Danno emergente, lucro cessante e danno non patrimoniale a società commerciale in caso di violazioni di marchio

Cass. sez. 1 del 8 marzo 2023 n. 6876, rel. Catallozzi, Da Peng srl c. Giorgio Armani spa:

<< – ciò posto, si osserva che il danno risarcibile per atto di concorrenza sleale comprende, in applicazione dei criteri generali di cui agli artt. 1223 e 2056 c.c., sia il danno emergente, sia il lucro cessante;

– il primo può consistere nelle spese vanificate dall’illecito (per esempio, le spese pubblicitarie il cui ritorno è stato compromesso dall’attività illecita del concorrente), nelle spese affrontate per ovviare all’illecito (per esempio, le spese sostenute per la scoperta dell’altrui condotta pregiudizievole e per acquisirne la prova; quelle per informare il pubblico dell’altrui illecito) e in quelle imposte dall’esigenza di ovviare al pregiudizio subito dagli asset aziendali per la perdita di valore e/o, della capacità produttività e di penetrazione nel mercato;

– il secondo si risolve essenzialmente nel mancato guadagno del titolare eziologicamente legato alla concorrenza dell’autore della violazione, in relazione alla compressione dei ricavi dovuta alla diminuzione delle vendite – eventualmente anche di prodotti gemellati – o alla erosione del prezzo di mercato del prodotto;

– tali voci di danno vanno tenute distinte dal danno non patrimoniale, consistente nella lesione alla reputazione di un soggetto – ivi incluso una persona giuridica – derivante dalla diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali l’ente interagisca, allorquando l’atto lesivo che determina la proiezione negativa sulla reputazione dell’ente sia immediatamente percepibile dalla collettività o da terzi (cfr. Cass. 26 gennaio 2018, n. 2039; Cass. 25 luglio 2013, n. 18082; sulla risarcibilità del danno non patrimoniale, cfr. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972);

– la distinzione delle diverse voci risarcitorie si impone non solo per esigenze di una loro corretta qualificazione, ma anche per evitare il rischio di duplicazione delle poste risarcitorie;

– va, infatti, scongiurato il pericolo che la generica allegazione della lesione dell’immagine e del prestigio imprenditoriale dia luogo al riconoscimento di poste risarcitorie distinte, seppur relative al medesimo pregiudizio;

– tale pericolo appare particolarmente concreto in ragione della sottile linea di demarcazione tra danno morale da lesione alla reputazione e danno patrimoniale da discredito, da individuarsi, il primo, nel pregiudizio alla corretta identificazione del soggetto che ne è titolare nella sua comunità di riferimento e, il secondo, nel pregiudizio alla produttività e al posizionamento sul mercato;

– la tutela risarcitoria per atti di concorrenza sleale va accordata anche con riferimento alla realizzazione di atti preparatori rispetto a quelli presi in considerazione dall’art. 2598 c.c., avuto riguardo all’esigenza di prevenzione dell’illecito evidenziata dalla previsione del rimedio inibitorio, qualora sia dimostrata l’esistenza di un danno ad essa eziologicamente collegata;

– l’esecuzione di un’attività prodromica – soprattutto se inequivocabilmente orientata alla realizzazione di condotte concorrenziali sleali – può, dunque, di per sé, assumere rilevanza ai fini risarcitori pur in assenza dell’effettivo compimento dell’atto ritenuto illecito, nei limiti in cui la stessa arrechi pregiudizio al concorrente;

– qualora, poi, come nel caso in esame, il pregiudizio riguardi l’immagine e l’apprezzamento che i consumatori nutrono per i prodotti commercializzati con un determinato segno distintivo, la vittima ha diritto al risarcimento non solo del danno emergente e del danno non patrimoniale, in presenza dei presupposti indicati in precedenza, ma anche del danno da lucro cessante, laddove la condotta illecita abbia determinato una contrazione dei suoi ricavi o, comunque, una incidenza sul relativo importo;

– da ciò consegue che la decisione della Corte di appello, nella parte in cui ha ritenuto compatibile l’esistenza di un danno da lucro cessante con una condotta illecita confusoria realizzata mediante il compimento di soli atti prodromici (e in assenza, dunque, della commercializzazione dei relativi prodotti), non si pone in contrasto con le regole di diritto che presiedono alla liquidazione dei danni da concorrenza sleale; >> .

Un paio di osservazioni:

i) ex art. 20.2 cpi anche la detenzione a fini di successiva commercializzazione rientra nella esclusiva;

ii) il danno non patrimoniale in un ente, contrattualmente creato per fare profitto, rimane da spiegare

Il mancato guadagno nel caso di recesso con preavviso insufficiente: precisazione bolognese

In una complessa lite tra una società della grande distribuzione organizzata e un suo fornitore di frutta, Trib. Bologna sent. n,. 1532/2022 del 10.06.2022, , RG 645/2017, offre un interessante passaggio sull’oggetto

<< 1. Il danno conseguente all’illecito azzeramento degli ordini di pere estere nell’inverno del 2014 può
essere commisurato all’utile netto, che Celox avrebbe ricavato dalla ricezione di un quantitativo di
ordini prossimo a quello degli ordini ricevuti in passato.
A tale fine deve considerarsi che, nel 2013, il fatturato relativo alle pere estere era stato di €
943.046,00.
Assumendo, secondo nozioni di comune esperienza, che l’utile netto possa determinarsi in misura
prossima al 10% del fatturato, il danno può essere calcolato in € 90.000,00 considerato che non vi
erano obblighi minimi di acquisto e che non ogni riduzione degli ordini è da considerarsi illecita, ma
solo il loro azzeramento.
2. Il danno conseguente all’inadeguatezza del preavviso può essere commisurato all’utile netto, che
C. avrebbe ricavato dalla regolare esecuzione del rapporto per il periodo di un anno (termine di
recesso adeguato).
La regolare esecuzione del rapporto avrebbe comportato la ricezione, appunto per un anno, di ordini di
pere, estere e italiane, in linea con quelli dell’anno precedente.
La prestazione offerta dalle convenute consisteva nella prosecuzione dell’attività di acquisto per le sole
pere nazionali e per soli mesi nove.
Il danno imputabile alle convenute può quindi essere determinato nell’utile netto ricavabile dalle pere
estere nel corso di un anno (ancora € 90.000,00) e in un quarto dell’utile annuale ricavabile dalle pere
nazionali.
Per le pere nazionali la mancata percezione dell’utile corrispondente all’intero periodo è infatti dipesa
dalla decisione di Celox di recedere con effetto immediato dal contratto e non da un rifiuto della
prestazione da parte di … [la GDO]
Il fatturato relativo alle pere nazionali è stato, nel 2013, pari a € 1.914.673; un quarto del fatturato è
pari a € 478.668.25; il 10% di un quarto è pari a € 47.866 circa, arrotondabili per difetto a € 40.000,00
in mancanza, come si è detto, dell’obbligo di un minimo di acquisto
>>

Soprende la stima nel 10 per cento dell’utile , qualificata come <nozione di comune esperienza> (fatto notorio, art. 115/2 cpc).

Ci pare errata perchè priva di fondamento. Serviva quindi istruttoria sul punto e, se l’attore non l’avesse dedotta, il giudice avrebbe dovuto rigettare o al massimo condannare solo nell’AN (condanna genrica art. 282 cpc).

Non si pone poi il problema della tassazione di tale credito da sentenza per utili non percepiti e quindi del se e del come il comando giudiziale debba tenerne  conto

Violazione di marchio, determinazione del danno e rifiuto di ostensione delle scritture contabili da parte dei convenuti

Il Trib. Milano (poi: T.)  con sentenza 29.03.2021 n. 2622/2021-RG 47381/2015, Alfredo Salvatori srl c. fall. Stone Project srl e altri, ha deciso una lite su violazione di marchio.

Qui interessa riferire della questione della determinazione del danno (da lucro cessante), resa complicata dal fatto che i covnenuti si erano rifiutati di produre le scritture contabili: pertanto di forte interesse pratico.

Il T. non si ferma per questo e adotta il criterio equitativo ex art. 1226 cc (e 125 cpi) nei seguent itermini, p. 10 ss.

Non potendo adottare quello consueto del margine opertivo lordfo  MOL (il quale si ottiene moltiplicando il prezzo praticato dal titolare del diritto leso per il numero di pezzi venduti dal contraffattore, al netto dei costi variabili che il titolare avrebbe sostenuto per la produzione dei prodotti interessati), ha usato i dati desumibili dai bilancio depositati in CCIAA.

Ha inoltre tratto altre informazioni (numero di prodotti venduti) dal sito delle stesse convenute.

Ha quindi individuato quali siano stati i ricavi dei prodotti recanti il marchio contraffatto (ricavo unitario)

Fatto ciò, il tribunale ha ritenuto condivisibile <<quanto indicato da parte attrice circa l’utilizzo del criterio del giusto prezzo, il quale consente di determinare il lucro cessante in un importo non inferiore a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso. Nel caso in esame, tale royalty deve essere determinata equitativamente, in considerazione del vantaggio che altrimenti ne deriverebbe per il contraffattore nel vedersi assicurata una licenza “obbligatoria” senza sostenere i relativi costi e oneri>>.

Passando all’ammontare, il T. ha ritenuto <<congrua applicare una royaltydeterminata nella misura pari al 15% del fatturato, tenuto conto sia della rilevanza del marchio silk georgette, comprovato dal fatto che diversi operatori del settore avevano scelto di utilizzare tale segno per contraddistinguere i medesimi prodotti, sia di una maggiorazione dovuta alla illiceità della condotta delle convenute, con la conseguenza che il valore della licenza di uso deve essere determinato per Granitasia Srl in € 24.941,748 (15% di € 166.278,32) e per Abitare Marmo Srl in € 13.090,968 (15% di € 87.273,12). Le somme così determinate sono onnicomprensive di interessi e di rivalutaizone>>

Si tratta di ammontare frequente nelle licenze volontarie.

Ha poi liquidato euro 8.000,00 a titolo di danno morale (in solido tra i convenuti), espressamente ammesso dall’art. 125/1 cpi.

Rimedio risarcitorio per falsa allegazione di violazione ex art. 512.f DMCA

Secondo il safe harbour di cui al § 512.f DMCA statunitense,  il denunciante risponde dei danni se è stato “calunnioso” potremmo dire. Precisamente così recita la disposizione :

< (f) MISREPRESENTATIONS — Any person who knowingly materially misrepresents under this section— (1) that material or activity is infringing, or (2)that material or activity was removed or disabled by mistake or misidentification >.

La corte del distretto nord della California applica la norma e concede il risarcimento di danno e la condanna alle spese legali ( pare sia una delle poche sentenze in tale senso): US District Court NORTH. DIST. OF CALIFORNIA  – San Francisco Division , The California Beach Co. v. Du, Oct. 6, 2020, caso n° 19-cv-08426-YGR(LB).

La società istante, a seguito di denuncia del sig. Du , aveva avuto sospesi i propri account in Facebook, Instagram e Amazon, che costituivano il mezzo principale delle proprie vendite (il 98 % mensile delle entrate derivava dai primi due).

La sentenza entra poi nel merito del calcolo del lucro cessante e trova congrua la quantificazione di $ 317.000,00 (316,991) e di $ 51.474 per spese legali.

(notizia della sentenza appresa dal blog del prof. Eric Goldman).