Violazione brevettuale : rapporto tra trasferimento dei profitti e risarcimento del danno (anche nel caso di più aventi diritto) nonchè problem solution approach

Cass. sez 1 del 09.11.2023 n. 31.170, rel. Scotti, Samsung v. Hop Mobile-fallim. Eko Mobile, esamina un tema solo apparentemente semplice (spt. punto III).

– I –

(la determinazione dell’altezza inventiva)

<<L’impiego, nell’apprezzamento dell’altezza inventiva del brevetto del criterio basato sul problem solution approach, che si struttura in tre scansioni (individuazione dello stato dell’arte più prossimo; determinazione del problema tecnico da risolvere; valutazione se l’invenzione per la quale si chiede il brevetto, alla luce dello stato dell’arte e del problema tecnico da risolvere, risulterebbe ovvia ad un soggetto esperto) è diffuso nella giurisprudenza di merito e si conforma a un orientamento consolidato del Board of Appeal dell’EPO. Tale criterio non discende tuttavia da una fonte normativa e men che meno dall’art. 48 c.p.i., di cui le ricorrenti prospettano la violazione e falsa applicazione; né questa Corte si è mai espressa nel senso che la mancata applicazione del problem solution approach, o una non corretta applicazione dei passaggi logici di tale metodo di valutazione, possa integrare un vizio della decisione deducibile in sede di legittimità a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 3; la violazione o la non corretta applicazione delle linee guida elaborate dall’EPO nel disciplinare la propria attività, in particolare quelle inerenti il metodo del problem solution approach, può venire in rilievo solo ove si risolva, sul piano del diritto nazionale, in una violazione o falsa applicazione del cit. art. 48 (sul punto cfr. Cass. 16 marzo 2022, n. 8584, in motivazione).

Il rilievo, poi, formulato dal CTU B., e incentrato sulla correlazione, che lo stesso esperto avrebbe ravvisato, tra l’affollamento del settore tecnico in cui si colloca l’invenzione brevettata e il valore che alla stessa potrebbe annettersi sul piano dell’altezza inventiva, rimane estraneo alla decisione della Corte di appello: onde la relativa censura è inammissibile perché carente del requisito della riferibilità alla pronuncia impugnata (cfr.: Cass. 24 febbraio 2020, n. 4905; Cass. 18 febbraio 2011, n. 4036; Cass. 3 agosto 2007, n. 17125) >>.

– II –

(sul danno da perdita del valore del brevetto)

<<La Corte di merito, andando in ciò in contrario avviso rispetto alla sentenza di primo grado, ha ritenuto dovesse liquidarsi, in favore di Hop Mobile, il danno per perdita di valore del brevetto; il danno è stato così commisurato alle royalties perdute dalla detta società per effetto della condotta delle società Samsung in relazione ai 14.211 cellulari commercializzati in Italia (pagg. 65 s. della sentenza impugnata).

In termini generali, non può escludersi la risarcibilità del danno consistente nella perdita di valore del diritto di proprietà industriale.

Che il brevetto abbia un proprio valore intrinseco è confermato, banalmente, dall’art. 2424 c.c. il quale include i diritti di brevetto industriale tra i valori delle immobilizzazioni da includere nello stato patrimoniale delle società per azioni.

Sul piano risarcitorio, il danno emergente conseguente alla contraffazione brevettuale ricomprende, poi, qualunque perdita dei valori economici esistenti nel patrimonio del titolare della privativa prima della consumazione dell’illecito.

Viene allora in considerazione anche quel danno che, come è stato osservato in dottrina, è direttamente incidente sulla stessa integrità della posizione di esclusiva: posizione che, per effetto della contraffazione, può essere compromessa anche irreversibilmente merce’ la duratura riduzione della possibilità di sfruttamento del brevetto. Assume così rilievo l’annacquamento (dilution) del pregio che è possibile associare al diritto, il quale si traduce in una corrispondente contrazione del suo valore patrimoniale: valore che, come sottolineato sempre in dottrina, può leggersi quale chance di una proficua collocazione del diritto stesso sul mercato.

In siffatta prospettiva la perdita di valore del brevetto può apprezzarsi avendo riguardo alla potenziale redditività dello stesso: onde è consentito attribuire rilievo alle royalties che il titolare può ritrarre nel tempo dal diritto di privativa, le quali sono da apprezzare proprio quale elemento indicatore della nominata redditività. In tal senso, la decisione impugnata non si espone a censura.

E’ peraltro evidente che l’apprezzamento del danno in questione non possa portare ad alcuna forma di overcompensation; e così, il riconoscimento della perdita di valore della privativa individuato come nel caso di specie sulla base della royalty ragionevole percettibile dal titolare del brevetto in un dato periodo non può aggiungersi al lucro cessante risentito in quello stesso arco di tempo dal predetto titolare o dal suo licenziatario: e ciò in quanto i due valori descrivono, se pure in modo diverso, il medesimo fenomeno, connotato dal fatto che, nel periodo dato, la privativa, per effetto della contraffazione, non è stata in grado di assicurare i profitti che in assenza di quella condotta illecita avrebbe procurato. La distinzione tra le due fattispecie sta nel fatto che il mancato guadagno nel secondo caso rileva in sé, mentre nel primo assume importanza quale elemento rivelatore dell’erosione del valore del diritto: tale distinzione non autorizza, tuttavia, la liquidazione delle due voci di danno, giacché il mancato guadagno che è conseguenza immediata e diretta dell’illecito (art. 1223 c.c.) – e che può assurgere, come si è detto, a indicatore della lamentata dilution – è unico. Allo stesso modo, deve negarsi che il danno da perdita di valore del brevetto correlato alla redditività di questo possa cumularsi con gli utili da restituire di cui all’art. 125, comma 3, c.p.i. Infatti, gli utili conseguiti dal contraffattore spettano nella misura in cui siano superiori al risarcimento del lucro cessante (onde non si aggiungono a tale risarcimento): sarebbe in conseguenza contraddittorio ammettere che il titolare del diritto, il quale non può ottenere, in aggiunta alla restituzione degli utili del contraffattore, il risarcimento del lucro cessante consistente nella mancata riscossione di royalties, sia in grado di raggiungere quel risultato pratico invocando il danno da perdita di valore del brevetto. Gioca, anche qui, l’esigenza di evitare meccanismi di sovracompensazione del danno. Un problema di sommatoria dei diversi rimedi (risarcimento del danno da lucro cessante o retroversione degli utili, da un lato, e risarcimento del danno incidente sulla redditività del brevetto, dall’altro) non si pone, invece, quando gli stessi operano su segmenti temporali non coincidenti.

In conclusione, il danno da perdita di valore del brevetto dipendente dalla sua contraffazione è suscettibile di essere risarcito e il ristoro patrimoniale ben può essere commisurato alla diminuita o annullata redditività del titolo di privativa, calcolato sulla base dell’ammontare delle royalties non percepite per effetto dell’illecito posto in essere; resta tuttavia escluso che attraverso la liquidazione del danno in questione possa pervenirsi ad alcun effetto duplicativo del ristoro spettante all’avente diritto>>.

– III – 

(sull’ar. 125.3 cpi; NB: la parte più interessante)

<<Il rimedio della retroversione degli utili, previsto dall’art. 125, comma 3, c.p.i. – e nell’art. 13.2 della dir. 2004/48/CE (c.d. direttiva enforcement), ove la misura è però specificamente contemplata in relazione alle ipotesi di violazione inconsapevole dell’altrui diritto – obbedisce alla finalità di dissuadere dall’attività contraffattiva l’operatore economico che sia più efficiente del titolare della privativa: dell’imprenditore che, cioè, si mostri in grado di ritrarre dallo sfruttamento del brevetto un utile superiore rispetto a quello che dalla privativa può conseguire l’avente diritto, evidentemente in possesso di una minore capacità di impresa. E’ del tutto chiaro che, in assenza di uno strumento di tutela quale quello della retroversione, per l’autore dell’illecito sarebbe sempre conveniente la contraffazione, dal momento che una misura meramente compensativa consentirebbe comunque al detto soggetto di incamerare il differenziale economico tra il suo profitto e l’altrui danno. Come è stato sottolineato in dottrina, se il contraffattore è più efficiente del titolare e il suo arricchimento è superiore al danno provocato a quest’ultimo, una regola solo risarcitoria (incentrata, cioè, sulla mera riparazione del danno effettivamente occorso) adempie, sì, a una funzione compensativa, ma non ha alcun effetto preventivo o deterrente. Nella prospettiva di un disegno legislativo volto a vietare ogni forma di parassitismo, la retroversione degli utili opera, dunque, nel senso della deterrenza: con la sola avvertenza, pure espressa dalla dottrina, che quando la violazione ha carattere doloso o colposo la retroversione mostra chiaramente questa finalità disincentivante della contraffazione economicamente efficiente, mentre nel caso di violazione inconsapevole il rimedio si spiega con la volontà legislativa di “rafforzare le prerogative di chi sfrutta legittimamente la proprietà industriale”.

All’istituto in questione si ritiene invece estranea un’accezione punitiva [NB- non concordo: si sottraggono al violatore anche risorse proprie, cioè che non spettano al/provengono dal violato]: conclusione, questa, che è possibile desumere da una pluralità di dati. Può richiamarsi, anzitutto, l’argomento speso da chi ha sottolineato come la retroversione operi in alternativa al risarcimento del danno e nella misura in cui gli utili eccedano tale risarcimento, “e non sempre e in toto, come sarebbe logico se la sanzione davvero contenesse i danni punitivi”. Può farsi pure menzione del tenore del considerando 26 della direttiva enforcement che ha trovato recepimento nel D. Lgs. n. 140 del 2006, con cui è stato novellato l’art. 125 c.p.i. secondo cui il fine della disciplina delle compensazioni pecuniarie in favore della parte lesa “non è quello di introdurre un obbligo di prevedere un risarcimento punitivo, ma di permettere un risarcimento fondato su una base obiettiva” (anche se, per la verità, la giurisprudenza unionale ha lasciato irrisolta la questione circa la contrarietà o meno del risarcimento punitivo all’art. 13 della direttiva 2004/48: cfr., infatti, Corte giust. UE 25 gennaio 2017, C-367/15, Stowarzyszenie, 29). Possono citarsi, ancora, le stesse parole della relazione ministeriale al D. Lgs. n. 140 del 2006: nell’illustrare che il novellato art. 125 considera le misure del risarcimento del danno e della retroversione degli utili come operativamente e concettualmente distinte, siccome riconducibili, rispettivamente, al profilo della reintegrazione del patrimonio leso e a quello dell’arricchimento senza causa, la detta relazione mostra di attribuire al rimedio in questione una matrice del tutto diversa da quella punitiva.

Anche questa S.C. è venuta precisando che “l’istituto della retroversione degli utili non configura un’ipotesi di danni punitivi (punitive o exemplary damages), ma piuttosto una misura rimediale speciale, sui generis, di natura mista, compensatoria e dissuasiva, fondata su di un particolare arricchimento ingiustificato” (Cass. 29 luglio 2021, n. 21832, in motivazione). E’ stato spiegato che nell’istituto si rinviene, più che una funzione punitiva, una correlazione analogica, espressa in termini di non completa sovrapposizione delle fattispecie, “con i principi che governano l’arricchimento senza causa”; l’intento legislativo – si è precisato – è quello di riallocare la distribuzione di ricchezza “fra colui che ha realizzato dei benefici ingiustificati, sfruttando la privativa altrui, e colui il cui diritto assoluto è stato sfruttato per realizzarli, a prescindere dall’accertamento controfattuale circa il conseguimento di quegli stessi benefici da parte sua, in una sequenza di eventi alternativa” (sent. cit., sempre in motivazione).

Ciò detto, nella soluzione proposta da Hop Mobile e dal Fallimento (Omissis) la somma da liquidarsi risulterebbe superiore non solo al pregiudizio patrimoniale sofferto dall’avente diritto per lucro cessante, ma anche all’utile conseguito dal contraffattore.

[NB: ecco la parte di gran lunga più inteessante, perchè da quasi nessuno studiata: il caso del quantum, in casop di più soggetti lesi]

 Si frappongono a tale risultato più elementi ostativi.

Anzitutto, l’esito indicato non è compatibile con la finalità compensativa e dissuasiva della misura della retroversione degli utili; rispetto a tale connotazione funzionale del rimedio attraverso cui è assicurato sia il ristoro del pregiudizio patrimoniale del danneggiato, sia l’effetto di deterrenza verso la contraffazione dell’operatore economico che si mostri efficiente – risulta debordante il riconoscimento di somme ulteriori a titolo di retroversione degli utili: di somme che si aggiungerebbero, cioè, all’importo già accordato al danneggiato come risarcimento del lucro cessante (ove questo sia superiore all’utile del contraffattore) o come retroversione dell’utile (nel caso opposto in cui il detto utile risulti superiore al mancato guadagno). L’attribuzione di un importo aggiuntivo non trova giustificazione proprio in quanto la finalità compensativa e dissuasiva del rimedio consente di riversare sul contraffattore un obbligo restitutorio che è pari all’utile da lui conseguito (ove superiore al lucro cessante): oltre detta soglia il ristoro perde la sua funzione compensativa e dissuasiva e finisce per piegarsi a una finalizzazione punitiva che, come si visto, è estranea all’istituto.

In secondo luogo, l’utile da prendere in considerazione ai fini che qui interessano deve essere uno, in quanto esso va riferito all'”autore della violazione”: mentre il danno da lucro cessante può assumere diversa consistenza in ragione della pluralità dei soggetti danneggiati, l’utile suscettibile di retroversione ha come referente soggettivo non la persona del danneggiato, ma quella del contraffattore, onde non può mutare di entità per effetto del numero dei soggetti che abbiano risentito un pregiudizio dalla condotta illecita posta in essere.

In definitiva, in presenza di più aventi diritto non si giustifica che l’utile del contraffattore sia assegnato a uno dei danneggiati in aggiunta a quanto già riconosciuto a titolo di risarcimento o di retroversione ad altro danneggiato.

In particolare, nell’ipotesi in cui il lucro cessante già accordato sopravanzi l’utile del contraffattore, è da considerare un preciso indicatore normativo quanto alla non cumulabilità dei rimedi: indicatore che si rinviene nell’art. 125, comma 3, c.p.i. Tale norma configura come alternative le misure del risarcimento del danno e della restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione (pur consentendo la condanna a tale restituzione nel caso in cui gli utili eccedono il risarcimento), onde preclude la sommatoria dei due rimedi. Non rileva, ad avviso del Collegio, che la norma manchi di considerare l’ipotesi, che qui ricorre, della pluralità dei potenziali danneggiati. Sul piano testuale quel che conta è l’opposto: e cioè che la norma non contempli eccezioni al divieto del cumulo. Il dato desumibile dall’interpretazione letterale si salda, poi, con quello ricavato dall’esegesi funzionale: se l’art. 125, comma 3, cit., in una logica cui sono estranei intenti punitivi, intende sottrarre il contraffattore a misure compensative date dalla sommatoria del danno per lucro cessante e dell’arricchimento ingiustificato da lui conseguito, non si vede per quale ragione tale disposizione, nell’ipotesi in cui gli aventi diritto al risarcimento siano più d’uno, debba avere una diversa portata.

Ad analoga conclusione deve pervenirsi nell’ipotesi in cui sia pronunciata condanna alla retroversione degli utili in favore di uno degli aventi diritto e si dibatta della possibilità di emettere analoga statuizione a beneficio di altro danneggiato (fattispecie che potrebbe tornare di attualità, nel presente giudizio, in ragione dell’accoglimento del dodicesimo motivo del ricorso principale e del conseguente accertamento, demandato al Giudice di rinvio, della reale entità del danno risarcibile per lucro cessante che andrebbe risarcito). Con riferimento a questa ipotesi è da ribadire che l’utile retrovertibile è unico, non potendo riprodursi in conseguenza della pluralità dei danneggiati. Ma vale la pena di osservare, in aggiunta, che una diversa soluzione sarebbe, di nuovo, non compatibile con la funzione (solo) compensativa e dissuasiva dell’istituto.

Resta inteso che il divieto riguarda il cumulo delle due misure, onde nulla impedisce che nel computo del danno da lucro cessante da risarcire (e da prendere in considerazione per il raffronto con l’utile, in vista della liquidazione finale) entrino in gioco plurimi elementi patrimoniali, rappresentativi, in diversa misura, del pregiudizio risentito da ciascuno dei diversi danneggiati. E resta inteso, altresì, che il giudice del merito debba comunque valutare come ripartire tra i diversi aventi diritto il risarcimento o l’utile da assegnare.

Deve dunque concludersi nel senso che, in tema di proprietà industriale, nel caso di pluralità di aventi diritto, il contraffattore non può essere tenuto al risarcimento del lucro cessante (siccome superiore agli utili da lui conseguiti) nei confronti di uno dei danneggiati e, insieme, alla retroversione degli utili in favore degli altri, così come non può essere tenuto a una plurima retroversione in favore dei diversi danneggiati, dovendo, semmai, il risarcimento del danno o l’utile retrovertibile oggetto della condanna essere ripartiti tra i diversi aventi diritto>>.

MOL incrementale per la determinazione degli utili da contraffazione di modello + tutela cautelare dei segreti ex art. 98 c.p.i.

Sentenza  Trib. Firenze n° 2143/2023 del 13 luglio 2023, rel. Calvani,  RG 16947/2018 che , per la chiarezza e concisione espositiva (come spessa capita ai maestri di lingua di quella città) e per il vasto  numero di questioni affrontate (sostanziali e processuali) ,  è un ottimo caso-scuola.

Qui riporto solo il breve passaggio sul MOL:

<<Passando alla determinazione degli utili, si ritiene che il criterio basato sul
MOL incrementale sia da considerare il più corretto quando si quantificano gli
utili del contraffattore, perché i costi strutturali o comunque svincolati dalla
contraffazione sarebbero stati sostenuti dalla concorrente anche se non avesse
compiuto l’illecito (TI Milano 10/7/2018).

Ma, se si devono determinare quelli del soggetto danneggiato dalla contraffazione, essi devono scontare tutti i costi, anche fissi, che l’imprenditore sostiene proprio per svolgere la sua attività tipica e che avrebbe sostenuto anche se la concorrenza sleale non fosse stata mai posta in essere>>.

* * * *

Lo stesso relatore poi ha emesso un’ordinanza in altra causa che spiega bene i presupposti di tutela dei segreti aziendali ex art. 98 cpi ed in particolare lo stato di secretazione cui vanno soggette le informazioni.

Si tratta di Trib. Firenze ord. 06.02.2023, RG 14188/2022.

Anche qui stante la chiarezza espositiva e l’analitico esame fattuale il provvedimeo costuisce valida guida per casi analoghi futuri circa il concetto di “misure di secretazione” ex art. 98 c.1 lett. c cpi.

La violazione di norme fiscali comporta nullità civilistica (di trasferimento/licenza di marchio)? No, dice Trib. Milano (con un’applicazione della rivendica ex art. 118 c.1 cod. propr. ind.)

Trib. Milano dep. 16.06.2023 n° 5025/2023, RG 38556/2020, rel. Marangoni:

<<5.1 La questione relativa alla rilevanza di un intento elusivo di norme fiscali sulla validità dei contratti civilistici connessi è stabilmente pervenuta ad un principio di tendenziale non interferenza.
La giurisprudenza formatasi su tale questione – come ricostruita da Cass. SU 23601/17 – aveva rilevato come, in assenza di disposizioni che sancissero testualmente la nullità del negozio giuridico elusivo di una norma tributaria, non fosse nemmeno configurabile una nullità virtuale del contratto per frode alla
legge (art. 1344 c.c.) o per violazione di una norma imperativa (art. 1418, comma 1, c.c.). Ciò in quanto la norma fiscale non avrebbe carattere imperativo, tenuto conto della distinzione tra norme imperative e norme inderogabili, nonché del peculiare carattere settoriale dell’interesse sotteso. Le norme tributarie,
essendo poste a tutela di interessi pubblici di carattere settoriale e non ponendo, in linea di massima, divieti, pur essendo inderogabili, non possono qualificarsi imperative, presupponendo tale qualificazione che la norma abbia carattere proibitivo e sia posta a tutela di interessi generali che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico.
Tale orientamento – ha rilevato ancora Cass. SU 23601/17 – è stato poi recepito dallo stesso legislatore tributario nell’art. 10, comma 3, I. 27 luglio 2000, n. 212 (cd. Statuto dei diritti del contribuente), a mente del quale “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto” mentre il successivo art. 10 bis della stessa I. n. 212 del 2000 (articolo aggiunto legge dall’art. 1 del d.lgs. n. 128 del 5 agosto 2015, che ha abrogato e sostituito l’art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600), stabilisce la mera inopponibilità all’amministrazione finanziaria dei fatti, degli atti e dei contratti che siano sprovvisti di “sostanza economica” e finalizzati, “pur nel
rispetto formale delle norme fiscali” a realizzare “essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.
In assenza di specifica disposizione di legge – nella fattispecie non sussistente – deve dunque confermarsi che le pattuizioni contenute in un contratto che siano dirette ad eludere, in tutto o in parte, la normativa fiscale, non implicano di per sé la nullità del contratto stesso, trovando nel sistema tributario le relative sanzioni (v. Cass. SU 23601/17 cit., Cass. 4785/07, Cass. 17475/20)>>

Suul’art. 118/1 cpi:

<<7. Ritiene il Collegio che le valutazioni innanzi espresse quanto all’inesistenza di diritti sorti in capo a GIADA s.p.a. rispetto alla presunta utilizzazione autonoma dei marchi JACOB COHËN debbano essere estese anche ai segni di fatto rappresentati dal cd “Baffo” e dalle cifre “688”, “613” e “622”, segni che sono stati oggetto di domande di registrazione comunitaria e nazionale da parte della stessa GIADA s.p.a.
Quanto al segno “Baffo”, deve rilevarsi che parte attrice ha depositato documenti dai quali si evince che l’utilizzazione di tale segno era precedente all’inizio della licenza con GIADA s.p.a. (v. docc. da 23 a 26 attr.), mentre per i segni costituiti dalle menzionate cifre risultano depositate fatture So.Ge.Tex s.r.l. – prima licenziataria dei marchi JACOB COHËN – risalenti agli anni 2003/04 che presentavano codici identificativi dei prodotti aventi come cifra iniziale il numero “6” (doc. 88 attr., documenti allegati alla dichiarazione Paolo Soncin).
Ritiene il Collegio che la funzione di marchi accessori e secondari rispetto ai marchi registrati JACOB COHËN che detti segni di fatto per concorde indicazione delle parti hanno rivestito nel corso del lungo rapporto di licenza intercorso tra le parti consenta di ritenere che anche su di essi sia individuabile un uso continuativo e rilevante riconducibile alla titolare dei marchi principali registrati. In effetti GIADA s.p.a. non ha motivato la sua decisione di procedere al deposito formale delle domande di registrazioni di tali marchi se non come conseguenza della sua tesi relativa alla presunta interruzione della catena delle cessioni dei marchi registrati cui sarebbe conseguita la decadenza per non uso degli stessi, situazione che avrebbe consentito ad essa di acquisire in autonomia tutti i diritti su di essi (e quindi anche sui marchi accessori e secondari).
La fondatezza di tale tesi è stata negata e dunque a tale proposito non si può che ritenere che l’uso dei segni di fatto rappresentati dal cd “Baffo” e dalle cifre “688”, “613” e “622” abbiano seguito la stessa  sorte dei marchi registrati, in quanto pacificamente utilizzati sui prodotti oggetto di licenza, realizzati
ed approvati dalla licenziataria e rispetto ai quali tutti i diritti devono ritenersi ad essa spettanti (v. contratto 20.6.2006, in doc. 18 attr.: art. 3.3, in cui il Concessionario si era impegnato a non registrare qualsiasi altro marchio del Concedente o con esso confondibile; contratto di licenza 1.8.2013, in doc. 1
attr.: art. 6.3 che impedisce alla licenziataria la commercializzazione di prodotti che non siano stati approvati dalla licenziante, art. 9.2 che impedisce alla licenziataria di apporre sui prodotti marchi d iversi da quelli licenziati) in quanto utilizzati con il suo consenso.
7.1 Deve dunque riconoscersi la fondatezza del richiamo al primo comma dell’art. 118 c.p.i. svolta da parte attrice per ciò che concerne le domande nazionali di registrazione del segno “Baffo”, rispetto alle quali va affermato che l’uso precedente e continuo di tale segno di fatto – realizzato mediante l’attività
della licenziataria – è riconducibile alla JACOB COHEN COMPANY s.p.a. e che ciò consente di ritenere l’insorgenza in favore della stessa del diritto di procedere alla sua registrazione, diritto che appare violato dai depositi del medesimo segno eseguiti dalla ex-licenziataria>>.

Sull’art. 125 cod. propr. ind.: tra risarcimento del danno e trasterimento dei profitti conseguiti tramite violazione di marchio

Cass. sez. I n° 20.800 del 18 luglio 2023, rel. Caiazzo:

<<Il ricorso incidentale è infondato. Infatti, il titolare del diritto di privativa che lamenti la sua violazione ha facoltà di chiedere, in luogo del risarcimento del danno da lucro cessante, la restituzione (cd. retroversione”) degli utili realizzati dall’autore della violazione, con apposita domanda ai sensi dell’art. 125 c.p.i., senza che sia necessario allegare specificamente e dimostrare che l’autore della violazione abbia agito con colpa o con dolo (Cass., n. 21832/21).
Al riguardo, il soggetto contraffattore, pur avendo agito in mancanza dell’elemento soggettivo (doloso o colposo), deve comunque restituire al titolare gli utili che ha realizzato nella propria attività di violazione, per effetto del rimedio restitutorio, volto a salvaguardare il titolare di un diritto di privativa che rimarrebbe altrimenti privo di tutela laddove la contraffazione fosse causata in assenza dell’elemento soggettivo del dolo e della colpa.
Secondo il ribadito orientamento, se un soggetto commette una contraffazione consapevolmente o con ragionevoli motivi per esserne consapevole, il titolare del diritto violato può ottenere il risarcimento del danno, domandando il danno emergente ed il lucro cessante (ovvero, in alternativa a questo, la restituzione degli utili prodotti dal contraffattore); se, invece, fa difetto l’elemento soggettivo in capo al contraffattore, il titolare della privativa può domandare comunque la
retroversione degli utili.
Il terzo comma dell’art. 125 c.p.i., appunto prevede che «in ogni caso» il titolare del diritto leso possa chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione -evidentemente in forza e in conseguenza della stessa – in alternativa al risarcimento del lucro cessante.
La lettera della norma è inequivocabile nel circoscrivere la forma di ristoro al pregiudizio da lucro cessante, ossia ai mancati guadagni, sicché tale voce può sicuramente cumularsi al risarcimento di quelle di danno emergente.
La norma è altrettanto chiara nell’ammettere la richiesta della retroversione degli utili realizzati dal contraffattore nella misura in cui essi superino il risarcimento del lucro cessante. In tal modo il titolare del diritto può chiedere la restituzione di benefici che egli non avrebbe ritratto anche se la violazione non vi fosse stata, per esempio perché, essendo meno attrezzato, meno efficiente o meno dimensionato rispetto allo sleale e illegittimo competitore, non avrebbe avuto la capacità di operare nello stesso modo sul mercato; il caso inoltre si può
verificare nella materia brevettuale, in cui la titolarità del diritto di proprietà industriale può essere svincolata dallo svolgimento di una attività di impresa, quando l’inventore titolare lamenti la violazione da parte di un imprenditore di una privativa che egli non ha ancora provveduto a realizzare o a far realizzare industrialmente. Il tema è stato indagato da autorevole dottrina, che ha posto in luce l’esigenza di impedire che il contraffattore tragga profitti dal proprio illecito e di prevenire la pianificazione di attività contraffattive da parte di operatori economici più efficienti per capacità imprenditoriale del titolare del diritto di proprietà intellettuale; questi infatti potrebbero, anche in presenza di un sistema che garantisca al titolare una piena compensazione del suo mancato profitto, organizzare una attività di contraffazione di per sé vantaggiosa, pur considerando il loro obbligo di risarcire il titolare del mancato guadagno, contando sul lucro costituito dalla differenza tra il mancato guadagno del titolare ed il proprio maggior profitto.
In tali ipotesi, il ricorso a questa forma di liquidazione forfettaria e rigida del danno allontana il risarcimento [no: non è più un risarcimento!!] dalla tradizionale funzione meramente compensativa ad esso assegnata nel nostro ordinamento, preordinata a ristorare il titolare del diritto da una perdita che non avrebbe subito se la violazione non fosse stata perpetrata, o, quantomeno, da tale sola funzione, avvicinandola sensibilmente a una logica preventiva e dissuasiva dall’illecito, sia pur sempre sotto l’egida del collegamento necessario con la violazione di un diritto assoluto potenzialmente capace di una espansione economica.
In questa prospettiva la retroversione, così come delineata dal legislatore, rivela una evidente analogia (seppur non in termini di completa sovrapposizione delle fattispecie) con i principi che governano l’arricchimento senza causa per l’intento di riallocare la distribuzione di ricchezza in tal modo conseguita fra colui che ha
realizzato dei benefici ingiustificati, sfruttando la privativa altrui, e colui il cui diritto assoluto è stato sfruttato per realizzarli, a prescindere dall’accertamento controfattuale circa il conseguimento di quegli stessi benefici da parte sua, in una sequenza di eventi alternativa. Il legislatore del 2006 ha così introdotto uno strumento rimediale sui generis, di tipo restitutorio, ispirato a una logica composita, in parte compensatoria e in parte dissuasiva/deterrente, che si affianca alla tutela risarcitoria classica, sia pur nella sua declinazione speciale
prevista in materia di proprietà industriale con le regole particolari stabilite nei primi due commi dell’art.125 c.p.i. (Cass., n. 21832/21). Questa conclusione è resa evidente già dalla stessa rubrica del novellato art.125, intitolata al «Risarcimento del danno e restituzione dei profitti dell’autore della violazione» e caratterizzata dal riferimento ai due istituti rimediali>>

La corresponsabilità della piattaforma per violazione di marchio nel diritto USA (sulla willful blindness nel contributory infringement)

Il prof. Eric Goldman segnala l’ appello del 9 circuito 24.07.2023, No. 21-56150, Brand Melville c. Redbubble.

Riporto il passo sull’elemento soggettivo in capo alla piattaforma (REdbubble) per ritenerla responsabile:

<Common to these cases is that willful blindness requires the defendant to be aware of specific instances of infringement or specific infringers. Without that knowledge, the defendant need not search for infringement. General knowledge of infringement on the defendant’s platform—even of the plaintiff’s trademarks—is not enough to show willful blindness. See Tiffany, 600 F.3d at 110 (“eBay appears to concede that it knew as a general matter that counterfeit Tiffany products were listed and sold through its website. . . . Without more, however, this knowledge is insufficient to trigger liability.”). We hold that willful blindness for contributory trademark liability requires the defendant to have specific knowledge of infringers or instances of infringement.
As for Brandy Melville’s contention that Redbubble had a duty to look for infringement, persuasive decisions from other circuits hold that the defendant has no such duty until it gains the specific knowledge necessary to trigger liability. “There is no inherent duty to look for infringement by others on one’s property.” Omega SA, 984 F.3d at 255; see also Hard Rock Cafe Licensing Corp. v. Concession Servs., Inc., 955 F.2d 1143, 1149 (7th Cir. 1992) (The willful blindness standard “does not impose any duty to seek out and prevent violations.”). Instead, willful blindness arises when a defendant was “made aware that there was infringement on its site but . . . ignored that fact.” Omega SA, 984 F.3d at 255 (quoting Tiffany, 600 F.3d at 110 n.15).
Once a defendant knows about specific instances of infringement, “bona fide efforts to root out infringement” could “support a verdict finding no liability, even if the defendant was not fully successful in stopping infringement.” Id. The duty to stop (or root out) infringement does not kick in, however, until the defendant has that specific knowledge. And, again, that duty only covers specific instances of infringement the defendant knows or has reason to know about. See Tiffany, 600 F.3d at 109–10 (holding that addressing specific notices of counterfeit Tiffany products was sufficient, even though eBay “knew as a general matter that counterfeit Tiffany products were listed and sold through its website.”) >>.

Ed allora quando ricorrono bona fide efforts?  <<What constitutes bona fide efforts will vary based on the context. For instance, a reasonable response for a flea market might not be reasonable for an online marketplace with millions of listings. Cf. Coach, Inc. v. Goodfellow, 717 F.3d 498, 504 (6th Cir. 2013) (affirming contributory liability where defendant, the owner and operator of a flea market, “had actual knowledge that the infringing activity was occurring” and knew of “particular vendors” that were infringing yet failed to “deny access to offending vendors or take other reasonable measures”). Removing infringing listings and taking appropriate action against repeat infringers in response to specific notices may well be sufficient to show that a large online marketplace was not willfully blind. See Tiffany, 600 F.3d at 109 (“[A]lthough [notices of claimed infringement] and buyer complaints gave eBay reason to know that certain sellers had been selling counterfeits, those sellers’ listings were removed and repeat offenders were suspended from the eBay site.”)>>.

Da noi va rileverebbe la possibilità di qualificare come colposa la condotta che concorre alla causazione del danno (art. 2043 cc): gli esiti, alla fine, non sarebbero molto distanti.

L’ambito oggettivo protetto è delineato dall’art. 20 c. 2 cpi

Di marchi numerici/alfabetici e di buona fede

Tre notazioni su Trib. Milano n. 6542/2021 del 27 luglio 2021, RG 32332/2016, rel. Fazzini E.:
1°)  <<. Il Collegio ritiene, comunque, che tale eccezione
sia anche infondata, atteso che essa si basa esclusivamente sul fatto che esso sarebbe formato da
semplici lettere dell’alfabeto, “senza alcuna caratteristica di fantasia”, dovendosi ritenere al riguardo
che i marchi numerici (o alfabetici) sono privi di tutela solo quando sono usati per esigenze di
comunicazione imprenditoriale, come per indicare la serie o il tipo di prodotto o la loro quantità, ma
non quando sono utilizzati, come nel caso di specie, in funzione distintiva, tenuto conto che l’art. 7
c.p.i. prevede espressamente che possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa
tutti i segni, in particolare, fra gli altri, le parole, compresi i nomi di persone, i disegni e le lettere. Si
ritiene, in particolare, che il marchio, rappresentato da lettere dell’alfabeto, non possa automaticamente
essere considerato nullo, o comunque debole, essendo, comunque, necessaria la prova contraria da
parte di chi ne contesti la validità come marchio, la quale, nel caso di specie, non è stata in alcun modo
fornita>>

2°)   <<Alla luce di tale motivazione, il Collegio ritiene, pertanto, tenuto conto della pluralità dei casi indicati
da parte attrice e non oggetto di specifica contestazione e del comportamento assunto dal Riva Faccio e
dalla società convenuta anche nelle more del giudizio, continuando a porre in essere atti in violazione
dell’accordo, che sia provata la reiterata violazione degli obblighi negoziali per la palese e insistita
inosservanza sia di quanto sancito specificatamente nel contratto, concluso tra le parti nel novembre
2012, sia del canone della buona fede nella sua esecuzione. Si ritiene, in particolare, alla luce del consolidato indirizzo interpretativo della Suprema Corte, che la buona fede nella esecuzione del
contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in
modo tale da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali,
quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo
limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti
gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte,
nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (cfr. per tutte Cass. 4
maggio 2009, n. 10182). Si ritiene, pertanto, come già affermato anche da questo tribunale, che un
compromesso negoziale fondato anche su particolari piccoli impone alle parti di uniformare i propri
comportamenti a un livello molto elevato di correttezza, tale da evitare che anche in via indiretta si
possano generare o anche solo avallare fraintendimenti ed equivoci (cfr. tribunale di Milano, sentenza
6454/2016, pubblicata il 26.05.2016). La violazione continuata e duratura delle disposizioni
contrattuali, nonché del canone di lealtà costituisce inadempimento contrattuale di indubbia rilevanza e
oggettiva gravità, tale, quindi, da giustificare l’accoglimento della domanda di risoluzione. Trattandosi
di contratto a esecuzione continuata, in conformità della previsione di cui all’art. 1458 c.c., l’efficacia
della pronuncia retroagisce al momento della litispendenza, con conseguente cessazione degli effetti
dei contratti alla data della notificazione dell’atto di citazione introduttivo del presente giudizio,
effettuata in data 20.05.2016 (cfr. Cass. 20894/2014)>>.

3°)  danno da royalties ipotetiche: 15% del fatturato (ammontare assai diffuso)

Danno emergente, lucro cessante e danno non patrimoniale a società commerciale in caso di violazioni di marchio

Cass. sez. 1 del 8 marzo 2023 n. 6876, rel. Catallozzi, Da Peng srl c. Giorgio Armani spa:

<< – ciò posto, si osserva che il danno risarcibile per atto di concorrenza sleale comprende, in applicazione dei criteri generali di cui agli artt. 1223 e 2056 c.c., sia il danno emergente, sia il lucro cessante;

– il primo può consistere nelle spese vanificate dall’illecito (per esempio, le spese pubblicitarie il cui ritorno è stato compromesso dall’attività illecita del concorrente), nelle spese affrontate per ovviare all’illecito (per esempio, le spese sostenute per la scoperta dell’altrui condotta pregiudizievole e per acquisirne la prova; quelle per informare il pubblico dell’altrui illecito) e in quelle imposte dall’esigenza di ovviare al pregiudizio subito dagli asset aziendali per la perdita di valore e/o, della capacità produttività e di penetrazione nel mercato;

– il secondo si risolve essenzialmente nel mancato guadagno del titolare eziologicamente legato alla concorrenza dell’autore della violazione, in relazione alla compressione dei ricavi dovuta alla diminuzione delle vendite – eventualmente anche di prodotti gemellati – o alla erosione del prezzo di mercato del prodotto;

– tali voci di danno vanno tenute distinte dal danno non patrimoniale, consistente nella lesione alla reputazione di un soggetto – ivi incluso una persona giuridica – derivante dalla diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali l’ente interagisca, allorquando l’atto lesivo che determina la proiezione negativa sulla reputazione dell’ente sia immediatamente percepibile dalla collettività o da terzi (cfr. Cass. 26 gennaio 2018, n. 2039; Cass. 25 luglio 2013, n. 18082; sulla risarcibilità del danno non patrimoniale, cfr. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972);

– la distinzione delle diverse voci risarcitorie si impone non solo per esigenze di una loro corretta qualificazione, ma anche per evitare il rischio di duplicazione delle poste risarcitorie;

– va, infatti, scongiurato il pericolo che la generica allegazione della lesione dell’immagine e del prestigio imprenditoriale dia luogo al riconoscimento di poste risarcitorie distinte, seppur relative al medesimo pregiudizio;

– tale pericolo appare particolarmente concreto in ragione della sottile linea di demarcazione tra danno morale da lesione alla reputazione e danno patrimoniale da discredito, da individuarsi, il primo, nel pregiudizio alla corretta identificazione del soggetto che ne è titolare nella sua comunità di riferimento e, il secondo, nel pregiudizio alla produttività e al posizionamento sul mercato;

– la tutela risarcitoria per atti di concorrenza sleale va accordata anche con riferimento alla realizzazione di atti preparatori rispetto a quelli presi in considerazione dall’art. 2598 c.c., avuto riguardo all’esigenza di prevenzione dell’illecito evidenziata dalla previsione del rimedio inibitorio, qualora sia dimostrata l’esistenza di un danno ad essa eziologicamente collegata;

– l’esecuzione di un’attività prodromica – soprattutto se inequivocabilmente orientata alla realizzazione di condotte concorrenziali sleali – può, dunque, di per sé, assumere rilevanza ai fini risarcitori pur in assenza dell’effettivo compimento dell’atto ritenuto illecito, nei limiti in cui la stessa arrechi pregiudizio al concorrente;

– qualora, poi, come nel caso in esame, il pregiudizio riguardi l’immagine e l’apprezzamento che i consumatori nutrono per i prodotti commercializzati con un determinato segno distintivo, la vittima ha diritto al risarcimento non solo del danno emergente e del danno non patrimoniale, in presenza dei presupposti indicati in precedenza, ma anche del danno da lucro cessante, laddove la condotta illecita abbia determinato una contrazione dei suoi ricavi o, comunque, una incidenza sul relativo importo;

– da ciò consegue che la decisione della Corte di appello, nella parte in cui ha ritenuto compatibile l’esistenza di un danno da lucro cessante con una condotta illecita confusoria realizzata mediante il compimento di soli atti prodromici (e in assenza, dunque, della commercializzazione dei relativi prodotti), non si pone in contrasto con le regole di diritto che presiedono alla liquidazione dei danni da concorrenza sleale; >> .

Un paio di osservazioni:

i) ex art. 20.2 cpi anche la detenzione a fini di successiva commercializzazione rientra nella esclusiva;

ii) il danno non patrimoniale in un ente, contrattualmente creato per fare profitto, rimane da spiegare

Risarcimento del danno, trasferimento dei profitti e restituzione dell’indebito: brevissime sui rimedi contro la contraffazione brevettuale (art.. 125 cod. propr. ind.)

Mero accenno a temi complessi in Cass. sez. 1 n_ 1692 del 19.01.2023, rel. Valentino D., in tema di risarcimento del danno da violazione brevettuale (a seguito di un lunghissimo processo: fatti del 1992/3 !!)

Premessa generale: <<In generale, è pur vero che questa Corte ha costantemente ribadito che la liquidazione in via equitativa è legittima solo a condizione che l’esistenza del danno sia comunque dimostrata, sulla scorta di elementi idonei a fornire parametri plausibili di quantificazione e che la liquidazione equitativa del danno presuppone l’esistenza di un danno risarcibile certo (e non meramente eventuale o ipotetico), nonché vi sia l’impossibilità, l’estrema o la particolare difficoltà di provarlo nel suo preciso ammontare in relazione al caso concreto (ex multis Cass., n. 5956 del 2022). Invero, il giudice che opta per tale valutazione deve adeguatamente dar conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito, restando, poi, inteso che al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo, occorre che il giudice indichi, anche solo sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti, per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al quantum (Cass., n. 12009/2022).

In particolare, però, in tema di lesione del diritto dell’inventore del brevetto questa Corte ha più ribadito che il danno va liquidato sempre tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto, vale a dire considerando il margine di profitto conseguito, deducendo i costi sostenuti dal ricavo totale. In particolare, in tale ambito, il criterio della “giusta royalty” o “royalty virtuale” segna solo il limite inferiore del risarcimento del danno liquidato in via equitativa che però non può essere utilizzato a fronte dell’indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi ragionevoli criteri equitativi, il tutto nell’obiettivo di una piena riparazione del pregiudizio risentito dal titolare del diritto di proprietà intellettuale (Cass., n. 5666/2021; Cass., n. 20236/2022).>>

Ricorda poi che <<Questa Corte (Cass., n. 4048 del 2016) aveva, già, affermato la regola iuris secondo cui, “in tema di valutazione equitativa del danno subito dal titolare del diritto di utilizzazione economica di un’opera dell’ingegno, non è precluso al giudice il potere dovere di commisurarlo, nell’apprezzamento delle circostanze del caso concreto, al beneficio tratto dall’attività vietata, assumendolo come utile criterio di riferimento del lucro cessante, segnatamente quando esso sia correlato al profitto del danneggiante, nel senso che questi abbia sfruttato a proprio favore occasioni di guadagno di pertinenza del danneggiato, sottraendole al medesimo”.>>

Principio di diritto per il giudice di rinvio:

“In tema di proprietà industriale, in caso di lesione del diritto dell’inventore al proprio brevetto, il danno accertato va liquidato tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto, vale a dire considerando il margine di profitto conseguito dal contraffattore, deducendo i costi sostenuti dal ricavo totale. In particolare, in tale ambito, il criterio della “giusta royalty” o “royalty virtuale” segna solo il limite inferiore del risarcimento del danno liquidato in via equitativa, che però non è sufficiente a dar conto del suo ammontare a fronte dell’indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi e ragionevoli criteri, per la sua liquidazione, allo scopo di giungere a una piena riparazione del pregiudizio risentito dal titolare del diritto di proprietà intellettuale”.

Sentenza non positiva, buttando qua e là senza spiegazione concetti complessi come risarcimento del danno, profitti del violatore e royalty ragionevole.

 Motivazione esiguissima se non inesistente , anche perchè quasi mero collage di propri precedenti senza speigazione del relatore.

Confusione sui concetti di risarcimento del danno e retroversine degli utili in una sentenza di accerttasmento di contraffazione di modelli

Viene data diffusione a Trib. Bologna sez. spec. impr. 26.02.2022 n. 442/2020, Rg 11681/2016, rel. Serra, che decide una lite in tema di violazione di modello (meglio;: disegno, trattandosi di stoffe) comunitario ex reg. 6/2002.

La sentenza fa un pò di confusione nel maneggiare i due concetti in oggetto:

<< 6. Con riferimento al calcolo del risarcimento del danno cagionato dalla condotta illecita fin qui esaminata, l’attrice ha proposto quattro criteri di quantificazione: quello del lucro cessante (relativo al guadagno che avrebbe ottenuto se avesse venduto i capi contraffatti al proprio prezzo di rivendita), quello della retroversione degli utili, quello delle royalties e infine quello equitativo.

Il Collegio ritiene di dover applicare il criterio della retroversione degli utili in quanto, con riferimento al parametro indicato in via principale dall’attrice, è necessario considerare che non ogni vendita del contraffattore si è necessariamente convertita in un mancato acquisto del capo di Teddy spa, soprattutto in virtù del fatto che il prezzo sensibilmente più alto di quest’ultimo (pari al doppio di quello del capo delle convenute) induce a ritenere che una quota di pubblico non lo avrebbe comunque acquistato.
Utilizzando quindi il parametro della retroversione degli utili, si deve procedere sottraendo il prezzo di acquisto del capo all’ingrosso (pari a € 13,00) dal prezzo di rivendita al pubblico (pari a € 48,99).

È necessario altresì sottrarre la quota corrispondente ai presumibili costi sostenuti da Distribuzione Carillo srl per la commercializzazione del capo, che si stimano nel 5% del prezzo di rivendita dello stesso. Il risultato deve poi essere moltiplicato per il numero dei capi contraffatti prodotti da New Melody srl e venduti a Distribuzione Carillo srl (n. 461), posto che i 129 che sono stati restituiti da quest’ultima al produttore non sono stati comunque messi nella disponibilità dell’attrice, come da lei più volte richiesto a ulteriore garanzia del proprio diritto.
Il risultato del predetto calcolo è pari a € 15.462,17, a cui si aggiungono gli interessi e la rivalutazione monetaria dalla domanda al saldo
>>

Risarcimento del danno è una cosa, retroversione degli utili è un’altra (pena privata o arricchimento senza causa). Lo si desume anche dal tenore dell’art. 125 cpi, pur se  mal scritto.   La confusione è stata probabilmente favorita dall’attore, che aveva unificato i quattro concetti come meri criteri possibili per determinare il risarimento del danno.

Altro punto.  Alla differenza tra costo di acquisto e prezzo di vendita sottrae i costi di distribuzine: nessun cenno, però,  a come siano stati determinati nè all’esistenza di  altri costi (generali) da conteggiare. Non a caso , credo, non si menziona alcuna ctu (forse non disposta per l’esiguità degli importi)

Istruttiva sentenza bolognese sulla disciplina brevettuale , rimedi compresi

Trib. Bologna n. 258/2021, RG 20004/2013, del 03 febbraio 2021, rel. Rimondini, offre un’utile panoramica delle questioni da trattare nei giudizi brevettuali.

– p. 17-19:  ripasso dei requisiti di brevettabilità

– modalità del rinvio alle ctu: < Il Tribunale non ha pertanto
motivi per discostarsi dalle considerazioni del consulente, in quanto frutto di un
iter logico ineccepibile e condotto in modo accurato, in aderenza ai documenti,
agli atti e allo stato di fatto analizzato
>, p. 23

– limitazione delle rivendicaizoni ex 76/3 cpi: senpre ammessa,   <purchè la stessa non sia posta in modo
abusivo e reiterato e rimanga entro i limiti del contenuto della domanda di
brevetto originaria (cfr. Tribunale Bologna, Sezione Specializzata in materia di
Impresa, 21.3.2018, n. 1223, in
www.giuraemilia. >, p. 26

– la descrizione può essere anche più più ampia della rivendicaizone dipendente: p. 27

– esclusa l’assegnazione in proprietà perchè inibitoria e ritiro dal commercio, disposte, son sufficienti per adeguata tutela, p. 32: questione interessante (in effetti la legge dà discrezionalità al giudice)

– concorrenza sleale ex 2598 n. 3 cc: esclusa per genericità della domanda: < Al riguardo va osservato che l’azione di contraffazione e quella di
concorrenza sleale sono certamente cumulabili, ma nel caso in esame l’azione ex
art. 2598 c.c. deve ritenersi infondata. Parte attrice, infatti, si è limitata a dedurre
tempestivamente solo che la realizzazione e commercializzazione di macchinari in
contraffazione con i diritti di privativa di Projecta integrava l’illecito
concorrenziale. Tale indicazione deve ritenersi troppo generica, non individuando
i fatti costitutivi alla base della domanda di concorrenza sleale
>. Affermazione assai perplessa, dato che la slealtà è in re ipsa dopo accertata la contraffazione. Semmai il problema è che il comando da c.p.i. copre quello emanabile da conc. sleale ex c.c., senza dare nulla in più : ma andava detto e motivato.

– negato il risarcimento del danno patrimoniale ex 125 c.1 cpi: < Nel caso in esame Projecta non ha tempestivamente compiuto alcuna
allegazione, neppure a livello generico, riguardo alla suscettibilità della
contraffazione a determinarle un danno, essendosi limitata – in tutti i tre i giudizio
– a dedurre che la contraffazione aveva per ciò solo procurato un danno, da
ragguagliare al valore complessivo del prodotto in contraffazione. La genericità di
tale allegazione non consente di apprezzare se vi sia stato, anche solo
potenzialmente, un danno, tenuto conto che – come eccepito da parte convenuta
fin dalla comparsa di risposta – Projecta non ha neppure allegato di sfruttare
commercialmente i propri titoli di privativa.
>>

– negato anche il danno non patriminiale sempre ex 125 c. 1 cpi: < L’attrice ha inoltre invocato l’art. 125, I comma, c.p.i. per il risarcimento
del danno non patrimoniale, che la norma in esame riconosce solo “nei casi
appropriati”. Il danno non patrimoniale, dunque, non sussiste in ogni ipotesi di
violazione di diritti di proprietà industriale, ma solo se la reputazione aziendale sia
stata pregiudicata dalla circolazione di prodotti contraffatti. Tale circostanza –
neppure dedotta specificamente dall’attrice – non pare ricorrere nell’ipotesi in
esame e, conseguentemente, la relativa richiesta va respinta.
>. Da segnalare: il d. non patrimoniale coincide con la lesione della reputazione.

– negato il danno, è negata anche la pubblicità alla sentenza: < Projecta ha domandato la pubblicazione della presente sentenza. L’art. 126
c.p.i. consente all’autorità giudiziaria di ordinare che la sentenza di accertamento
della violazione dei diritti di proprietà industriale di pubblicare la sentenza a spese
del soccombente. La pubblicazione della sentenza ha funzione di risarcimento in
forma specifica del danno (cfr. Cass., sez. I, 14.10.2009, n. 21835) e,
conseguentemente, l’infondatezza della domanda risarcitoria non consente di fare
applicazione dell’art. 126 c.p.i
>