soggetto destinato a subire le conseguenze derivanti dall’accoglimento dell’azione de qua.

Va poi affermato che l’eventuale carenza di prova in merito all’effettiva esistenza delle componenti patrimoniali destinate ad incrementare il relictum ovvero il donatum determina invece il rigetto della domanda o il suo accoglimento in misura inferiore rispetto a quanto richiesto, risolvendosi appunto non più sul piano delle attività assertive e di allegazione ma sul diverso piano del soddisfacimento dell’onere della prova incombente su colui che agisce in giudizio.

L’onere di allegazione della parte effettivamente impone di offrire un quadro soddisfacente della situazione patrimoniale del de cuius ai fini del compimento delle operazioni di riunione fittizia e di imputazione, ma una volta soddisfatto tale onere (anche per effetto dell’attività di allegazione della altre parti del giudizio), deve reputarsi che l’attore soddisfi l’onere di specificità della domanda impostogli dalla legge una volta che, richiamata la misura della sua quota di legittima, quale dettata dalla legge, assuma che per effetto delle disposizioni testamentarie ovvero in conseguenza delle donazioni poste in essere in vita in favore di altri soggetti, ed al netto di quanto ricevuto allo stesso titolo, residui una lesione.    Si deve, dunque, ritenere che la decisione di appello, nel confermare il rigetto della domanda di riduzione, senza dare alcuna contezza delle precisazioni ed allegazioni probatorie compiute dai ricorrenti sia nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado sia di quello in sede di gravame, non risulta essersi conformata ai principi di diritto di questa Corte, come sopra precisati, per cui va disposta la cassazione della decisione sul punto (Cass. n. 18199 del 2020), dovendo il giudice del rinvio tenere conto del principio per cui “Nel caso di esercizio dell’azione di riduzione, il legittimario ha l’onere di precisare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, indicando gli elementi patrimoniali che contribuiscono a determinare il valore della massa ereditaria nonché, di conseguenza, quello della quota di legittima violata, senza che sia necessaria all’uopo l’indicazione in termini numerici del valore dei beni interessati dalla riunione fittizia e della conseguente lesione, e, a tal fine, può allegare e provare, anche ricorrendo a presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della riserva”  >>;

Azione di riduzione (con scelta tra conguaglio monetario e separazione del bene in natura), collazione e divisione ereditaria

Cass. sez. II Ord. 06/03/2024  n. 5.978, rel. Picaro:

<<Anzitutto va evidenziato che l’impugnata sentenza ha affermato il principio che il legittimario vittorioso ai fini della reintegrazione della quota riservatagli dalla legge possa optare – in luogo dell’assegnazione del bene, o dei beni in natura, che sono stati oggetto della donazione lesiva della legittima inefficace nei suoi confronti a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione – per la corresponsione di una somma in danaro equivalente al valore della quota medesima, richiamando a giustificazione del principio l’art. 560 cod. civ. con una motivazione meramente apparente, inidonea a spiegare le ragioni effettive del principio.

Tale norma, infatti, intitolata “Riduzione del legato o della donazione d’immobili”, al primo comma prevede all’opposto, per l’ipotesi in cui oggetto della donazione da ridurre sia un immobile comodamente divisibile, che la riduzione avvenga mediante la separazione in natura e la conseguente assegnazione al legittimario nella misura occorrente alla reintegrazione della quota legittima, separazione a maggior ragione attuabile sempre in natura quando, come nella specie, oggetto della donazione da ridurre erano più beni immobili distinti (nel caso in esame quattro distinti terreni ed un fabbricato in Tolve vico III Vignali delle Corti), che almeno in parte avrebbero potuto essere trasferiti in proprietà al legittimario pretermesso, allo scopo di reintegrare la quota di legittima lesa, mentre al secondo comma si riferisce all’ipotesi, non verificatasi, in cui l’immobile oggetto di donazione da ridurre non sia comodamente divisibile, ed al terzo comma attribuisce al donatario, e non certo al legittimario pretermesso, la facoltà di ritenere l’immobile oggetto della donazione da ridurre compensando in denaro quest’ultimo, sempre che il valore dell’immobile donatogli non superi l’importo della porzione disponibile e della quota che gli spetta come legittimario. Neppure può ritenersi idonea a giustificare il riportato principio la sottolineatura fatta dall’impugnata sentenza in ordine alle indiscusse diversità di petitum e di causa petendi dell’azione di riduzione per lesione di legittima e per l’azione di divisione, che non possono fare trascurare però che in caso di accoglimento dell’azione di riduzione per lesione di legittima delle donazioni compiute dal defunto, che non abbia lasciato beni alla sua morte a favore del legittimario pretermesso, si determina solo tra quest’ultimo ed il donatario una comunione relativamente ai beni oggetto della donazione da ridurre, che – ove richiesto (come nel caso di specie) – può essere anche oggetto di divisione nell’ambito dello stesso giudizio e che deve essere sciolta nel rispetto dei criteri dettati dagli articoli 560 e 561 cod. civ.

Per giurisprudenza consolidata di questa Corte, infatti, in caso di legittimario pretermesso, le azioni di riduzione e di divisione possono essere proposte cumulativamente nello stesso processo, con la seconda avanzata in subordine all’accoglimento della prima, la quale ha carattere pregiudiziale (Cass. n. 2367/1970; Cass. n. 1077/1964; Cass. n. 1206/1962).

Il principio è stato ribadito anche di recente, essendosi confermato che l’azione di riduzione e quella di divisione, pur presentando una netta differenza sostanziale, possono essere fatte valere nel medesimo processo, in quanto – per evidenti ragioni di economia processuale – è consentito al legittimario di chiedere, anzitutto, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che assume lesive della legittima e, successivamente, nell’eventualità che la domanda di riduzione sia accolta, l’azione di divisione, estesa anche a quei beni che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, rientrano a far parte del patrimonio ereditario divisibile (Cass. n. 31125/2023; Cass. n. 19284/2019).

Venendo all’esame delle lamentate violazioni di legge per error in iudicando, questa Corte già in passato ha affermato che (Cass.n. 1079/1970) nel caso di azione tendente alla riduzione di disposizioni testamentarie (e lo stesso principio vale per le donazioni) che si assumano lesive della legittima, il giudice deve anzi tutto accertare quale sia la quota di legittima spettante all’attore legittimario (nel caso in esame in relazione al solo donatum in assenza di beni relitti dal de cuius), e deve, a tal fine, riunire fittiziamente i beni e determinare l’asse ereditario, procedendo poi alla sua valutazione secondo i valori del tempo dell’apertura della successione e tenendo conto anche della qualità dei beni, se fruttiferi o meno. Accertata così la quota di legittima, nel procedere alla sua liquidazione, deve tenersi presente che il legittimario ha diritto di conseguirla in natura e solo eccezionalmente in denaro, e che, in questo ultimo caso, il credito del legittimario non è di valuta, ma di valore, per cui, operando l’aestimatio rei, per il soddisfacimento del suo diritto, deve aversi riguardo alla quantità di denaro occorrente per attribuirgli il valore che aveva diritto a conseguire, di modo che detta aestimatio deve riferirsi alla data in cui l’integrazione e la liquidazione si determina, cioè al momento della pronuncia giudiziale che la effettua.

Più recentemente è stato sottolineato come (Cass. n. 39368/2021; Cass. n. 22097/2015) una delle differenze più significative tra la collazione e l’azione di riduzione consista proprio nel fatto che quest’ultima obbliga alla restituzione in natura dell’immobile donato, mentre l’altra ne consente l’imputazione di valore, sicché (vedi Cass. n. 28196/2020) se la collazione, nei rapporti indicati nell’art. 737 c.c., pone il bene donato, in proporzione della quota ereditaria di ciascuno, in comunione fra i coeredi che siano il coniuge o discendenti del de cuius, donatario compreso, senza alcun riguardo alla distinzione fra legittima e disponibile, e può comportare di fatto l’eliminazione di eventuali lesioni di legittima, consentendo agli eredi legittimi di conseguire nella divisione porzioni uguali, ciò non esclude che il legittimario possa contestualmente esercitare l’azione di riduzione verso il coerede donatario, atteso che solo l’accoglimento di tale domanda assicura al legittimario leso la reintegrazione della sua quota di riserva con l’assegnazione di beni in natura, privando i coeredi della facoltà di optare per l’imputazione del relativo valore.

Trattasi di una conseguenza derivante dalla stessa natura della pronuncia che accolga l’azione di riduzione (vedi in tal senso Cass. n. 39368/2021, cit.), che determina l’inefficacia per il legittimario della disposizione lesiva e che comporta, ove la disposizione abbia ad oggetto determinati beni, l’instaurarsi di una comunione tra beneficiario della disposizione lesiva e legittimario, nella quale la quota di compartecipazione del secondo è determinata in misura corrispondente al valore proporzionale della lesione da recuperare sul bene in rapporto al valore del bene stesso.

Tale conclusione trova poi il conforto dell’art. 560 cod. civ., che regola proprio la disciplina della comunione così determinatasi, prevedendo che preferibilmente la quota di legittima debba essere reintegrata mediante la separazione della parte del bene necessaria per soddisfare il legittimario, aggiungendo però che, laddove la separazione in natura non sia possibile, ed il bene quindi sia non comodamente divisibile, lo scioglimento della comunione avverrà sulla base di criteri preferenziali specificamente individuati dal comma 2° ed in deroga a quelli di carattere generale posti dall’art. 720 cod. civ.

E’ pur vero che la giurisprudenza si è occupata anche dell’ipotesi di reintegra della quota del legittimario in denaro, ritenendo che in tal caso l’obbligazione abbia natura di debito di valore, necessitante di adeguamento, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore dei beni in natura esistenti nell’asse, ma ciò presuppone che la reintegra in denaro o sia frutto di una concorde volontà delle parti, nella specie insussistente per la contraria volontà espressa da Pe.Ro., o che scaturisca dallo scioglimento della comunione secondo le modalità specificamente dettate dall’art. 560 cod. civ.

Ma ove non ricorrano tali condizioni, resta fermo che l’inefficacia della donazione lesiva, quale effetto dell’accoglimento dell’azione di riduzione, determina il subentro del legittimario nella comunione dei singoli beni oggetto della donazione, e quindi la reintegra in natura (vedi Cass. n. 39368/2021, cit.).

Ritiene il Collegio di dover quindi assicurare continuità a quanto di recente affermato con le pronunce di questa Corte n. 39368/2021 (cit.) e n. 16515/2020, le quali hanno ribadito che la reintegrazione, in linea di principio, va fatta in natura, mediante attribuzione, in tutto o in parte secondo che la riduzione sia pronunciata per intero o per una quota, dei beni oggetto delle disposizioni ridotte. E’ pur vero che tale affermazione viene di norma compiuta a tutela del diritto del legittimario, che non è in linea di principio suscettibile di essere convertito in un diritto di credito, ma ciò non toglie che l’osservanza della regola possa essere pretesa anche dal soggetto che subisce la riduzione, nella specie il donatario Pe.Ro., che non può essere costretto, contro la sua volontà, a liquidare in denaro la lesione che il legittimario ha diritto di recuperare in natura, e ciò soprattutto nel caso in cui, per effetto dell’andamento del mercato immobiliare e del lungo tempo trascorso tra l’apertura della successione e la conclusione delle operazioni divisionali, il mercato immobiliare abbia subito una fluttuazione in negativo, che renda quindi la reintegra in denaro svantaggiosa rispetto all’ipotesi in cui la reintegra sia realizzata in natura>>.

Applicazione alla fattispecie sub iudice:

<<La Corte d’Appello di Potenza, che peraltro ha interpretato la disponibilità espressa da Pe.Ma. ad ottenere un conguaglio in denaro (non la compensazione in denaro della quale parla l’art. 560, comma 2°, ultima parte cod. civ.) come volontà di ottenere la reintegrazione della quota riservatale in denaro anziché in natura, traendone inammissibilmente conferma da quanto richiesto dagli eredi di Pe.Ma. solo nella comparsa di costituzione del giudizio di secondo grado, non si è attenuta a tali principi, in quanto, una volta determinata la misura della lesione, avrebbe dovuto verificare in via prioritaria se sussistevano le condizioni per la reintegrazione della legittima in natura, determinando la quantità di beni oggetto della donazione ridotta secondo il valore degli stessi alla conclusione delle operazioni divisionali occorrenti a questo fine (Cass. n. 2006/1967) e l’importo dell’eventuale conguaglio, non potendo procedere direttamente alla reintegra dell’intera quota riservata in denaro.

Il modo di procedere nella reintegrazione della quota riservata a Pe.Ma. seguito dalla sentenza impugnata, confermativa di quella di primo grado, ha avuto, inoltre, come effetto quello di attribuire agli eredi del legittimario pretermesso la rivalutazione monetaria sul valore della quota riservata dalla data dell’apertura della successione alla sentenza conclusiva delle operazioni divisionali ed i frutti civili sotto forma di interessi su di essa, anziché i frutti naturali dei beni assegnati per la reintegrazione della quota a partire dalla domanda giudiziale ex art. 561, ultimo comma, cod. civ., con applicazione degli articoli 820 e 821 cod. civ.

Dovrà farsi applicazione per i beni assegnati a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione al legittimario pretermesso Pe.Ma., alla quale sono subentrati gli eredi Sa.Ro., Sa.Lu., Po.An. e Po.Do., del principio, di recente ribadito dalla sentenza n. 31125 dell’8.11.2023 di questa Corte, per cui in tema di divisione i frutti naturali della cosa comune già separati al momento della divisione sono di proprietà di tutti i partecipanti, in conformità del disposto degli articoli 820 e 821 cod. civ. e non possono quindi, salva diversa volontà delle parti, diventare di proprietà esclusiva del condividente cui sia stato assegnato il bene che li ha prodotti. Invece, nell’ipotesi in cui i frutti stessi non siano stati ancora separati al momento della divisione, è operante l’efficacia retroattiva prevista dall’art. 757 cod. civ., con la conseguenza che il condividente assegnatario ha il diritto di percepire per l’intero i frutti stessi anche se riferibili al periodo in cui il bene che li ha prodotti era comune (Cass. n. 2975 del 20/03/1991, richiamata in n. 25021/2019).

Sull’autonomia (e sulla revocabilità) della dispensa da imputazione ex se, inserita nella donazione, rispetto alla donazione stessa

Cass. sez. I del 06/02/2024, n. 3.352, rel. Cavallino:

<<4.1. Si deve considerare che la donazione in conto disponibile e con dispensa dall’imputazione è attribuzione che si aggiunge a quanto spetta al beneficiario a titolo di legittima, per cui l’intento del donante ereditando è quello di conferire al donatario un vantaggio ulteriore, che si concreta nell’esenzione dall’imputazione; con la dispensa dall’imputazione, disciplinata dall’art. 564 co. 2 cod. civ., il legittimario trattiene la donazione e in più ha diritto a ottenere la sua quota di legittima intera e non decurtata dalla donazione. Come evidenziato da Cass. Sez. 2 26-11-1971 n. 3457 Rv. 355068-01 la dispensa dall’imputazione ex se crea a favore del beneficiario una posizione di indiscutibile vantaggio, consentendogli di limitare o, addirittura, di escludere l’efficacia delle liberalità disposte in favore di altri legittimari e di conservare le proprie. Secondo la corretta riflessione della dottrina, la dispensa dall’imputazione comporta l’espansione della legittima, in quanto ha l’effetto di accrescere la quota riservata al legittimario, attribuendo allo stesso il diritto di trattenere la donazione ricevuta e nel contempo di conseguire l’intera quota di legittima. Quindi se, anziché dire che la donazione in conto disponibile con dispensa dall’imputazione grava sulla disponibile, si dice che tale donazione si incorpora nella quota di legittima aumentandone il valore, meglio si spiega come tale disposizione si sottragga all’azione di riduzione.

Tale disposizione con la quale il donante regolamenta la donazione in conto disponibile e con dispensa dall’imputazione, anche se contenuta nell’atto di donazione, è per definizione destinata a produrre effetti dopo la morte del disponente e ha specifica funzione mortis causa, quale atto di ultima volontà, palesemente distinta dalla donazione, negozio tipicamente inter vivos. Per queste ragioni, si deve condividere e dare continuità a quanto già statuito da Cass. Sez. 2 29-10-2015 n.22097 Rv. 636879-01 laddove, richiamando l’insegnamento sulla questione della dottrina prevalente, ha dichiarato che la dispensa dall’imputazione costituisce un negozio autonomo rispetto alla donazione, traendo da tale considerazione la conseguenza che la dispensa relativa all’imputazione di una donazione possa essere indifferentemente effettuata nello stesso atto di donazione o in un successivo testamento o in un successivo atto tra vivi. Non ostano a tale conclusione i precedenti di Cass. Sez. 2 1-10-2003 n. 14590 Rv. 567254-01, Cass. Sez. 2 7-5-1984 n. 2752 Rv. 434793-01 e Cass. Sez. 2 27-7-1961 n. 1845 Rv. 882772, in quanto ai fini della presente decisione è sufficiente osservare che la definizione data in quei precedenti alla dispensa dalla collazione quale clausola accessoria al contratto, come tale non eliminabile ex post per volontà di uno solo dei contraenti, non si attaglia alla dispensa dall’imputazione, destinata a produrre effetti dopo la morte del donante attribuendo al donatario divenuto erede il vantaggio ulteriore riferito all’attribuzione della sua intera quota di legittima, in aggiunta alla donazione già ricevuta.

Non può essere condiviso l’ulteriore rilievo svolto da parte della dottrina, secondo la quale la dispensa dall’imputazione contenuta nell’atto di donazione costituisce negozio a causa di morte a struttura inter vivos e quindi irrevocabile da parte del solo disponente: in senso contrario risulta convincente e deve essere recepito quanto pure osservato in dottrina, in ordine al fatto che la natura e la funzione del negozio non si modificano con riferimento all’atto che lo contiene. Anche nel caso in cui sia contenuta nella donazione, la dispensa dall’imputazione mantiene la sua autonomia rispetto alla donazione e incide solo dopo la morte del de cuius nell’assetto successorio-patrimoniale dei coeredi; la morte non è solo l’occasione degli effetti della dispensa ma è il suo presupposto esclusivo e determinante, così da non potere essere la dispensa concepita in modo avulso dall’eventualità di successione futura a favore di più coeredi.

Pertanto si deve concludere che, anche nel caso in cui sia contenuta nella donazione, la dispensa dall’imputazione mantiene la sua natura di atto unilaterale di ultima volontà sempre revocabile in forza del principio posto dall’art. 671 cod. civ., senza assumere struttura bilaterale così da potere essere sciolta solo per mutuo consenso. Del resto, se si ritenesse diversamente che l’accettazione della donazione da parte del donatario abbia a oggetto anche la dispensa dall’imputazione, così da rendere la dispensa irrevocabile unilateralmente da parte del donante, ci si dovrebbe porre la questione del configurarsi di un patto successorio istitutivo; ciò in quanto l’accordo tra il donante-futuro dante causa e il donatario-futuro erede, comprendendo anche la dispensa dall’imputazione così resa irrevocabile, sarebbe accordo avente a oggetto anche la futura successione con riguardo all’assetto delle attribuzioni di legittima e disponibile, in violazione del divieto posto dall’art. 458 cod. civ.>>

Sull’azione di riduzione a tutela del legittimario: onere della prova e (soprattutto) modalità di calcolo per valutare l’allegata lesione

Altra importante lezione di diritto pratico successorio da parte del rel. Criscuolo in Cass Sez. II  del 21/12/2023, n. 35.738 (da Onelegale).

Dei tre passi qui riportati, è il terzo quello realmente interessante, il primo essendo scontato. L’irrilevanza processuale della domanda implicita , di cui al  secondo, potrebbe pure essere di qualche intersse praticio

1)   << A tal fine va richiamato l’orientamento di questa Corte secondo cui la dichiarazione del testatore di avere già soddisfatto il legittimario con antecedenti donazioni non è idonea a sottrarre allo stesso la quota di riserva, garantita dalla legge anche contro la volontà del “de cuius” [ovvio]; nè tale dichiarazione può essere assimilata ad una confessione stragiudiziale opponibile al legittimario, essendo egli, nell’azione di riduzione, terzo rispetto al testatore (Cass. n. 11737/2013; conf. Cass. n. 27066/2022; Cass. n. 18550/2022, entrambe non massimate).[ovvio]

In presenza di una tale dichiarazione, una volta esclusa la natura confessoria della stessa nei confronti del legittimario, è onere di chi invece ne sostenga la veridicità offrire la corrispondente prova, così che al fine di pervenire al rigetto della domanda di riduzione, la convenuta non poteva limitarsi ad invocare il testamento, ma ne avrebbe dovuto corroborare il contenuto sul piano probatorio.[pure ovvio]

Quanto invece alla ulteriore contestazione circa il riparto dell’onere della prova in tema di azione di riduzione, le critiche del ricorrente, sebbene esulanti dal novero di mere contestazioni tardive, appaiono comunque destituite di fondamento, occorrendo anche su tale questione provvedere ad una correzione della motivazione.

La più recente giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, delineato le regole di riparto dell’onere probatorio in caso di esercizio dell’azione di riduzione, affermando che, in tema di azione di riduzione, l’omessa allegazione nell’atto introduttivo di beni costituenti il “relictum” e di donazioni poste in essere in vita dal “de cuius”, anche in vista dell’imputazione “ex se”, ove la loro esistenza emerga dagli atti di causa ovvero costituisca oggetto di specifica contestazione delle controparti, non preclude la decisione sulla domanda di riduzione,[già più interssante] dovendo il giudice procedere alle operazioni di riunione fittizia prodromiche al riscontro della lesione, avuto riguardo alle indicazioni complessivamente provenienti dalle parti, nei limiti processuali segnati dal regime delle preclusioni per l’attività di allegazione e di prova. Ne consegue che, ove il silenzio serbato in citazione sull’esistenza di altri beni relitti ovvero di donazioni sia dovuto al convincimento della parte dell’inesistenza di altre componenti patrimoniali da prendere in esame ai fini del riscontro della lesione della quota di riserva, il giudice non può solo per questo addivenire al rigetto della domanda, che è invece consentito se, all’esito dell’istruttoria, e nei limiti segnati dalle preclusioni istruttorie, risulti indimostrata l’esistenza della dedotta lesione (Cass. n. 18199/2020, che ha altresì chiarito che il legittimario ha l’onere di precisare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, indicando gli elementi patrimoniali che contribuiscono a determinare il valore della massa ereditaria nonchè, di conseguenza, quello della quota di legittima violata, senza che sia necessaria all’uopo l’indicazione in termini numerici del valore dei beni interessati dalla riunione fittizia e della conseguente lesione; conf. Cass. n. 348/2023)>>.

2)   <<In primo luogo rileva il Collegio che la Corte d’Appello, conformemente al Tribunale (che aveva fatto riferimento al difetto di prova della simulazione della donazione relativa a tale immobile, rectius, donazione indiretta, solo come motivazione ad abundantiam), ha ritenuto che all’accoglimento della richiesta della convenuta ostasse il profilo processuale della formale proposizione di una specifica domanda di simulazione o comunque di accertamento della donazione indiretta, avendo in tal modo mostrato di aderire alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in caso di donazione indiretta, è pregiudiziale all’obbligo di collazione la proposizione della domanda di accertamento dell’esistenza della stessa (Cass. n. 23403/2022; Cass. n. 19833/2019, con specifico riferimento alle donazioni indirette).

La regola che appare suscettibile di applicazione anche nel caso in cui della donazione voglia tenersi conto ai fini della riunione fittizia ovvero dell’imputazione ex se, avrebbe quindi imposto che vi fosse stata una specifica domanda della convenuta, che i giudici di merito hanno escluso fosse stata proposta.

Tale affermazione non è stata oggetto di specifica censura da parte del ricorrente, che ritiene di poter superare il problema, assumendo che anche la Corte d’Appello avesse aderito alla tesi, alla quale faceva riferimento il Tribunale, della sufficienza di una proposizione della domanda de qua anche ab implicito>>.

[perchèp mai non dovrebbe ammettersi la domanda giudiziale implicita, se non lede i diritti difensivi di controparte?]

3)    <<L’art. 556 c.c. impone che la riunione fittizia, necessaria per individuare la porzione disponibile, e di riflesso l’ammontare della quota di legittima, debba avvenire sulla base dei criteri dettati in tema di collazione, e precisamente l’art. 747 c.c. dispone che debba aversi riguardo al valore dell’immobile al tempo dell’aperta successione.

La giurisprudenza di questa Corte ha conseguentemente affermato che, nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredità riservata al legittimario, il momento di apertura della successione rileva per calcolare il valore dell’asse ereditario (mediante la cd. riunione fittizia), stabilire l’esistenza e l’entità della lesione della legittima, nonchè determinare il valore dell’integrazione spettante al legittimario leso, sicchè quest’ultima, ove avvenga mediante conguagli in denaro nonostante l’esistenza, nell’asse, di beni in natura, va adeguata, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore del bene – riferito al momento dell’ultimazione giudiziaria delle operazioni divisionali – cui il legittimario avrebbe diritto affinchè ne costituisca l’esatto equivalente (Cass. n. 5320/2016; Cass. n. 6709/2010).

Infatti, per accertare la lesione della quota di riserva va determinato il valore della massa ereditaria, quello della quota disponibile e della quota di legittima. A tal fine, occorre procedere alla formazione del compendio dei beni relitti ed alla determinazione del loro valore al momento dell’apertura della successione; quindi, alla detrazione dal “relictum” dei debiti, da valutare con riferimento alla stessa data; e, ancora, alla riunione fittizia, cioè meramente contabile, tra attivo netto e “donatum”, costituito dai beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione, da stimare, in relazione ai beni immobili ed ai beni mobili, secondo il loro valore al momento dell’apertura della successione (artt. 747 e 750 c.c.) e, con riferimento al valore nominale, quanto alle donazioni in denaro (art. 751 c.c.). Devono calcolarsi, poi, la quota disponibile e la quota indisponibile sulla massa risultante dalla somma tra il valore del “relictum” al netto ed il valore del “donatum” ed imputarsi, infine, le liberalità fatte al legittimario, con conseguente diminuzione, in concreto, della quota ad esso spettante (cfr. ex multis Cass. n. 12919/2012).

E’ poi evidente che, qualora la lesione derivi da una disposizione a titolo universale che abbia del tutto pretermesso il legittimario, l’effetto dell’accoglimento dell’azione di riduzione, è il riconoscimento della titolarità di una quota ereditaria a favore del legittimario vittorioso su tutti i beni relitti, quota la cui entità va determinata in misura percentuale secondo il criterio di calcolo seguito dai giudici di merito onde permettere al legittimario stesso di avere una partecipazione alla massa che assicuri l’utile netto della riserva, ma con un incremento che gli permetta altresì di fare fronte in percentuale alla quota di riserva anche ai debiti ereditari.

Se appare corretto il criterio matematico per determinare la quota di riserva, è però vero che l’esito del calcolo è destinato ad essere inciso in maniera significativa dal valore che si attribuisca alle componenti prese in esame per le corrispondenti operazioni.

Si potrebbe, infatti, obiettare che la percentuale di riduzione sia destinata a rimanere immutata quale che sia il valore degli immobili, posto che anche la quota di riserva è determinata in una misura fissa destinata proporzionalmente a variare a seconda del mutamento della base di calcolo (sarebbe a dire che se la quota di riserva è pari ad un terzo, la percentuale di riduzione sarà sempre la stessa, quale che sia il valore dei beni da includere nella riunione fittizia).

Tuttavia, tale affermazione non è condivisibile, occorrendo tenere conto, da un lato, della possibilità che possa esservi un mutamento della stima tra la data di apertura della successione e quella della divisione, differenziato in relazione alla diversa tipologia dei beni caduti in successione, e ciò rileva in particolare nella fattispecie, poichè sono da prendere in considerazione delle donazioni mobiliari di beni aventi un mercato peculiare (come gli oggetti da collezione), che possono significativamente mutare nel tempo.

Ma soprattutto, poichè la riunione fittizia presuppone la detrazione dei debiti dal relictum, e poichè la misura dei debiti è espressa da una somma insuscettibile di mutamento nel tempo, trattandosi di un importo da prendere in esame nel suo valore nominale, è evidente che, se la stima dei beni immobili è minore, maggiore sarà anche l’incidenza dei debiti e minore sarà l’ammontare della quota di riserva da soddisfare in percentuale sui beni relitti.

Ad esempio, si consideri una quota di riserva pari al 50% ed un relictum composto da un unico bene immobile attribuito ad un terzo con testamento, con dei debiti di importo pari a 20 ed una donazione da imputare a carico del legittimario di valore sempre pari a 20: se alla data dell’apertura della successione il bene relitto vale 100, la quota di legittima è pari a 50 (100 – 20 + 20 = 100/2), ma la quota che va riconosciuta sul bene per l’effettiva reintegra è pari al 37,5%, occorrendo tenere conto dell’imputazione ex se e del fatto che al legittimario occorre ancora attribuire beni per un valore di netto di 30, che è quindi la sua partecipazione alla comproprietà del bene caduto in successione, in proporzione al valore del bene relitto (secondo il seguente calcolo 30 – legittima da recuperare -: 80 – valore del relictum al netto dei debiti = X – percentuale da riconoscere al legittimario sul bene relitto -: 100 – valore del bene relitto-, calcolo che permette di far rispondere il legittimario ed il terzo dei debiti in proporzione delle quote ricevute sul bene relitto).

In tal modo il bene relitto sarà attribuito al legittimario per una quota pari a 37,5 ed al terzo per la quota di 62,5, in modo tale che il legittimario risponderà del debito ereditario per 7,5 (che è pari al 37,5 % di 20) percependo 30 al netto dei debiti, ed il terzo per 12,5, (che è pari al 62,5 % di 20) percependo il valore di 50 che è pari alla disponibile.

Se il bene invece, alla data della divisione ovvero della stima nel corso del giudizio, dovesse valere 120, la quota di riserva risulterebbe pari a 60 (120-20+20=120/2), ed al legittimario andrebbe assegnata una contitolarità sul bene relitto di una quota pari al 40%, dovendosi detrarre dalla quota di riserva di 60, l’importo di 20 per effetto dell’imputazione ex se della donazione, spettando quindi a titolo di integrazione della riserva un valore sul bene ancora di 48 (sempre determinato secondo il seguente calcolo 40 – legittima da recuperare: 100 – valore del relictum al netto dei debiti = X – percentuale da riconoscere al legittimario sul bene relitto -: 120 – valore del bene relitto-). In questa ipotesi il legittimario risponderà del debito ereditario per 8 (pari al 40% di 20), mentre al terzo beneficiario sarà attribuita una quota pari a 72, rispondendo dei debiti per 12 (pari al 60% di 20), assicurandosi così che al legittimario vada la quota di 40 al netto dei debiti – da cumulare ai 20 già ricevuti a titolo di donazione – ed al terzo la quota di 60 al netto dei debiti, pari appunto alla disponibile).

E’, quindi, evidente come la corretta individuazione dell’epoca cui far risalire la stima dei beni interessati dalla riunione fittizia non è indifferente e si riflette perciò anche sulla percentuale di comproprietà che spetta al legittimario sui beni relitti.

Nel motivo il ricorrente ha evidenziato a pag. 41 come la stima sulla scorta della quale il Tribunale ha determinato la percentuale di partecipazione alla comunione dell’attore è stata operata sulla base di valori determinati in una data prossima a quella del deposito della CTU, eseguita a circa sei anni dalla data del decesso della E.E..

Il motivo è, quindi, fondato e la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, dovendo il giudice di rinvio rinnovare le operazioni di stima ai fini del calcolo della legittima e della percentuale nella quale devono essere ridotte le disposizioni testamentarie, sulla scorta dei valori dei beni interessati dalla riunione fittizia, calcolati alla data d’apertura della successione>>.

Distinzione tra istituzione di erede e assegnazione di legato, instititutio ex re certa e cautela sociniana

La sempre interessante penna del rel. Criscuolo in materia successoria redige Cass. sez.2 28.11.2023 n. 33.011:

fatto:

<<Al fine di una migliore comprensione anche delle questioni che
pongono i successivi motivi, occorre ricordare che la vicenda trae
origine dalla successione di Rapisardi Matteo, il cui testamento
pubblico, recante la data del 9 agosto 1994, prevedeva
l’attribuzione alla moglie, Remer Anna Maria, dell’usufrutto vita
natural durante di tutto il suo patrimonio (immobili, mobili,
gioielli, argenteria, titoli di qualsiasi specie e natura, suppellettili,
ecc.), nonché la piena proprietà di tutti i crediti, dei titoli, dei mobili, arredi e suppellettili, gioielli e quant’altro si trova nelle
case di Catania e di Mascalucia e nel deposito mobili. Al figlio
Gaspare, a tacitazione dei suoi diritti di legittima, e con
l’eventuale eccedenza sulla disponibile, ha assegnato la piena
proprietà dell’intero palazzo di Catania e di quello di Mascalucia,
nonché il tratto di terreno su cui esisteva la fungaia, in S. Antonio
a Mascalucia.
A favore dei figli Caterina e Giovanni ha attribuito per il periodo
successivo al decesso dell’usufruttuaria, il diritto di abitazione nei
locali di cui gli stessi già disponevano nel palazzo di Catania,
aggiungendo, a chiusura del testamento, che nel resto delle
sostanze erano istituti eredi in parti eguali i figli Giovanni e
Caterina>>.

Diritto:

<<Quanto alla posizione della R., come detto beneficiaria dell’usufrutto generale sul patrimonio relitto e della piena proprietà di crediti, titoli, mobili, arredi, suppellettili e gioielli, ritiene il Collegio che debba darsi continuità al più recente orientamento di questa Corte che, nel dare risposta al dibattuto tema della qualificazione giuridica dell’attribuzione per testamento della qualità di usufruttuario generale (tema ampiamente dibattuto anche in dottrina), ha optato per la tesi dell’attribuzione a titolo particolare e precisamente a titolo di legato.

Trattasi di soluzione già sostenuta in passato (cfr. Cass. n. 986/1979, secondo cui l’attribuzione da parte del testatore del solo usufrutto non conferisce al beneficiario la qualità di erede, perché egli non succede in tal caso nell’universum ius del de cuius, così che il coniuge, nominato usufruttuario generale per disposizione testamentaria, non acquista la qualità di erede) e che deve reputarsi assolutamente prevalente nella più recente giurisprudenza che ha inteso superare la contraria affermazione di Cass. n. 13310/2002, allo stato rimasta pressoché isolata.

Infatti, Cass. n. 1557/2010 ha specificamente riaffermato che ove il testatore attribuisca il solo diritto di usufrutto, il beneficiario non succede “in universum ius” del defunto e, pertanto, non acquista la qualità di erede; nei suoi confronti, pertanto, non sussiste litisconsorzio necessario in sede di giudizio di divisione tra coeredi, trovando poi seguito anche in Cass. n. 13868/2018, secondo cui il lascito avente ad oggetto l’usufrutto, generale o pro quota, dell’asse ereditario costituisce legato, poiché l’usufruttuario non subentra in rapporti qualitativamente eguali a quelli del defunto e la sua responsabilità per i debiti deriva dal meccanismo dell’art. 1010 c.c. e non dalla qualità di erede (conf. anche Cass. n. 4435/2009).

Trattasi di esito interpretativo che risulta corrispondente a quello adottato dalla Corte d’Appello che a tal fine ha fatto rinvio ad un proprio precedente, senza che infici la correttezza della soluzione la mancata riproduzione delle motivazioni di quest’ultimo, trattandosi come detto di orientamento ormai assolutamente prevalente nella giurisprudenza di questa Corte.

La correttezza di tale esito non può poi essere posta in discussione per il rilievo che alla R., accanto all’usufrutto generale, era stata assegnata la piena proprietà di alcuni beni, ancorché indicati per categorie e non in maniera specifica, atteso che la Corte d’Appello, ha escluso che tale attribuzione fosse idonea a determinare una institutio ex certa re ex art. 588 c.c..

Va qui ribadito che in materia testamentaria, l’istituzione di beni in quota da parte del testatore impone di accertare, attraverso qualunque mezzo utile per ricostruirne la volontà, ma comunque secondo un’applicazione ermeneutica rigorosa della disposizione di cui all’art. 558 c.c., comma 2 se l’intenzione del testatore sia stata quella di attribuire quei beni e soltanto quelli come beni determinati e singoli ovvero, pur indicandoli nominativamente, di lasciarli quale quota del suo patrimonio, avendosi, nel primo caso, una successione a titolo particolare o legato e, nel secondo, una successione a titolo universale e istituzione di erede, la quale implica che, in seguito ad esame del complesso delle disposizioni testamentarie, resti accertata l’intenzione del testatore di considerare i beni assegnati come quota della universalità del suo patrimonio (Cass. n. 42121/2021)>>

E poi:

<<Inoltre (cfr. Cass. n. 24163/2013), in tema di distinzione tra erede e legatario, ai sensi dell’art. 588 c.c., l’assegnazione di beni determinati configura una successione a titolo universale (“institutio ex re certa”) qualora il testatore abbia inteso chiamare l’istituito nell’universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato se egli abbia voluto attribuire singoli, individuati, beni, così che l’indagine diretta ad accertare se ricorra l’una o l’altra ipotesi si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito e, quindi, incensurabile in cassazione, se congruamente motivato. Nella fattispecie emerge che la sentenza gravata, nel pervenire all’approdo interpretativo qui contrastato, è partita proprio dal tenore letterale delle espressioni usate nell’atto di ultima volontà, sottolineando che anche tenendo conto del differente tenore delle espressioni che prevedevano le attribuzioni fatte in favore della R. (“assegno”) da quelle che invece erano state effettuate in favore del figlio G. (“lascio”), doveva attribuirsi efficacia risolutiva in merito al dubbio posto circa la qualificazione delle attribuzioni, la volontà finale del testatore che, evidentemente consapevole della differenza tra la qualità di legatario e quella di erede, aveva riservato quest’ultima solo ai due figli C. e Gi., individuati come tali (ed inizialmente solo per la nuda proprietà) per quanto concerneva i beni>>. [non è accertamento di fatto, però, ma di diritto !!!]

Sulla cautela sociniana:

<<L’art. 550 c.c. ha sostanzialmente riprodotto nel codice l’istituto della cautela sociniana. Dispone infatti il comma 1 del citato articolo che, allorquando il testatore dispone di un usufrutto o di una rendita vitalizia il cui reddito eccede quello della disponibile, i legittimari ai quali è stata assegnata la nuda proprietà o di parte di essa, hanno la scelta o di eseguire tale disposizione o di abbandonare la nuda proprietà della porzione disponibile.

La norma, che si inserisce tra gli strumenti di tutela approntati dal legislatore in favore del legittimario, prevede un particolare effetto – derivante dalla legge e non già dalla volontà del testatore – in base al quale il legittimario, senza la necessità di dover ricorrere all’azione di riduzione, se voglia conseguire la piena proprietà della quota di riserva spettantegli ex lege, ha il diritto potestativo di variare gli effetti della successione, conseguendo in luogo della nuda proprietà, anche della disponibile, la sola quota di legittima, ma in piena proprietà.

L’istituto in oggetto, le cui origini si fanno erroneamente risalire all’elaborazione del giureconsulto S.M.j., il quale ben più limitatamente ebbe a sostenerne la validità in un parere datato intorno all’anno 1550, tende, a differenza dell’azione di riduzione, ad impedire il verificarsi di una lesione qualitativa della quota di legittima (una disposizione infatti quale quella in oggetto potrebbe in concreto attribuire al legittimario ben più di quanto spettantegli per legge, ma con l’imposizione anche sulla quota di legittima di un usufrutto, assimilabile ai pesi ed alle condizioni, la cui apposizione risulta vietata ex art. 549 c.c. – così Cassazione civile, sez. I, 29 dicembre 1970 n. 2782). La legge in tal caso, perseguendo un evidente scopo di semplificazione, volendo cioè evitare tutte quelle complesse controversie che potrebbero insorgere ove si dovesse procedere ad una stima del valore dell’usufrutto o della rendita in termini di capitale, al fine di accertare se vi sia stata o meno lesione quantitativa della quota di legittima, pone il legittimario di fronte alla scelta se accettare la nuda proprietà anche della porzione disponibile, esponendosi al dato aleatorio della durata della vita dell’usufruttuario, ovvero se abbandonare la disponibile, o quanto di essa avrebbe conseguito, per ottenere immediatamente la quota di legittima, senza limitazione alcuna.

Qualora quindi il legittimario opti per “l’abbandono” della nuda proprietà della disponibile, la stessa passa al legatario di usufrutto, il quale pertanto diviene pieno proprietario della disponibile (con una deroga al principio per qui il legatario non succede mai in una quota di proprietà del patrimonio ereditario), mentre l’usufrutto a questi lasciato per la parte relativa alla quota di legittima, viene automaticamente a cadere, dovendo andare a far parte della quota di riserva, verso cui si è indirizzata la scelta del legittimario.

Previsione analoga a quella ora esaminata è poi prevista nell’art. 550 c.c., comma 2 con riferimento alla diversa ipotesi in cui il legato concerna la nuda proprietà di una quota eccedente la disponibile, mentre il legittimario sia stato beneficiato dell’usufrutto anche su beni che eccedano la sua quota di legittima.

Così riassunta la ratio che sottende la norma in esame, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, deve piuttosto sottolinearsi come sia del tutto costante l’orientamento del giudice di legittimità, sebbene manifestatosi in non frequenti occasioni, per cui il potere attribuito dalla norma al legittimario di incidere unilateralmente sulla successione, prescinde dall’esercizio dell’azione di riduzione, la quale, impostata sul concetto di lesione quantitativa, non assicura al legittimario la qualità (piena proprietà), oltre che la quantità della legittima (Cass. n. 511/1995, Cass. n. 141/1985; Cass. n. 2782/1970).

Risulta perciò conforme a diritto la soluzione del giudice di appello che ha sostenuto che, a voler inquadrare le previsioni testamentarie oggetto di causa nella disciplina di cui all’art. 550 c.c., risultava escluso che l’attrice potesse far valere il diritto alla quota di riserva avvalendosi dell’azione di riduzione, dovendo piuttosto esercitare il diritto potestativo di abbandono della parte di nuda proprietà eccedente la legittima.>>

Azione di riduzione da parte dell’legittimario pretermesso, acquisto della qualità ereditaria ed azione per la divisione dei beni caduti in successione

Cass. sez. II del 08/11/2023 n. 31.125, rel. Criscuolo, ci fa ripassare alcuni principi  consolidati in materia:

<<Rileva a tal fine la circostanza che oggetto dell’azione di riduzione, in quanto lesiva dei diritti di legittimaria dell’attrice, è una disposizione testamentaria del de cuius, con la quale, pretermettendo A., il testatore aveva istituto erede universale il solo figlio maschio.

Tenuto, quindi, conto della massa ereditaria, per effetto delle operazioni di riunione fittizia (queste sì da compiere sulla base della stima dei beni alla data di apertura della successione), si è escluso che la lesione derivasse dalle donazioni pur compiute in vita in favore del convenuto (trattandosi di donazioni che per il loro ammontare gravavano sulla disponibile), ed è stato invece appurato che a risultare lesiva era proprio l’istituzione di erede universale, che andava ridotta, e quindi resa inefficace nei confronti dell’attrice, nei limiti in cui era necessario assicurarle quanto dovuto a titolo di quota di riserva (in quanto ancora insoddisfatta all’esito dell’imputazione delle liberalità a sua volta ricevute in vita dall’attrice).

In presenza di un’istituzione di erede universale ovvero per quote astratte dell’intero patrimonio, il legittimario pretermesso non è erede al momento di apertura della successione, ma lo diviene solo una volta esperita vittoriosamente l’azione di riduzione.

Inoltre, se ai sensi dell’art. 560 c.c., nel caso in cui la riduzione abbia ad oggetto disposizioni a titolo di legato ovvero donazioni (ed in via estensiva istituzioni ex certa re), l’effetto della riduzione è quello di rendere efficace solo la disposizione che abbia avuto ad oggetto il singolo bene, attribuendolo per intero al legittimario (ove la lesione travolga per intero l’attribuzione) ovvero rendendolo comune fra beneficiario e legittimario, nei limiti necessari ad assicurare la reintegra dei diritti del secondo, nel diverso caso in cui la lesione derivi da una disposizione di erede a titolo universale, l’effetto dell’accoglimento dell’azione di riduzione è quello di far acquisire al legittimario la qualità di erede su tutti i beni caduti in successione, ovvero a creare una comunione su quelli oggetto di liberalità ove a loro volta idonei a determinare la lesione, con il riconoscimento sui primi di una quota indivisa pari all’ammontare della legittima ancora insoddisfatta, ragguagliata al valore del relictum.

Già in passato questa Corte ha ricordato come le disposizioni testamentarie lesive della legittima non siano nulle né annullabili ma, sino a quando esse non vengano impugnate con l’azione di riduzione, conservano la loro piena efficacia. Di conseguenza, ove il de cuius abbia distribuito, con il testamento alle persone in questo indicate, tutto il suo patrimonio, mediante disposizioni a titolo universale o particolare, pretermettendo alcuni legittimari, questi non partecipano, de iure, alla comunione per il semplice fatto che si è aperta la successione testamentaria, giacché il loro diritto sui beni ereditari può realizzarsi soltanto mediante l’esperimento dell’azione di riduzione. Il legittimario, pertanto, non può chiedere la divisione dei beni lasciati dal de cuius, senza aver prima esercitato l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie. Inoltre, per ragioni di economia processuale, è tuttavia consentito, in ipotesi del genere, che le azioni di riduzione e di divisione siano proposte cumulativamente nello stesso processo, con la seconda avanzata in subordine all’accoglimento della prima, la quale ha carattere pregiudiziale (Cass. n. 1206/1962; Cass. n. 1077/1964; Cass. n. 160/1970; Cass. n. 2367/1970).

Il principio è stato anche di recente ribadito, essendosi confermato che l’azione di riduzione e quella di divisione, pur presentando una netta differenza sostanziale, possono essere fatte valere nel medesimo processo, in quanto – per evidenti ragioni di economia processuale – è consentito al legittimario di chiedere, anzitutto, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che assume lesive della legittima e, successivamente, nell’eventualità che la domanda di riduzione sia accolta, l’azione di divisione, estesa anche a quei beni che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, rientrano a far parte del patrimonio ereditario divisibile (Cass. n. 19284/2019; Cass. n. 4140/1992).

Alla base di tale principio si pone la premessa che il legittimario pretermesso non è erede al momento dell’apertura della successione, ma lo diviene per effetto dell’esercizio vittorioso dell’azione di riduzione e concorre poi alla comunione dei beni relitti, secondo una quota di entità corrispondente al valore della quota di riserva non soddisfatta, così che, ove i beni relitti, assegnati per testamento in maniera universale ad altri soggetti, siano di entità superiore alla quota di riserva, sugli stessi si instaura una comunione secondo le quote da determinare in base ai criteri esposti, comunione che può essere sciolta subito dopo l’accoglimento dell’azione di riduzione e nello stesso giudizio, alla luce delle esigenze di economia processuale, alle quali i precedenti richiamati fanno riferimento.

In ipotesi, peraltro, il legittimario ben potrebbe accontentarsi solo di esercitare l’azione di riduzione, al fine di conseguire il riconoscimento della titolarità pro quota dei beni caduti in successione ed assegnati ad altri per testamento, salvo poi decidere in un secondo momento di chiederne la divisione.

Ne consegue che, tenuto conto di quanto statuito dal Tribunale di Termini Imerese nella sentenza appellata, a fronte di una massa di beni relitti (e quindi con esclusione di quelli donati), pari ad Euro 1.980.062,99 (cfr. pag. 23), essendo la quota di legittima ancora non soddisfatta dell’attrice pari ad Euro 409.078,82 (cfr. pag. 25), sui beni relitti l’attrice ha acquisito una quota ideale pari al 20,66% (409.078,82: 1.980.062,99 = x: 100; x = 409.078,82-100/1.980.062,99= 20,66).

Risulta quindi pertinente rispetto all’ipotesi oggetto di causa il richiamo effettuato dalla difesa della ricorrente a quanto affermato da Cass. n. 2975/1991, secondo cui, ai fini della determinazione della quota di legittima e della quota disponibile, deve aversi riguardo, ai sensi degli artt. 556 e 564 c.c., esclusivamente al valore dell’asse ereditario al tempo dell’apertura della successione, differentemente dalla stima dei beni per la formazione delle quote per la divisione ereditaria, che a norma dell’art. 726 c.c., deve farsi con riferimento al loro stato e valore venale al tempo della divisione anche quando si provveda alla reintegrazione della legittima (conf. Cass. n. 739/1977).

Infatti, una volta appurata l’entità della lesione e la necessità quindi di ridurre la disposizione testamentaria a titolo universale, insorge, per effetto proprio dell’accoglimento della riduzione, una comunione tra erede istituito e legittimario, secondo le quote come sopra individuate, comunione per il cui scioglimento valgono le regole ordinariamente dettate, tra cui proprio la previsione di cui all’art. 726 c.c., in ordine alla necessità di attualizzazione della stima dei beni alla data dell’effettivo scioglimento>>.

E poi:

<<La logica che sottende la soluzione alla quale il Collegio intende aderire è sostanzialmente la medesima che è alla base dell’altrettanto pacifico orientamento secondo cui, nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredità riservata al legittimario, il momento di apertura della successione rileva per calcolare il valore dell’asse ereditario (mediante la cd. riunione fittizia), stabilire l’esistenza e l’entità della lesione della legittima, nonché determinare il valore dell’integrazione spettante al legittimario leso, sicché quest’ultima, ove avvenga mediante conguagli in denaro nonostante l’esistenza, nell’asse, di beni in natura, va adeguata, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore del bene – riferito al momento dell’ultimazione giudiziaria delle operazioni divisionali – cui il legittimario avrebbe diritto affinché ne costituisca l’esatto equivalente (Cass. n. 5320/2016; Cass. n. 7478/2000).

Una volta acquisita la qualità di erede, o meglio di coerede, per effetto dell’esercizio dell’azione di riduzione, tale qualità reca con sé anche la necessità di poter avvantaggiarsi degli eventuali incrementi di valore dei beni in relazione ai quali è stata riconosciuta la contitolarità, in vista del soddisfacimento della quota di riserva, ovvero, ed è caso non infrequente nei periodi in cui il mercato immobiliare subisca delle crisi, di subire le conseguenze del deprezzamento dei beni stessi>>.

Principio di diritto:

<<In caso di pretermissione del legittimario per effetto di istituzione di erede a titolo universale, a seguito dell’esperimento vittorioso dell’azione di riduzione sui beni relitti ovvero recuperati per effetto sempre dell’azione di riduzione, viene a determinarsi una situazione di comunione tra l’erede istituito ed il legittimario nella quale la quota del primo è corrispondente al valore della quota di legittima non soddisfatta determinata in proporzione al valore dell’intera massa, il tutto secondo la stima compiuta alla data di apertura della successione; tuttavia ove debba procedersi alla divisione della comunione così insorta, la stima dei beni in vista delle operazioni divisionali deve essere aggiornata alla luce del mutato valore dei beni tra la data di apertura della successione e quella di effettivo scioglimento della comunione>>.

Il tempo di riferimento per la determinazione della quota di legittima (apertura della successione) è diverso da quello per la formazione delle quote per la divisione ereditaria (tempo della divisione)

Cass. sez. 2 del 8 novembre 2023 n. 31.125, rel. Criscuolo:

premessa:

<<Già in passato questa Corte ha ricordato come le disposizioni testamentarie lesive della legittima non siano nulle né annullabili ma, sino a quando esse non vengano impugnate con l’azione di riduzione, conservano la loro piena efficacia. Di conseguenza, ove il de cuius abbia distribuito, con il testamento alle persone in questo indicate, tutto il suo patrimonio, mediante disposizioni a titolo universale o particolare, pretermettendo alcuni legittimari, questi non partecipano, de iure, alla comunione per il semplice fatto che si è aperta la successione testamentaria, giacché il loro diritto sui beni ereditari può realizzarsi soltanto mediante l’esperimento dell’azione di riduzione. Il legittimario, pertanto, non può chiedere la divisione dei beni lasciati dal de cuius, senza aver prima esercitato l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie. Inoltre, per ragioni di economia processuale, è tuttavia consentito, in ipotesi del genere, che le azioni di riduzione e di divisione siano proposte cumulativamente nello stesso processo, con la seconda avanzata in subordine all’accoglimento della prima, la quale ha carattere pregiudiziale (Cass. n. 1206/1962; Cass. n. 1077/1964; Cass. n. 160/1970; Cass. n. 2367/1970).

Il principio è stato anche di recente ribadito, essendosi confermato che l’azione di riduzione e quella di divisione, pur presentando una netta differenza sostanziale, possono essere fatte valere nel medesimo processo, in quanto – per evidenti ragioni di economia processuale – è consentito al legittimario di chiedere, anzitutto, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che assume lesive della legittima e, successivamente, nell’eventualità che la domanda di riduzione sia accolta, l’azione di divisione, estesa anche a quei beni che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, rientrano a far parte del patrimonio ereditario divisibile (Cass. n. 19284/2019; Cass. n. 4140/1992).

Alla base di tale principio si pone la premessa che il legittimario pretermesso non è erede al momento dell’apertura della successione, ma lo diviene per effetto dell’esercizio vittorioso dell’azione di riduzione e concorre poi alla comunione dei beni relitti, secondo una quota di entità corrispondente al valore della quota di riserva non soddisfatta, così che, ove i beni relitti, assegnati per testamento in maniera universale ad altri soggetti, siano di entità superiore alla quota di riserva, sugli stessi si instaura una comunione secondo le quote da determinare in base ai criteri esposti, comunione che può essere sciolta subito dopo l’accoglimento dell’azione di riduzione e nello stesso giudizio, alla luce delle esigenze di economia processuale, alle quali i precedenti richiamati fanno riferimento.

In ipotesi, peraltro, il legittimario ben potrebbe accontentarsi solo di esercitare l’azione di riduzione, al fine di conseguire il riconoscimento della titolarità pro quota dei beni caduti in successione ed assegnati ad altri per testamento, salvo poi decidere in un secondo momento di chiederne la divisione>>.

Poi andando al punto:

<<Risulta quindi pertinente rispetto all’ipotesi oggetto di causa il richiamo effettuato dalla difesa della ricorrente a quanto affermato da Cass. n. 2975/1991, secondo cui, ai fini della determinazione della quota di legittima e della quota disponibile, deve aversi riguardo, ai sensi degli artt. 556 e 564 c.c., esclusivamente al valore dell’asse ereditario al tempo dell’apertura della successione, differentemente dalla stima dei beni per la formazione delle quote per la divisione ereditaria, che a norma dell’art. 726 c.c., deve farsi con riferimento al loro stato e valore venale al tempo della divisione anche quando si provveda alla reintegrazione della legittima (conf. Cass. n. 739/1977).

Infatti, una volta appurata l’entità della lesione e la necessità quindi di ridurre la disposizione testamentaria a titolo universale, insorge, per effetto proprio dell’accoglimento della riduzione, una comunione tra erede istituito e legittimario, secondo le quote come sopra individuate, comunione per il cui scioglimento valgono le regole ordinariamente dettate, tra cui proprio la previsione di cui all’art. 726 c.c., in ordine alla necessità di attualizzazione della stima dei beni alla data dell’effettivo scioglimento>>.

E poi:
<<La logica che sottende la soluzione alla quale il Collegio intende aderire è sostanzialmente la medesima che è alla base dell’altrettanto pacifico orientamento secondo cui, nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredità riservata al legittimario, il momento di apertura della successione rileva per calcolare il valore dell’asse ereditario (mediante la cd. riunione fittizia), stabilire l’esistenza e l’entità della lesione della legittima, nonché determinare il valore dell’integrazione spettante al legittimario leso, sicché quest’ultima, ove avvenga mediante conguagli in denaro nonostante l’esistenza, nell’asse, di beni in natura, va adeguata, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore del bene – riferito al momento dell’ultimazione giudiziaria delle operazioni divisionali – cui il legittimario avrebbe diritto affinché ne costituisca l’esatto equivalente (Cass. n. 5320/2016; Cass. n. 7478/2000).

Una volta acquisita la qualità di erede, o meglio di coerede, per effetto dell’esercizio dell’azione di riduzione, tale qualità reca con sé anche la necessità di poter avvantaggiarsi degli eventuali incrementi di valore dei beni in relazione ai quali è stata riconosciuta la contitolarità, in vista del soddisfacimento della quota di riserva, ovvero, ed è caso non infrequente nei periodi in cui il mercato immobiliare subisca delle crisi, di subire le conseguenze del deprezzamento dei beni stessi.

Con l’appello la ricorrente intendeva proprio contestare il criterio con il quale il Tribunale aveva provveduto alla divisione dei beni dei quali la stessa era divenuta contitolare, così che si palesa erronea la risposta fornita dalla sentenza impugnata che ha invece invocato il principio secondo cui la stima andava sempre ed unicamente compiuta in base al valore dei beni alla data di apertura della successione>>.

Finale principio di diritto:

<<In caso di pretermissione del legittimario per effetto di istituzione di erede a titolo universale, a seguito dell’esperimento vittorioso dell’azione di riduzione sui beni relitti ovvero recuperati per effetto sempre dell’azione di riduzione, viene a determinarsi una situazione di comunione tra l’erede istituito ed il legittimario nella quale la quota del primo è corrispondente al valore della quota di legittima non soddisfatta determinata in proporzione al valore dell’intera massa, il tutto secondo la stima compiuta alla data di apertura della successione; tuttavia ove debba procedersi alla divisione della comunione così insorta, la stima dei beni in vista delle operazioni divisionali deve essere aggiornata alla luce del mutato valore dei beni tra la data di apertura della successione e quella di effettivo scioglimento della comunione>>.

Reintegrazione verso il donatario e mancato previo esperimento dell’accettazione con beneficio di inventario ex art. 564 cc: applicazione della riduzione proporzionalità in caso di atto coevi

Altra interessante decisione del dr. Criscuolo in tema successorio (Cass. sez. II, 27/10/2023 n. 29.891):

<<Rappresenta principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui (Cass. n. 30079/2019) solo il legittimario totalmente pretermesso che impugna per simulazione un atto compiuto dal “de cuius”, a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce, sia nella successione testamentaria che in quella “ab intestato”, in qualità di terzo e non in veste di erede, acquisendo quest’ultima qualità solo in conseguenza del positivo esercizio dell’azione di riduzione, sicché, come tale, non è tenuto alla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio di inventario; né vi è tenuto quando agisca per far valere una simulazione assoluta od anche relativa, ma finalizzata a far accertare la nullità del negozio dissimulato, in quanto, in queste ipotesi, l’accertamento della realtà effettiva consente al legittimario di recuperare alla massa ereditaria i beni donati, mai usciti dal patrimonio del defunto (conf. Cass. n. 25441/2017). Invece, (cfr. Cass. n. 20971/2018) ove il legittimario sia anche erede e proponga un’azione di simulazione relativa, ma volta a far valere la validità del negozio dissimulato, tale domanda deve ritenersi proposta esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione e postula, quale condizione per la propria ammissibilità, la previa accettazione beneficiata (conf. Cass. 4400/2011).

E’ stato altresì precisato che (Cass. n. 19527/2005) la disposizione di cui all’art. 564 c.c., che subordina la proposizione dell’azione di riduzione delle donazioni e dei legati da parte del legittimario alla sua accettazione con beneficio d’inventario, non opera nel caso in cui le donazioni e i legati siano fatte a persone chiamate come coeredi, e ciò perché la norma risponde alla “ratio” di evitare che la confusione dei patrimoni del “de cuius” e dell’erede impedisca al donatario e al legatario di verificare l’effettività della lesione della riserva [ndr: cosa nota] e, inoltre, all’esigenza, di cui è fatta menzione nella relazione al progetto definitivo del codice civile, di evitare il contrasto logico ed insanabile fra la responsabilità illimitata dell’erede, nonché il suo obbligo di rispettare gli atti di disposizione del defunto, e l’azione di riduzione della liberalità (conf. Cass. n. 1407/1987; Cass. n. 4270/1984). [ndr: già più interessante]

Infatti, la Corte ha ritenuto che (Cass. n. 18068/2012) è manifestamente infondata la questione di legittimità, per violazione degli artt. 2,3 e 24 Cost., della disposizione dell’art. 564 c.c., comma 1, che condiziona l’ammissibilità dell’azione di riduzione all’accettazione dell’eredità con il beneficio d’inventario solo nel caso in cui tale azione venga esercitata nei confronti di un terzo e non anche quando essa sia rivolta verso un coerede, essendo tale norma giustificata: 1) dall’esigenza di porre il convenuto in grado di conoscere l’entità dell’asse ereditario, esigenza maggiormente avvertita per il terzo, in quanto si presume che il coerede possa accertarsi dell’entità dell’asse con mezzi diversi dall’accettazione del beneficiato; 2) dalla “ratio” di evitare il contrasto logico insanabile tra la responsabilità “ultra vires” dell’erede per il pagamento dei debiti e dei legati, il suo obbligo di rispettare integralmente gli effetti degli atti compiuti dal defunto – quindi, anche delle donazioni – e l’azione di riduzione della liberalità; 3) dalla volontà del legislatore di non sacrificare il terzo a vantaggio dei creditori del defunto, i quali, invero, ai sensi dell’art. 557 c.c., comma 3, non approfittano della riduzione solo se il legittimario avente diritto alla riduzione ha accettato l’eredità con il beneficio d’inventario.

Poiché tra i destinatari della domanda di simulazione, chiaramente proposta al fine di far accertare la natura liberale dell’atto dissimulato, vi era anche C.B., beneficiario, secondo la tesi dei ricorrenti della donazione di un terreno appartenente alla de cuius e sito in (Omissis), la conclusione circa l’inammissibilità della domanda, in quanto non preceduta dall’accettazione beneficiata non può reputarsi corretta quanto all’azione avanzata nei confronti del fratello, e ciò anche alla luce del carattere personale dell’azione di riduzione che opera sia sul lato attivo (nel senso che ogni legittimario può autonomamente agire per la tutela della propria quota di riserva), sia dal lato passivo, ben potendo esercitarsi l’azione di riduzione nei confronti di un singolo donatario ovvero di un singolo beneficiario delle disposizioni testamentarie, nel rispetto, nel primo caso del criterio cronologico che presiede alla riduzione delle donazioni, e nel secondo caso del criterio di proporzionalità di cui all’art. 558 c.c.

Ne deriva che, ove dimostrata l’esistenza di una donazione dissimulata, a fronte dell’apparente vendita del detto terreno a favore del fratello dei ricorrenti, la medesima donazione ben potrà essere suscettibile di riduzione, se lesiva della quota di legittima degli istanti>>.

E poi:

<<E’ pur vero che la giurisprudenza di questa Corte ha evidenziato che (Cass. n. 22632/2013) qualora il legittimario, ai sensi dell’art. 564 c.c., non possa aggredire la donazione più recente a favore di un non coerede per aver accettato l’eredità senza beneficio d’inventario, non può aggredire la donazione meno recente a favore del coerede, se non nei limiti in cui risulti dimostrata l’insufficienza della donazione più recente a reintegrare la quota di riserva, non potendo ricadere le conseguenze negative del mancato espletamento di quell’onere su soggetti estranei all’assolvimento dello stesso (conf. Cass. n. 3500/1975), sicché occorre adeguare tale principio alla peculiare situazione in esame, che vede la presenza, sempre ove dimostrata la simulazione, di una pluralità di donazioni contenute in un medesimo atto, solo alcune delle quali aggredibili con l’azione di riduzione, stante il mancato rispetto della previsione di cui all’art. 564 c.c. per l’azione esperita verso i donatari non chiamati come coeredi.

In presenza però di donazioni coeve, deve reputarsi applicabile, in assenza di un’indicazione che consenta di invocare il criterio cronologico sopra richiamato, il criterio proporzionale, con la conseguenza che la donazione effettuata a C.B., ove dimostrata in sede di rinvio, potrà essere aggredita dagli attori nei limiti necessari a reintegrare la propria quota, ma in misura non eccedente quella che sarebbe stata la riduzione applicata ove si fosse considerato anche il valore delle donazioni coeve, e considerato il suddetto criterio proporzionale.

Al fine di meglio illustrare tale principio, si ipotizzi che la donazione effettuata in favore di tre donatari veda un’eccedenza rispetto alla disponibile pari ad un valore di 60, dovendo in ipotesi essere ridotta in tale misura, ne consegue che ove la donazione abbia attribuito i beni ai donatari in pari quota, ognuno vedrebbe ridotta la donazione ricevuta, in applicazione della regola proporzionale, per un valore di 20.

Se però, per effetto della previsione di cui all’art. 564 c.c., la domanda di riduzione sia ammissibile solo nei confronti di uno dei donatari, la riduzione non potrà in ogni caso eccedere il valore di 20, che sarebbe stato oggetto di riduzione anche nel caso di ammissibilità della domanda nei confronti di tutti i donatari, non potendo l’omessa accettazione beneficiata da parte del legittimario ripercuotersi in danno del soggetto chiamato come coerede, per il quale non opera la condizione di cui al citato art. 564 c.c.>>