Violazione brevettuale : rapporto tra trasferimento dei profitti e risarcimento del danno (anche nel caso di più aventi diritto) nonchè problem solution approach

Cass. sez 1 del 09.11.2023 n. 31.170, rel. Scotti, Samsung v. Hop Mobile-fallim. Eko Mobile, esamina un tema solo apparentemente semplice (spt. punto III).

– I –

(la determinazione dell’altezza inventiva)

<<L’impiego, nell’apprezzamento dell’altezza inventiva del brevetto del criterio basato sul problem solution approach, che si struttura in tre scansioni (individuazione dello stato dell’arte più prossimo; determinazione del problema tecnico da risolvere; valutazione se l’invenzione per la quale si chiede il brevetto, alla luce dello stato dell’arte e del problema tecnico da risolvere, risulterebbe ovvia ad un soggetto esperto) è diffuso nella giurisprudenza di merito e si conforma a un orientamento consolidato del Board of Appeal dell’EPO. Tale criterio non discende tuttavia da una fonte normativa e men che meno dall’art. 48 c.p.i., di cui le ricorrenti prospettano la violazione e falsa applicazione; né questa Corte si è mai espressa nel senso che la mancata applicazione del problem solution approach, o una non corretta applicazione dei passaggi logici di tale metodo di valutazione, possa integrare un vizio della decisione deducibile in sede di legittimità a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 3; la violazione o la non corretta applicazione delle linee guida elaborate dall’EPO nel disciplinare la propria attività, in particolare quelle inerenti il metodo del problem solution approach, può venire in rilievo solo ove si risolva, sul piano del diritto nazionale, in una violazione o falsa applicazione del cit. art. 48 (sul punto cfr. Cass. 16 marzo 2022, n. 8584, in motivazione).

Il rilievo, poi, formulato dal CTU B., e incentrato sulla correlazione, che lo stesso esperto avrebbe ravvisato, tra l’affollamento del settore tecnico in cui si colloca l’invenzione brevettata e il valore che alla stessa potrebbe annettersi sul piano dell’altezza inventiva, rimane estraneo alla decisione della Corte di appello: onde la relativa censura è inammissibile perché carente del requisito della riferibilità alla pronuncia impugnata (cfr.: Cass. 24 febbraio 2020, n. 4905; Cass. 18 febbraio 2011, n. 4036; Cass. 3 agosto 2007, n. 17125) >>.

– II –

(sul danno da perdita del valore del brevetto)

<<La Corte di merito, andando in ciò in contrario avviso rispetto alla sentenza di primo grado, ha ritenuto dovesse liquidarsi, in favore di Hop Mobile, il danno per perdita di valore del brevetto; il danno è stato così commisurato alle royalties perdute dalla detta società per effetto della condotta delle società Samsung in relazione ai 14.211 cellulari commercializzati in Italia (pagg. 65 s. della sentenza impugnata).

In termini generali, non può escludersi la risarcibilità del danno consistente nella perdita di valore del diritto di proprietà industriale.

Che il brevetto abbia un proprio valore intrinseco è confermato, banalmente, dall’art. 2424 c.c. il quale include i diritti di brevetto industriale tra i valori delle immobilizzazioni da includere nello stato patrimoniale delle società per azioni.

Sul piano risarcitorio, il danno emergente conseguente alla contraffazione brevettuale ricomprende, poi, qualunque perdita dei valori economici esistenti nel patrimonio del titolare della privativa prima della consumazione dell’illecito.

Viene allora in considerazione anche quel danno che, come è stato osservato in dottrina, è direttamente incidente sulla stessa integrità della posizione di esclusiva: posizione che, per effetto della contraffazione, può essere compromessa anche irreversibilmente merce’ la duratura riduzione della possibilità di sfruttamento del brevetto. Assume così rilievo l’annacquamento (dilution) del pregio che è possibile associare al diritto, il quale si traduce in una corrispondente contrazione del suo valore patrimoniale: valore che, come sottolineato sempre in dottrina, può leggersi quale chance di una proficua collocazione del diritto stesso sul mercato.

In siffatta prospettiva la perdita di valore del brevetto può apprezzarsi avendo riguardo alla potenziale redditività dello stesso: onde è consentito attribuire rilievo alle royalties che il titolare può ritrarre nel tempo dal diritto di privativa, le quali sono da apprezzare proprio quale elemento indicatore della nominata redditività. In tal senso, la decisione impugnata non si espone a censura.

E’ peraltro evidente che l’apprezzamento del danno in questione non possa portare ad alcuna forma di overcompensation; e così, il riconoscimento della perdita di valore della privativa individuato come nel caso di specie sulla base della royalty ragionevole percettibile dal titolare del brevetto in un dato periodo non può aggiungersi al lucro cessante risentito in quello stesso arco di tempo dal predetto titolare o dal suo licenziatario: e ciò in quanto i due valori descrivono, se pure in modo diverso, il medesimo fenomeno, connotato dal fatto che, nel periodo dato, la privativa, per effetto della contraffazione, non è stata in grado di assicurare i profitti che in assenza di quella condotta illecita avrebbe procurato. La distinzione tra le due fattispecie sta nel fatto che il mancato guadagno nel secondo caso rileva in sé, mentre nel primo assume importanza quale elemento rivelatore dell’erosione del valore del diritto: tale distinzione non autorizza, tuttavia, la liquidazione delle due voci di danno, giacché il mancato guadagno che è conseguenza immediata e diretta dell’illecito (art. 1223 c.c.) – e che può assurgere, come si è detto, a indicatore della lamentata dilution – è unico. Allo stesso modo, deve negarsi che il danno da perdita di valore del brevetto correlato alla redditività di questo possa cumularsi con gli utili da restituire di cui all’art. 125, comma 3, c.p.i. Infatti, gli utili conseguiti dal contraffattore spettano nella misura in cui siano superiori al risarcimento del lucro cessante (onde non si aggiungono a tale risarcimento): sarebbe in conseguenza contraddittorio ammettere che il titolare del diritto, il quale non può ottenere, in aggiunta alla restituzione degli utili del contraffattore, il risarcimento del lucro cessante consistente nella mancata riscossione di royalties, sia in grado di raggiungere quel risultato pratico invocando il danno da perdita di valore del brevetto. Gioca, anche qui, l’esigenza di evitare meccanismi di sovracompensazione del danno. Un problema di sommatoria dei diversi rimedi (risarcimento del danno da lucro cessante o retroversione degli utili, da un lato, e risarcimento del danno incidente sulla redditività del brevetto, dall’altro) non si pone, invece, quando gli stessi operano su segmenti temporali non coincidenti.

In conclusione, il danno da perdita di valore del brevetto dipendente dalla sua contraffazione è suscettibile di essere risarcito e il ristoro patrimoniale ben può essere commisurato alla diminuita o annullata redditività del titolo di privativa, calcolato sulla base dell’ammontare delle royalties non percepite per effetto dell’illecito posto in essere; resta tuttavia escluso che attraverso la liquidazione del danno in questione possa pervenirsi ad alcun effetto duplicativo del ristoro spettante all’avente diritto>>.

– III – 

(sull’ar. 125.3 cpi; NB: la parte più interessante)

<<Il rimedio della retroversione degli utili, previsto dall’art. 125, comma 3, c.p.i. – e nell’art. 13.2 della dir. 2004/48/CE (c.d. direttiva enforcement), ove la misura è però specificamente contemplata in relazione alle ipotesi di violazione inconsapevole dell’altrui diritto – obbedisce alla finalità di dissuadere dall’attività contraffattiva l’operatore economico che sia più efficiente del titolare della privativa: dell’imprenditore che, cioè, si mostri in grado di ritrarre dallo sfruttamento del brevetto un utile superiore rispetto a quello che dalla privativa può conseguire l’avente diritto, evidentemente in possesso di una minore capacità di impresa. E’ del tutto chiaro che, in assenza di uno strumento di tutela quale quello della retroversione, per l’autore dell’illecito sarebbe sempre conveniente la contraffazione, dal momento che una misura meramente compensativa consentirebbe comunque al detto soggetto di incamerare il differenziale economico tra il suo profitto e l’altrui danno. Come è stato sottolineato in dottrina, se il contraffattore è più efficiente del titolare e il suo arricchimento è superiore al danno provocato a quest’ultimo, una regola solo risarcitoria (incentrata, cioè, sulla mera riparazione del danno effettivamente occorso) adempie, sì, a una funzione compensativa, ma non ha alcun effetto preventivo o deterrente. Nella prospettiva di un disegno legislativo volto a vietare ogni forma di parassitismo, la retroversione degli utili opera, dunque, nel senso della deterrenza: con la sola avvertenza, pure espressa dalla dottrina, che quando la violazione ha carattere doloso o colposo la retroversione mostra chiaramente questa finalità disincentivante della contraffazione economicamente efficiente, mentre nel caso di violazione inconsapevole il rimedio si spiega con la volontà legislativa di “rafforzare le prerogative di chi sfrutta legittimamente la proprietà industriale”.

All’istituto in questione si ritiene invece estranea un’accezione punitiva [NB- non concordo: si sottraggono al violatore anche risorse proprie, cioè che non spettano al/provengono dal violato]: conclusione, questa, che è possibile desumere da una pluralità di dati. Può richiamarsi, anzitutto, l’argomento speso da chi ha sottolineato come la retroversione operi in alternativa al risarcimento del danno e nella misura in cui gli utili eccedano tale risarcimento, “e non sempre e in toto, come sarebbe logico se la sanzione davvero contenesse i danni punitivi”. Può farsi pure menzione del tenore del considerando 26 della direttiva enforcement che ha trovato recepimento nel D. Lgs. n. 140 del 2006, con cui è stato novellato l’art. 125 c.p.i. secondo cui il fine della disciplina delle compensazioni pecuniarie in favore della parte lesa “non è quello di introdurre un obbligo di prevedere un risarcimento punitivo, ma di permettere un risarcimento fondato su una base obiettiva” (anche se, per la verità, la giurisprudenza unionale ha lasciato irrisolta la questione circa la contrarietà o meno del risarcimento punitivo all’art. 13 della direttiva 2004/48: cfr., infatti, Corte giust. UE 25 gennaio 2017, C-367/15, Stowarzyszenie, 29). Possono citarsi, ancora, le stesse parole della relazione ministeriale al D. Lgs. n. 140 del 2006: nell’illustrare che il novellato art. 125 considera le misure del risarcimento del danno e della retroversione degli utili come operativamente e concettualmente distinte, siccome riconducibili, rispettivamente, al profilo della reintegrazione del patrimonio leso e a quello dell’arricchimento senza causa, la detta relazione mostra di attribuire al rimedio in questione una matrice del tutto diversa da quella punitiva.

Anche questa S.C. è venuta precisando che “l’istituto della retroversione degli utili non configura un’ipotesi di danni punitivi (punitive o exemplary damages), ma piuttosto una misura rimediale speciale, sui generis, di natura mista, compensatoria e dissuasiva, fondata su di un particolare arricchimento ingiustificato” (Cass. 29 luglio 2021, n. 21832, in motivazione). E’ stato spiegato che nell’istituto si rinviene, più che una funzione punitiva, una correlazione analogica, espressa in termini di non completa sovrapposizione delle fattispecie, “con i principi che governano l’arricchimento senza causa”; l’intento legislativo – si è precisato – è quello di riallocare la distribuzione di ricchezza “fra colui che ha realizzato dei benefici ingiustificati, sfruttando la privativa altrui, e colui il cui diritto assoluto è stato sfruttato per realizzarli, a prescindere dall’accertamento controfattuale circa il conseguimento di quegli stessi benefici da parte sua, in una sequenza di eventi alternativa” (sent. cit., sempre in motivazione).

Ciò detto, nella soluzione proposta da Hop Mobile e dal Fallimento (Omissis) la somma da liquidarsi risulterebbe superiore non solo al pregiudizio patrimoniale sofferto dall’avente diritto per lucro cessante, ma anche all’utile conseguito dal contraffattore.

[NB: ecco la parte di gran lunga più inteessante, perchè da quasi nessuno studiata: il caso del quantum, in casop di più soggetti lesi]

 Si frappongono a tale risultato più elementi ostativi.

Anzitutto, l’esito indicato non è compatibile con la finalità compensativa e dissuasiva della misura della retroversione degli utili; rispetto a tale connotazione funzionale del rimedio attraverso cui è assicurato sia il ristoro del pregiudizio patrimoniale del danneggiato, sia l’effetto di deterrenza verso la contraffazione dell’operatore economico che si mostri efficiente – risulta debordante il riconoscimento di somme ulteriori a titolo di retroversione degli utili: di somme che si aggiungerebbero, cioè, all’importo già accordato al danneggiato come risarcimento del lucro cessante (ove questo sia superiore all’utile del contraffattore) o come retroversione dell’utile (nel caso opposto in cui il detto utile risulti superiore al mancato guadagno). L’attribuzione di un importo aggiuntivo non trova giustificazione proprio in quanto la finalità compensativa e dissuasiva del rimedio consente di riversare sul contraffattore un obbligo restitutorio che è pari all’utile da lui conseguito (ove superiore al lucro cessante): oltre detta soglia il ristoro perde la sua funzione compensativa e dissuasiva e finisce per piegarsi a una finalizzazione punitiva che, come si visto, è estranea all’istituto.

In secondo luogo, l’utile da prendere in considerazione ai fini che qui interessano deve essere uno, in quanto esso va riferito all'”autore della violazione”: mentre il danno da lucro cessante può assumere diversa consistenza in ragione della pluralità dei soggetti danneggiati, l’utile suscettibile di retroversione ha come referente soggettivo non la persona del danneggiato, ma quella del contraffattore, onde non può mutare di entità per effetto del numero dei soggetti che abbiano risentito un pregiudizio dalla condotta illecita posta in essere.

In definitiva, in presenza di più aventi diritto non si giustifica che l’utile del contraffattore sia assegnato a uno dei danneggiati in aggiunta a quanto già riconosciuto a titolo di risarcimento o di retroversione ad altro danneggiato.

In particolare, nell’ipotesi in cui il lucro cessante già accordato sopravanzi l’utile del contraffattore, è da considerare un preciso indicatore normativo quanto alla non cumulabilità dei rimedi: indicatore che si rinviene nell’art. 125, comma 3, c.p.i. Tale norma configura come alternative le misure del risarcimento del danno e della restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione (pur consentendo la condanna a tale restituzione nel caso in cui gli utili eccedono il risarcimento), onde preclude la sommatoria dei due rimedi. Non rileva, ad avviso del Collegio, che la norma manchi di considerare l’ipotesi, che qui ricorre, della pluralità dei potenziali danneggiati. Sul piano testuale quel che conta è l’opposto: e cioè che la norma non contempli eccezioni al divieto del cumulo. Il dato desumibile dall’interpretazione letterale si salda, poi, con quello ricavato dall’esegesi funzionale: se l’art. 125, comma 3, cit., in una logica cui sono estranei intenti punitivi, intende sottrarre il contraffattore a misure compensative date dalla sommatoria del danno per lucro cessante e dell’arricchimento ingiustificato da lui conseguito, non si vede per quale ragione tale disposizione, nell’ipotesi in cui gli aventi diritto al risarcimento siano più d’uno, debba avere una diversa portata.

Ad analoga conclusione deve pervenirsi nell’ipotesi in cui sia pronunciata condanna alla retroversione degli utili in favore di uno degli aventi diritto e si dibatta della possibilità di emettere analoga statuizione a beneficio di altro danneggiato (fattispecie che potrebbe tornare di attualità, nel presente giudizio, in ragione dell’accoglimento del dodicesimo motivo del ricorso principale e del conseguente accertamento, demandato al Giudice di rinvio, della reale entità del danno risarcibile per lucro cessante che andrebbe risarcito). Con riferimento a questa ipotesi è da ribadire che l’utile retrovertibile è unico, non potendo riprodursi in conseguenza della pluralità dei danneggiati. Ma vale la pena di osservare, in aggiunta, che una diversa soluzione sarebbe, di nuovo, non compatibile con la funzione (solo) compensativa e dissuasiva dell’istituto.

Resta inteso che il divieto riguarda il cumulo delle due misure, onde nulla impedisce che nel computo del danno da lucro cessante da risarcire (e da prendere in considerazione per il raffronto con l’utile, in vista della liquidazione finale) entrino in gioco plurimi elementi patrimoniali, rappresentativi, in diversa misura, del pregiudizio risentito da ciascuno dei diversi danneggiati. E resta inteso, altresì, che il giudice del merito debba comunque valutare come ripartire tra i diversi aventi diritto il risarcimento o l’utile da assegnare.

Deve dunque concludersi nel senso che, in tema di proprietà industriale, nel caso di pluralità di aventi diritto, il contraffattore non può essere tenuto al risarcimento del lucro cessante (siccome superiore agli utili da lui conseguiti) nei confronti di uno dei danneggiati e, insieme, alla retroversione degli utili in favore degli altri, così come non può essere tenuto a una plurima retroversione in favore dei diversi danneggiati, dovendo, semmai, il risarcimento del danno o l’utile retrovertibile oggetto della condanna essere ripartiti tra i diversi aventi diritto>>.

Sull’art. 125 cod. propr. ind.: tra risarcimento del danno e trasterimento dei profitti conseguiti tramite violazione di marchio

Cass. sez. I n° 20.800 del 18 luglio 2023, rel. Caiazzo:

<<Il ricorso incidentale è infondato. Infatti, il titolare del diritto di privativa che lamenti la sua violazione ha facoltà di chiedere, in luogo del risarcimento del danno da lucro cessante, la restituzione (cd. retroversione”) degli utili realizzati dall’autore della violazione, con apposita domanda ai sensi dell’art. 125 c.p.i., senza che sia necessario allegare specificamente e dimostrare che l’autore della violazione abbia agito con colpa o con dolo (Cass., n. 21832/21).
Al riguardo, il soggetto contraffattore, pur avendo agito in mancanza dell’elemento soggettivo (doloso o colposo), deve comunque restituire al titolare gli utili che ha realizzato nella propria attività di violazione, per effetto del rimedio restitutorio, volto a salvaguardare il titolare di un diritto di privativa che rimarrebbe altrimenti privo di tutela laddove la contraffazione fosse causata in assenza dell’elemento soggettivo del dolo e della colpa.
Secondo il ribadito orientamento, se un soggetto commette una contraffazione consapevolmente o con ragionevoli motivi per esserne consapevole, il titolare del diritto violato può ottenere il risarcimento del danno, domandando il danno emergente ed il lucro cessante (ovvero, in alternativa a questo, la restituzione degli utili prodotti dal contraffattore); se, invece, fa difetto l’elemento soggettivo in capo al contraffattore, il titolare della privativa può domandare comunque la
retroversione degli utili.
Il terzo comma dell’art. 125 c.p.i., appunto prevede che «in ogni caso» il titolare del diritto leso possa chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione -evidentemente in forza e in conseguenza della stessa – in alternativa al risarcimento del lucro cessante.
La lettera della norma è inequivocabile nel circoscrivere la forma di ristoro al pregiudizio da lucro cessante, ossia ai mancati guadagni, sicché tale voce può sicuramente cumularsi al risarcimento di quelle di danno emergente.
La norma è altrettanto chiara nell’ammettere la richiesta della retroversione degli utili realizzati dal contraffattore nella misura in cui essi superino il risarcimento del lucro cessante. In tal modo il titolare del diritto può chiedere la restituzione di benefici che egli non avrebbe ritratto anche se la violazione non vi fosse stata, per esempio perché, essendo meno attrezzato, meno efficiente o meno dimensionato rispetto allo sleale e illegittimo competitore, non avrebbe avuto la capacità di operare nello stesso modo sul mercato; il caso inoltre si può
verificare nella materia brevettuale, in cui la titolarità del diritto di proprietà industriale può essere svincolata dallo svolgimento di una attività di impresa, quando l’inventore titolare lamenti la violazione da parte di un imprenditore di una privativa che egli non ha ancora provveduto a realizzare o a far realizzare industrialmente. Il tema è stato indagato da autorevole dottrina, che ha posto in luce l’esigenza di impedire che il contraffattore tragga profitti dal proprio illecito e di prevenire la pianificazione di attività contraffattive da parte di operatori economici più efficienti per capacità imprenditoriale del titolare del diritto di proprietà intellettuale; questi infatti potrebbero, anche in presenza di un sistema che garantisca al titolare una piena compensazione del suo mancato profitto, organizzare una attività di contraffazione di per sé vantaggiosa, pur considerando il loro obbligo di risarcire il titolare del mancato guadagno, contando sul lucro costituito dalla differenza tra il mancato guadagno del titolare ed il proprio maggior profitto.
In tali ipotesi, il ricorso a questa forma di liquidazione forfettaria e rigida del danno allontana il risarcimento [no: non è più un risarcimento!!] dalla tradizionale funzione meramente compensativa ad esso assegnata nel nostro ordinamento, preordinata a ristorare il titolare del diritto da una perdita che non avrebbe subito se la violazione non fosse stata perpetrata, o, quantomeno, da tale sola funzione, avvicinandola sensibilmente a una logica preventiva e dissuasiva dall’illecito, sia pur sempre sotto l’egida del collegamento necessario con la violazione di un diritto assoluto potenzialmente capace di una espansione economica.
In questa prospettiva la retroversione, così come delineata dal legislatore, rivela una evidente analogia (seppur non in termini di completa sovrapposizione delle fattispecie) con i principi che governano l’arricchimento senza causa per l’intento di riallocare la distribuzione di ricchezza in tal modo conseguita fra colui che ha
realizzato dei benefici ingiustificati, sfruttando la privativa altrui, e colui il cui diritto assoluto è stato sfruttato per realizzarli, a prescindere dall’accertamento controfattuale circa il conseguimento di quegli stessi benefici da parte sua, in una sequenza di eventi alternativa. Il legislatore del 2006 ha così introdotto uno strumento rimediale sui generis, di tipo restitutorio, ispirato a una logica composita, in parte compensatoria e in parte dissuasiva/deterrente, che si affianca alla tutela risarcitoria classica, sia pur nella sua declinazione speciale
prevista in materia di proprietà industriale con le regole particolari stabilite nei primi due commi dell’art.125 c.p.i. (Cass., n. 21832/21). Questa conclusione è resa evidente già dalla stessa rubrica del novellato art.125, intitolata al «Risarcimento del danno e restituzione dei profitti dell’autore della violazione» e caratterizzata dal riferimento ai due istituti rimediali>>

Diffamazione a carico di ente commerciale: nella lite risarcitoria ENI c. Travaglio è arrivata la sentenza che rigetta la domanda di ENI

Con sentenza 14.12.2022 n° 18412/2022, RG 65990/2020, rel. Bile Corrado, il Tribunale di Roma rigetta la domanda risarcitoria di ENI vs. Il Fatto Quotidiano e il direttore Travaglio.

Il fatto dedotto consisteva in una lunga serie di articoli assai critici verso l’operato di ENI spt. in Africa, asseritamente diffamanti .

IL Trib. li esamina partitamente ma non ravvisa lesione della reputazione rilevante sotto il profilo aquiliano (art. 2043 cc).

Distingue il diritto di cronca dal diritto di critica, approfondendo il secondo.

Si appoggia alla “vecchia” Cass. 5259 del 1984 e al suo noto c.d decalogo del giornalista.

Ricorda che è ammessa una certa dose di esagerazine e provocazione, come ammesso anche da Corte EDU del 2016, ric. 49132/11..

Nel caso specifico <<dalla lettura emerge che la struttura argomentativa è sempre la stessa. Vengono presentate le vicende avvertendo il lettore che si tratta di questioni ancora oggetto di indagine e sulle quali, allo stato, non si è accertata alcuna responsabilità penale e, al contempo, si esprime un’opinione critica sull’opportunità di una scelta politica>>,.

Rigetta la domanda di sanzione per abuso del processo ex art. 96.3 cpc per assenza di malafede e colpa grave.

Spese di lite assestate ad euro 7.600+15% per spese generali.-

In una delle sue conclusioni ENI chiedeva la condanna di controparte a restituire <<l’ingiusto profitto ottenuto in consguenza dell’illecito>>. Domanda curiosa, perchè la norma esplicita è presente solo nel c.p.i. (ambigua invece nella l. aut.) ,ma non nel c.c.  Qui andrebbe ricostruita con complesso lavoro ermeneutico, a partire dalla pionieristica monografia di  Sacco del 1959 (v. ora l’ampio lavoro di Gatti S., Il problema dell’illecito lucrativo tra norme di settore e diritto privato generale, ESI, 2021)

Nessun cenno al concetto di diffamazione quando applicato ad un ente, per di più commerciale: l’art. 595 cp infatti difficilmente è applicabile a soggetti collettivi.

Risarcimento del danno, trasferimento dei profitti e restituzione dell’indebito: brevissime sui rimedi contro la contraffazione brevettuale (art.. 125 cod. propr. ind.)

Mero accenno a temi complessi in Cass. sez. 1 n_ 1692 del 19.01.2023, rel. Valentino D., in tema di risarcimento del danno da violazione brevettuale (a seguito di un lunghissimo processo: fatti del 1992/3 !!)

Premessa generale: <<In generale, è pur vero che questa Corte ha costantemente ribadito che la liquidazione in via equitativa è legittima solo a condizione che l’esistenza del danno sia comunque dimostrata, sulla scorta di elementi idonei a fornire parametri plausibili di quantificazione e che la liquidazione equitativa del danno presuppone l’esistenza di un danno risarcibile certo (e non meramente eventuale o ipotetico), nonché vi sia l’impossibilità, l’estrema o la particolare difficoltà di provarlo nel suo preciso ammontare in relazione al caso concreto (ex multis Cass., n. 5956 del 2022). Invero, il giudice che opta per tale valutazione deve adeguatamente dar conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito, restando, poi, inteso che al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo, occorre che il giudice indichi, anche solo sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti, per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al quantum (Cass., n. 12009/2022).

In particolare, però, in tema di lesione del diritto dell’inventore del brevetto questa Corte ha più ribadito che il danno va liquidato sempre tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto, vale a dire considerando il margine di profitto conseguito, deducendo i costi sostenuti dal ricavo totale. In particolare, in tale ambito, il criterio della “giusta royalty” o “royalty virtuale” segna solo il limite inferiore del risarcimento del danno liquidato in via equitativa che però non può essere utilizzato a fronte dell’indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi ragionevoli criteri equitativi, il tutto nell’obiettivo di una piena riparazione del pregiudizio risentito dal titolare del diritto di proprietà intellettuale (Cass., n. 5666/2021; Cass., n. 20236/2022).>>

Ricorda poi che <<Questa Corte (Cass., n. 4048 del 2016) aveva, già, affermato la regola iuris secondo cui, “in tema di valutazione equitativa del danno subito dal titolare del diritto di utilizzazione economica di un’opera dell’ingegno, non è precluso al giudice il potere dovere di commisurarlo, nell’apprezzamento delle circostanze del caso concreto, al beneficio tratto dall’attività vietata, assumendolo come utile criterio di riferimento del lucro cessante, segnatamente quando esso sia correlato al profitto del danneggiante, nel senso che questi abbia sfruttato a proprio favore occasioni di guadagno di pertinenza del danneggiato, sottraendole al medesimo”.>>

Principio di diritto per il giudice di rinvio:

“In tema di proprietà industriale, in caso di lesione del diritto dell’inventore al proprio brevetto, il danno accertato va liquidato tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto, vale a dire considerando il margine di profitto conseguito dal contraffattore, deducendo i costi sostenuti dal ricavo totale. In particolare, in tale ambito, il criterio della “giusta royalty” o “royalty virtuale” segna solo il limite inferiore del risarcimento del danno liquidato in via equitativa, che però non è sufficiente a dar conto del suo ammontare a fronte dell’indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi e ragionevoli criteri, per la sua liquidazione, allo scopo di giungere a una piena riparazione del pregiudizio risentito dal titolare del diritto di proprietà intellettuale”.

Sentenza non positiva, buttando qua e là senza spiegazione concetti complessi come risarcimento del danno, profitti del violatore e royalty ragionevole.

 Motivazione esiguissima se non inesistente , anche perchè quasi mero collage di propri precedenti senza speigazione del relatore.

L’elemento soggettivo per il “recupero” dei profitti in caso di violazione di marchi: si pronuncia la Corte Suprema USA

Si è pronunciata la Corte Suprema statunitense nel caso Romag Fasteners v. Fossil Group con sentenza 23 aprile 2020.

Romag e Fossil avevano stipulato un accordo, in base al quale Fossil avrebbe utilizzato nei suoi prodotti in cuoio le cerniere di Romag. Questa però scopri che le aziende, fornitrici la compoensitica a Fossil, usavano cinture contraffatte.

Pertanto Romag citò in giudizio Fossil ed altri suoi venditori per violazione di marchio, secondo il § 1125.a del 15 US Code.

La Corte a quo aveva respinto la domanda di riconoscimento di profitti, perché la giuria, pur accettando che Fossil avesse agito duramente (callously), aveva però negato che avesse agito dolosamente (willfully).

La S.C. respinge il ragionamento, dato che <a plaintiff in a trademark infringement suit is not required to show that a defendant willfully infringed the plaintiff’s trademark as a precondition to a profits award>, p. 1.

L’opinione è  scritta da giudice Gorsuch. La norma centrale è il § 1117(a) del cit. 15 US Code :

<When a violation of any right of the registrant of a mark registered in the Patent and Trademark Office, a violation under section 1125(a) or (d) of this title, or a willful violation under section 1125(c) of this title, shall have been established in any civil action arising under this chapter, the plaintiff shall be entitled, subject to the provisions of sections 1111 and 1114 of this title, and subject to the principles of equity, to recover (1) defendant’s profits, (2) any damages sustained by the plaintiff, and (3) the costs of the action>.

Ne segue, visto che l’attore aveva agito in base al § 1125.a, che nel caso specifico non è richiesta la willfulf violation, la quale invece è richiesta solo per l’azione in corte secondo la lettera c) del § 1125.

La Corte prosegue dicendo che in molti altri punti il Lanham Act richiede specificamente l’elemento soggettivo: per cui la mancanza della menzione di esso nella disposizione invocata e significativo, pagg. 3/4.

Ancora, il soggetto leso invoca i principi di equity, menzionati nella norma sopra citata.

Secondo la Corte, però, è implausibile che ciò possa modificare la scelta normativa del Congresso, che altrove -come detto- richiede espressamente l’elemento soggettivo, p. 4.

Inoltre dice la Corte è dubbio che i principi di equity possono riferirsi all’elemento soggettivo negli illeciti di marchio: ciò perchè di solito essi <contain transsubstantive guidance on broad and fundamental questions about matters like parties, modes of proof, defenses, and remedies….Given all this, it seems a little unlikely Congress meant “principles of equity” to direct us to a narrow rule about a profits remedy within trademark law>, p. 5.

E’ però strano che nel concetto di <principles of equity> non possa rientrare la disciplina dell’elemento soggettivo negli illeciti, che non è certo di secondaria importanza: dalle menzioni fatte, forse, per la Corte l’equity comprende prevalentemente regole processuali..

Secondo la Corte, poi, è tutt’altro che chiaro che la tradizione del diritto dei marchi richieda la dolosità, prima di concedere il rimedio dei profitti; ammette però che in dottrina il dolo da taluno è richiesto e che altre sentenze non sono chiare sul punto, pp. 5/6.

Alla fine dunque il massimo che si può dire con certezza è che <Mens rea figured as an important consideration in awarding profits in pre-Lanham Act cases. This reflects the ordinary, transsubstantive principle that a defendant’s mental state is relevant to assigning an appropriate remedy>,  pp. 6/7.

Alla luce di ciò, conclude la Corte, l’elemento soggettivo è sì importante per decidere se il rimedio dei profitti  sia appropriato: ma questo è molto diverso dal dire che  è una precondizione necessaria per il rimedio medesimo. Precisamente: <we do not doubt that a trademark defendant’smental state is a highly important consideration in determining whether an award of profits is appropriate. But acknowledging that much is a far cry from insisting on the inflexible precondition to recovery Fossil advances>, p.7.

Sembra dire, in altre parole, che non è un  requisito necessario, ma che va comunque tenuto in conto. Il che sembrerebbe confermato dalla brevissima opinione concorrente del giudice Alito: <The decision below held that willfulness is such a prerequisite. App. to Pet. for Cert. 32a. That is incorrect. The relevant authorities, particularly pre-Lanham Act caselaw, show that willfulness is a highly important consideration in awarding profits under §1117(a), but not an absolute precondition. I would so hold and concur on that ground>.

Affermazione , comunque, che a me risulta poco chiara (l’elemento soggettivo serve per decidere o l’an o il quantum del rimedio) e forse riposante sulla natura di judge-made law del diritto statunitense.

Nella sentenza si dice che anche il giudice Sotomayor abbia dato una concurring opinion e nelle conclusioni lo è. Però inserisce qualche considerazione dissonante dal ragionamento di J. Gorsuch, ad esempio: <The majority suggests that courts of equity were just as likely to award profits for such “willful” infringement as they were for “innocent” infringement. Ante, at 5–6. But that does not reflect the weight of authority, which indicates that profits were hardly, if ever, awarded for innocent infringement>.

Da noi il rimedio del recupero dei profitti (anzi meglio del trasferimento dei profitti, dal momento che non è affatto detto che si tratti di un recupero dell’indebito) è previsto dal Codice di proprietà industriale all’articolo 125 u. c. .

Questa disposizione però non menziona l’elemento soggettivo: c’è allora da chiedersi se dolo/colpa siano o meno necessari. La risposta è negativa, se si riconosce al rimedio de quo natura restitutoria o di arricchimento senza causa; positiva, se invece gli si riconosce natura punitiva.

Non è chiaro nemmeno il rapporto con il rimedio risarcitorio. Una soluzione potrebbe essere la cumulabilità con il risarcimento del danno subìto, ma solo per il supero, non in toto.  Se ad es. il danno subito è 150 e i profitti sono 80, nessun trasferimenti di profitti ma solo risarcimento del danno. Se invece quest’ultimo è di 150 e i profitti 210, allora sarà riconosciuti sia il danno di 150 sia profitti per 60 (la differenza). Oppure i due rimedi potrebbero essere cumulabili solo in sede processuale tramite domande alternative , chiedendo l’accoglimento di quella che porti ad un importo più elevato.

Da ultimo, la disposizione nazionale non spiega come si calcolino i profitti e cioè quali costi siano deducibili dai ricavi: aspetto tremendamente importante nella pratica.

Sull’argomento v. il mio saggio Restituzione e trasferimento dei profitti nella tutela della proprietà industriale.