Il tempo di riferimento per la determinazione della quota di legittima (apertura della successione) è diverso da quello per la formazione delle quote per la divisione ereditaria (tempo della divisione)

Cass. sez. 2 del 8 novembre 2023 n. 31.125, rel. Criscuolo:

premessa:

<<Già in passato questa Corte ha ricordato come le disposizioni testamentarie lesive della legittima non siano nulle né annullabili ma, sino a quando esse non vengano impugnate con l’azione di riduzione, conservano la loro piena efficacia. Di conseguenza, ove il de cuius abbia distribuito, con il testamento alle persone in questo indicate, tutto il suo patrimonio, mediante disposizioni a titolo universale o particolare, pretermettendo alcuni legittimari, questi non partecipano, de iure, alla comunione per il semplice fatto che si è aperta la successione testamentaria, giacché il loro diritto sui beni ereditari può realizzarsi soltanto mediante l’esperimento dell’azione di riduzione. Il legittimario, pertanto, non può chiedere la divisione dei beni lasciati dal de cuius, senza aver prima esercitato l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie. Inoltre, per ragioni di economia processuale, è tuttavia consentito, in ipotesi del genere, che le azioni di riduzione e di divisione siano proposte cumulativamente nello stesso processo, con la seconda avanzata in subordine all’accoglimento della prima, la quale ha carattere pregiudiziale (Cass. n. 1206/1962; Cass. n. 1077/1964; Cass. n. 160/1970; Cass. n. 2367/1970).

Il principio è stato anche di recente ribadito, essendosi confermato che l’azione di riduzione e quella di divisione, pur presentando una netta differenza sostanziale, possono essere fatte valere nel medesimo processo, in quanto – per evidenti ragioni di economia processuale – è consentito al legittimario di chiedere, anzitutto, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che assume lesive della legittima e, successivamente, nell’eventualità che la domanda di riduzione sia accolta, l’azione di divisione, estesa anche a quei beni che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, rientrano a far parte del patrimonio ereditario divisibile (Cass. n. 19284/2019; Cass. n. 4140/1992).

Alla base di tale principio si pone la premessa che il legittimario pretermesso non è erede al momento dell’apertura della successione, ma lo diviene per effetto dell’esercizio vittorioso dell’azione di riduzione e concorre poi alla comunione dei beni relitti, secondo una quota di entità corrispondente al valore della quota di riserva non soddisfatta, così che, ove i beni relitti, assegnati per testamento in maniera universale ad altri soggetti, siano di entità superiore alla quota di riserva, sugli stessi si instaura una comunione secondo le quote da determinare in base ai criteri esposti, comunione che può essere sciolta subito dopo l’accoglimento dell’azione di riduzione e nello stesso giudizio, alla luce delle esigenze di economia processuale, alle quali i precedenti richiamati fanno riferimento.

In ipotesi, peraltro, il legittimario ben potrebbe accontentarsi solo di esercitare l’azione di riduzione, al fine di conseguire il riconoscimento della titolarità pro quota dei beni caduti in successione ed assegnati ad altri per testamento, salvo poi decidere in un secondo momento di chiederne la divisione>>.

Poi andando al punto:

<<Risulta quindi pertinente rispetto all’ipotesi oggetto di causa il richiamo effettuato dalla difesa della ricorrente a quanto affermato da Cass. n. 2975/1991, secondo cui, ai fini della determinazione della quota di legittima e della quota disponibile, deve aversi riguardo, ai sensi degli artt. 556 e 564 c.c., esclusivamente al valore dell’asse ereditario al tempo dell’apertura della successione, differentemente dalla stima dei beni per la formazione delle quote per la divisione ereditaria, che a norma dell’art. 726 c.c., deve farsi con riferimento al loro stato e valore venale al tempo della divisione anche quando si provveda alla reintegrazione della legittima (conf. Cass. n. 739/1977).

Infatti, una volta appurata l’entità della lesione e la necessità quindi di ridurre la disposizione testamentaria a titolo universale, insorge, per effetto proprio dell’accoglimento della riduzione, una comunione tra erede istituito e legittimario, secondo le quote come sopra individuate, comunione per il cui scioglimento valgono le regole ordinariamente dettate, tra cui proprio la previsione di cui all’art. 726 c.c., in ordine alla necessità di attualizzazione della stima dei beni alla data dell’effettivo scioglimento>>.

E poi:
<<La logica che sottende la soluzione alla quale il Collegio intende aderire è sostanzialmente la medesima che è alla base dell’altrettanto pacifico orientamento secondo cui, nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredità riservata al legittimario, il momento di apertura della successione rileva per calcolare il valore dell’asse ereditario (mediante la cd. riunione fittizia), stabilire l’esistenza e l’entità della lesione della legittima, nonché determinare il valore dell’integrazione spettante al legittimario leso, sicché quest’ultima, ove avvenga mediante conguagli in denaro nonostante l’esistenza, nell’asse, di beni in natura, va adeguata, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore del bene – riferito al momento dell’ultimazione giudiziaria delle operazioni divisionali – cui il legittimario avrebbe diritto affinché ne costituisca l’esatto equivalente (Cass. n. 5320/2016; Cass. n. 7478/2000).

Una volta acquisita la qualità di erede, o meglio di coerede, per effetto dell’esercizio dell’azione di riduzione, tale qualità reca con sé anche la necessità di poter avvantaggiarsi degli eventuali incrementi di valore dei beni in relazione ai quali è stata riconosciuta la contitolarità, in vista del soddisfacimento della quota di riserva, ovvero, ed è caso non infrequente nei periodi in cui il mercato immobiliare subisca delle crisi, di subire le conseguenze del deprezzamento dei beni stessi.

Con l’appello la ricorrente intendeva proprio contestare il criterio con il quale il Tribunale aveva provveduto alla divisione dei beni dei quali la stessa era divenuta contitolare, così che si palesa erronea la risposta fornita dalla sentenza impugnata che ha invece invocato il principio secondo cui la stima andava sempre ed unicamente compiuta in base al valore dei beni alla data di apertura della successione>>.

Finale principio di diritto:

<<In caso di pretermissione del legittimario per effetto di istituzione di erede a titolo universale, a seguito dell’esperimento vittorioso dell’azione di riduzione sui beni relitti ovvero recuperati per effetto sempre dell’azione di riduzione, viene a determinarsi una situazione di comunione tra l’erede istituito ed il legittimario nella quale la quota del primo è corrispondente al valore della quota di legittima non soddisfatta determinata in proporzione al valore dell’intera massa, il tutto secondo la stima compiuta alla data di apertura della successione; tuttavia ove debba procedersi alla divisione della comunione così insorta, la stima dei beni in vista delle operazioni divisionali deve essere aggiornata alla luce del mutato valore dei beni tra la data di apertura della successione e quella di effettivo scioglimento della comunione>>.

Azione di reintegrazione della legittima o della quota ab intestato? Differenze a livello di prova della simulazione donativa

Sempre interessanti le consideraizoni di diritto successorio del dr. Criscuolo della 2 sezione Cass. civ., qui nella ordinanza 27.10.2023 n. 29.281.

<<La Corte ritiene che debba darsi continuità al principio di diritto recentemente affermato da Cass. n. 16535/2020, secondo cui quando la successione legittima si apre su un “relictum” insufficiente a soddisfare i diritti dei legittimari alla quota di riserva, avendo il “de cuius” fatto in vita donazioni che eccedono la disponibile, la riduzione delle donazioni pronunciata su istanza del legittimario ha funzione integrativa del contenuto economico della quota ereditaria di cui il legittimario stesso è già investito “ex lege”, determinando il concorso della successione legittima con la successione necessaria. Pertanto, la circostanza che il legittimario, nel chiedere l’accertamento della simulazione di atti compiuti dal “de cuius”, abbia fatto riferimento alla quota di successione “ab intestato” non implica che egli abbia inteso far valere i suoi diritti di erede piuttosto che quelli di legittimario, qualora dall’esame complessivo della domanda risulti che l’accertamento sia stato comunque richiesto per il recupero o la reintegrazione della quota di legittima lesa.

La vicenda nella quale risulta essere stato formulato il principio ora riportato risulta per molti versi sovrapponibile a quella in esame, posto che anche in quel caso ad agire per la simulazione era la figlia del de cuius, nata al di fuori del matrimonio, e nei confronti di una donazione che aveva gravemente ridotto la consistenza del patrimonio relitto, sul quale la figlia, erede legittima, ma anche legittimaria, avrebbe potuto soddisfare i propri diritti successori.

Analogamente a quanto accaduto nella fattispecie, i giudici di appello avevano reputato che l’attrice, agendo quale erede legittima del de cuius, avesse chiesto l’accertamento della simulazione degli atti indicati prospettando la simulazione per interposizione fittizia di persona e, incidentalmente, accennando anche a simulazioni relative, dissimulanti donazioni indirette, al fine di acquisire i beni all’asse ereditario e conseguire anche la quota disponibile senza integrazione della quota di riserva, escludendo che la domanda di reintegrazione della quota di riserva fosse stata compiutamente proposta dall’attrice con il richiamo alla “lesione dei diritti riservati ad essa dalla legge”, nonché con la generica richiesta di “reintegrazione della quota di sua spettanza previa riduzione di quanto pervenuto ai figli legittimi dal coniuge nella misura che sarà accertata e dovuta rispetto al patrimonio complessivamente ricostruito”.

Questa Corte ha però ritenuto non condivisibile tale conclusione, rilevando che la quota di riserva continua a rimanere oggetto di un diritto proprio del legittimario ancorché egli, chiamato all’eredità per legge o per testamento (Cass. n. 4991/1978), abbia acquistato la qualità di erede con l’accettazione, così che, anche quando il legittimario agisce per la reintegrazione della quota riservata, sebbene erede di una delle parti contraenti, sono a lui inapplicabili le limitazioni probatorie previste per le parti originarie in materia di prova della simulazione (Cass. n. 5515/1984), posto che in tal caso si pone in una posizione antagonista rispetto al de cuius, opponendosi alla volontà negoziale manifestata dal dante causa come qualsiasi altro terzo, con ciò giovandosi del più favorevole regime probatorio in ordine alla simulazione previsto dall’art. 1417 c.c. (Cass. n. 6315/2003), sottraendosi alle limitazioni probatorie in tema di prova della simulazione, operanti in linea di principio anche per l’erede della parte contraente (Cass. n. 6507/1980).

L’atto compiuto dal de cuius assume l’idoneità a ledere i diritti del legittimario e quindi il legittimario nutre interesse ad accertare che un bene, alienato sotto l’apparenza del negozio oneroso, è in realtà una donazione soggetta a riunione fittizia ed eventualmente a riduzione. Ha altresì interesse, come nella vicenda in esame, a far valere la simulazione assoluta del negozio, al fine di fare accertare che un bene oggetto di alienazione fa parte del relictum ereditario (Cass. n. 4100/1980), essendo stato altresì chiarito che “Il legittimario è ammesso a provare, nella veste di terzo, la simulazione di una vendita fatta dal de cuius per testimoni e presunzioni, senza soggiacere ai limiti fissati dagli artt. 2721 e 2729 c.c., a condizione che la simulazione sia fatta valere per un’esigenza coordinata con la tutela della quota di riserva tramite la riunione fittizia” (Cass. n. 12317/2019).

Ciò non vuol dire però che l’erede, solo perché legittimario, quando impugni per simulazione un atto compiuto dal de cuius, venga a trovarsi sempre e comunque nella veste di terzo e non in quella del contraente (Cass. n. 7134/2001), ma è pur sempre necessario che l’accertamento della simulazione sia richiesto dal legittimario in tale specifica veste, per rimediare a una lesione di legittima, intesa l’espressione in senso ampio, in modo da comprendere non solo la reintegrazione in senso proprio, tramite la riduzione della donazione dissimulata, ma anche il recupero all’asse ereditario del bene oggetto di alienazione simulata ovvero di donazione dissimulata nulla per difetto di forma (Cass. n. 8215/2013; n. 19468/2005).

Risulta ormai in massima parte superato l’indirizzo che restringeva la facoltà del legittimario di valersi della prova testimoniale e di prove indiziarie al caso in cui l’azione di simulazione mirasse solo alla reintegrazione della quota di riserva e non si estendesse anche alla disponibile (Cass. n. 167/1972; n. 1361/1969). Viceversa, subentra invece al defunto il legittimario che non esercita un diritto proprio, contro la volontà del defunto, ma si vale di un titolo che lo pone nella identica situazione giuridica del dante causa (Cass. n. 8684/1986), dovendo quindi soggiacere a tutti i limiti per lui costituiti, fra i quali il limite delle alienazioni simulate, la cui rilevanza formale può essere rimossa solo con i mezzi di prova di cui disponeva il dante causa (Cass. n. 7134/2001). Così come il legittimario trae dal defunto anche il diritto di richiedere la collazione (Cass. n. 3932/2016), posto che in tal caso si trova nella medesima posizione del de cuius, sia ai fini della prova, sia ai fini della prescrizione dell’azione di simulazione (Cass. n. 536/2018; n. 4021/2007; n. 2092/2000).

Secondo la corte di merito le deduzioni operate dall’attrice con la domanda non consentivano di ritenere proposta l’azione di riduzione e ciò perché non vi era un riferimento all’azione di riduzione e non era dedotta la lesione della quota di legittima, ma nel compiere tale affermazione ha obliterato completamente il fatto che l’attrice aveva denunciato la mancanza del relictum, determinata dagli atti di disposizione compiuti in vita del genitore, sicché in ipotesi di insufficienza del relictum è gioco forza che i diritti riconosciuti dalla legge al legittimario non potrebbero essere soddisfatti altrimenti se non a scapito dei simulati acquirenti donatari, una volta fornita la prova della simulazione. La situazione non poteva ingenerare alcun equivoco in ordine al fatto che la domanda di simulazione era preordinata alla reintegrazione della quota di riserva (Cass. n. 19527/2005), come peraltro ricavabile dalla richiesta, parimenti contenuta nelle conclusioni dell’atto di citazione, di disporre la reintegra in favore dell’unica erede legittima, nonché legittimaria . Cass. n. 16535/2020 citata ha altresì chiarito come sia erroneo l’assunto secondo cui il richiamo alla qualità di erede legittima sia una enunciazione incompatibile con la intenzione dell’attrice di far valere il proprio diritto di legittimaria. Il legittimario erede ab intestato, il quale agisce in riduzione contro i donatari (o i legatari), non abdica né al titolo di erede legittimo in favore del titolo di legittimario, né alla quota ereditaria conseguita in virtù della successione intestata in favore della quota riservata. Il legittimario, piuttosto, fa valere tale sua qualità, concorrente con quella di erede legittimo, per far sì che la quota di successione intestata si adegui, in valore, alla quota di riserva tramite la riduzione delle donazioni e dei legati, ovvero che possa espandersi tramite il recupero con l’accertamento della nullità di atti dissimulati, di beni all’apparenza fuoriusciti dal patrimonio, avvalendosi però a tal fine del più agevole regime probatorio riservato al legittimario. La sentenza gravata non risulta essersi adeguata ai suesposti principi e deve pertanto essere cassata, con rinvio per nuovo esame, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Roma>>.

Riunione fittizia, imputazione ex se e collazione: reciproche differenze per stabilire se serva domanda riconvenzionale o se basti eccezione da parte del convenuto

Utili precisazioni da Cass. sez. 2 n° 9813 del 13 aprile 2023, rel. Tedesco, sul non sempre facile tema in oggetto (almeno per i non specialisti di diritto successorio):

<Intanto la similitudine fra collazione e riunione fittizia, ravvisata fra collazione e riunione fittizia, non sussiste. Senza che sia minimamente utile indugiare sui molteplici profili distintivi fra i due istituti, giova solo rimarcare che la collazione rimane sempre distinta dalla riunione fittizia delle donazioni prevista dall’art. 556 c.c., anche quando sia fatta per imputazione. Entrambe lasciano i beni donati nel patrimonio del donatario, ma mentre la riunione fittizia resta comunque una pura operazione contabile, da cui non deriva alcuna alterazione nel patrimonio del donatario, se non sia lesa la legittima, la collazione, anche quando sia attuata per imputazione, si traduce comunque in un sacrificio a carico del conferente, il quale subisce il maggior concorso dei coeredi sui beni relitti (così testualmente Cass. n. 28196/2020)>.

sulla imputazione ex se: <L’onere di imputazione importa che le disposizioni in favore degli altri saranno lesive e quindi riducibili in quanto intacchino non già la legittima che sarebbe spettata al legittimario, ma il valore costituente la differenza fra il valore della legittima e quello delle liberalità. Quando il legittimario abbia ricevuto, in donazione o legato, un valore superiore, o pari, al valore della quota legittima, l’onere di imputazione esclude qualsiasi ulteriore prelievo>.

sulla differenza di questa dalla collazione: << Tralasciando i molteplici profili di distinzione fra collazione e imputazione ex se, ai fini che interessano in questa sede, è sufficiente sottolineare che l’imputazione ex se differisce dalla collazione anzitutto per lo scopo: la collazione pone il bene donato (o il suo valore) in comunione fra i coeredi, l’imputazione invece serve a fare rispettare le liberalità fatte dal defunto e a restringere l’esercizio della riduzione nei limiti dello stretto necessario. Si capisce quindi che, mentre colui che chiede la collazione mira, comunque, a imporre un sacrificio al donatario, in quanto pretende di concorrere anche sulla donazione o sul suo valore, colui che fa valere una donazione ai fini della imputazione ex se non chiede nessun provvedimento positivo in danno del donatario. Egli pretende solo che l’azione di riduzione, sperimentata dal legittimario, sia contenuta nei limiti della differenza fra la legittima, calcolata con il procedimento di riunione fittizia, e la liberalità già ricevuta, che rimane sempre e comunque integra nelle mani del donatario. Emerge qui un ulteriore profilo distintivo fra imputazione ex se e collazione, anche quando questa sia fatta per imputazione. In base all’imputazione ex se, se il valore della donazione pareggia o supera il valore della legittima, è escluso il diritto del legittimario di far ridurre le liberalità altrui: l’azione di riduzione sarà rigettata per effetto dell’imputazione, ma questa, di per sé, non espone il donatario ad alcuna conseguenza. Anche nel caso in cui l’eccedenza sia tale da determinare una lesione in danno di altro dei legittimari, il sacrificio del donatario non è un effetto dipendente dall’imputazione ex se, ma suppone l’esercizio dell’azione di riduzione da parte del legittimario leso. Diversamente, nella collazione per imputazione, se il valore della donazione supera quello della quota ereditaria, il donatario è tenuto a versare ai coeredi l’equivalente pecuniario dell’eccedenza; che in questo caso non significa che la misura della donazione comprende parte dei beni che sono necessari a completare la misura della quota di riserva, come avviene per la riduzione, ma sta solo ad indicare che il donatario ha ricevuto di più di quanto a lui spetta nel concorso con gli altri condividenti, come lui discendenti del de cuius (Cass. n. 1481/1979; n. 28196/2020)>>.

IN altre parole, <<chi fa valere una donazione ai fini della imputazione ex se da parte dell’attore in riduzione, mira solo al rigetto della domanda o al suo accoglimento in misura minore. A questi effetti, anche nel caso in cui la donazione di cui il convenuto pretenda l’imputazione sia una donazione indiretta, della quale occorra accertare l’esistenza, è sufficiente la proposizione di una semplice eccezione, in quanto il “fatto” rimane comunque diretto a provocare il rigetto dell’altrui pretesa, in conformità alla finalità tipica dell’eccezione (Cass. n. 9044/2010; n. 14852/2013)>>.

Diritto di abitazione del coniuge sopravvissuto e comproprietà dell’immobile (sull’art. 540 c.2 c.c.)

La corte di cassazione segue la tesi per cui il diritto di abitazione ex art. 540 c.2 c.c., in caso di comproprietà dell’immobile,  spetta al coniuge sopravvissuto solo se i compropreitari erano lui e quello deceduto.

Se invece figuravano anche soggetti terzi, il diritto non gli spetta.

Così motiva Cass. ord. n° 29.162 del 20.10.2021, rel. Besso Marcheis:

<<Il Collegio aderisce  all’orientamento di questa Corte seguito dalla Corte d’appello.  Secondo tale orientamento (v., in particolare, Cass. n. 6691/2000,  cfr. anche Cass. n. 8171/1991) la locuzione “di proprietà del defunto  o comuni”, di cui all’art. 540, comma 2 c.c., va interpretata alla luce  della ratio del diritto di abitazione e della sua stretta connessione con  l’esigenza di godere dell’abitazione familiare. Il legislatore,  prevedendo l’ipotesi della casa comune, si è riferito esclusivamente  alla comunione con l’altro coniuge, tenuto conto che il regime della  comunione è quello legale e quindi presumibilmente il più frequente a  verificarsi; inoltre, ove comproprietario sia un terzo non possono  verificarsi i presupposti per la nascita del diritto di abitazione, non  essendo in questo caso realizzabile l’intento del legislatore di  assicurare in concreto al coniuge il godimento pieno del bene oggetto  del diritto; in altri termini, intanto può sorgere il diritto di abitazione, in quanto vi è la possibilità di soddisfare l’esigenza abitativa e, se  questa non può soddisfarsi perché l’immobile appartiene anche ad  estranei, il diritto di abitazione non nasce. Il Collegio ritiene che vada altresì escluso che il coniuge superstite, nei limiti della quota di proprietà del coniuge defunto, possa avere l’equivalente monetario  del predetto diritto, in quanto si finirebbe per attribuire “un contenuto  economico di rincalzo al diritto di abitazione che, invece, ha un senso  solo se apporta un accrescimento qualitativo alla successione del  coniuge superstite, garantendo in concreto l’esigenza di godere  dell’abitazione familiare” (così la richiamata pronuncia n. 6691/2000,  in diversi termini si era espressa Cass. n. 2474/1987, v. pure Cass.  n. 14594/2004)>>.