Danno biologico e danno morale nelle micropermanenti

Cass. sez. III, 20/05/2025  n. 13.383, rel. Fiecconi:

<<6.5. Tuttavia, questa Corte ha avuto anche modo di chiarire che al riconoscimento di danni biologici di lieve entità deve corrispondere un maggior rigore nell’allegazione e nella prova delle conseguenze dannose concretamente rivendicate, dovendo in caso contrario ritenersi normalmente assorbite, nel riscontrato danno biologico di lieve entità (salva la rigorosa prova contraria), anche le conseguenze astrattamente considerabili sul piano del c.d. danno morale (Cass. Sez. 3, ord. n. 5547 del 1 marzo 2024).

6.1. Sul punto, occorre peraltro sottolineare l’incongruenza tra quanto correttamente enunciato dalla Corte di merito in linea di principio e quanto nei fatti operato, là dove il giudice, dopo avere personalizzato il danno nella misura massima consentita per le micro-permanenti ex artt. 138 e 139 CdA (20%), proprio sulla base delle circostanze dedotte dal ricorrente, ha comunque riconosciuto una minor parte di danno morale (pari a Euro 623,83) senza offrire alcuna ragione a supporto di tale riconoscimento, seppur riducendolo rispetto a quanto liquidato dal primo giudice a tale titolo (Euro 2.000,00).

6.2. Tale esito, tuttavia, risulta intangibile in quanto non oggetto di censura da parte dell’ente debitore e, in parte, corrispondente a quanto preteso dal ricorrente, il quale però assume di avere diritto al riconoscimento di un danno maggiore anche sotto questo profilo.

6.3. Posta questa necessaria premessa, il principio enunciato dalla Corte di merito, in linea generale, si pone nel solco dell’orientamento, ispirato dai diritti fondamentali e universalmente riconosciuti alla persona, secondo cui non costituisce duplicazione risarcitoria la differente autonoma valutazione del danno alla persona compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute, come stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 235 del 2014, punto 10.1 e s. (ove si legge che la norma di cui all’art. 139 cod. ass. “non è chiusa anche al risarcimento del danno morale”), e come oggi normativamente confermato dalla nuova formulazione dell’art. 138 lett. e), cod. ass., introdotta – con valenza evidentemente interpretativa – dalla legge di stabilità del 2016.

6.4. Tuttavia, come anzidetto, la fattispecie in esame dimostra che la Corte di merito è incorsa in un errore metodologico nell’applicare in concreto i suddetti principi operando una sorta di automatico riconoscimento del danno morale dopo avere operato la personalizzazione del danno biologico nella misura massima, non supportando tale applicazione con un’idonea motivazione.

6.5. Sicché la motivazione resa rappresenta l’occasione per chiarire altresì che il principio dell’autonoma riconoscibilità del danno morale, ravvisabile “anche” nelle lesioni micro-permanenti regolate dal Codice delle assicurazioni (cfr. Corte Cost 235/2014 cit.), diversamente da quanto avviene per le lesioni più rilevanti, normalmente non abbia alcuna ragion d’essere quandanche sia stata già operata, in aumento, la massima personalizzazione del danno biologico permanente, e ciò per evitare che si attui una doppia valutazione di una componente del micro-danno (la personalizzazione) che già idealmente racchiude in sé tutti i risvolti aggiuntivi di compromissione morale ed esistenziale che, in alcuni casi, si possono verificare anche con riguardo alle micro-lesioni, come nel caso di specie riconosciuto nella misura massima dai giudici di merito.

6.6. In altri termini, ciò che si vuole affermare in questa sede è che, nel campo delle lesioni micro-permanenti, il bilanciamento dei valori da considerare nel risarcire il danno complessivo è già stato operato dal legislatore nell’ammettere una personalizzazione del danno nella misura massima del 20% e, pertanto, una ulteriore automatica considerazione di un differente fattore di incremento del danno non patrimoniale da risarcire non sarebbe coerente con un sistema tutto incentrato sul concetto: – a. di unitarietà del danno rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica; – b. di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative in pejus della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e procedendo, a seguito di articolata, compiuta ed esaustiva istruttoria, ad un accertamento concreto e non astratto del danno, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi li fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni (cfr. per tutte, Cass. Sezioni Unite n. 29672-5 del 2008).

6.7. Vero è dunque che la giurisprudenza, rispetto ai danni alla persona che non rientrano nelle cd micro-permanenti, ha da sempre considerato autonomamente liquidabile la componente attinente alla sofferenza interiore, ove provata, non ammettendo che esso possa presumersi assorbito anche da una un’operazione di personalizzazione in aumento del medesimo (cfr. da ultimo anche Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 7892 del 22/03/2024; Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 6444 del 03/03/2023; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 4878 del 19/02/2019).

6.8. Tuttavia, è anche vero che la possibilità di invocare il valore rappresentativo della lesione psico-fisica (in sé considerata come danno biologico) alla stregua di un elemento presuntivo suscettibile di (concorrere a) legittimare l’eventuale riconoscimento di un coesistente danno morale (v. Cass. 10/11/2020, n. 25164), deve ritenersi tanto più limitata quanto più ridotta, in termini quantitativi, si sia manifestata l’entità dell’invalidità riscontrata, attesa la ragionevole e intuibile idoneità di fatti lesivi di significativa ed elevata gravità a provocare forme di sconvolgimento o di debordante devastazione della vita psicologica individuale (ragionevolmente tali da legittimare il riconoscimento dalla compresenza di un danno morale accanto a un danno biologico), rispetto alla corrispettiva idoneità delle conseguenze limitate a un danno biologico di moderata entità ad assorbire, secondo un criterio di normalità (e sempre salva la prova contraria), tutte le conseguenze riscontrabili sul piano psicologico, ivi comprese quelle misurabili sul terreno del c.d. danno morale (cfr., su questo specifico aspetto, Cass., Sez. 3, ord. n. 6444 del 03/03/2023).

6.9. Da quanto sopra segue la necessità di affermare il seguente principio, declinabile sul piano concettuale e non solo probatorio, secondo cui, “al riconoscimento di danni biologici di lieve entità corrisponde un maggior rigore nell’allegazione e nella prova delle conseguenze dannose concretamente rivendicate, dovendo ritenersi presumibilmente assorbito, nel riscontrato danno biologico di lieve entità, il danno morale laddove sia stata già riconosciuta una personalizzazione del danno biologico nella misura massima”  >>.

Questioni in tema di ius sepulchri: sulla duplice distintizione tra sepolcro familiare (o gentilizio) e sepolcro cd. ereditario, da una parte, e tra diritto primario e diritto secondario al sepolcro, dall’altra

Ripasso sul tema in Cass. sez. II, 10/06/2025  n. 15.432, rel. Oliva:

sul primo tema:

<<Occorre prendere le mosse dal principio, richiamato anche dalla sentenza impugnata, secondo cui “Nel sepolcro ereditario lo ius sepulchri si trasmette nei modi ordinari, per atto inter vivos o mortis causa, come qualsiasi altro diritto, dall’originario titolare anche a persone non facenti parte della famiglia, mentre in quello gentilizio o familiare -tale dovendosi presumere il sepolcro, in caso di dubbio- lo ius sepulchri è attribuito, in base alla volontà del testatore, in stretto riferimento alla cerchia dei familiari destinatari di esso, acquistandosi dal singolo iure proprio sin dalla nascita, per il solo fatto di trovarsi col fondatore nel rapporto previsto dall’atto di fondazione o dalle regole consuetudinarie, iure sanguinis e non iure successionis, e determinando una particolare forma di comunione fra contitolari, caratterizzata da intrasmissibilità del diritto, per atto tra vivi o mortis causa, imprescrittibilità e irrinunciabilità. Tale diritto di sepolcro si trasforma in ereditario con la morte dell’ultimo superstite della cerchia dei familiari designati dal fondatore, rimanendo soggetto, per l’ulteriore trasferimento, alle ordinarie regole della successione mortis causa” (Cass. Sez. U, Ordinanza n. 17122 del 28/06/2018, Rv. 649495, che ha ritenuto che il diritto di sepolcro, contemplato nella scheda testamentaria, andasse qualificato come gentilizio poiché il testatore aveva in esso espresso la volontà che la tomba ospitasse l’intera famiglia dei cugini, se essi l’avessero voluto, sicché la ricorrente ne era divenuta titolare ancorché non erede dell’originario fondatore del sepolcro).

Nello stesso senso, questa Corte aveva affermato, già prima dell’arresto delle Sezioni Unite del 2018 appena richiamato, che “Lo ius sepulchri, cioè il diritto alla tumulazione (autonomo e distinto rispetto al diritto reale sul manufatto funerario o sui materiali che lo compongono), deve presumersi di carattere non ereditario, ma familiare, in difetto di specifica diversa volontà del fondatore, e quindi considerarsi sottratto a possibilità di divisione o trasmissione a terzi non legati iure sanguinis al fondatore medesimo, mentre resta in proposito irrilevante la eventuale cedibilità prevista nel regolamento o nell’atto di concessione comunale. A tal fine l’individuazione della natura di una cappella funeraria come sepolcro familiare o gentilizio oppure come sepolcro ereditario costituisce apprezzamento di mero fatto non suscettibile di sindacato in sede di legittimità, qualora sorretto da motivazione sufficiente e immune da vizi logico – giuridici” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1789 del 29/01/2007, Rv. 595720).

Esiste dunque una differenza fondamentale tra sepolcro familiare o gentilizio, in relazione al quale lo ius sepulchri si acquista per volontà del fondatore e prescinde dalle vicende legate alla successione di questi, e sepolcro cd. ereditario, poiché in relazione a quest’ultimo “… lo ius sepulchri si trasmette nei modi ordinari, per atto inter vivos o mortis causa, come qualsiasi altro diritto, dall’originario titolare anche a persone non facenti parte della famiglia, mentre nel sepolcro gentilizio o familiare -tale dovendosi presumere il sepolcro, in caso di dubbio- lo ius sepulchri è attribuito, in base alla volontà del testatore, in stretto riferimento alla cerchia dei familiari destinatari del sepolcro stesso, acquistandosi dal singolo iure proprio sin dalla nascita, per il solo fatto di trovarsi col fondatore nel rapporto previsto dall’atto di fondazione o dalle regole consuetudinarie, iure sanguinis e non iure successionis, e determinando una particolare forma di comunione fra contitolari, caratterizzata da intrasmissibilità del diritto, per atto tra vivi o mortis causa, imprescrittibilità e irrinunciabilità. Tale diritto di sepolcro si trasforma da familiare in ereditario con la morte dell’ultimo superstite della cerchia dei familiari designati dal fondatore, rimanendo soggetto, per l’ulteriore trasferimento, alle ordinarie regole della successione mortis causa” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7000 del 08/05/2012, Rv. 622129, che ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito che, correttamente motivando, aveva dichiarato l’avvenuta trasformazione del sepolcro da familiare ad ereditario sulla scorta dei comportamenti tenuti dai discendenti nei confronti del Comune, titolare del potere concessorio sull’area cimiteriale, ritenuti compatibili esclusivamente con la successione ereditaria nei diritti relativi alla tomba di famiglia).

Una volta accertato che si configuri un sepolcro gentilizio, se del caso applicando la presunzione affermata dalle Sezioni Unite di questa Corte con la già richiamata Ordinanza n. 17122 del 28/06/2018, Rv. 649495, occorre anche tener conto del principio secondo cui “In assenza di disposizioni specifiche da parte del fondatore, lo ius sepulchri d’indole gentilizia spetta, oltre che al fondatore stesso, ai componenti del nucleo familiare strettamente inteso, nel quale debbono farsi rientrare tutte le persone legate al fondatore da vincolo di sangue o legate tra loro da vincoli di matrimonio. Tale diritto, pur non essendo precisato in una disposizione di legge, trova il suo fondamento in un’antica consuetudine, conforme al sentimento comune, e nelle esigenze di culto e pietà dei defunti che, quando esercitate dai prossimi congiunti, realizzano, allo stesso tempo, la tutela indiretta di un interesse concernente la persona del defunto e l’esigenza sociale di far scegliere ai soggetti più interessati la località ed il punto ove manifestare i sentimenti di devozione verso il parente deceduto” (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8020 del 22/03/2021, Rv. 660987, che ha escluso il diritto della nuora della sorella del fondatore del sepolcro gentilizio ad essere sepolta nella tomba di famiglia, non rilevandosi alcun rapporto di consanguineità della stessa con il fondatore).>>

Sul secondo tema:

<< La Corte di Appello, dopo aver ravvisato la natura gentilizia del sepolcro oggetto di causa, e ritenuto che il marito della Vi.Ma. rientrava tra gli originari beneficiari indicati dalla fondatrice, ed era perciò titolare iure proprio del cd. ius sepulchri primario, ha riconosciuto la sussistenza, in capo alla moglie, del cd. ius sepulchri secondario, consistente nel diritto di accedere alla cappella per onorare la memoria e la salma del suo congiunto, espressamente riconoscendo natura reale anche a tale seconda posizione soggettiva (cfr. punto 8.5 della motivazione della sentenza impugnata).

In argomento, tuttavia, occorre considerare che “Nel nostro ordinamento, il diritto sul sepolcro già costruito nasce da una concessione da parte dell’autorità amministrativa di un’area di terreno (o di una porzione di edificio) in un cimitero pubblico di carattere demaniale (art. 824 cod. civ.) e tale concessione, di natura traslativa, crea, a sua volta, nel privato concessionario, un diritto soggettivo perfetto di natura reale, e perciò, opponibile, iure privatorum, agli altri privati, assimilabile al diritto di superficie, che si affievolisce, degradando ad interesse legittimo, nei confronti della P.A. nei casi in cui esigenze di pubblico interesse per la tutela dell’ordine e del buon governo del cimitero, impongono o consigliano alla P.A. di esercitare il potere di revoca della concessione” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8197 del 07/10/1994, Rv. 488032). Ad avere dunque natura reale è il diritto, nascente dalla concessione amministrativa del terreno demaniale destinato ad area cimiteriale, di edificarvi una tomba “… (il cosiddetto diritto di sepolcro), la cui manifestazione è costituita prima dalla edificazione, poi dalla sepoltura. Tale diritto, che afferisce alla sfera strettamente personale del titolare, è, dal punto di vista privatistico, disponibile da parte di quest’ultimo, che può, pertanto, legittimamente trasferirlo a terzi, ovvero associarli nella fondazione della tomba, senza che ciò rilevi nei rapporti con l’ente concedente, il quale può revocare la concessione soltanto per interesse pubblico, ma non anche contestare le modalità di esercizio del diritto de quo, che restano libere e riservate all’autonomia privata” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1134 del 24/01/2003, Rv. 559992).

Oltre a ciò, si deve rilevare che tradizionalmente si distingue tra diritto primario al sepolcro, ossia il diritto di essere seppellito o di seppellire altri in un dato sepolcro, e che taluno ritiene di avere natura reale, tale altro personale, ed il diritto di sepolcro secondario, questo però di natura personalissima ed intrasmissibile, che spetta a chiunque sia congiunto di una persona, che riposa in un sepolcro, di accedervi e di opporsi ad ogni trasformazione che arrechi pregiudizio al rispetto dovuto a quella spoglia.

Questo diritto secondario è senz’altro, come si è detto, di natura personale, difettando il potere sulla cosa caratteristico del diritto di sepolcro primario, e consistendo esso piuttosto che nella tutela del godimento o dell’uso di un sepolcro, nella tutela del sentimento del parente verso il defunto (così le recenti pronunce (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 370 del 10/01/2023, Rv. 666957 e Cass. Sez.2, Sentenza n. 17357 del 24/06/2024, non massimata) o comunque di coloro che sono legati da rapporti personali o affettivi tali da giustificarne l’accesso alla tomba per svolgere gli uffici ed i riti in memoria dei loro cari scomparsi.

È vero che questa Corte, nel remoto precedente del 1961 richiamato dalla sentenza impugnata, ha affermato che “Il diritto primario di sepolcro rispetto ad una tomba gentilizia importa il diritto alla tumulazione in quella tomba e determina una comunione indivisibile tra tutti i titolari del predetto diritto primario, sicché resta escluso il potere di disposizione della tomba stessa da parte di uno o di alcuni solo tra i predetti titolari o aventi causa da essi. Il diritto secondario di sepolcro importa il diritto di accedere alla tomba per compiervi gli atti di culto e di pietà verso le salme dei propri congiunti o dei propri danti causa, ivi legittimamente seppellite, nonché il diritto di impedire atti che turbino l’avvenuta tumulazione delle predette salme. Il diritto secondario di sepolcro si risolve in un ius in re aliena che grava sulla tomba e ne segue gli eventuali trasferimenti” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 246 del 07/02/1961, Rv. 880956). La successiva elaborazione giurisprudenziale, tuttavia, come si è già detto, ha distinto le due fattispecie, riconoscendo al cd. ius sepulchri secondario natura di diritto personale. In tal senso, questa Corte ha chiaramente affermato che “Dal diritto “primario” al sepolcro -consistente nel diritto ad essere seppellito o a seppellire altri in un dato sepolcro- si distingue quello “secondario” dei parenti ad accedere alla sepoltura del proprio congiunto e ad opporsi a qualsiasi trasformazione idonea ad arrecare pregiudizio al rispetto dovuto alle sue spoglie; quest’ultimo costituisce esplicazione della personalità e della libertà religiosa dell’individuo (tutelata dagli artt. 2,13 e 19 Cost.) e dalla sua lesione può derivare un danno non patrimoniale risarcibile” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 370 del 10/01/2023, Rv. 666957).

Da quanto precede deriva che la Vi.Ma. non era legittimata a ricorrere alla tutela possessoria, in quanto “Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale” (art. 1140 c.c.). Il diritto di sepolcro secondario, del quale la Vi.Ma. aveva invocato tutela, si risolve infatti nella posizione soggettiva “… di natura personalissima ed intrasmissibile, che spetta a chiunque sia congiunto di una persona, che riposa in un sepolcro, di accedervi e di opporsi ad ogni trasformazione che arrechi pregiudizio al rispetto dovuto a quella spoglia” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17357 del 24/06/2024, non massimata, pag. 15).>>

Dati sanitari ceduti a Meta da centri medico-sanitari senza consenso del titolare: il caso dei tracking pixel

Interessante caso, segnalato da Eric Goldman nel suo blog,  deciso (provvisoriamente) da US D.C. East. D. of California, 9 giugno 2025, No. 1:23-cv-01106-DC-CKD, Jane Doe e altri c. TENET HEALTHCARE CORPORATION, et altri.

Queste strutture raccoglievano molti dati sanitari dei clienti prodotti dalla loro interazione sui loro server e li cedevano a Meta: -direttamente dal pc del cliente, nel caso dei citt. Pixex; – a partire dal server delle strutture sanitaria nel caso di un’altra applicazione chiamata Conversions Application Programming Interface, “CAPI”.

Delle molte azioni svolte, alcune sono state mandate avanti, mentre altre sono state bloccate.

Si tratta però di normative nazionali poco interessanti nel dettaglio per l’operatore italiano (tranne quelle sulla data protection in senso stretto).

Qui interessa solo ricordare come funziona il tracciamento tramite Pixex , come riportato in sentenza:

<< Defendants deploy “various digital marketing and automatic software tools” on their Web Properties that disclose information to Meta, Google, and other third parties for “advertising purposes.” (Id. at ¶ 8–9.) Specifically, Defendants have installed source code known as “tracking pixels” on their Web Properties to share user information with third parties. (Id. at ¶¶ 34–35, 55–56, 79, 184, 233.) Meta Pixel (“Pixel”) is among the tracking pixels Defendants have installed on their Web Properties. (Id. at ¶¶ 42–43, 71, 111, 184, 233.) Pixel was developed by Meta as “a new way to report and optimize for conversions, build audiences and get rich insights about how people use [] website[s].” (Id. at ¶ 208.) Pixel enables Defendants to “measure the effectiveness of their advertising by understanding the actions people take on their websites.” (Id.)

Pixel is a “snippet of code embedded on a third-party website that tracks users’ activities as users navigate through a website.” (Id. at ¶ 192.) When a user visits a webpage containing Pixel, the code tracks and log each page the user visits, what buttons they click, as well as specific information that users input into a website. (Id.) Pixel functions by monitoring for an “event” that triggers the code on Defendants’ Web Properties, including their websites and patient portals. (Id. at ¶¶ 98, 130.) On Defendants’ Web Properties, Pixel is triggered each time a user interacts with new webpages, enters search terms in the search bar, engages with the “Find A Doctor” function, fills out forms, completes assessments, logs into the patient portal, or uses the patient portal. (Id. at ¶¶ 110, 130, 236, 242, 245–248, 273.) When an event occurs, Pixel “send[s] the information it collects to [Meta] through scripts running in a user’s internet browser, similar to how a ‘bug’ or wiretap can capture audio information.” (Id. at ¶¶ 213, 233.) In other words, Pixel redirects the content of the users communications to Meta simultaneously in “real time” while the exchange of information between the user and Defendants’ Web Properties is still occurring. (Id. at ¶¶ 232, 239.)

Pixel transmits data to Meta as a “full-string, detailed URL” consisting of information regarding a user’s browsing history, the name of the web page visited, and the search terms that the user used to find the web page. (Id. at ¶¶ 202, 255.) The information Meta receives via Pixel may include “the kinds of treatments that patients research on the hospital’s website, . . . patients’ past and future medical conditions, their past and future medical treatment, [] when and where they are receiving treatment for those conditions,” “the patient’s home address, their name, their search location, as well as their doctor’s specialty, name, and gender.” (Id. at ¶ 83.)

Pixel also sends Meta a user’s PII, including their internet protocol (IP) address, name, email, phone number, cookies, and browsing fingerprint (i.e., information that can be used to identify the specific device). (Id. at ¶¶ 204, 211, 215.) If the user has a Facebook account, Meta also receives the user’s Facebook ID (“FID”). (Id. at ¶¶ 215–217.) “A user’s FID is linked to their Facebook profile, which generally contains a wide range of demographic and other information about the user, including pictures, personal interests, work history, relationship status, and other details.” (Id. at ¶¶ 117, 120.) A user’s PII is sent to Meta in a “data packet” alongside information on the user’s interactions with Defendants’ Web Properties, allowing Meta to “link” a user’s activity on Defendants’ Web Properties to their Facebook profile. (Id. at ¶¶ 82–84, 239, 263.)

In addition to Pixel, Defendants installed and implemented Meta’s Conversions Application Programming Interface (“CAPI”) on their Web Properties’ servers. (Id. at ¶ 58.)

Unlike Pixel, which causes a user’s browser to transmit information directly to Meta, “CAPI tracks the user’s website interaction . . . records and stores that information on the website owner’s servers and then transmits the data to [Meta] from the website owner’s servers.” (Id. at ¶ 59.) CAPI is located on “the website owner’s servers (rather than a bug placed on the website users’ browsers),” meaning website owners can “circumvent any ad blockers or similar technologies.” (Id. at ¶ 61.) CAPI captures information submitted by users to Defendants’ Web Properties, including “the type of medical treatment sought, the individual’s particular health condition and the fact that the individual attempted to or did book a medical appointment.” (Id. at ¶ 64.)

Finally, Defendant Tenet “discloses the same kind of patient data” that it provides to Meta to other third parties involved in internet marketing, including Google, via tracking software installed on its websites. (Id. at ¶ 258.) Namely, Defendants deploy Google tracking tools, such as Google Analytics, Google DoubleClick, and Google AdWords, on “nearly every page of their websites, resulting in the disclosure of communications exchanged with patients to be transmitted

to Google.” (Id. at ¶¶ 259, 262.) Transmissions of information to Google “occur simultaneously with patients’ communications” with Defendants’ Web Properties and include data on “specific medical providers, treatments, conditions, appointments, payments, and registrations and logins to Defendants’ patient portal.” (Id. at ¶ 262.) Google also receives a user’s PII, including their IP address, cookies, geolocation, and other identifiers. (Id. at ¶ 259.)>>

Ricordo solo che la violazione del California Privacy Act è stata ritenuta plausibile, per cui  l’azione relativa è stata fatta proseguire (v. sub C), C alifornia Invasion of Privacy Act (Count 1), p. 19 ss

Simulazione di prezzo e confessione stragiudiziale contrastante con la quietenza di pagamento contenuta nel rogito

Cass. Sez. II, 05/06/2025, n. 15.097, rel. Trapuzzano:

<<Ebbene, quanto alla simulazione del prezzo, cui si riferisce la sentenza impugnata, questa Corte ha costantemente sostenuto che la pattuizione con cui le parti di un negozio soggetto al vincolo della forma scritta abbiano convenuto un prezzo diverso da quello indicato nell’atto scritto soggiace, tra le stesse parti, alle limitazioni della prova testimoniale stabilite dall’art. 2722 c.c., avendo la prova ad oggetto un elemento essenziale del contratto che deve risultare per iscritto (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3234 del 18/02/2015; Sez. 2, Sentenza n. 21442 del 19/10/2010; Sez. U, Sentenza n. 7246 del 26/03/2007; nello stesso senso Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 10459 del 22/04/2025; Sez. 2, Ordinanza n. 21130 del 29/07/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 37189 del 20/12/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 22978 del 22/07/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 21426 del 06/07/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 24914 del 15/09/2021; Sez. 2, Sentenza n. 2619 del 04/02/2021).

Si tratta, dunque, di simulazione relativa parziale, che coinvolge un elemento essenziale inerente all’oggetto del contratto. Pertanto, la prova per testimoni e per presunzioni della pattuizione atta a celare una parte del corrispettivo di un contratto incontra, fra le parti, i limiti dettati dall’art. 1417 c.c. e contrasta col divieto posto dall’art. 2722 c.c., in quanto una tale pattuizione deve essere equiparata all’ipotesi di dissimulazione del contratto (contra l’ormai superato orientamento di Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4901 del 02/03/2007).

Ora, in tema di simulazione di un contratto formale (tra cui ricade la vendita immobiliare di specie), la prova per testi (e per presunzioni) soggiace a limitazioni diverse a seconda che si tratti di simulazione assoluta o relativa.

Nel primo caso l’accordo simulatorio, pur essendo riconducibile tra i patti per i quali opera il divieto di cui all’art. 2722 c.c., non rientra tra gli atti per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem, menzionati dall’art. 2725 c.c., avendo natura ricognitiva dell’inesistenza del contratto apparentemente stipulato, sicché la prova testimoniale è ammissibile in tutte e tre le ipotesi contemplate dal precedente art. 2724 c.c.

Nel secondo caso occorre distinguere, in quanto se la domanda è proposta da creditori o da terzi – che, essendo estranei al negozio, non sono in grado di procurarsi le controdichiarazioni scritte – la prova per testi o per presunzioni non può subire alcun limite; qualora, invece, la domanda venga proposta (come nella fattispecie) dalle parti o dagli eredi, la prova per testi o per presunzioni, essendo diretta a dimostrare l’esistenza del negozio dissimulato, del quale quello apparente deve rivestire il necessario requisito di forma, è ammessa soltanto nell’ipotesi di cui al n. 3 dell’art. 2724 citato, cioè quando il contraente ha, senza colpa, perduto il documento ovvero quando la prova è diretta a fare valere l’illiceità del negozio (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 11525 del 30/04/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 1122 del 11/01/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 23526 del 02/08/2023; Sez. 2, Sentenza n. 33367 del 11/11/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 31272 del 24/10/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 22978 del 22/07/2022; Sez. 3, Sentenza n. 18434 del 08/06/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 10933 del 05/04/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 36283 del 23/11/2021; Sez. 2, Sentenza n. 10240 del 04/05/2007; Sez. 2, Sentenza n. 16021 del 14/11/2002; Sez. 2, Sentenza n. 2906 del 27/02/2001; Sez. 2, Sentenza n. 4704 del 21/07/1981).

D’altronde, in tema di simulazione relativa oggettiva, ai fini della prova del contratto dissimulato che avrebbe dovuto rivestire forma scritta ad substantiam, deve escludersi che la confessione possa supplire alla mancanza del requisito formale rappresentato dalla controdichiarazione scritta, necessaria per il contratto diverso da quello apparentemente voluto (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 10933 del 05/04/2022; Sez. 2, Sentenza n. 8804 del 10/04/2018; Sez. 2, Sentenza n. 6262 del 10/03/2017; Sez. 3, Sentenza n. 3869 del 26/02/2004; Sez. 2, Sentenza n. 1011 del 30/01/1992; Sez. 2, Sentenza n. 13584 del 17/12/1991; Sez. 2, Sentenza n. 2998 del 16/04/1988; nello stesso senso Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 38360 del 03/12/2021).

Senonché, nel caso di specie, il giudice di merito non avrebbe potuto desumere tale simulazione (relativa) del prezzo attraverso un ragionamento inferenziale, ricavato all’esito della complessiva disamina dei documenti prodotti, in assenza di una specifica controdichiarazione sul punto, né dalle dichiarazioni rese da uno degli acquirenti ad un terzo (con asserita valenza confessoria).

B) Con riferimento al secondo profilo, la Corte territoriale ha ritenuto che la valenza confessoria della quietanza di cui all’atto di vendita fosse “neutralizzata” dalle dichiarazioni rese da A.A. il 21 febbraio 2000 al Pubblico Ministero, in esito alle indagini penali svolte dopo il sequestro dell’immobile, da cui sarebbe emerso che gli acquirenti non avevano corrisposto (e il venditore non aveva ricevuto) alcunché per il titolo dedotto in causa (ossia a titolo di prezzo della vendita immobiliare).

Ora, in ordine al superamento della valenza probatoria della quietanza rilasciata e contenuta nel corpo del rogito, si rileva che l’indicazione del venditore, contenuta nell’atto notarile di compravendita, che il “pagamento del prezzo complessivo è avvenuto contestualmente alla firma del presente atto”, non è coperta da fede privilegiata ex art. 2700 c.c., ma ha natura confessoria, con la conseguenza che colui che ha rilasciato quietanza non è ammesso alla prova contraria per testi o per presunzioni, salvo che dimostri, in applicazione analogica dell’art. 2732 c.c., che il rilascio della quietanza è avvenuto per errore di fatto o per violenza o salvo che se ne deduca la simulazione; quest’ultima, nel rapporto tra le parti, deve essere provata mediante controdichiarazione scritta (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 10526 del 22/04/2025; Sez. 2, Sentenza n. 28418 del 05/11/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 21130 del 29/07/2024; Sez. 1, Ordinanza n. 13258 del 14/05/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 33200 del 10/11/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 24841 del 17/08/2022; Sez. 3, Ordinanza n. 40760 del 20/12/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 23875 del 03/09/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 20520 del 29/09/2020; Sez. U, Sentenza n. 19888 del 22/09/2014).

Inoltre, la confessione stragiudiziale del creditore può essere superata dall’opposta confessione giudiziale del debitore, che ammetta, nell’interrogatorio formale, di non aver corrisposto la somma quietanzata, dal momento che l’art. 2726 c.c. limita, quanto al fatto del pagamento, la prova per testimoni e per presunzioni, non anche la prova per confessione (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13258 del 14/05/2024; Sez. 6-3, Ordinanza n. 19283 del 15/06/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 10933 del 05/04/2022; Sez. 6-2, Ordinanza n. 27400 del 08/10/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 598 del 14/01/2019; Sez. 2, Sentenza n. 8804 del 10/04/2018; Sez. 2, Sentenza n. 23971 del 22/10/2013)>>.

Nel caso sub iudice:

<<Occorre verificare, a questo punto, il precipitato dell’applicazione di detti precetti rispetto al caso di specie.

Non senza avere previamente chiarito che, costituendo la confessione una dichiarazione di scienza, ossia un atto giuridico in senso stretto, l’accertamento di fatto è limitato all’esistenza della dichiarazione confessoria e al contenuto della stessa. Se tale contenuto debba effettivamente essere apprezzato come confessione stragiudiziale costituisce, invece, un giudizio di diritto (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 24695 del 16/08/2023).

Ebbene, nel caso in esame, la Corte ha ritenuto che, a fronte della quietanza rilasciata per il pagamento di vecchie Lire 72.200.000 dal venditore nell’atto di compravendita, costituisse confessione stragiudiziale del mancato pagamento della somma indicata la dichiarazione, resa da uno dei due coniugi acquirenti davanti al Pubblico Ministero, avendo – in tale occasione – il ricorrente A.A. – da un lato – confermato di avere pagato l’immobile circa vecchie Lire 75.000.000, come da dichiarazione notarile, e – dall’altro – attestato che l’acquisto era avvenuto previa concessione di un mutuo da parte del Banco Ambrosiano Veneto di vecchie Lire 150.000.000, bloccato ed estinto anticipatamente, senza che il venditore avesse mai preteso il pagamento del prezzo della vendita dell’appartamento, in attesa della risoluzione delle vicende penali che lo riguardavano>>.

Nel caso di danno alla salute con eziologia multifattoriale, il fattore allegato come causalmente rilevante deve essere non solo possibile, ma probabile

Cass. sez. III, 19/05/2025 n. 13.294, rel. Saija, in un  caso di malformazioni prodotte da immissioni ambientali di sostanze nocive da parte della raffineria di Gela:

<<Del resto, come più volte già evidenziato, la valutazione sulla causa alternativa nel determinismo eziologico (uso di pesticidi), rispetto alle immissioni di SO2 nell’ambiente gelese, è stata effettuata dal giudice d’appello, che ha concluso, con valutazione fattuale incensurabile, ut supra, che in base alle risultanze della CTU può solo affermarsi che entrambi i fenomeni, rispetto alle malformazioni patite dal ricorrente, sono solo la “possibile causa”, non anche la “probabile causa”.

Il che, trattandosi nella specie di patologia ad eziologia multifattoriale, implica che “il nesso di causalità…. non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione che può essere data anche in termini di probabilità sulla base della particolarità della fattispecie, essendo impossibile nella maggior parte dei casi ottenere la certezza dell’eziologia; è, tuttavia, necessario acquisire il dato della ‘probabilità qualificata’, da verificarsi attraverso ulteriori elementi, come ad esempio i dati epidemiologici, idonei a tradurre la conclusione probabilistica in certezza giudiziale” (ex multis, Cass. n. 13814/2017), ciò che, in definitiva, la Corte nissena ha puntualmente effettuato (sia pure per escludere la sussistenza del nesso di causalità, nella specie), con valutazione – lo si ripete per chiarezza – tipicamente fattuale e ad essa riservata>>.

La convivenza con nuovo partner, che fa perdere l’assegno di mantenimento da separazione, e l’onere della prova

Cass. sez. I, 29/05/2025 n. 14.358, rel. Caiazzo:

<<Invero, in tema di separazione personale dei coniugi, ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge economicamente più debole e dei figli minorenni o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti, occorre accertare il tenore di vita della famiglia durante la convivenza matrimoniale a prescindere dalla provenienza delle consistenze reddituali o patrimoniali godute, assumendo rilievo anche i redditi occultati al fisco, all’accertamento dei quali l’ordinamento prevede strumenti processuali ufficiosi, quali le indagini della polizia tributaria (Cass., n. 22616/2022).

Tuttavia, va osservato che, in tema di crisi familiare, il diritto all’assegno di mantenimento viene meno ove, durante lo stato di separazione, il coniuge avente diritto instauri un rapporto di fatto con un nuovo partner, che si traduca in una stabile e continuativa convivenza, ovvero, in difetto di coabitazione, in un comune progetto di vita connotato dalla spontanea adozione dello stesso modello solidale che connota il matrimonio, con onere della prova a carico del coniuge tenuto a corrispondere l’assegno; ne consegue che la stabilità e la continuità della convivenza può essere presunta, salvo prova contraria, se le risorse economiche sono state messe in comune, mentre, ove difetti la coabitazione, la prova relativa all’assistenza morale e materiale tra i partner dovrà essere rigorosa (Cass., n. 34728/23; n. 32871/18).>>

Assegno divorzile in funzione solo compensativo-perequativa (non assistenziale)

Cass. sez. I, 30/05/2025 n.14.459, rel. Tricomi:

<<Nel caso in esame, la controversia concerne il riconoscimento dell’assegno divorzile in funzione esclusivamente compensativa -perequativa, risultando acclarata la autosufficienza economica di entrambe le parti.

In tema, va rammentato che l’assegno divorzile, avendo una funzione anche compensativo-perequativa, sotto questo profilo va adeguato all’apporto fornito dal coniuge richiedente che, pur in mancanza di prova della rinuncia a realistiche occasioni professionali-reddituali, dimostri di aver contribuito in maniera significativa alla vita familiare, facendosi carico in via esclusiva o preminente della cura e dell’assistenza della famiglia e dei figli, anche mettendo a disposizione, sotto qualsiasi forma, proprie risorse economiche, come il rilascio di garanzie, o proprie risorse personali e sociali, al fine di soddisfare i bisogni della famiglia e di sostenere la formazione del patrimonio familiare e personale dell’altro coniuge, restando di conseguenza assorbito l’eventuale profilo prettamente assistenziale (Cass. n. 24795 del 16/09/2024).

e che il riconoscimento dell’assegno di divorzio in funzione perequativa-compensativa presuppone un rigoroso accertamento del fatto che lo squilibrio tra la situazione reddituale e patrimoniale delle parti, presente al momento del divorzio, sia l’effetto del sacrificio da parte del coniuge più debole a favore delle esigenze familiari, ponendo rimedio, in presenza di tali presupposti, agli effetti derivanti dalla rigorosa applicazione del principio di autoresponsabilità (Cass. n. 32354 del 13/12/2024.), mentre, in assenza di prova di tale nesso causale, l’assegno può giustificarsi solo per esigenze strettamente assistenziali, ravvisabili laddove il coniuge più debole non abbia i mezzi sufficienti per un’esistenza dignitosa o non possa procurarseli per ragioni oggettive (Cass. n. 26520 del 11/10/2024).>>

Si conferma assai difficile ravvisare lo storno di dipendenti

La slealtà concorenziale tramite storno (art. 2598 cc n. 3)   è tanto frequente quanto difficile da far acccertare. Si v. no i passaggi di Trib. Venezia 08.10.20’24, RG 7391 2018, Sent. 4529/2024, in giurisruenzadelleimprese.it,  ALTEVIE TECHNOLOGIES S.R.L. (preteso stornato e danneggiato) c. CCELERA srl (preteso stornante), interessanti perchè con un certo grado di dettaglio fattuale (senza il quale non può essere valutato il giudizio reso):

<<Tutti i lavoratori passati a Ccelera svolgevano, quindi, mansioni tecnico operative, legate allo sviluppo e alla implementazione dei progetti nelle diverse aree di business e non ricoprivano, invece, alcun ruolo commerciale, poiché la “responsabilità dell’area commerciale e dei rapporti con i clienti” erano solo in capo a Valentino Girardi e Giovanni Marta, i quali “conoscevano e intrattenevano rapporti con quasi tutti i clienti” (teste Regini) .
Dall’istruttoria è inoltre emerso che “Le persone cambiavano progetto abbastanza spesso, nel senso che i progetti possono avere anche una breve durata” e che l’articolazione interna del lavoro prevedesse l’allocazione di ciascuna risorsa su diversi progetti. Come affermato, infatti, dal teste Regini “le persone in funzione della mole di lavoro di ciascun progetto possono essere allocate su più progetti contemporaneamente al fine di ottimizzare il lavoro” e la circostanza risulta anche dal doc. 64 prodotto da parte attrice, da cui si evince che al momento delle dimissioni i lavoratori, fossero essi inquadrati come Project Manager o come Consultant, erano contemporaneamente presenti presso diversi progetti, facendo parte di più team di lavoro.
Il contenuto tecnico delle mansioni e la strutturazione interna del lavoro, caratterizzata dal frequente passaggio delle risorse da un team di lavoro ad un altro, nonché l’impiego di lavoratori contemporaneamente presso più progetti, sono elementi che depongono nel senso della trasversalità delle risorse all’interno dell’azienda e quindi della idoneità dei lavoratori ad essere impiegati in modo fungibile nei team di lavoro, in ragione delle competenze tecniche in loro possesso nella rispettiva area SAP di elezione. Ciò che rileva ai fini dell’organizzazione dei team di lavoro non è tanto la specifica individualità della singola risorsa, quanto la competenza della risorsa rispetto ad una data linea di prodotto (oggetto di sviluppo presso il cliente), e quanto la competenza è comune a tutti i lavoratori formati nello specifico ambito (HCM; CRM o CeC), dal che se ne deduce che essi siano tra loro intercambiabili, e così anche facilmente sostituibili.
Ciò posto, parte attrice non ha prodotto l’organigramma aziendale da cui potersi evincere quanti lavoratori fossero inquadrati nelle varie mansioni, con riferimento ai singoli prodotti SAP, al momento della fuoriuscita dei dipendenti passati a Ccelera, laddove invece sarebbe stato onere di Altevie dimostrare, a fronte delle specifiche contestazioni mosse da controparte, l’infungibilità dei dipendenti asseritamente stornati , avuto riguardo all’ organizzazione interna del lavoro. Inoltre sarebbe stato onere di parte attrice dimostrare altresì, tenuto conto dei dati della forza lavoro alle proprie dipendenze nel 2016 (costituita da una media di 155 dipendenti come si evince dalla Relazione sulla gestione al 31/12/2016 doc. 1 di parte attrice), l’assenza nel proprio organico di figure professionali che potessero ricoprire, a vari livelli e in relazione alle differenti linee SAP, i medesimi incarichi dei dipendenti passati a Ccelera ovvero l’impossibilità di allocare le risorse interne di Altevie ai progetti seguiti dai dipendenti migrati.
Non risulta, invece, dimostrato né che i detti dipendenti fossero dotati di una professionalità infungibile, né l’assenza in Altevie di figure analoghe per specializzazione e competenza, nonostante il dato oggettivo dell’elevato numero di forza lavoro della società attrice e contrasta, peraltro, con gli assunti attorei il fatto che – come si vedrà nel prosieguo – i progetti seguiti dai soggetti passati a Ccelera siano stati, nella maggior parte dei casi, portati a termine.
Spetta, infatti, a chi denuncia un c.d. «storno di dipendenti» sotto il profilo dell’illecito ex art. 2598, n. 3, c.c. fornire la prova degli elementi destrutturanti della propria organizzazione imprenditoriale causati dall’acquisizione di suoi dipendenti da parte di un concorrente, fornendo in giudizio, quantomeno, concreti elementi per conoscere l’organigramma complessivo dell’azienda, il ruolo ricoperto dai dimissionari, le difficoltà incontrate per sostituire i fuoriusciti in relazione alle mansioni dagli stessi svolte ed alla reperibilità di analoghe professionalità al proprio interno o comunque sul mercato del lavoro (Trib. Milano 19/03/2012).
Va, poi, osservato che il numero di dipendenti passati da Altevie a Ccelera non è di per sé sintomatico di uno storno, ove si consideri non solo che esso rappresenta circa il 10% della forza lavoro dell’attrice, ma anche il contesto di tensione aziendali in cui è avvenuto. Risulta, infatti, dalla visura in atti (e il dato non è contestato da Altevie) che contestualmente alla fuoriuscita dei 16 dipendenti passati a Ccelera si siano dimessi altri 23 dipendenti. Rispetto ai 23 nominativi indicati a pagina 27 e nelle note 23 e 24 della comparsa di costituzione e risposta, relativi a dipendenti che sarebbero fuoriusciti da Altevie in aggiunta e contestualmente alle dimissioni dei dipendenti passati a Ccelera, parte attrice si è, limitata a contestare specificatamente che solo Erica Benincà non si sarebbe dimessa e nulla ha argomentato rispetto ai rimanenti. Non vi è, dubbio, quindi che nel primo semestre del 2017 si siano dimessi da Altevie, in aggiunta ai dipendenti passati alla convenuta, ulteriori 22 lavoratori, di cui tre dei quali (Cesolan, Bellan, Di Girolamo) risultano assunti da concorrenti di Altevie, come si evince dai profili Linkedin depositati da parte convenuta sub doc. 9. Tale circostanza è idonea a configurare un contesto nel quale le proposte di assunzione di Ccelera rappresentavano per il personale una occasione per soddisfare proprie aspirazioni già esistenti, e non già indebite lusinghe rivolte a personale che altrimenti non avrebbe neppure considerato di lasciare tale organizzazione
Quanto poi alla mancata osservanza del periodo di preavviso (solo Prudenzano e Baradel risultano aver dato un preavviso di due settimane, Garbellotto di 7 giorni e Bertolin di quattro, mentre gli altri lavoratori di uno / due giorni ovvero risultano essersi dimessi senza preavviso) si tratta di fatto che, oltre a non essere dimostrato, non avendo parte attrice dimesso in atti i contratti individuali di lavoro da cui potersi desumere quale fosse per ciascun lavoratore il relativo preavviso, rileva eventualmente solo quale comportamento scorretto nei rapporti interni tra dipendente e datore di lavoro e che non concorre pertanto a dimostrare la sussistenza dell’animus nocendi di Ccelera, posto che, come precisato anche dalla giurisprudenza di legittimità, l’imprenditore che recluti il lavoratore dimissionario non è vincolato al rispetto degli accordi che inerivano al precedente rapporto, di talché l’assunzione di un lavoratore che non abbia osservato il preavviso non implica necessariamente una condotta disgregatrice dell’altrui impresa, salvo dimostrare la sussistenza di detta precipua intenzionalità (Cass. 14944/2024). Inoltre si ritiene che l’inosservanza del preavviso (come del resto i tempi e modi complessivi della fuoriuscita del personale da Altevie) possa, nella fattispecie, trovare una valida spiegazione alternativa nel contestuale cambio di vertice di Altevie, per effetto della fuoriuscita dei due amministratori Giovanni Marta e Valentino Girardi, circostanza che, come dichiarato dal teste Regini, aveva creato un po’ di preoccupazione tra i dipendenti, trattandosi delle “due persone storiche dell’azienda”.
Ai fini del dedotto storno non possono, poi, essere considerati i lavoratori interinali, poiché è da escludere che questi potessero considerarsi stabilmente inseriti nella struttura imprenditoriale di Altevie, trattandosi di forza lavoro destinata – per definizione – a far fronte ad esigenze meramente temporanee dell’azienda, di talché alcuna volontà disgregativa dell’altrui organizzazione aziendale può essere ravvisata nella loro assunzione da parte di Ccelera.
Parte attrice lamenta, infine, che parte convenuta avrebbe tentato di sottrarre ulteriori dipendenti e collaboratori ad Altevie, anche con comportamenti denigratori e diffamatori.
Sotto tale profilo si ritiene l’irrilevanza, ai fini degli illeciti ascritti a Ccelera, dei contatti da parte di Garbellotto ed Arposio degli allievi dell’Academy, tali Giorgio Aluffi, Jennifer Sforza e Chiara Pinton.
Come emerso dall’istruttoria, gli Academy erano dei corsi di formazione organizzati da Altevie “in collaborazione con Modis e Umana”, “finalizzati a insegnare le basi dei moduli SAP a coloro che, selezionati delle ridette agenzie di lavoro interinale a seguito di presentazione dei curricula, intendono lavorare per Altevie” (teste Zapparoli). Il teste Regini ha precisato che detti “corsi di formazione erano fatti per formare giovani talenti, di concerto con le agenzie interinali che facevano lo scouting iniziale delle persone e ci mettevano a disposizione le aule per la formazione”. Il referente della formazione era Garbellotto ed i corsi erano tenuti o da personale di Altevie o da formatori forniti dalle agenzie interinali (il teste Regini ha precisato che “Le competenze le portavamo noi, perché a seconda delle circostanze potevano essere gli stessi dipendenti di Altevie a fare la docenza, oppure i docenti potevano essere messi a disposizione dalle agenzie interinali”).
Ora, come emerge da queste testimonianze, va escluso che gli Academy fossero corsi di formazione interni ad Altevie, trattandosi invece di momenti di formazione nascenti dalla collaborazione tra Altevie e le agenzie di lavoro interinale, al termine dei quali gli allievi potevano essere o meno assunti in Altevie, senza che per effetto della partecipazione al corso sorgesse alcun obbligo in tal senso, potendo dunque gli allievi essere contattati da imprese terze e concludere contratti di lavoro con soggetti diversi da Altevie.
In ragione di ciò alcun rilievo può assumere il fatto che i predetti lavoratori, dopo la frequenza degli Academy, ma prima dell’assunzione in Altevie, fossero stati contattati dagli ex dipendenti dell’attrice (cfr. doc 14 testimonianza di Aluffi che ha dichiarato di essere stato contattato dall’Arposio l’8 maggio 2017 e che “In quel momento non lavoravo ancora per Altevie ed ero in attesa del contratto di assunzione post Academy”; negli stessi termini Sforza Jennifer e Chiara Pinton).
Né, infine, può desumersi l’animus nocendi di Ccelera dalla circostanza per cui il dipendente fuoriuscito Maggetto ebbe a contattare il collega Ambrosin di Altevie dicendogli che si erano dimessi pressoché tutti i dipendenti che si occupavano del modulo HCM in Altevie, dal momento che non vi sono elementi che possano far ritenere che la condotta del Maggetto, singolarmente considerata, fosse riferibile a Ccelera.

La clausole di parità di prezzo, imposta da Booking alle strutture sue clienti, sono illegittime, dice l’antitrust UE

Sono illegittime perchè restrttive senza necessità le calsule di aprità

<< A tal riguardo, per quanto riguarda le clausole di parità ampia, che vietano agli albergatori controparte contrattuale che figurano sulla piattaforma di prenotazione di offrire, sui propri canali di vendita o su canali di vendita gestiti da terzi, camere ad un prezzo inferiore a quello proposto su detta piattaforma, esse non appaiono oggettivamente necessarie per l’operazione principale consistente nella prestazione di servizi di prenotazione alberghiera online, né proporzionate rispetto all’obiettivo perseguito da tale operazione. (…)

64      È vero che, nell’ambito del procedimento principale, è stato sostenuto che le clausole di parità mirano ad impedire, da un lato, ai prestatori di servizi alberghieri di utilizzare in modo sleale e senza corrispettivo i servizi e la visibilità offerta dalla piattaforma di prenotazione alberghiera e, dall’altro, che gli investimenti realizzati nell’elaborazione delle funzioni di ricerca e di comparazione di tale piattaforma non possano essere ammortizzati.>>

Tuttavia non sono “necessarie” secondo l’interpretazione giuriosrueziale:

<<

Nel caso di specie, la circostanza che l’assenza delle clausole di parità della tariffa imposte dalla piattaforma di prenotazione alberghiera possa eventualmente produrre conseguenze negative sulla redditività dei servizi offerti da tale piattaforma non implica, di per sé, che tali clausole debbano essere considerate oggettivamente necessarie. Una siffatta circostanza, se accertata, sembra riferirsi al modello commerciale seguito dalla piattaforma di prenotazione online, che ha, in particolare, optato per una limitazione del livello delle commissioni dovute dai prestatori di servizi alberghieri affiliati al fine di aumentare il volume delle offerte presentate su tale piattaforma e di rafforzare gli effetti di rete indiretti che ciò genera.

73 Inoltre, il fatto, supponendolo vero, che le clausole di parità della tariffa tendono a contrastare eventuali fenomeni di parassitismo e sono indispensabili per garantire incrementi di efficienza o per assicurare il successo commerciale dell’operazione principale non consente di qualificarle come «restrizioni accessorie», nell’accezione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE. Tale circostanza può essere presa in considerazione solo nell’ambito dell’applicazione dell’articolo 101, paragrafo 3, TFUE.

74 Sebbene sia di natura relativamente astratta, l’esame del carattere oggettivamente necessario di una restrizione in relazione all’operazione principale può, in particolare, basarsi su un’analisi controfattuale che consenta di esaminare come i servizi di intermediazione online avrebbero operato in assenza della clausola di parità (v., in tal senso, sentenza dell’11 settembre 2014, MasterCard e a./Commissione, C‑382/12 P, EU:C:2014:2201, punto 164). Orbene, dagli elementi del fascicolo di cui dispone la Corte risulta che, sebbene le clausole di parità, tanto ampia quanto ristretta, siano state vietate in diversi Stati membri, la fornitura dei servizi da parte di Booking.com non è stata compromessa>>.

Un (esatto) rifiuto della SC di ravvisare un patto successorio

Cass. sez 2, 10.04.2025 n. 9.397, rel. Cavallino, giustamente esclude di ravvisare violazione dell’art. 458 cc nel patto seguente, stipulato tra la madre  e i due figli (maschio e femmina) il 12.08.2009. La madre era poi morta nel 2016 lasciando come unica erede la figlia.

“scrittura privata contenente obbligazione di assistenza e
mantenimento” : “1)la signora Suggelli Onelia
conferma di aver autorizzato la figlia Braccini Graziella a prelevare dal
conto corrente suindicato ed utilizzare la somma di euro 150.000,00,
ricavata dalla vendita dell’immobile indicato in premessa; 2)il signor
Braccini Valter prende atto di tale volontà, non contesta le somme già
prelevate e non si oppone al prelevamento delle ulteriori somme
purché nel limite indicato di Euro 150.000,00; 3)la signora Braccini
Graziella si impegna a utilizzare le somme indicate per l’acquisto di un
immobile sito in La Loggia, in via Ugo Foscolo, che sarà a lei intestato
e di sua esclusiva proprietà; 4)la signora Braccini Graziella si impegna
e vincola in cambio della libera e totale disponibilità della somma
ricavata dalla vendita immobiliare e della temporanea rinuncia del
fratello alla sua quota a: -ospitare la madre Suggelli Onelia presso
l’abitazione di cui al punto 3) (che ivi sposterà la residenza) a far data
dall’effettivo trasloco; -garantire in ogni caso alla signora Suggelli
Onelia l’assistenza morale e materiale (qualora e nel momento in cui
non sia sufficiente la somma percepita dalla madre a titolo di pensione)
al fine di permetterle un regime di vita analogo a quello attualmente
vissuto; -sottoscrivere in sede di stipulazione dell’atto notarile di
acquisto dell’immobile in La Loggia, via Ugo Foscolo, atto di riconoscimento di debito nei confronti del sig. Braccini Valter per Euro 75.000,00, somma da pagarsi entro e non oltre un anno dalla morte della madre Suggelli Onelia; 5)resta ovviamente facoltà e obbligo morale del signor Braccini Valter far visita alla madre (previo avviso telefonico il giorno precedente) prelevandola e portandola presso la propria abitazione o in altro luogo (valutata preventivamente la
disponibilità della signora Suggelli)”.
La figlia aveva poi sottoscritto nel 23.11.2009 il seg. riconscimento di debito vs il fratello: “in adempimento dell’impegno assunto con la scrittura privata 12.8.2009, avendo stipulato in data odierna l’atto di compravendita dell’immobile sito in La Loggia (TO) via Ugo Foscolo 13, dichiara di riconoscersi debitrice nei confronti del signor Braccini Valter…della somma di Euro 75.000,00, a condizione che la
signora Suggelli Onelia…sia deceduta e si impegna a pagare la predetta
somma, senza interessi e rivalutazione, entro e non oltre un anno dal
decesso della signora Suggelli Onelia”.

Giustamente la SC esclude il ricorrere di una patto successorio.

<<La pronuncia si sottrae a tutte le critiche della ricorrente, in quanto costituisce corretta applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità secondo i quali, al fine della configurazione di un patto successorio vietato, è necessario accertare: 1)se il vincolo giuridico abbia avuto la specifica finalità di costituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi a una successione non ancora aperta; 2) se la cosa o i diritti formanti oggetto della convenzione siano stati considerati dai contraenti come entità della futura successione e se siano, comunque, compresi nella successione; 3)se il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte della propria successione, privandosi dello ius poenitendi; 4)se l’acquirente abbia contrattato o stipulato come avente diritto alla successione; 5)se il programmato trasferimento, dal promittente al promissario, avrebbe dovuto avere luogo mortis causa, ossia a titolo di eredità o di legato (Cass. Sez. 2 24-5-2021 n. 14110 Rv. 661331-01, Cass. Sez. 2 16-2-1995 n. 1683 Rv. 490468-08, Cass. Sez. 2 22-7-1971 n. 2404 Rv. 353355-01).

L’art. 485 cod. civ. mira a tutelare la libertà testamentaria fino alla morte del disponente e, in considerazione della finalità del divieto, sono sottratti all’ambito applicativo della disposizione i negozi nei quali l’evento morte non è causa dell’attribuzione, ma viene a incidere esclusivamente sull’efficacia dell’atto, il cui scopo non è di regolare la futura successione. Quindi, l’atto mortis causa diverso dal testamento vietato è esclusivamente quello nel quale la morte incide non sul piano effettuale (ben potendo il decesso di uno dei contraenti fungere da termine o da condizione), ma sul piano causale, essendo diretto a regolare i rapporti che scaturiscono dalla morte del soggetto, senza produrre alcun effetto, neppure prodromico o preliminare fino a che il soggetto è in vita; cioè, l’atto mortis causa vietato investe rapporti e situazioni che si formano in via originaria con la morte del soggetto o che dall’evento morte traggono una loro autonoma qualificazione, mentre il negozio post mortem valido è destinato a regolare una situazione preesistente, in quanto l’attribuzione è attuale nella sua consistenza patrimoniale e non è limitata ai beni rimasti nel patrimonio del disponente al momento della morte (Cass. Sez. 2 2-9-2020 n. 18198 Rv. 659095-01, Cass. Sez. U 12-7-2019 n. 18831 Rv. 654590-01; cfr. altresì Cass. Sez. 2 13-12-2023 n. 34858 Rv. 669678-01).

Nella fattispecie la Corte d’Appello ha accertato, in termini che resistono alle critiche della ricorrente, che il negozio era finalizzato a produrre e aveva effettivamente prodotto i suoi effetti in vita della madre, in quanto il trasferimento della somma di denaro era stato effettivo e destinato a soddisfare interessi attuali dei contraenti; la somma di denaro era stata realmente e immediatamente trasferita dalla madre alla figlia, al fine di soddisfare sia l’interesse della madre ad avere in cambio dalla figlia l’assistenza per tutta la durata della sua esistenza, abitando con lei nella casa oggetto di acquisto, sia l’interesse della figlia ad avere la disponibilità necessaria a procedere all’acquisto della casa medesima, e perciò l’accordo aveva contenuto tale da escludere che la madre e i figli disponessero dei diritti di successione non ancora aperta. In questo contesto, neppure l’assunzione dell’obbligazione da parte della figlia di trasferire al fratello la metà della somma ricevuta entro un anno dalla morte della madre comportava atto avente contenuto dispositivo dei diritti sulla successione futura; ciò perché non si trattava di previsione che avesse a oggetto beni ancora compresi nel patrimonio della madre al momento della sua morte e che trovasse causa nell’evento-morte, ma si trattava di previsione relativa a beni che erano effettivamente entrati nel patrimonio della figlia e che la stessa si obbligava a trasferire, in parte, al fratello dopo che era venuta meno l’esigenza di assistenza alla madre.>>