Cass. sez. I, 22/09/2025 n. 25.890, rel. Caprioli:
In generale sull’a.d.s.:
<<L’amministrazione di sostegno, introdotta dalla L. n. 6 del 2004, art. 3 innovando il sistema delle tutele previste in favore dei soggetti deboli, persegue la finalità di offrire, a chi si trovi -all’attualità – nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi per una qualsiasi “infermità” o “menomazione fisica” non necessariamente di ordine mentale (Cass. n. 12998/2019), uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la “capacità di agire” e che -a differenze dell’interdizione e dell’inabilitazione – sia idoneo ad adeguarsi alle esigenze del beneficiario, in ragione della sua flessibilità e della maggiore agilità della relativa procedura applicativa.
L’amministrazione di sostegno, ancorché non esiga che la persona versi in uno stato di vera e propria incapacità di intendere o di volere, nondimeno presuppone una condizione attuale di menomata capacità che la ponga nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi, mentre e escluso il ricorso all’istituto nei confronti di chi si trovi nella piena capacità di autodeterminarsi, pur in condizioni di menomazione fisica, in funzione di asserite esigenze di gestione patrimoniale, in quanto detto utilizzo implicherebbe un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona, tanto più a fronte della volontà contraria all’attivazione della misura manifestata da un soggetto pienamente lucido (Cass. n. 29981/2020).
Invero, come e stato già affermato da questa Corte, la valutazione della congruità e conformità del contenuto dell’amministrazione di sostegno alle specifiche esigenze del beneficiario, riservata all’apprezzamento del giudice di merito, richiede che questi tenga essenzialmente conto, secondo criteri di proporzionalità e di funzionalità, del tipo di attività che deve essere compiuta per conto dell’interessato, della gravità e durata della malattia o della situazione di bisogno in cui versa l’interessato, nonché di tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie, in modo da assicurare che il concreto supporto sia adeguato alle esigenze del beneficiario senza essere eccessivamente penalizzante (v. Cass. n. 13584/2006, n. 22332/2011; Cass. n. 18171/2013; Cass. n. 6079/2020; nel senso che l’ambito dei poteri dell’amministratore debba puntualmente correlarsi alle caratteristiche del caso concreto, v. Corte Cost. n. 4 del 2007). Le caratteristiche proprie dell’amministrazione di sostegno impongono, quindi, in linea con le indicazioni rivenienti dall’art. 12 della Convenzione delle Nazioni Unite, che l’accertamento della ricorrenza dei presupposti di legge sia compiuto in maniera specifica, circostanziata e focalizzata sia rispetto alle condizioni di menomazione del beneficiario accertare anche mediante CTU, ove necessario-, sia rispetto alla incidenza della stesse sulla capacità del beneficiario di provvedere ai propri interessi personali e patrimoniali, anche eventualmente avvalendosi, in tutto o in parte, di un sistema di deleghe dallo stesso approntato; inoltre, il perimetro dei poteri gestori ordinari attribuibili all’amministratore di sostegno va delineato in termini direttamente proporzionati ad entrambi gli anzidetti elementi, di guisa che la misura risulti specifica e funzionale agli obiettivi individuali di tutela, altrimenti implicando un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona. In questo quadro, le dichiarazioni del beneficiario e la sua eventuale opposizione devono essere opportunamente considerate, così come il ricorso a possibili strumenti alternativi dallo stesso proposti, ove prospettati con sufficiente specificità e concretezza. Al riguardo, va rilevato che la decisione qui impugnata muovendo dalla erronea premessa che la pronuncia rescindente avesse accertato la sussistenza dei presupposti che giustificano l’amministrazione di sostegno e che l’ambito della sua indagine fosse circoscritta alla verifica dell’esistenza o meno di una rete familiare in grado di supportare la riassumente nella gestione dei suoi interessi patrimoniali e di quelli relativi alla sua sfera personale, ha rilevato, all’esito del giudizio, l’assenza di soggetto in grado di svolgere una funzione vicariante attraverso opportune deleghe>>.
Andando al caso sub iudice e negando l’incapacità di provvedere a sè stessa della persona interessata:
<<Invero, diversamente da quanto affermato dal Giudice del rinvio, la pronuncia rescindente, non ha svolto alcun accertamento fattuale che esula dai compiti del giudice di legittimità, ma ha invece rilevato la capacità della Ne., prima dell’adozione del provvedimento ai amministrazione ai sostegno nei suoi confronti,di svolgere autonomamente attività lavorativa e di curare gli aspetti della vita ordinaria chiarendo che l’eventuale esigenza di protezione sarebbe dovuta passare attraverso una verifica dell’esistenza di una rete familiare in grado di svolgere una funzione vicariante per supportarla negli aspetti più complessi della gestione del suo patrimonio.
Ciò posto la decisione della Corte di appello è fondata su una serie di elementi di natura indiziaria circa la condizione della ricorrente, ritenuta tale da richiedere l’intervento di sostegno in questione, che però, nell’ambito di una valutazione complessiva, non può dirsi costituisca prova sufficiente dei presupposti della misura stessa. In tema di amministrazione di sostegno, l’accertamento della ricorrenza dei presupposti di legge, in linea con le indicazioni contenute nell’art.12 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle persone con disabilità, deve essere compiuto in maniera specifica e circostanziata sia rispetto alle condizioni di menomazione del beneficiario – la cui volontà contraria, ove provenga da persona lucida, non può non essere tenuta in considerazione dal giudice – sia rispetto all’incidenza della stesse sulla sua capacità di provvedere ai propri interessi personali e patrimoniali, verificando la possibilità, in concreto, che tali esigenze possano essere attuate anche con strumenti diversi come, ad esempio, avvalendosi, della nomina di un curatore speciale ex art 78 c.c per la gestione dei beni in comunione.
Nella specie, ai fini della decisione, la Corte ha valorizzato alcune forme di disagio prive, di per sé, di una sufficiente valenza in ordine ai presupposti dell’amministratore di sostegno, facendo riferimento ad un disturbo della personalità definito “evitante”.
La Corte d’Appello non ha infatti chiaramente statuito riguardo al fatto che la ricorrente era persona priva, in tutto o in parte, di autonomia per una qualsiasi “infermità” o “menomazione fisica”, tale che la ponesse nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi.
Il Giudice del rinvio, sulla premessa che la ricorrente si era rifiutata di presentarsi all’incontro con gli operatori del Servizio sociale incaricato così come nel passato aveva rifiutato di sottoporsi ad una c.t.u. ed aveva tenuto una condotta ingiustificatamente oppositiva, anche in ordine alle iniziative intraprese per acquisire riscontri in ordine al suo stato di salute, ne deduceva che la stessa fosse affetta da una fragilità patologica che pur non coinvolgendo per intero la sua sfera personale (la stessa era stata infatti da tutti riconosciuta in grado di svolgere attività professionale quale insegnante di grande levatura e di essere un’artista brillante) tuttavia non la rendevano in grado di gestire alcuni aspetti patrimoniali, specie con riguardo alla gestione degli immobili e dell’eredità (la stessa ha dedotto le difficoltà di gestire la villa di grandi dimensioni e di aver dovuto chiudere alcuni ambienti) al punto che tali condotte risultavano per lei stessa pregiudizievoli. Da qui il ricorso alla figura dell’amministrazione di sostegno a causa dell’indisponibilità dell’interessata e dell’assenza di soggetti in grado di supportarla, oltre che per la particolare entità del patrimonio da gestire.
Il ragionamento svolto dal giudice del rinvio non è condivisibile. Ora, se la mancata collaborazione alla visita del c.t.u. costituisce condotta valutabile, ex art. 116 c.p.c. e applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa; nel caso concreto, non è conclusione inequivocabile quella secondo cui la condotta non collaborativa della ricorrente e il suo rifiuto aprioristico di sottoporsi alle visite prescritte costituisse un indice significativo di una condizione di salute tale da rendere necessaria la nomina contestata.
Né, come detto, la condotta non collaborativa della ricorrente può lasciar presumere una menomazione o difficoltà di vita significativa tale da porla nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi. Né tale comportamento oppositivo esclude che la ricorrente sia in realtà una persona lucida, per quanto conducente una forma di vita apparentemente inconsueta, non potendosi escludere che tali anomalie siano da considerare la manifestazione di asprezze o forme caratteriali.
L’ambito dei poteri da conferire all’amministratore di sostegno deve rispondere alle specifiche finalità di tutela del soggetto amministrato e non può prescindere da risultanze espressive di un chiaro e significativo stato di menomazione o difficoltà della persona che s’ipotizza bisognevole di tutela.
Nella specie non risulta sia stata accertata una condizione di menomazione individuale tale da influire su scelte gestionali coerenti con la percezione dei bisogni individuali e le carenze sembrano prospettate esclusivamente in relazione alla gestione dei beni ereditari.
La pretesa incapacità di gestire beni facenti parti del compendio ereditario ben può essere ovviata con altre misure quali la nomina di un amministratore giudiziario.
Il ricorso all’amministrazione di sostegno che come sopra ben evidenziato risponde a precise finalità individuate dal legislatore, non può rappresentare uno strumento per dirimere conflitti
familiari afferente alla gestione di beni ereditari per i quali esistono appositi rimedi approntati dall’ordinamento>>.