Onere della prova della responsabilità dei sindaci azionata in via di eccezione da aprte della curatela

Non chiarissimo insegnamento in Cass. sez. I, ord. 24/01/2024  n. 2.343, rel. Terrusi:

<<I.- Ora nella giurisprudenza di questa Corte è invalsa la sottolineatura che nell’ipotesi dell’eccezione formulata per motivare l’esclusione di un credito professionale dal passivo di un fallimento non è dato al curatore prospettare l’eccezione solo sommariamente, senza indicare i fatti di inadempimento da imputare al creditore escluso (v. Cass. Sez. 6-1 n. 24794-18).

La ragione è che per i componenti del collegio sindacale di una società l’eccezione di inadempimento finisce col riprodurre la distinzione basica dell’art. 2407 cod. civ. tra responsabilità esclusiva e responsabilità concorrente dei sindaci con quella degli amministratori, per omessa vigilanza sui comportamenti di questi. E in questa seconda ipotesi implica doversi declinare l’ambito dei fatti alla luce del necessariamente variegato apporto che i sindaci, col proprio contegno di volta in volta integrante l’inosservanza dei doveri primari di cui all’art. 2403 cod. civ., possano aver dato nelle altrettante variegate situazioni gestorie caratterizzanti gli inadempimenti degli amministratori.

Poiché l’allegazione di un comportamento specifico e negligente, secondo quanto espresso appunto dalla proposizione di un’eccezione effettiva e non sommaria di inadempimento, si manifesta come fatto modificativo del diritto al compenso del creditore, non sarebbe coerente ipotizzarne l’esito senza che sull’eccipiente gravi anche la prova di quei fatti storici, attinenti alla gestione ovvero al concreto assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, sui quali si innesta la deviazione della condotta di vigilanza esigibile dal sindaco; quella condotta, cioè, che il sindaco, che poi agisce in sede concorsuale per l’adempimento del proprio credito stante il pregresso inadempimento del corrispettivo, avrebbe dovuto tenere – e non ha tenuto – in relazione al suo mandato. Solo, dunque, per essa appare sufficiente, nella ripartizione dell’onere della prova, che il creditore della prestazione di vigilanza (nella fattispecie, e per la società, il curatore fallimentare) possa anche limitarsi a eccepire, nei segnalati termini di specificità, l’inesatto adempimento, allegato come difetto di vigilanza rispetto a fatti specifici invece non solo descritti ma anche provati>>.

Sembra che la specificità dell’eccezione, così descritta, riguardi non solo  l’allegazione ma anche la prova delle negligenze amministrative, rimaste prime di reazione sindacale.

Responsabiità degli amministratori non esecutivi e di quelli indipendenti

Cass. sez. II, sent. 05/06/2024  n.15.685, rel. Scarpa, in tema di opposizione a sanzioni Consob:

<<In primo luogo, a tutti i componenti del consiglio di amministrazione è attribuibile la predisposizione dei prospetti, approvati nelle riunioni del 29/9/2014 e del 31/12/2014. È pur vero che, all’esito delle stesse, fu delegato al presidente del consiglio di amministrazione e al direttore generale il compito di completare il documento in oggetto e/o di modificarlo e/o di integrarlo secondo necessità e/o opportunità. È anche vero, tuttavia, che, con il conferimento della delega, gli altri consiglieri non avrebbero potuto ritenersi esautorati da ogni doveroso intervento, restando a loro carico, quanto meno, il compito di vigilare e di informarsi sull’operato degli organi e funzionari delegati, al fine di assicurarsi che fosse dagli stessi portato a termine il compito affidato in maniera puntuale e corretta (in tal senso, cfr. Cass. Sez. 2, n. 2737/2013; Sez. 1, n. 17799/2014; Sez. 2, n. 18683/2014; Sez. 2 n. 5606/2019)>>.

Poi:

<< Quanto poi all’elemento soggettivo, la Corte d’appello ha fatto legittimo ricorso alla presunzione iuris tantum in ragione delle cariche societarie rivestite dai ricorrenti, le cui singole posizioni sono state analizzate nelle pagine 28 e segg. della sentenza impugnata, ed in assenza di dimostrazione della estraneità dei medesimi ai fatti o all’impossibilità di evitarli tramite un diligente espletamento dei compiti connessi alle rispettive cariche.

Invero, doveri di particolare pregnanza sorgono in capo al consiglio di amministrazione di una società bancaria, doveri che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicché rispondono del mancato utile attivarsi (fra le tante, Cass. n. 24851, n. 24081 e n. 16323 del 2019).

Le attività oggetto di causa avrebbero dovuto indurre gli amministratori, pure non esecutivi, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo. Il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie, sancito dagli artt. 2381, commi 3 e 6, e 2392 c.c., non va, del resto, rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega. Questa interpretazione non vale ad accollare una responsabilità oggettiva agli amministratori non esecutivi, essendo gli stessi perseguibili ove ricorrano comunque sia la condotta d’inerzia, sia il fatto pregiudizievole antidoveroso, sia il nesso causale tra i medesimi, sia, appunto, la colpa, consistente nel non aver rilevato colposamente i segnali dell’altrui illecita gestione, pur percepibili con la diligenza della carica (anche indipendentemente dalle informazioni doverose ex art. 2381 c.c.), [ok, solo che non dice quali siano stati i segnali percepibili ulteriori rispetto alle informazioni ex 2381 cc] e nel non essersi utilmente attivati al fine di evitare l’evento. Sotto il profilo probatorio, ciò comporta che spetta al soggetto, il quale afferma la responsabilità, allegare e provare, a fronte dell’inerzia dei consiglieri non delegati, l’esistenza di segnali d’allarme (anche impliciti nelle anomale condotte gestorie) che avrebbero dovuto indurli ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo (con la richiesta di convocazione del consiglio di amministrazione rivolta al presidente, il sollecito alla revoca della deliberazione illegittima od all’avocazione dei poteri, l’invio di richieste per iscritto all’organo delegato di desistere dall’attività dannosa, l’impugnazione delle deliberazione, la segnalazione al p.m. o all’autorità di vigilanza, e così via); assolto tale onere, è, per contro, onere degli amministratori provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna, che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno.

Non costituisce dato di per sé decisivo nemmeno la circostanza, posta a fondamento di alcune censure, attinente alla qualità di “consiglieri indipendenti” rivestita in seno all’organo amministrativo. Anche, infatti, gli amministratori indipendenti sono comunque “amministratori”, dotati di tutte le prerogative e gravati dei doveri tipici di questo ufficio, muniti di una competenza generale sul governo della società, parimenti incaricati di funzioni di management, di direzione e anche di controllo interno, sicché la loro “indipendenza” non li rende per ciò solo estranei alle dinamiche gestionali. Anzi, gli amministratori indipendenti cumulano le tipiche attribuzioni gestorie stricto sensu alle precipue competenze di monitoraggio dell’attività degli esecutivi, al punto che il loro ruolo attivo essenziale attiene proprio alla verifica dell’operato degli altri amministratori e dei manager, per evitare che vengano commessi abusi da parte di chi esercita il potere all’interno della società ed assicurare che la medesima società persegua nello svolgimento della propria attività i principi di trasparenza e correttezza. Resta quindi confermata pure per gli “amministratori indipendenti” l’interpretazione giurisprudenziale in forza della quale “a fronte di una vicenda di assoluta rilevanza per la gestione della società” – quale un’offerta al pubblico finalizzata ad un aumento di capitale – sussiste “in capo all’intera compagine amministrativa il dovere di attivarsi, e perciò la connessa rilevanza della loro condotta omissiva nella causazione dell’illecito” (Cass. n. 18846 del 2018)>>.

Responsabilità penale dell’amministratore senza delega per fatti di bancarotta

Inusualmente riferisco di una sentenza penale per la sua importanza anche civilistica.

Si tratta di Cass. pen. sez. 5 n. 20153 del 12-04.2024 (data ud.), rel. Borrelli:

<< 4. Se il punto cruciale del ragionamento del Collegio della cautela e del ricorso del pubblico ministero è, dunque, la consapevolezza di Mo.Ca. circa il mendacio e se tale consapevolezza passa attraverso la verifica di quella dell’esistenza delle distrazioni taciute o dissimulate nei bilanci, allora un altro doveroso passaggio preliminare è quello di ricostruire, sia pur brevemente, gli approdi di questa Corte sul tema del versante soggettivo della responsabilità dell’amministratore senza delega, tale potendo ritenersi Mo.Ca. ancorché munito di delega per alcune attività, delega, tuttavia, non concernente l’ambito interessato dalle distrazioni.

A tale riguardo, può affermarsi che la giurisprudenza di questa Corte – che il Collegio condivide e da cui non intende discostarsi – salvo qualche incertezza in tempi più risalenti, negli ultimi anni si è attestata su un’esegesi particolarmente rigorosa quanto alla responsabilità dell’amministratore senza delega e, in particolare, ai criteri in base ai quali ritenerlo consapevole e, quindi, responsabile di attività predatorie ai danni della società amministrata, commesse dall’amministratore munito di delega. Quello che oggi si richiede per ritenere dimostrato il dolo della distrazione in capo all’amministratore senza delega è che questi abbia “effettiva conoscenza” di fatti predatori ovvero di segnali di allarme di questi ultimi e non che le anomalie siano semplicemente “conoscibili”[a differenza dal civile in cui basta l’indempimento, irrilevante essendo l’elemento soggettivo. Semmai  il prob. quando ricorra inadempimento, in presenza di questo o quel segnala di allarme]

In questo senso va innanzitutto ricordato il recente approdo di Sez. 5, n. 33582 del 13/06/2022, Benassi, Rv. 284175, secondo cui “in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, il concorso per omesso impedimento dell’evento dell’amministratore privo di delega è configurabile quando, nel quadro di una specifica contestualizzazione delle condotte illecite tenute dai consiglieri operativi in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del consiglio di amministrazione, emerga la prova, da un lato, dell’effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di “segnali di allarme” inequivocabili dai quali desumere, secondo i criteri propri del dolo eventuale, l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento illecito e, dall’altro, della volontà, nella forma del dolo indiretto, di non attivarsi per scongiurare detto evento, dovendosi infine accertare, sulla base di un giudizio prognostico controfattuale, la sussistenza del nesso causale tra le contestate omissioni e le condotte delittuose ascritte agli amministratori con delega”. La pronunzia, in particolare, ha preso in esame la figura dell’amministratore senza delega alla luce della riforma del diritto societario, evidenziando come questi non abbia più un generale obbligo di vigilanza sulla gestione attuata dagli organi delegati, ma, ai sensi dell’art. 2381, comma 6, cod. civ., un dovere di agire informato e di chiedere ragguagli al consiglio di amministrazione, dovere che si attualizza laddove vi sia la conoscenza o di fatti nocivi per la società oppure di indicatori di anomalie che riconducano ad attività nocive.

Tale pronunzia si pone sulla scia di altre decisioni che, per quanto di specifico interesse in questa sede, hanno sottolineato come la responsabilità dell’amministratore senza delega non possa prescindere dall’effettiva conoscenza dei fatti depauperativi o di segnali di allarme – inequivocabili – che ad essi riconducano e che siano stati volontariamente ignorati, scongiurando, così il rischio di un addebito del reato a titolo di colpa (per inettitudine, incapacità o imprudente fiducia nell’agire dell’organo delegato) o, addirittura, di responsabilità oggettiva da posizione (Sez. 1, n. 14783 del 09/03/2018, Lubrina e altri, Rv. 272614; Sez. 5, n. 42519 del 08/06/2012, Bonvino e altri, Rv. 253765; Sez. 5, n. 42568 del 19/06/2018, E. Rv. 273925; Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014, Tanzi e altri, Rv. 261938; Sez. 5 n. 21581 del 28/04/2009, Mare, Rv. 243889; Sez. 5, n. 23000 del 05/10/2012, dep. 2013, Berlucchi, Rv. 256939, concernente proprio la bancarotta impropria da reato societario; Sez. 5, n. 42519 del 08/06/2012, Bonvino, Rv. 253765)

Nella sentenza Tanzi, in particolare, oltre ad essere stato delineato il concetto di “segnale di allarme” – con la puntualizzazione che esso deve essere “conosciuto” e non meramente “conoscibile” e che deve essere eloquente della situazione critica sottesa – si è anche rimarcato il limite dello scrutinio di legittimità sulle valutazioni del Giudice di merito circa la responsabilità dell’amministratore senza delega in rapporto, appunto, alla conoscenza degli indicatori suddetti e al loro grado di significatività e di intellegibilità. “E’ dalla conoscenza dei segnali di allarme, intesi come momenti rivelatori, con qualche grado di congruenza, secondo massime di esperienza o criteri di valutazione professionale, del pericolo dell’evento” – così la pronunzia in discorso – “che può desumersi la prova della ricorrenza della rappresentazione dell’evento da parte di chi è tenuto – per la posizione di garanzia assegnatagli dall’ordinamento – ad uno specifico devoir d’alerte (che include in sé anche l’obbligo di una più pregnante sensibilità percettiva, oltre che il dovere di ostacolare l’accadimento dannoso). La sentenza richiamata ha anche precisato che “questa dimostrazione deve inquadrarsi nel bagaglio di esperienza e cognizione professionale proprio del preposto alla posizione di garanzia, la cui valutazione – in rapporto ai sintomo allarmante – deve esplicarsi in concreto, volta per volta: dal che consegue che la convinzione di questa percezione e del relativo grado di potenzialità informativa del fatto percepito, è rimessa alla valutazione del giudice di merito, insuscettibile di censura se accompagnata da adeguata giustificazione” >>.

La business judgment rule non copre le violazioni pubblicistiche (e quelle privatistiche?)

Cass. sez. I, ord. 25/03/2024 n. 8.069, rel. Nazzicone:

<<Merita appena di rimarcare, quanto ai confini della business judgement rule, che questa certamente non copre gli illeciti, tributari o no: trattandosi di regola non più invocabile in presenza di una valutazione di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà palese dell’iniziativa economica (cfr. Cass. 6 febbraio 2023, n. 3552; Cass. 19 gennaio 2023, n. 1678; Cass. 21 dicembre 2022, n. 37440; Cass. 16 dicembre 2020, n. 28718; Cass. 22 ottobre 2020, n. 23171; Cass. 22 giugno 2017, n. 15470; Cass. 12 febbraio 2013, n. 3409; Cass. 28 aprile 1997, n. 3652), e, dunque, tantomeno in presenza di inequivoche violazioni di legge.

Certamente va confermato che all’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 c.c. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società (per tutte, quanto al vecchio testo dell’art. 2392: Cass. n. 3652 del 1997, n. 3409 del 2013, n. 1783 del 2015).

Ma non è questo il caso nella vicenda concreta, in cui la corte d’appello ha ritenuto il ricorrente responsabile non per l’esito negativo dell’attività gestoria in sé considerata, ma per l’omesso versamento dell’i.v.a.: ciò vuol dire che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato è stato svolto non in rapporto alle scelte gestorie in quanto tali, ma all’omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive che (non solo normalmente, ma) finanche in base alla regola di condotta già perpetrata in passato dall’organo amministrativo si sarebbero dovute osservare ex ante. Nel caso di specie, dunque, la responsabilità dell’amministratore si ricollega alla violazione di doveri specifici, previsti dalla legge>>.

La SC pare riferirsi a violazioni pubblicistiche (nel caso sub iudice, tributarie) anche se usa termini lati. E l’inadempimento contrattuale, se conveniente, è censurabile o è coperto da b.j.r.? E’ censurabile, direi, non avendo dignità giuridica la tesi dell’inadempimeno efficiente (anche se il discorso è un poco complicato  dovendosi vedere le reali differenze pratiche tra il seguire o rigettare la tesi esposta).

Nella prima parte la Sc ribadisce noti arresti in tema di deterniazione del danno risarcibile a carico dell’amministratore.

Anche in una società con due soci che sono pure gli unici amministratori, il bilancio va prima approvato dal CdA e non può essere portato direttamnente in assemblea da uno dei due

Cass. sez. I, ord. 22/03/2024 n. 7.874, rel . Campese:

<<3.3.1. Sulla base di questa disciplina (normativa e statutaria), dunque, l’affermazione della corte distrettuale secondo cui “nulla vieta”, anzi, l’art. 2479, comma 1, cod. civ. (“I soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione”) “espressamente ammette che l’amministratore sottoponga direttamente all’approvazione dell’assemblea non solo il bilancio ma anche la redazione del relativo progetto” non può essere condivisa.

3.3.2. Invero, come del tutto correttamente dedotto dalla difesa del ricorrente, gli artt. 2475, comma 5, cod. civ. e 30.2. dello statuto di Alpengas Holding Srl sono palesemente finalizzati ad attribuire all’organo amministrativo, nel suo complesso, la paternità di alcuni specifici atti ritenuti dal legislatore di maggiore portata, anche in funzione, evidentemente, delle correlate responsabilità solidali dagli stessi derivanti (cfr. artt. 2434,2392,2621 cod. civ.). Diversamente opinando, dunque, si otterrebbe l’irragionevole risultato di vanificare l’effettiva ratio delle citate previsioni.

3.3.3. Pertanto, la corretta applicazione delle norme di legge e di statuto sopra richiamate induce a concludere che il voto contrario espresso dal Bu.Mi. nel corso dell’assemblea dei soci del 25.8.2016, lungi dal potersi apprezzare “come sicuro indice della scorrettezza della condotta serbata dal socio dissenziente”(cfr. pag. 17 della sentenza oggi impugnata), risultava legittimamente giustificato, in realtà, proprio perché l’appellante aveva ivi lamentato che il progetto di bilancio posto in discussione in quella sede non era stato approvato (contrariamente a quanto imposto dallo statuto, oltre che dall’art. 2475, comma 5, cod. civ.) dall’organo amministrativo prima di essere portato all’assemblea.

(…) 3.3.5. Né, in contrario, può darsi seguito all’assunto della corte territoriale per cui, essendo il Bu.Mi. e lo St.Ha. gli unici soci, peraltro entrambi amministratori di Alpengas Holding Srl, ciò comportava, dal punto di vista sostanziale, che la redazione del bilancio e l’approvazione dello stesso in assemblea si sarebbero risolti “in un atto unitario”(cfr. pag. 16 della sentenza impugnata).

3.3.6. Una tale affermazione, infatti, si rivela in palese contrasto con il consolidato principio – più volte confermato anche da questa Corte – di “separazione” tra attività gestoria (demandata all’organo amministrativo) e quella deliberativa (propria dell’assemblea dei soci), sicché non è predicabile alcuna immedesimazione tra consiglio di amministrazione ed assemblea dei soci, trattandosi di organi diversi, con funzioni tra loro distinte e tipizzate per legge>>

Nella prima parte dell’ordinanza, poi, c’è un approfndimento della SC circa la impugnabilità delle delibere cd negative, anche se per mero obiter dictum . Infatti l’impugnante la delibera di omessa approvaizone del bilancio, aveva chiesto sia l’annullamento della delbiera che a cascata una sentenza costitutiva, che tenesse luogo dell’approvazione mancata.

REspinte però in primo grado , non erano state appellate

La corte del Delaware in una ponderosa sentenza sul purpose della company (McRitchie v. Zuckerberg, et al.)

La court of chancery , giudice Leister, C.A. No. 2022-0890-JTL , 30 aprile 2024, (qui la pag. web della corte con lelenco  perlomeno ad oggi e qui link diretto al testo dell’opinion) ragiona sull’altgenrativca single-firm model (or firm-specific model) vs. Modern Modern Portfolio Theory diversification.

Segnalata dal prof.  Bainbridge.

Curiosa causa petendi: gli attori allegano la negligenza xcostituita dall’aver Zuck Sandbert etc. condotto Meta etc. con riguardo all’itneresse della società medesima e non deglio azionisti che hanno portafoglio diversidicati: i quali preferirebbero che Meta internalizzasse le esternalità prodotte per valorizzare al meglio i loro portafogli.

Forse mi sfugge qualcosa, ma ha dell’incredibile che si impegni una corte e che questa risponda con una setnenza di 101 opagg. su un punto che dovrebbe essere pacifico: gli amministgratori devono occuparsi di far rendere gli investimenti nella loro societò, non in eventuali altre in cui alcuni soci avessero per caso investito per diversificare (nemmeno nella modalità light di evitare loro dannosità facendosene carico in proprio).   Così facendo, al contrario, si renderebbero inadempienti al loro incarico.

Trattandosi di contratto, infatti, chi lo gestisce deve far fruttare quel contratto, non altri.

A parte il ns art. 2247 cc, la logica lo impone. Sarebbe invece giuridicamente illogico onerare gli amministratori di far fruttare investimenti in altri contratti sociali: a meno che i patti sociali questo dicano e che lo dicano in modo sufficientemente determinato.

Sintesi iniziale offerta dalla Corte:

<<Under the standard Delaware formulation, directors owe fiduciary duties to the corporation and its stockholders. Implicitly, the “stockholders” are the stockholders of the specific corporation that the directors serve, i.e., “its” stockholders.
The standard Delaware formulation thus contemplates a single-firm model (or firm-specific model) in which directors of a corporation owe duties to the stockholders as investors in that corporation. That point is so basic that no Delaware decisions have felt the need to say it. Fish don’t talk about water.
The plaintiff takes a different view. Capitalizing on the word “stockholders,” the plaintiff observes that stockholders are investors. The plaintiff then argues that under Modern Portfolio Theory, prudent investors diversify. Therefore, says the plaintiff, the law must operate on the assumption that a corporation’s stockholders are diversified. The plaintiff concludes that owing fiduciary duties to the corporation and its stockholders must mean owing duties that run to the corporation and its stockholders as diversified equity investors>>.

Sfasatura temporale tra atto di malagestio degli amministratori e omissiva negligenza dei sindaci, unità temporale dell’incarico affidato a questi ultimi e cenno all’onere della prova

Cass. sez. I, ord. 13/02/2024 n. 3.922, rel. Crolla, affronta un caso di malagestio degli anni 2013-2014 rispetto a compensi chiesti dal sindaco per gli anni 2018-2019 (incarico triennnale 2017-2019).

<<4.1 Il motivo è fondato. 4.2 I giudici circondariali hanno accertato che i rilievi relativi alla carente vigilanza dei sindaci si riferiscono agli esercizi 2013 e 2014; ciò nondimeno, secondo Tribunale, l’eccezione di inadempimento del collegio sindacale paralizzerebbe il diritto al compenso per l’intero triennio della durata del mandato atteso che, secondo quanto previsto dall’art 2402 c.c., il corrispettivo per l’opera prestata dal sindaco, seppur corrisposto annualmente, deve essere determinato all’atto di nomina per l’intero periodo di durata dell’ufficio.

4.3 Le conclusioni raggiunte dal Tribunale non sono in linea con l’orientamento di questa Corte che ha affermato il principio secondo il quale “in tema di società di capitali, l’adempimento dei doveri di controllo, gravanti sui sindaci per l’intera durata del loro ufficio, può essere valutato non solo in modo globale e unitario ma anche per periodi distinti e separati, come si desume dalla disciplina generale, contenuta nell’art. 1458, comma 1, c.c., riferita a tutti i contratti ad esecuzione continuata, pertanto, poiché l’art. 2402 c.c. prevede una retribuzione annuale in favore dei sindaci, è in base a questa unità di misura che l’inadempimento degli obblighi di controllo deve essere confrontato con il diritto al compenso” (cfr. Cass. 6027/2021). Ciò in quanto il testo della norma dell’art. 2402 c.c. risulta univoco nell’indicare che quella spettante ai sindaci è, propriamente, una “retribuzione annuale”, secondo quanto è coerente, del resto, con la durata che connota, come scansione dell’attività di impresa, l'”esercizio sociale” (così, sulla base di questa constatazione, la giurisprudenza di questa Corte ritiene che il credito del sindaco goda del privilegio ex art. 2751-bis c.c. non già in relazione agli ultimi due mandati, ma unicamente per le due ultime annualità del più recente incarico: cfr. Cass., 4 dicembre 1972, n. 3496; Cass., 9 aprile 2019, n. 15828, che appunto discorrono di “distinti crediti annuali”). Ne segue, allora, che è con questa unità di misura (della singola annualità) che l’inadempimento degli obblighi di controllo deve venire a confrontarsi in relazione al riconoscimento del diritto al compenso del sindaco.

4.4 Hanno, quindi, errato i giudici lariani nel non aver riconosciuto il carattere sinallagmatico delle prestazioni sull’unità temporale dell’annualità, ferme restando le considerazioni sopra svolte in ordine alla configurazione delle condotte inerti antidoverose dei sindaci anche per i periodi successivi agli atti di mala gestio degli amministratori sino al Fallimento, nell’ipotesi di permanenza dei loro effetti dannosi, che sarà accertata in sede di giudizio di rinvio per effetto dunque dell’accoglimento dei primi due motivi del Fallimento.>>

Non concordo. L?ary. 2402 regola solo la scadenza del pagAMENTO (rateale); ma l’incarico è unitariamente determinato in tre anni.

CEnno sull’onere della prova:

<<

5.2 In ogni caso la censura è inammissibile ex art. 360 bis nr 1 c.p.c. in quanto, per consolidata giurisprudenza, il curatore che solleva nel giudizio di verifica l’eccezione d’inadempimento, secondo i canoni diretti a far valere la responsabilità contrattuale, ha (solo) l’onere di allegare e provare l’esistenza del titolo negoziale, contestando, in relazione alle circostanze del singolo caso, la non corretta (e cioè negligente) esecuzione della prestazione o l’incompleto adempimento, restando, per contro , a carico del professionista (al di fuori di una obbligazione di risultato, pari al successo pieno della procedura) l’onere di dimostrare l’esattezza del suo adempimento per la rispondenza della sua condotta al modello professionale e deontologico richiesto in concreto dalla situazione su cui è intervenuto con la propria opera ovvero l’imputazione a fattori esogeni, imprevisti e imprevedibili, dell’evoluzione negativa della procedura, culminata nella sua cessazione (anticipata o non approvata giudizialmente) e nel conseguente fallimento (Cass. 18705/2016, 25584/2018 con riferimento alle prestazioni professionali del sindaco; Cass. S.U. n. 42093 del 2021, in motiv. e 35489/2023).

4.2 In verità tale orientamento va specificato con riferimento alla ipotesi, prevista dall’art 24072 ° comma c.c., di responsabilità concorrente e solidale dei sindaci con quella degli amministratori, per omessa vigilanza sui comportamenti di questi.

4.3 In tale evenienza, secondo il recente insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. 2343/2024), l’eccipiente deve fornire “la prova di quei fatti storici, attinenti alla gestione ovvero al concreto assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, sui quali si innesta la deviazione della condotta di vigilanza esigibile dal sindaco; quella condotta, cioè, che il sindaco, che poi agisce in sede concorsuale per l’adempimento del proprio credito stante il pregresso inadempimento del corrispettivo, avrebbe dovuto tenere – e non ha tenuto – in relazione al suo mandato. Solo, dunque, per essa appare sufficiente, nella ripartizione dell’onere della prova, che il creditore della prestazione di vigilanza (nella fattispecie, e per la società, il curatore fallimentare) possa anche limitarsi a eccepire, nei segnalati termini di specificità, l’inesatto adempimento, allegato come difetto di vigilanza rispetto a fatti specifici invece non solo descritti ma anche provati”  >>.

Legittimo il recesso statutario ad nutum nelle soc. (non quotate) a tempo determinato

Cass. sez. I, sent. 29/01/2024 n. 2.629, rel. Nazzicone, dopo una premessa/trattatello di eccessiva lunghezza sul recesso societario, così  motiva sul punto:

<<Ragionamenti, dunque, estranei alla questione ora all’esame, in cui al creditore non si richiede nessuna previa valutazione circa l’esistenza del diritto di recesso in quanto ancorata alla “vita del socio” o ad un “progetto imprenditoriale” più o meno specifico.

Ed invero, nell’intento di favorire l’accesso della società ai finanziamenti, il legislatore ha assicurato ai potenziali investitori la possibilità di uscire dalla società stessa con facilita e senza dover temere “sorprese”.

Nel ripercorrere le fattispecie dell’art. 2437 c.c., sopra ricordate, si nota che il legislatore, accanto alle ipotesi tipiche di attribuzione della facoltà di recesso di cui al primo, secondo e quinto comma, si è preoccupato – piuttosto – di slegare il socio dai vincoli e di preservarne l’autonomia negoziale, con il prevedere ad esempio il diritto di recesso nelle società contratte a tempo indeterminato.

Una logica non diversa, nella medesima prospettiva di autonomia negoziale dei soci e della società, connota il quarto comma della disposizione.

Come il legislatore, attuando la legge delega, ha mirato più in generale ad ampliare l’autonomia statutaria, cosi specificamente in materia di recesso, accanto all’aumento delle ipotesi legali inderogabili perché caratterizzate da esigenze di ordine pubblico, ha anche previsto la novità, consistente nel fatto che lo statuto possa prendere in considerazione ulteriori cause di recesso o non prevederne altre, pur indicate dalla legge, ma considerate derogabili.

La riforma del 2003 ha, quindi, a fronte dell’aumento dell’autonomia statutaria delle società e del rafforzamento dei poteri anche degli amministratori, attribuito alle minoranze tutela risarcitoria o, nella specie, un diritto di recesso di maggiore ampiezza. Dunque, come si rileva da molti, il recesso costituisce anche uno strumento di organizzazione dei rapporti endosocietari, spettando non più soltanto in presenza di decisioni assembleari non assentite dal socio, ma potendo le società che non fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio liberamente introdurre ulteriori cause di recesso per via statutaria, onde esso funge anche da strumento di negoziazione.

Sebbene, poi, proprio il procedimento di liquidazione previsto per legge, con il consegnare ai soci il valore tendenziale di mercato delle azioni, non escluda affatto che essi debbano accontentarsi di una perdita di valore del loro investimento e patirne un pregiudizio.

Per la maggioranza, vale la considerazione che, ove fosse non conveniente operare alla fine il rimborso della partecipazione al socio recedente, la società potrà decidere lo scioglimento.

Gli interessi che si fronteggiano in materia, pertanto, sono, da un lato, l’interesse della società a mantenere il conferimento conseguito, e, dall’altro lato, l’interesse del socio ad uscire dalla compagine societaria, una volta che abbia maturato tale intenzione.

Tuttavia, se è vero che il legislatore ha “bilanciato” egli stesso tali interessi – laddove ha attribuito al socio, con norme a volte derogabili ed a volte no, la facoltà di recedere a fronte di situazioni date (assunzione di deliberazioni non condivise, vicende di potere o di abuso nel gruppo con alterazione notevole delle condizioni economiche e patrimoniali dell’investimento) – e pur vero che egli ha, poi, espressamente riconosciuto all’autonomia statutaria la possibilità di contemplare “ulteriori cause di recesso”, con il solo limite che non si tratti di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.

È allora ragionevole ritenere che, anche in tal caso, il “bilanciamento” degli interessi sia stato compiuto dal legislatore, proprio rimettendo alla libertà statutaria la scelta di contemplare altre vicende, ivi compreso il caso che i soci, nell’esercizio della loro autonomia negoziale privata, abbiano ritenuto conforme al proprio programma imprenditoriale consentire a ciascuno, od anche solo a taluno di essi, di uscire dalla compagine societaria, e ciò non, necessariamente, soltanto in presenza dell’assunzione di deliberazioni assembleari, ma anche, come nella specie, semplicemente per volere del socio.

Mentre nel recesso per giusta causa l’accento è posto nella permanenza del c.d. rapporto fiduciario fra i soci, il recesso ad nutum non coinvolge necessariamente il rapporto fiduciario, potendo discendere anche semplicemente da una diversa valutazione circa le prospettive e scelte imprenditoriali.

Va pur detto che, peraltro, nel recesso ad nutum resta possibile – su eccezione della controparte – un controllo generale di buona fede, non diversamente che in tutti i negozi, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., trattandosi di clausole generali che regolano i rapporti interprivati (sulla sussistenza del controllo giudiziale alla stregua di tale clausole, si vedano, ad es.: Cass., sez. I, 21 settembre 2023, n. 27014; Cass., sez. I, 21 febbraio 2023, n. 5396; Cass., sez. I, 22 dicembre 2020, n. 29317 e Cass., sez. I, 24 agosto 2016, n. 17291, in materia di apertura di credito in conto corrente a tempo indeterminato; Cass., sez. III, 29 settembre 2022, n. 28395, sul contratto preliminare di vendita di quote societarie; Cass., sez. III, 3 giugno 2020, n. 10549 e Cass., sez. I, 12 ottobre 2018, n. 25606, in tema di recesso da parte della società concedente nella concessione di vendita di autoveicoli; Cass., sez. II, 29 maggio 2020, n. 10324); in particolare, questa Corte ha già avuto occasione di richiamare l’applicazione della clausola generale di buona fede all’esercizio del diritto di recesso nelle società (Cass., sez. I, 12 novembre 2018, n. 28987, in tema di recesso del socio di s.r.l.)>>.

E poi:

<>Resta fermo che le scelte statutarie potranno ricercare l’equilibrio tra queste esigenze e la preservazione del capitale sociale, ad esempio prevedendo un termine di preavviso anche superiore ai centottanta giorni ed il suo possibile allungamento statutario fino ad un anno, o un termine iniziale di preclusione dell’esercizio del diritto di recesso, sulla falsariga di quanto dispone l’art. 2328, comma 2, n. 13, c.c.>>

Insomma il principioo di diritto è:

“È lecita la clausola statutaria di una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, la quale, ai sensi dell’art. 2437, comma 4, c.c., preveda, quale ulteriore causa di recesso, la facoltà dei soci di recedere dalla società ad nutum con un termine congruo di preavviso”.

Avrebbe giovato per chiarezza precisare che ciò vale per le soc. a tempo determinato (pur se implicito visto il c. 3 del 2437 cc)

Motivazione comunque troppo lunga, bastando ad es. la parte in rosso, alla luce del disposto di legge,  che non permette rettrizioni applicative in sede ermeneutica

Doveri del sindaco di società ed eccezione di inadempimento sollevata dalla società fallita di fronte alla sua richiesta di ammissione al passivo per il compenso

Cass. ord. Sez. 1 n. 3459 del 07.02.2024, rel. DONGIACOMO GIUSEPPE:

Il giudice a quo:

<<Il tribunale, infatti, ha ritenuto la fondatezza
dell’eccezione d’inadempimento sollevata dal Fallimento sul
duplice rilievo per cui, da un lato, gli addebiti posti a fondamento
della stessa, vale a dire l’“omessa vigilanza della rilevazione
della causa di scioglimento della società amministrata, a causa
della perdita del capitale sociale … occultata tramite la falsa
esposizione nei bilanci … di valori fittizi degli assets immobiliari
…”, “risultano compiutamente descritti e trovano riscontro nella
abbondante documentazione prodotta in atti” e, dall’altro lato,
che l’opponente, a fronte di tale eccezione, non aveva
adempiuto all’onere di provare “l’esatto e completo
adempimento delle prestazioni contrattualmente dedotte”>>.

La SC:
<<4.3. Il tribunale, così ragionando, si è attenuto ai principi
ripetutamente esposti da questa Corte, e cioè che il curatore del
fallimento della società committente, nel giudizio di
verificazione conseguente alla domanda di ammissione del
credito vantato dal professionista (come il sindaco della società
poi fallita) al compenso asseritamente maturato nei confronti
della stessa, è legittimato a sollevare l’eccezione
d’inadempimento (anche nel caso in cui si fosse prescritta la
corrispondente azione: art. 95, comma 1°, l.fall.) secondo i
canoni diretti a far valere la responsabilità contrattuale: vale a
dire con il (solo) onere di contestare, in relazione alle
circostanze del caso (come “la falsa esposizione nei bilanci … di
valori fittizi degli assets immobiliari …” e il conseguente
l’occultamento “della perdita del capitale sociale”, che ha
specificamente dedotto e altrettanto doverosamente
documentato in giudizio quali fatti storici che avrebbero imposto
al sindaco la condotta che, in relazione al mandato ricevuto,
avrebbe dovuto tenere e non ha, invece, tenuto, e cioè la
tempestiva “rilevazione della causa di scioglimento della società
amministrata”), la negligente o incompleta esecuzione, ad
opera del professionista istante, della prestazione di vigilanza
dovuta, restando, per contro, a carico di quest’ultimo l’onere di
dimostrare, a fronte delle circostanze dedotte e provate dal
curatore, di aver, invece, esattamente adempiuto per la
rispondenza della sua condotta al modello professionale e
deontologico richiesto in concreto dalla situazione su cui è
intervenuto con la propria opera (cfr. Cass. SU n. 42093 del
2021).
4.4. In tema di prova dell’inadempimento di
un’obbligazione, infatti, il creditore che agisca per
l’adempimento (oltre che per la risoluzione contrattuale ovvero
per il risarcimento del danno) deve soltanto provare la fonte del
suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla
mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della
controparte [incongfruenza: poche righe sopra aveva detto “dedotte e provate”], mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere
della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito
dall’avvenuto adempimento (Cass. SU n. 13533 del 2001).
4.5. Si tratta, peraltro, di un criterio di riparto dell’onere
della prova applicabile anche al caso in cui il debitore convenuto
si avvalga, com’è accaduto nel caso in esame, dell’eccezione
d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. poiché il debitore
eccipiente può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento o
l’inesatto adempimento alle obbligazioni assunte dal creditore
(di cui deve dedurre e dimostrare il fatto costitutivo), spettando,
per contro, a chi ha agito in giudizio l’onere di provare di aver
esattamente adempiuto alle stesse (Cass. SU n. 13533 del
2001; Cass. n. 3373 del 2010; Cass. n. 826 del 2015; Cass. n.
3527 del 2021).
4.6. Pertanto, ove il preteso creditore (come il sindaco
della società fallita) proponga opposizione allo stato passivo,
dolendosi dell’esclusione di un credito (al compenso maturato)
del quale aveva chiesto l’ammissione, il Fallimento, dinanzi alla
pretesa creditoria azionata nei suoi confronti, può sollevare, per
paralizzarne l’accoglimento in tutto o in parte, l’eccezione di
totale o parziale inadempimento o d’inesatto adempimento da
parte dello stesso ai propri obblighi contrattuali (e cioè, com’è
accaduto nel caso in esame, l’“omessa vigilanza della
rilevazione della causa di scioglimento della società
amministrata, a causa della perdita del capitale sociale …
occultata tramite la falsa esposizione nei bilanci … di valori fittizi
degli assets immobiliari …”), con, appunto, il solo onere di
allegare, in relazione alle circostanze di fatto del caso (che ha
l’onere di provare), l’inadempimento del sindaco istante (al suo
dovere di vigilanza sull’attività di gestione della società: art.
2403, comma 1°, c.c.); spetta poi a quest’ultimo il compito di
provare il fatto estintivo di tale dovere, costituito dall’avvenuto
esatto adempimento, e cioè di aver adeguatamente vigilato
sulla condotta degli amministratori, attivando, con la diligenza
professionale dallo stesso esigibile in relazione alla situazione
concreta, i poteri-doveri inerenti alla carica (art. 2407, comma
1°, c.c.)>>.

Prosegue la SC:

<<4.7. I sindaci, in effetti, non esauriscono l’adempimento
dei proprio compiti con il mero e burocratico espletamento delle
attività specificamente indicate dalla legge avendo, piuttosto,
l’obbligo di adottare (ed, anzi, di ricercare lo strumento di volta
in volta più consono ed opportuno di reazione, vale a dire) ogni
altro atto (del quale il sindaco deve fornire la dimostrazione)
che, in relazione alle circostanze del caso (ed, in particolare,
degli atti o delle omissioni degli amministratori che, in ipotesi,
non siano stati rispettosi della legge, dello statuto o dei principi
di corretta amministrazione) fosse utile e necessario ai fini di
un’effettiva ed efficace (e non meramente formale) vigilanza
sull’amministrazione della società e le relative operazioni
gestorie (cfr., al riguardo, Cass. n. 18770 del 2019, in motiv.,
per cui “l’onere di allegazione e di prova nelle azioni di
responsabilità avverso l’organo sindacale si atteggia nel senso
che spetta all’attore allegare l’inerzia del sindaco e provare il
fatto illecito gestorio, accanto all’esistenza di segnali d’allarme
che avrebbero dovuto porre i sindaci sull’avviso; assolto tale
onere, l’inerzia del sindaco integra di per sé la responsabilità,
restando a carico del medesimo l’onere di provare di non aver
avuto nessuna possibilità di attivarsi utilmente, ponendo in
essere tutta la gamma di atti, sollecitazioni, richieste, richiami,
indagini, sino alle denunce alle autorità civile e penale”)>>

E subito dopo:

<<.Il decreto impugnato ha fatto corretta applicazione
degli esposti principi, dal momento che il Fallimento ha dedotto
un circostanziato inesatto adempimento (e cioè la mancata
“rilevazione della causa di scioglimento della società
amministrata, a causa della perdita del capitale sociale …
occultata tramite la falsa esposizione nei bilanci … di valori fittizi
degli assets immobiliari …”) ai compiti della carica, laddove, per
contro, il sindaco opponente (senza contestare l’insussistenza
di tali presupposti e i doveri giuridici che se conseguono), come
accertato in fatto dal tribunale, non ha, a sua volta, fornito la
prova di aver correttamente adempiuto.
4.9. Non può, in effetti, seriamente dubitarsi che i
sindaci (i quali, infatti, in caso d’inadempimento da parte degli
amministratori, sono legittimati ad agire in giudizio innanzi al
tribunale: artt. 2485, comma 2°, e 2487, comma 2°, c.c.)
abbiano (anche se si tratta di società quotate: cfr. l’art. 154,
comma 1, del d.lgs. n. 58/1998) il dovere di vigilare sul corretto
e tempestivo adempimento da parte degli amministratori
all’obbligo di rilevare tempestivamente la verificazione di una
causa di scioglimento della società, come la perdita del capitale
sociale (art. 2484, n. 4, c.c.), e di procedere alla relativa
iscrizione nel registro delle imprese (art. 2485, comma 1°, c.c.),
e che, in difetto, a prescindersi dalla dannosità o meno di tale
inosservanza, la società (o, in caso di fallimento, il suo curatore)
sia legittimata ad eccepire l’inadempimento a tale dovere per
escludere l’obbligo (e l’insinuazione al passivo del relativo
credito) al pagamento del compenso, in ipotesi, maturato.
4.10. Nelle società quotate, anzi, il dovere di vigilanza
sancito dall’art. 2403 c.c. non è circoscritto all’operato degli
amministratori ma si estende al regolare svolgimento dell’intera
gestione dell’ente in modo ancora più stringente, considerata
l’esigenza di garantire l’equilibrio del mercato (Cass. n. 1601 del
2021).
4.11. L’eccezione d’inadempimento, che può essere
dedotta anche in caso di adempimento solo inesatto, (salvo il
limite della buona fede: Cass. n. 1690 del 2006) non è, del
resto, subordinata alla presenza degli stessi presupposti
richiesti per la risoluzione del contratto e l’azione di risarcimento
dei danni conseguentemente arrecati, e cioè, rispettivamente la gravità e la dannosità dell’inadempimento dedotto (cfr. Cass.
n. 12719 del 2021).
4.12. Quanto al resto, non può che ribadirsi come la
violazione dell’art. 2697 c.c. si configura solo nell’ipotesi in cui
il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte
diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta
norma e non anche quando la censura abbia avuto ad oggetto,
com’è accaduto nel caso in esame, la valutazione che il giudice
abbia svolto delle prove proposte dalle parti lì dove ha ritenuto
(in ipotesi erroneamente) assolto (o non assolto) tale onere ad
opera della parte (e cioè, nel caso in esame, il creditore
opponente) che ne era gravata in forza della predetta norma,
che è sindacabile, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti
previsti dall’art. 360 n. 5 c.p.c. (cfr. Cass. n. 17313 del 2020;
Cass. n. 13395 del 2018)>>.

REsponsabilità dei sindaci di spa

Cass.  sez. I, Ord.  21/02/2024, n. 4.617, rel. Amatore:

<<2.7 Del resto, la motivazione impugnata risulta in linea con quanto affermato
dalla giurisprudenza di questa Corte, così non prospettandosi alcuna falsa
applicazione delle disposizioni normative sopra ricordate. Ed invero, in tema
di responsabilità degli organi sociali, la configurabilità dell’inosservanza del
dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2407, comma 2, c.c. non
richiede l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano
espressamente in contrasto con tale dovere, ma reputa sufficiente che essi
non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano
in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così
da non assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede,
eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione
riscontrate o denunciando i fatti al Pubblico Ministero per consentirgli di
provvedere ai sensi dell’art. 2409 c.c. (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 16314 del
03/07/2017; n. 13517 del 2014; Sez. 1, Sentenza n. 20651 del 31/07/2019;
Sez. 1, Sentenza n. 20651 del 31/07/2019; Sez. 1, Sentenza n. 32397 del
11/12/2019)>>

Affermazione generica e comunque inesatta: non rilevare una macroscopica violazione e non  reagire di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità costiutiscono esattamente “specifici compoprtamenti in contrasto col dovere di vigilanza.

Piuttosto sarebbe stato ineressante leggere il decr del Tribunale d quo (Verona), parendo assai analitico nell’esame dei fatti, secondo quanto riferisce la SC