Legittimo il recesso statutario ad nutum nelle soc. (non quotate) a tempo determinato

Cass. sez. I, sent. 29/01/2024 n. 2.629, rel. Nazzicone, dopo una premessa/trattatello di eccessiva lunghezza sul recesso societario, così  motiva sul punto:

<<Ragionamenti, dunque, estranei alla questione ora all’esame, in cui al creditore non si richiede nessuna previa valutazione circa l’esistenza del diritto di recesso in quanto ancorata alla “vita del socio” o ad un “progetto imprenditoriale” più o meno specifico.

Ed invero, nell’intento di favorire l’accesso della società ai finanziamenti, il legislatore ha assicurato ai potenziali investitori la possibilità di uscire dalla società stessa con facilita e senza dover temere “sorprese”.

Nel ripercorrere le fattispecie dell’art. 2437 c.c., sopra ricordate, si nota che il legislatore, accanto alle ipotesi tipiche di attribuzione della facoltà di recesso di cui al primo, secondo e quinto comma, si è preoccupato – piuttosto – di slegare il socio dai vincoli e di preservarne l’autonomia negoziale, con il prevedere ad esempio il diritto di recesso nelle società contratte a tempo indeterminato.

Una logica non diversa, nella medesima prospettiva di autonomia negoziale dei soci e della società, connota il quarto comma della disposizione.

Come il legislatore, attuando la legge delega, ha mirato più in generale ad ampliare l’autonomia statutaria, cosi specificamente in materia di recesso, accanto all’aumento delle ipotesi legali inderogabili perché caratterizzate da esigenze di ordine pubblico, ha anche previsto la novità, consistente nel fatto che lo statuto possa prendere in considerazione ulteriori cause di recesso o non prevederne altre, pur indicate dalla legge, ma considerate derogabili.

La riforma del 2003 ha, quindi, a fronte dell’aumento dell’autonomia statutaria delle società e del rafforzamento dei poteri anche degli amministratori, attribuito alle minoranze tutela risarcitoria o, nella specie, un diritto di recesso di maggiore ampiezza. Dunque, come si rileva da molti, il recesso costituisce anche uno strumento di organizzazione dei rapporti endosocietari, spettando non più soltanto in presenza di decisioni assembleari non assentite dal socio, ma potendo le società che non fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio liberamente introdurre ulteriori cause di recesso per via statutaria, onde esso funge anche da strumento di negoziazione.

Sebbene, poi, proprio il procedimento di liquidazione previsto per legge, con il consegnare ai soci il valore tendenziale di mercato delle azioni, non escluda affatto che essi debbano accontentarsi di una perdita di valore del loro investimento e patirne un pregiudizio.

Per la maggioranza, vale la considerazione che, ove fosse non conveniente operare alla fine il rimborso della partecipazione al socio recedente, la società potrà decidere lo scioglimento.

Gli interessi che si fronteggiano in materia, pertanto, sono, da un lato, l’interesse della società a mantenere il conferimento conseguito, e, dall’altro lato, l’interesse del socio ad uscire dalla compagine societaria, una volta che abbia maturato tale intenzione.

Tuttavia, se è vero che il legislatore ha “bilanciato” egli stesso tali interessi – laddove ha attribuito al socio, con norme a volte derogabili ed a volte no, la facoltà di recedere a fronte di situazioni date (assunzione di deliberazioni non condivise, vicende di potere o di abuso nel gruppo con alterazione notevole delle condizioni economiche e patrimoniali dell’investimento) – e pur vero che egli ha, poi, espressamente riconosciuto all’autonomia statutaria la possibilità di contemplare “ulteriori cause di recesso”, con il solo limite che non si tratti di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.

È allora ragionevole ritenere che, anche in tal caso, il “bilanciamento” degli interessi sia stato compiuto dal legislatore, proprio rimettendo alla libertà statutaria la scelta di contemplare altre vicende, ivi compreso il caso che i soci, nell’esercizio della loro autonomia negoziale privata, abbiano ritenuto conforme al proprio programma imprenditoriale consentire a ciascuno, od anche solo a taluno di essi, di uscire dalla compagine societaria, e ciò non, necessariamente, soltanto in presenza dell’assunzione di deliberazioni assembleari, ma anche, come nella specie, semplicemente per volere del socio.

Mentre nel recesso per giusta causa l’accento è posto nella permanenza del c.d. rapporto fiduciario fra i soci, il recesso ad nutum non coinvolge necessariamente il rapporto fiduciario, potendo discendere anche semplicemente da una diversa valutazione circa le prospettive e scelte imprenditoriali.

Va pur detto che, peraltro, nel recesso ad nutum resta possibile – su eccezione della controparte – un controllo generale di buona fede, non diversamente che in tutti i negozi, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., trattandosi di clausole generali che regolano i rapporti interprivati (sulla sussistenza del controllo giudiziale alla stregua di tale clausole, si vedano, ad es.: Cass., sez. I, 21 settembre 2023, n. 27014; Cass., sez. I, 21 febbraio 2023, n. 5396; Cass., sez. I, 22 dicembre 2020, n. 29317 e Cass., sez. I, 24 agosto 2016, n. 17291, in materia di apertura di credito in conto corrente a tempo indeterminato; Cass., sez. III, 29 settembre 2022, n. 28395, sul contratto preliminare di vendita di quote societarie; Cass., sez. III, 3 giugno 2020, n. 10549 e Cass., sez. I, 12 ottobre 2018, n. 25606, in tema di recesso da parte della società concedente nella concessione di vendita di autoveicoli; Cass., sez. II, 29 maggio 2020, n. 10324); in particolare, questa Corte ha già avuto occasione di richiamare l’applicazione della clausola generale di buona fede all’esercizio del diritto di recesso nelle società (Cass., sez. I, 12 novembre 2018, n. 28987, in tema di recesso del socio di s.r.l.)>>.

E poi:

<>Resta fermo che le scelte statutarie potranno ricercare l’equilibrio tra queste esigenze e la preservazione del capitale sociale, ad esempio prevedendo un termine di preavviso anche superiore ai centottanta giorni ed il suo possibile allungamento statutario fino ad un anno, o un termine iniziale di preclusione dell’esercizio del diritto di recesso, sulla falsariga di quanto dispone l’art. 2328, comma 2, n. 13, c.c.>>

Insomma il principioo di diritto è:

“È lecita la clausola statutaria di una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, la quale, ai sensi dell’art. 2437, comma 4, c.c., preveda, quale ulteriore causa di recesso, la facoltà dei soci di recedere dalla società ad nutum con un termine congruo di preavviso”.

Avrebbe giovato per chiarezza precisare che ciò vale per le soc. a tempo determinato (pur se implicito visto il c. 3 del 2437 cc)

Motivazione comunque troppo lunga, bastando ad es. la parte in rosso, alla luce del disposto di legge,  che non permette rettrizioni applicative in sede ermeneutica

Esecuzione secondo buona fede del contratto sociale e obbligo di motivazione nel digniego di rimborso da recesso

Trib. Milano n. 4253/2022 del 17.05.2022, RG 1033/2017, G.I. Alima Zana, affronta un azione invalidatoria e/o di responsabilità per diniego illegittimo di rimborso a seguito di istanza di recesso avanzata da socio di banca popolare.

Si tratta di disposizione inserita nella riforma delle banche popolari del 2015.

Il c. 2 ter dell’art. 28 TUB e la disposizione attuativa Banca di Italia permette di limitare o rinviare il rimborso del recedente.

Il recedente agiva quindi poer diniego illegittimo.

Qui interessa solo:  1) l’affermzione per cui la buona fede che regola l’esecuzione anche del contratto sociale impone la motivazione delle delibere del CdA; 2) il tipo di controllo gidiziale; 3) l’iter argometnativo del collegio per concludere che UBI aveva esaurientemente motivato il diniego

Sub 1: << La scelta di adottare un tale più ampio margine prudenziale, anche in ossequio al principio
di buona fede nello svolgimento del rapporto sociale, va ad ogni modo congruamente
motivata esplicitando le ragioni, nonché gli indici patrimoniali e di bilancio che hanno
portato ad una tale determinazione>>

Sub 2: <<Il sindacato dell’autorità giudiziaria ha -dunque- natura estrinseca in quanto non può spingersi a
valutare, nel merito, le singole scelte discrezionali che hanno portato la banca a limitare il diritto di
rimborso, dovendosi -invece- limitare a vagliare se tali scelte siano:
motivate,
rispondenti ai criteri di legge;
e non irragionevoli.
Secondo la regola di giudizio espressa sul punto dalla Corte Costituzionale il vaglio rimesso al giudice
ordinario deve consentire quindi di verificare che
i “limiti di rimborso decisi nell’esercizio di tale
facoltà non eccedano quanto necessario, tenuto conto della situazione prudenziale di dette banche, al
fine di garantire che gli strumenti di capitale da essi emessi siano considerati strumenti del capitale
primario di classe 1, alla luce, in particolare, degli elementi di cui all’art’articolo 10, paragrafo 3,
delregolamento delegato n. 241/2014, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare” … All’esito dell’indagine, il Collegio ritiene che -essendo le scelte sindacate da parte attrice conformi alle
disposizioni legali, motivate e ragionevoli- l’autorità giudiziaria non possa entrare nel perimetro della
discrezionalità tecnica- esercitata in modo non abusivo- nella determinazione delle componenti per
determinare la soglia floor, conseguendo gli obiettivi prundenzali previsti dal legislatore.
E, così, il Tribunale non può addentrarsi nella valutazione dell’opportunità e della convenienza degli
alternativi criteri (i.e. il RAF e il livello di patrimonializzazione media delle Banche italiane) che, a
parere dell’attrice, UBI avrebbe dovuto considerare in via sostitutiva di quelli concretamente
selezionati. Una tale ingerenza dell’autorità giudiziaria comporterebbe, infatti, un’illegittima
sostituzione nell’esercizio di un potere discrezionale prerogativa dell’organo amministrativo della
Banca.
La tesi attorea secondo cui la scelta gestoria di UBI è stata dettata da un atteggiamento eccessivamente
prudenziale e, dunque, in ultima analisi orientata a fini ultronei alla salvaguardia del patrimonio di
vigilanza non ha trovato riscontro
>>.

Sub 3 (circa una delle contestazioni):

<< Ritiene il Collegio tale scelta:
legitttima
Sul punto, va sottolineato che l’impianto normativo non impone di rispettare- solo-i
requisiti minimi di capitalizzazione, consentendo soglie di capitalizzazione più elevate
di quelle imposte dalla normativa di vigilanza, attraverso una valutazione
“prudenziale” per così dire supplementare.
Va in proposito richiamata la Circolare n. 285/2013 della Banca D’Italia che, nell’alveo
delle disposizioni europee di cui all’art. 10 Reg. 241/2014, indica che le determinazioni
sul rimborso debbano tenere conto, in un’ottica prudenziale, in particolare:
a. dell’importo del capitale primario di classe 1, del capitale di classe 1 e del capitale
totale in rapporto ai requisiti previsti dall’art. 92 del CRR (..)
b. della complessiva situazione finanziaria, di liquidità e di solvibilità della banca o
del gruppo bancario”;
motivata
Nell’ottica di una sana e prudente gestione, la decisione di conservare un livello di
capitalizzazione maggiore di quella minima è esplicitata nelle dichiarazioni rese da
Andrea Montrasio nell’assemblea del 10.10.2015, ove nel dare conto del criterio di
liquidazione del rimborso del recesso precisa
“trovare un giusto equilibrio tra
l’esercizio di un diritto, che è il diritto di recesso (..) ed un dovere che,t ra l’altro, (..)è
quello di mantenere un patrimonio della banca sufficiente per reggere eventuali
intemperie del mercato”
40
ragionevole
Tale giudizio è rafforzato da un significativo evento verificatosi ex post.
In particolare, poco dopo che il Consiglio di Sorveglianza aveva fatto in concreto
applicazione della formula litigiosa, l’agenzia di
rating Fitch con il comunicato stampa
del 24 marzo 2016
41 ha:
-riqualificato l’
outlook di UBI da stabile a negativo -anche- sulla base del crescente
rischio gravante sul capitale determinato da alcuni crediti problematici

– definito solo “accettabile” il CET1 Ratio registrato da UBI in data 31 dicembre 2015
pari all’11,64%43.
Ciò indica, rispetto ad un operatore di mercato, come il Cet1 ratio di UBI sopra la
frazione del 11,5% fosse appena accettabile data la qualità dell’attivo.
Tale giudizio da parte di un soggetto terzo qualificato rafforza la valutazione di non
arbitrarietà della scelta dell’organo amministrativo di UBI che -ai fini del calcolo
dell’ammontare di risorse proprie destinabili al rimborso delle azioni recedute- ha
applicato un supplementare margine prudenziale rispetto ai requisiti minimi di
patrimonializzazione.
>>

Recesso per mutamento delle condizioni di rischio (art. 2497 quater.c cod. civ.) e per rimozione di vincoli alla circolazione della partecipazione (art. 2437.2.b cod. civ.)

Cass. 20.546 del 27 giugno 2022 , rel. Fidanzia, interviene sui due temi in oggetto.

Circa il primo (in particolare circa il requisuito della alteraizone delle condizoni di rischio) , insegna che basta sia potenziale:

<<Non vi è dubbio che, affinchè possa ritenersi integrato il secondo requisito della causa di recesso previ(OMISSIS) dall’art. 2497 quater lett c) c.c., si condivide, in linea di principio, l’impostazione della ricorrente secondo cui non è indispensabile che l’inizio della direzione e coordinamento abbia già prodotto un’immediata alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento, essendo, invece, sufficiente l’esistenza di una potenzialità modificativa (in peius) delle stesse, e che la prova di tale alterazione possa essere fornita valorizzando circostanze successive alla dichiarazione di recesso>>.

Affermazione importante.

Nel caso specifico però non ravvisa la fattispecie legale: <<Va, tuttavia, osservato che la Corte d’Appello ha, in modo assorbente, comunque esaustivamente argomentato come l’incremento dell’appostazione del fondo rischi, nel bilancio 2013 di (OMISSIS), non avesse determinato un’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento in quanto svincolato da nesso di causalità con la modifica della direzione e controllo.

In particolare, la Corte d’Appello ha motivatamente escluso che l’incremento della posta “accantonamento per rischi e oneri futuri” costituisse attività gestoria discrezionale riconducibile alla direzione e coordinamento della nuova controllante, atteso che i fatti generatori della perdita erano antecedenti alla gestione della nuova società e l’incremento era stato imposto dalle risultanze delle due consulenze tecniche.>>

(non chiaro come l’aumento della posta di accantonamento possa alterare le condizioni di rischio).

Circa il secondo tema, dice che basta una rimozione purchessia, anche se relativa al solo caso di vendita a società controllate, per far scatare il diritto di rrcesso:

<<Questo Collegio condivide l’impostazione della ricorrente secondo cui, al fine di accertare la legittimità del recesso, a norma dell’art. 2437 c.c., comma 1 lett a), è sufficiente verificare se la modifica statutaria abbia rimosso un limite alla circolazione delle azioni prima esistente, indipendentemente dal fatto se tale modifica abbia o meno una rilevanza sostanziale rispetto alla precedente disciplina.

In primo luogo, assai persuasiva è la valorizzazione del dato letterale in altra ipotesi di recesso concernente la modifica della clausola che disciplina l’oggetto sociale, a norma dell’art. 2437 comma 1 lett a) c.c., è stato lo stesso legislatore a richiedere espressamente la rilevanza sostanziale della modifica statutaria. Ne consegue che se, nell’ipotesi di cui è causa, il legislatore non ha richiesto tale ulteriore requisito, vuol dire che ai fini del recesso è sufficiente una qualsiasi modifica statutaria idonea a rimuovere i limiti alla circolazione delle azioni (sul punto, la previsione, nel caso di specie, della possibilità di cedere liberamente le azioni alle società controllate, prima non contemplata, si muove indubbiamente in quella direzione).

Anche gli altri argomenti di natura sistematica evidenziati dalla ricorrente sono convincenti: nell’ipotesi previ(OMISSIS) dall’art. 2437 comma 1 lett a) c.c. la legge richiede, a differenza che nell’ipotesi di cui al comma 2 lett b) dello stesso articolo – quella di cui è causa – la modifica so(OMISSIS)nziale della clausola dell’oggetto sociale, dal momento che, trattandosi di una ipotesi tassativa ed inderogabile di recesso, per scongiurare che la società sia privata delle fonti del proprio approvvigionamento (costituite dai conferimenti dei soci) anche a fronte di modifiche solo formali delle proprie clausole, è necessario che la variazione abbia avuto un impatto significativo. Al contrario, in caso di introduzione o rimozione di vincoli alla circolazione delle azioni, non si pone l’esigenza di tale ulteriore cautela, dal momento che il diritto di recesso può comunque essere convenzionalmente escluso dalle parti (l’art. 2437 comma 2 cod. cv. esordisce, infatti, con la locuzione “salvo che lo statuto disponga diversamente).

In particolare, in questo caso, le parti hanno già uno strumento per soddisfare l’esigenza di evitare che il recesso possa essere collegato a modifiche da essi non considerate sostanziali, potendo, a monte, escludere per le stesse modifiche la stessa astratta possibilità del recesso.

Infine, depone per un’interpretazione dell’art. 2437 comma 1 lett a) c.c., che assicuri, in radice, la certezza sulle condizioni di uscita da una società per azioni, il disposto dell’art. 2355 bis comma 4 c.c., che impone tutte le limitazioni alla circolazione delle azioni debbano risultare dal titolo azionario: se il legislatore ha prescritto che l’introduzione e la rimozione dei vincoli debba essere sempre comunque annotata sul titolo, anche quando non si tratta modifica sostanziale, sarebbe incoerente introdurre, invece, in caso di recesso, tale ulteriore requisito, che comporta necessariamente delle valutazioni di natura discrezionale.>>

Affermazione condivisibile ma non difficile da sostenere, in assenza di ogni dato testuale a supporto della tesi contraria.

La riduzione della durata della s.p.a. non dà titolo di recesso al socio non consenziente

Cass. 24.02.2022 n. 6.280, rel. Tricomi, nega che la riduzione del termine di durata del contratto sociale (da termine così lungo da essere qualificabile come <a tempo interderminato>, secondo giurirpduenza diffusa, a -evidentemente, mano è specificato- a termine inferiore e non più così qualificabile) costituisca <eliminazione di una delle cause di recesso> di cui all’art. 2437.1 , lett. e) c.c.

Tenuto conto che la cit. lett. e) rinvia al c. 2 e non al 3 (quello sulla durata indeterminata), la decisione è probabilmente esatta.

Questi i passaggi pertinenti: <<5. Focalizzando l’attenzione sul tema oggetto della controversia, e cioè il rapporto tra la durata della società per azioni, la sua modifica ed il diritto di recesso, va osservato che l’elemento temporale rileva normativamente in due ipotesi.

La prima riguarda – non già la riduzione della durata della società, ma – la proroga della durata della società, fattispecie per la quale è prevista una autonoma causa di recesso, derogabile statutariamente (comma 2).

La seconda concerne il caso della società costituita a tempo indeterminato le cui azioni non siano quotate su mercati regolamentari, situazione in relazione alla quale, a prescindere dall’adozione di una qualsivoglia deliberazione, è riconosciuto il diritto di recesso ad nutum (da esercitare secondo la tempistica prevista dal legislatore), derogabile statutariamente in peius entro il limite massimo di un anno, ma non eliminabile (comma 3).

6. Nel caso in esame, posto che alcuna specifica previsione statutaria risulta invocata, è in discussione l’applicabilità dell’art. 2437 c.c., che va esclusa perché la fattispecie in esame non è sussumibile nelle ipotesi ivi contemplate: infatti, il recesso non è stato esercitato in ragione della proroga della durata della società, né perché la società aveva una durata a tempo indeterminato, essendo stata, anzi, ridotta la durata in questione.

7. In proposito, va osservato che il diritto di recesso ad nutum attribuito dal comma 3 della disposizione in esame è direttamente connesso alla durata indeterminata statutariamente prevista per la società e non alla modifica della stessa; sul piano della modifica della durata rileva, invero, solo la proroga (comma 2), mentre l’opposta ipotesi della riduzione della durata non è fonte di alcun autonomo diritto di recesso per il socio, né ciò può dedursi per implicito dalla facoltà prevista dal comma 3.

La previsione dettata dal comma 3, invero, ponendosi in linea con quella che riconosce la facoltà di recesso in caso di proroga della società, è intesa a tutelare il socio, al fine di evitare che questi, nei casi in cui le azioni non siano quotate in un mercato regolamentato, sia costretto dal vincolo sociale oltre un tempo ragionevole contro la sua volontà. E’ evidente che le ragioni di tale tutela non sussistono nell’opposto caso in cui la durata della società venga ridotta, tant’e’ che questa ipotesi non rientra nelle fattispecie previste ex lege al comma 1 – che alla lett. e) non contiene alcun rinvio alla ipotesi prevista dal comma 3 – e al comma 2.

Invero, è solo la durata indeterminata della società per azioni che giustifica ed attribuisce il diritto di recesso al socio, non la sua riduzione.>>