Donazione indiretta vs simulazione, azione di riduzione vs collazione

Altra lezione di diritto successorio/donativo dalla penna del dr Criscuolo in Cass., sez. 2 del 12 luglio 2024 n. 19.230:

profilo processuale:

<<5. La giurisprudenza di questa Corte ha progressivamente rivisto il precedente orientamento eccessivamente rigoroso in tema di allegazioni necessarie ai fini della ammissibilità dell’azione di riduzione, addivenendo alla conclusione per cui nel caso di esercizio della stessa, il legittimario ha l’onere di precisare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, indicando gli elementi patrimoniali che contribuiscono a determinare il valore della massa ereditaria nonché, di conseguenza, quello della quota di legittima violata, senza che sia necessaria all’uopo l’indicazione in termini numerici del valore dei beni interessati dalla riunione fittizia e della conseguente lesione, e, a tal fine, può allegare e provare, anche ricorrendo a presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della riserva (Cass. n. 18199 del 02/09/2020), ma è pur sempre necessario che alla spendita della qualità di legittimario (sebbene non necessariamente finalizzata all’esercizio dell’azione di riduzione, ma alla tutela di diritto comunque correlati a tale qualità, cfr. Cass. n. 12317/2019, Cass. n. 16535/2020, Cass. n. 29821/2023).

Tuttavia è stato ribadito che effettivamente il ricorso alle agevolazioni probatorie concesse ai terzi per l’accertamento della natura simulata di atti di alienazione, in quanto dissimulanti donazioni, sebbene non direttamente suscettibili di aggressione con l’azione di riduzione, ma anche al solo fine di determinare tramite la riunione fittizia, la esatta misura della quota di riserva, suscettibile di recupero anche attraverso la rimodulazione delle quote ab intestato ex art. 553 c.c. (cfr. Cass. n. 17856/2023), presuppone in ogni caso la spendita della qualità di legittimario e l’allegazione che l’accertamento è comunque funzionale all’integrazione della quota di riserva, mediante le molteplici modalità che la legge assicura a favore del legittimario. (…) Questa Corte ha di recente puntualizzato i caratteri differenziali tra l’azione di riduzione e la richiesta di collazione, richiamando in parte le differenze puntualmente esposte nel corpo della sentenza d’appello, e ribadendo che, in tema di azione di riduzione, non sussiste l’onere di preventiva collazione da parte dei legittimari, atteso che quest’ultima attribuisce al coerede un concorso sul valore della donazione, di regola realizzato attraverso un incremento della partecipazione sul “relictum”, laddove il legittimario, per il valore che esprime la lesione di legittima, ha diritto a ricevere quel valore, in natura, con conseguente ammissibilità del concorso tra le due azioni (Cass. n. 17856 del 22/06/2023)>>.

Poi:

<<6. Una volta, quindi, reputata ammissibile la proposizione di entrambe le domande, stanti le segnalate differenze ed i diversi vantaggi che ognuna delle due offre, resta, però, altrettanto confermato il principio che dall’esercizio dell’azione di simulazione da parte dell’erede per l’accertamento di dissimulate donazioni non deriva necessariamente che egli sia terzo, al fine dei limiti alla prova testimoniale stabiliti dall’art. 1417 c.c., perché, se l’erede agisce per lo scioglimento della comunione, previa collazione delle donazioni – anche dissimulate – per ricostituire il patrimonio ereditario e ristabilire l’uguaglianza tra coeredi, subentra nella posizione del “de cuius”, traendo un vantaggio dalla stessa qualità di coerede rispetto alla quale non può avvantaggiarsi delle condizioni previste dall’art. 1415 c.c.; è invece terzo, se agisce in riduzione, per pretesa lesione di legittima, perché la riserva è un suo diritto personale, riconosciutogli dalla legge, e perciò può provare la simulazione con ogni mezzo (cfr. ex multis Cass. n. 41132 del 21/12/2021). La sentenza d’appello ha però tratto dalla infondatezza dell’azione di riduzione, per la carenza delle allegazioni necessarie a verificare la effettiva sussistenza della lesione, e dalla strumentalità dell’accertamento della donazione indiretta alla eliminazione della lesione, in via conseguenziale anche l’impossibilità di accogliere la domanda di accertamento della natura liberale della fattispecie dedotta in giudizio in vista della collazione, ma nel compiere tale affermazione non ha tenuto conto della peculiarità della donazione individuata dagli attori, in quanto rientrante nel novero delle donazioni indirette. Il ragionamento sinora esposto, circa il differente trattamento dell’erede e del legittimario sul piano delle agevolazioni probatorie, onde rimuovere il limite che l’art. 1417 c.c. pone alle parti del negozio dissimulato, opera solo ove ad essere oggetto della materia del contendere sia una donazione dissimulata, diversa dovendo invece essere la conclusione nel caso in cui si assuma che il coerede sia stato beneficiario di una donazione indiretta>>.

La donazione indiretta differisce dalla simulazione:

<<Una volta ribadito che la donazione indiretta si identifica con ogni negozio che, pur non avendo la forma della donazione, sia mosso da un fine di liberalità e abbia l’effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario, sicché l’intenzione di donare emerge solo in via indiretta dal rigoroso esame di tutte le circostanze del singolo caso, nei limiti in cui siano tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio. (Cass. n. 9379 del 21/05/2020), nella difesa degli attori si prospetta che l’acquisto dell’immobile è stato operato direttamente da parte della presunta donataria, che avrebbe assolto all’obbligo di pagamento del prezzo con denaro fornito da parte del genitore.

Si rientra pertanto nell’ipotesi di intestazione del bene a nome altrui che costituisce appunto una delle ipotesi di donazione indiretta (cfr. Cass. n. 13619/2017, secondo cui nell’ipotesi di acquisto di un immobile con danaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente intende in tal modo beneficiare, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario e, quindi, integra – anche ai fini della collazione – donazione indiretta del bene stesso e non del danaro).

Ancorché nella donazione indiretta, ai fini della stima della donazione debba guardarsi all’oggetto dell’acquisto, analogamente a quanto avviene per l’ipotesi della donazione simulata (che però resta una donazione immobiliare a tutti gli effetti), l’utilizzo di un meccanismo negoziale che assicura al donatario l’acquisto di un bene a titolo gratuito, senza che però tale bene sia mai appartenuto al donante, giustifica anche la conclusione per cui, ai fini della reintegrazione della quota di riserva ovvero della collazione, poiché non risulta messa in discussione la titolarità del bene, il valore dell’investimento finanziato con la donazione indiretta dev’essere ottenuto dal legittimario leso con le modalità tipiche del diritto di credito, con esclusione di ogni possibilità di recupero in natura del bene, in caso di riduzione, ovvero di collazione in natura, ove l’accertamento sia funzionale a tale scopo.

La donazione indiretta resta però un contratto con causa onerosa, posto in essere per raggiungere una finalità ulteriore e diversa consistente nell’arricchimento, per mero spirito di liberalità, del contraente che riceve la prestazione di maggior valore e differisce dal negozio simulato in cui il contratto apparente non corrisponde alla volontà delle parti, che intendono, invece, stipulare un contratto gratuito. Ne consegue che ad essa non si applicano i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti e simulazione – che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo.

Ne consegue che la distinzione tra la donazione simulata e donazione indiretta non consente di estendere a quest’ultima le limitazioni probatorie dettate dall’art. 1417 c.c., e che la prova dell’effettiva natura liberale (in tutto o in parte), della fattispecie negoziale oggetto della domanda può essere data anche a mezzo presunzioni, pur nel caso in cui non si alleghi a fondamento della pretesa la qualità di legittimario (Cass. n. 19400/2019 che ha confermato la sentenza gravata che aveva ritenuto l’esistenza di donazioni indirette sulla base di prove presuntive; Cass. n. 6904/2022, Cass. n. 7872/2021, Cass. n. 1986/2016). La circostanza che la Corte d’Appello ha riscontrato che la difesa degli attori si era limitata ad allegazioni inerenti alla domanda di collazione, che è destinata ad operare in via automatica una volta che risulti proposta la domanda di divisione (sulla quale i giudici di merito si sono pronunciati), non consentiva di eludere la richiesta di accertamento della donazione indiretta effettuata dal genitore alla figlia facendo solo richiamo all’infondatezza della domanda di riduzione.>>

Diffamazione, diritto di cronaca e giornalismo di inchiesta

Cass. sez. III,  ord. 05/06/2024  n. 15.755, rel. Rubino:

<<6. – Quanto al rispetto del requisito della verità dei fatti, del quale è stata denunciata la carenza sia col primo che col secondo motivo, la decisione è conforme ai principi più volte enunciati da questa Corte, secondo i quali la lesione dell’onore e della reputazione altrui non si verifica quando la diffusione a mezzo stampa delle notizie costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca, condizionato all’esistenza dei seguenti presupposti: la verità oggettiva della notizia pubblicata; l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (cosiddetta pertinenza); la correttezza formale dell’esposizione (cosiddetta continenza). In particolare, quanto al primo presupposto soltanto la correlazione rigorosa fra fatto e notizia realizza l’interesse pubblico all’informazione, sotteso all’art. 21 Cost., e rende non punibile la condotta ai sensi dell’art. 51 cod. pen., sempre che ricorrano anche la pertinenza e la continenza. Ne consegue che il giornalista ha l’obbligo di controllare l’attendibilità della fonte informativa, a meno che non provenga dall’autorità investigativa o giudiziaria, e di accertare la verità del fatto pubblicato, restando altrimenti responsabile dei danni derivati dal reato di diffamazione a mezzo stampa, salvo che non provi l’esimente di cui all’art. 59 ultimo comma cod. pen. e cioè la sua buona fede (Cass. n.2271 del 2005).

Nel caso di specie, peraltro, i ricorrenti neppure si dolgono di un oggettivo mancato rispetto della verità dei fatti, quanto piuttosto che sia stato ritenuto non diffamatorio l’articolo in questione, che pur riportando i fatti tratti dall’inchiesta giudiziaria con esattezza, ne dava poi una lettura atta a gettare una luce di discredito sull’imprenditore Ma.Gi., pur avendo riferito correttamente che lo stesso non fosse direttamente coinvolto nell’inchiesta né sottoposto ad intercettazioni.

Occorre rilevare però che l’articolo in questione non era un semplice articolo di cronaca giudiziaria, in relazione al quale si richiede una fedele ed asettica riproduzione dei fatti appresi dalle fonti, ma un articolo di approfondimento giornalistico, pubblicato da un settimanale nell’ambito di una inchiesta sul tema dei tentativi di infiltrazione della camorra nelle attività commerciali. Per quanto concerne il giornalismo di inchiesta e di approfondimento, se la verità dei fatti va sempre rispettata, ovvero se i fatti vanno riferiti così come sono stati appresi, non può confiscarsi al giornalista il diritto-dovere di analizzarli, di interpretarli, di porli in correlazione l’uno con l’altro prospettando una chiave di lettura, che e il proprium della sua attività – pur sempre nel rispetto dei limiti esterni della pertinenza e della continenza.

Mentre la cronaca (giudiziaria) contiene solo la ricostruzione fedele dei fatti per come risultanti dalle fonti a disposizione del giornalista, che deve cercare anche di verificarne l’attendibilità, salvo che le fonti non siano di provenienza dall’autorità giudiziaria, nel giornalismo di inchiesta o di approfondimento, i fatti devono essere esposti nel rispetto del criterio della verità, ma poi possono essere letti e messi in correlazione tra loro con quel contributo di originalità che e dato proprio dall’approfondimento giornalistico, che può essere anche teso allo sviluppo di una tesi della quale si cerca il riscontro nello sviluppo dell’inchiesta. Ciò che conta, ai fini della esclusione di una colorazione diffamatoria del giornalismo di inchiesta è che i due elementi – verità dei fatti riferiti, analisi ed interpretazione degli stessi da parte del giornalista – non vengano confusi all’interno dell’articolo, disorientando il lettore ed alterando la sua percezione, ovvero che rimanga chiaro, all’interno dell’articolo, quali sono i fatti obiettivi e quali sia la lettura che di essi dà il giornale, e la valutazione che ne trae>>.

Applicato al caso de quo:

<<7. – Quanto al mancato rispetto dei limiti della pertinenza e della continenza, le censure, contenute nel terzo motivo, sono alquanto generiche e comunque infondate.

La sentenza impugnata è esente dai vizi denunciati: da un lato analizza i profili di rilevanza della inchiesta e dà atto, correttamente, della sua conformità all’interesse pubblico, che sussisterebbe quand’anche, accedendo alla ricostruzione dei fatti prospettata dai ricorrenti, il Ma.Gi. fosse del tutto estraneo ai fatti di penale rilevanza, non indagato e non sottoposto a dirette intercettazioni, perché sarebbe comunque conforme all’interesse pubblico venire a conoscenza dei tentativi della malavita organizzata di infiltrarsi nel tessuto economico sano della società.

Anche quanto alla denunciata violazione della continenza, segnalata come particolarmente evidente nel titolo e nelle immagini ad esso accostate per enfatizzarlo e nei toni enfatici utilizzati per i sottotitoli e i cappelli introduttivi dei vari paragrafi più che nel testo, le censure sono infondate. La corte d’appello definisce il criterio della continenza richiamando proprie precedenti pronunce di merito in linea con i principi più volte affermati da questa Corte, secondo i quali essa deve essere correttamente intesa come correttezza formale dell’esposizione e non eccedenza dai limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse (Cass. n. 11767 del 2022), aggiungendo peraltro che la narrazione giornalistica, per essere rispettosa dell’altrui interesse a non essere screditati, non per questo può equivalere all’obbligo di utilizzare un linguaggio grigio ed anodino (richiama in proposito Cassazione penale n. 37442 del 2009)>>.

CEssione di diritti su bene ereditario vs cessione di quota ereditaria: cambia la qualifica a seconda che ci sia un solo bene oppure più

Cass. sez. II, ord.  08/07/2024  n. 18.548, rel. Criscuolo:

<<Questa Corte ha, anche di recente, affermato che in tema di divisione ereditaria, la cessione a terzi estranei di diritti su singoli beni immobili ereditari non comporta lo scioglimento – neppure parziale – della comunione, in quanto i diritti continuano a fare parte della stessa comunione, restando l’acquisto del terzo subordinato all’avveramento della condizione che essi siano in sede di divisione assegnati all’erede che li abbia ceduti. Ne consegue che, se un coerede può alienare a terzi in tutto o in parte la propria quota, tanto produce effetti reali se e in quanto l’acquirente venga immesso nella comunione ereditaria, mentre, in caso diverso, la vendita avrà soltanto effetti obbligatori, salvo che la vendita non abbia avuto a presupposto un atto di scioglimento della comunione ereditaria, anche implicito, in ordine a tali beni (Cass. n. 25462/2023; Cass. n. 3385/2007).

Viceversa, nel caso di vendita da parte di uno dei coeredi di bene ereditario che costituisce l’intera massa, l’effetto traslativo dell’alienazione non resta subordinato all’assegnazione in sede di divisione della quota all’erede alienante, dal momento che costui è proprietario esclusivo della frazione ideale di cui può liberamente disporre, sicché il compratore subentra, “pro quota”, nella comproprietà del bene comune (Cass. n. 25462/2023), con affermazione di principio che è destinata a trovare applicazione anche nel caso in cui, pur riferendosi la vendita a singoli beni, la stessa esaurisca l’intero complesso dei beni ricaduti nella quota dell’alienante.

A tal fine diviene rilevante la concreta verifica compiuta dal giudice di merito, essendosi quindi specificato che l’indagine da quest’ultimo compiuta e diretta ad accertare, di norma ai fini dell’ammissibilità del retratto successorio, se la vendita compiuta da un coerede abbia avuto per oggetto la quota ereditaria (o una sua frazione) ovvero beni determinati, costituisce un apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione immune da vizi logici e giuridici (Cass. n. 25462/2023; Cass. n. 97/2011; Cass. n. 369/1986, secondo cui l’indicazione di beni determinati nel contratto di alienazione non costituisce elemento decisivo per escludere la ipotesi di trasferimento della quota ereditaria o di parte di essa, occorrendo accertare se l’acquirente sia stato o non introdotto nella comunione, con un’indagine che si avvalga tanto del dato oggettivo della rappresentatività quantitativa del bene, quanto del dato soggettivo della volontà dei contraenti, desumibile anche dal comportamento successivo al negozio; Cass. n. 3959/83; Cass. n. 5620/82; Cass. n. 246/1985; Cass. n. 5458/1979; Cass. n. 1537/1973).

Ad avviso della Corte tale indagine risulta essere stata operata in maniera incensurabile dal giudice di merito, così che le critiche mosse con il motivo in esame appaiono prive di fondamento. In primo luogo si rileva che l’atto contestato contiene una indicazione delle componenti alienate che risulta esaustiva, in rapporto alla quota ereditaria vantata dalla alienante, avendo la cedente fatto riferimento sia alle componenti di natura immobiliare sia al diritto di credito al momento ancora esistente alla data dell’alienazione, e cioè al saldo attivo del rapporto di conto corrente intrattenuto dal de cuius.

Non incide in senso contrario il mancato riferimento ad alcuni titoli di Stato di cui la sentenza impugnata fa menzione. In tal senso rileva che, come riferito a pag. 11 della decisione di appello, trattasi di due titoli di stato che erano stati incassati dalla Ma.Su. nell’imminenza dell’apertura della successione, e che quindi non rientravano più, per essere stati estinti, tra le componenti attive dell’asse relitto.

Inoltre, l’avvenuta riscossione, peraltro in maniera illegittima, da parte della Ma.Su., ha determinato la sua condanna a reintegrare gli altri coeredi di quanto indebitamente prelevato, dando vita quindi ad un’obbligazione personale della stessa Ma.Su., che esula dal novero dei debiti ereditari, trattandosi di un’obbligazione assunta personalmente, per effetto della sua condotta illegittima.

Ne deriva che alcuna conseguenza sul piano dell’esegesi dell’atto può attribuirsi alla mancata menzione di tali titoli, in quanto ormai sottratti al novero dei beni ancora comuni, così come non può attribuirsi rilievo alla mancata menzione di debiti ereditari, in assenza della dimostrazione che ve ne fossero.

Né risulta rilevante la precisazione nell’atto di vendita che la alienante conservava il possesso dei beni alienati, e quindi ove si acceda all’esegesi fatta propria dai giudici di merito, della quota ereditaria di sua pertinenza, occorrendo a tal fine tenere conto della circostanza che la vendita riguardava la nuda proprietà, essendo il possesso di cui si fa menzione nell’atto riferibile al diritto di usufrutto che la venditrice si era riservata.

In assenza dell’indicazione di diversi beni facenti parte della quota ereditaria, ma esclusi dall’atto di cessione, ed apparendo quindi che quest’ultimo abbia effettivamente carattere esaustivo del compendio relitto, ancorché non si faccia espresso riferimento all’alienazione della quota, ma alla titolarità di singoli beni immobili e di diritti di credito, deve però ritenersi che l’atto in esame sia stato apprezzato come cessione di quota ereditaria, con una valutazione che non appare censurabile in questa sede, non potendosi attribuire al dato letterale portata risolutiva, ben potendosi quindi assegnare una valenza interpretativa privilegiata proprio al riferimento di cui all’art. 3 dell’atto al fatto che l’alienazione delle componenti indicate aveva ad oggetto tutto quanto spettante all’alienante “quale coerede del marito An.Ia.” >>.

E’ comunicazine al pubblico (art. 3 dir. Infosoc. 2001/29 sul copyright) predisporre antenne nei vari appartamenti di un condominio?

Si , se vengono dati in affitto, ricorrendo in tale caso il pubblico “nuovo” richiesto dalla fattispecie (euro)normativa.

Così la corte di Giustizia  UE , C-135/23, del 20.06.2024, GEMA v. GL, sulla annosa questione interpretativa del concetto di “comunicazione al pubblico” (v. ora la sintetica ma precisa esposizione di Cogo, in AA.VV., Lineamenti di diritto industriale,. Wolters Kluwer, 2024, 560 ss):

<< 33   A tal riguardo, in primo luogo, si deve considerare, al pari dell’avvocato generale ai paragrafi 40 e 50 delle sue conclusioni, e fatta salva la verifica da parte del giudice del rinvio, che il gestore di un condominio, dotando gli appartamenti di apparecchi televisivi e di antenne da interno che, senza che siano necessari ulteriori interventi, ricevono segnali e consentono la diffusione di trasmissioni, in particolare di musica, in detti appartamenti, realizza intenzionalmente un intervento al fine di consentire ai propri clienti l’accesso a tali emissioni, all’interno degli appartamenti locati e durante il periodo di locazione, senza che sia determinante che questi ultimi si avvalgano o meno di tale possibilità (v., in tal senso, sentenza del 14 giugno 2017, Stichting Brein, C‑610/15, EU:C:2017:456, punto 31 e giurisprudenza ivi citata).

34 Inoltre, l’intervento di tale gestore che dà accesso ad opere radiotelevisive ai suoi clienti deve essere considerato come una prestazione di servizi supplementare fornita al fine di trarne un certo utile.

35 L’offerta di questo servizio influisce infatti sulla categoria degli appartamenti di cui si tratta nel procedimento principale e quindi sul prezzo dell’affitto di tali appartamenti (v., in tal senso, sentenza del 15 marzo 2012, SCF, C‑135/10, EU:C:2012:140, punto 90 e giurisprudenza ivi citata) o, come rilevato al punto 25 della presente sentenza, sulla loro attrattiva e, pertanto, sulla loro frequentazione. Si deve quindi ritenere che l’offerta di siffatto servizio consenta di dimostrare il carattere lucrativo della comunicazione, ai sensi della giurisprudenza citata ai punti 24 e 25 della presente sentenza.

36 Ai fini dell’esame che deve essere effettuato dal giudice del rinvio, è irrilevante la circostanza, evidenziata da tale giudice, che gli apparecchi televisivi di cui si tratta nel procedimento principale siano collegati a un’antenna «interna» piuttosto che a un’antenna «centrale», come quella oggetto della causa che ha dato luogo all’ordinanza del 18 marzo 2010, Organismos Sillogikis Diacheirisis Dimiourgon Theatrikon kai Optikoakoustikon Ergon (C‑136/09, EU:C:2010:151).

37 Infatti, una distinzione siffatta tra antenne centrali e interne non sarebbe conforme al principio di neutralità tecnologica, in forza del quale la legge deve enunciare i diritti e gli obblighi delle persone in modo generico, al fine di non privilegiare il ricorso a una tecnologia rispetto a un’altra (v., in tal senso, sentenza del 24 marzo 2022, Austro-Mechana, C‑433/20, EU:C:2022:217, punto 27 e giurisprudenza ivi citata).

38 In secondo luogo, perché venga in considerazione la nozione di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, è necessario che le opere protette siano effettivamente comunicate a un pubblico. A tal riguardo, la Corte ha precisato che la nozione di «pubblico» riguarda un numero indeterminato di destinatari potenziali e comprende, peraltro, un numero di persone piuttosto considerevole (sentenza del 20 aprile 2023, Blue Air Aviation, C‑775/21 e C‑826/21, EU:C:2023:307, punti 51 e 52, nonché giurisprudenza ivi citata).

39 Pertanto, la nozione di «pubblico» comporta una certa soglia de minimis, il che esclude da detta nozione un numero di interessati troppo esiguo, se non addirittura insignificante. Per determinare tale numero, occorre tener conto, in particolare, del numero di persone che possono avere accesso contemporaneamente alla medesima opera, ma altresì di quante tra di loro possano avervi accesso in successione (v., in tal senso, sentenze del 31 maggio 2016, Reha Training, C‑117/15, EU:C:2016:379, punti 43 e 44, nonché del 19 dicembre 2019, Nederlands Uitgeversverbond e Groep Algemene Uitgevers, C‑263/18, EU:C:2019:1111, punto 68 e giurisprudenza ivi citata).

40 Nel caso di specie, il giudice del rinvio non fornisce indicazioni quanto al numero di persone che possono avere accesso alle opere, parallelamente o in successione, limitandosi ad affermare che l’immobile di cui si tratta nel procedimento principale è composto da 18 appartamenti. Tale giudice non indica, in particolare, se gli appartamenti siano oggetto di locazioni di breve durata, segnatamente a titolo di alloggio turistico, il che può incidere sul numero di persone che possono avere accesso in successione alle opere di cui si tratta.

41 Conformemente alla giurisprudenza citata al punto 31 della presente sentenza, spetta, rispettivamente, al giudice nazionale stabilire se opere protette siano effettivamente comunicate a un «pubblico», ai sensi della giurisprudenza citata ai punti 38 e 39 di tale sentenza, e alla Corte fornirgli indicazioni utili al riguardo.

42 Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 36 delle sue conclusioni, se il giudice del rinvio dovesse constatare che gli appartamenti dell’immobile di cui si tratta nel procedimento principale sono oggetto di locazioni di breve durata, segnatamente a titolo di alloggio turistico, i loro locatari dovrebbero essere qualificati come «pubblico», dato che essi costituiscono insieme, al pari dei clienti di un albergo, un numero indeterminato di potenziali destinatari [v., in tal senso, sentenza del 15 marzo 2012, Phonographic Performance (Ireland), C‑162/10, EU:C:2012:141, punti 41 e 42].

43 In terzo luogo, da una giurisprudenza costante risulta che, un’opera protetta, per essere qualificata come «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, deve essere comunicata secondo modalità tecniche specifiche, diverse da quelle fino ad allora utilizzate o, in mancanza, deve essere rivolta ad un «pubblico nuovo», vale a dire a un pubblico che non sia già stato preso in considerazione dal titolare del diritto nel momento in cui egli ha autorizzato la comunicazione iniziale della sua opera al pubblico (sentenza del 22 giugno 2021, YouTube e Cyando, C‑682/18 e C‑683/18, EU:C:2021:503, punto 70 e giurisprudenza ivi citata).

44 Come sottolineato dall’avvocato generale al paragrafo 59 delle sue conclusioni, i locatari di appartamenti di un immobile oggetto di locazioni di breve durata, segnatamente a titolo di alloggio turistico, possono costituire un siffatto pubblico «nuovo», dal momento che tali persone, pur trovandosi all’interno della zona di copertura di detta trasmissione, non potrebbero fruire dell’opera diffusa senza l’intervento del gestore di tale immobile, mediante il quale quest’ultimo installa, in tali appartamenti, apparecchi televisivi muniti di un’antenna da interno (v., in tal senso, sentenza del 31 maggio 2016, Reha Training, C‑117/15, EU:C:2016:379, punti 46 e 47).

45 Per contro, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 60 delle sue conclusioni, se il giudice del rinvio dovesse constatare che gli appartamenti di cui si tratta sono dati in locazione a locatari per uso residenziale, questi ultimi non possono essere considerati un «pubblico nuovo», ai sensi della giurisprudenza citata al punto 43 della presente sentenza.

La CG si adegua alle Conclusioni del bravo A.G. SZpunar.

Sulla redazione del rendiconto nell’associazione in partecipazione (principio di cassa o di competenza?)

Cass. sez. I, ord. 30/04/2024 n. 11.532, rel. Catallozzi, su un istituto sempre meno utilizzato:

<<- la Corte di appello ha affermato, aderendo alla argomentazione sviluppata sul punto dal giudice di primo grado, che, a sua volta, aveva fatto proprie le conclusioni della consulente tecnico d’ufficio, che in applicazione degli ordinari principi civilistici e contabili l’effetto delle “operazioni e degli altri eventi” doveva essere rilevato contabilmente e attribuito all’esercizio al quale tali operazioni ed eventi si riferivano e non a quello in cui si concretizzavano i relativi movimenti di numerario (incassi e pagamenti);

– da ciò ha fatto conseguire che i rilievi dell’associante in ordine al mancato incasso di (gran) parte del prezzo della dedotta vendita erano inconcludenti, atteso che quel che rilevava, ai fini della determinazione dei ricavi dell’associazione in partecipazione, era il dato contabile relativo a tale vendita, “rimanendo estranee le vicende relative all’effettivo incasso”;

– orbene, si rammenta che in tema di associazione in partecipazione l’autonomia che di regola si accompagna alla titolarità esclusiva dell’impresa e della gestione da parte dell’associante trova limite sia nell’obbligo del rendiconto ad affare compiuto o del rendiconto annuale della gestione che si protragga per più di un anno, ai sensi dell’art. 2552, terzo comma, cod. civ. (cfr., da ultimo, Cass. 22 giugno 2022, n. 20159);

l’obbligo di rendiconto si sostanzia nell’affermazione dei fatti storici che hanno prodotto le entrate e le uscite di denaro per effetto dell’attività svolta e il relativo saldo (cfr. Cass. 10 ottobre 2009, n. 25904; Cass. 28 aprile 1990, n. 3596; Cass. 8 marzo 1979, n. 1429), per cui, al compimento dell’affare o al termine del rapporto, non possono trovare spazio voci che non rispondono all’applicazione del principio di cassa, quali somme non riscosse per crediti insoluti;

– sotto altro aspetto, si osserva che in caso di redazione del rendiconto nelle forme del bilancio civilistico eventi successivi relativi al sorgere del relativo credito e, in particolare, il mancato incasso di (parte di) tale corrispettivo può assumere rilevanza e trovare ivi rappresentazione;

– infatti, ai sensi dell’art. 2426, n. 8, cod. civ., i crediti devono essere iscritti a bilancio secondo il “valore presumibile di realizzazione”, in base a una prognosi ex ante circa il grado di probabilità del futuro adempimento, pieno e tempestivo, del debitore, per cui il valore nominale dei crediti costituisce soltanto un parametro, da correggere prudenzialmente tenendo conto di tutti i suoi caratteri e latere debitoris (cfr. Cass. 18 marzo 2015, n. 5450; Cass. 21 aprile 2011, n. 9218; Cass. 27 novembre 1982, n. 6431);

– parallelamente, anche nella redazione del conto economico l’esistenza di circostanze, attenenti alla sfera del debitore, che rendono verosimile il mancato soddisfacimento del credito maturato nei termini originariamente convenuti assumono rilevanza imponendo, ai sensi dell’art. 2425, n. 10, lett. d), cod. civ., le “svalutazioni dei crediti compresi nell’attivo circolante…”;

– pertanto, indipendentemente dal fatto – contestato dalla controricorrente e di cui non vi è evidenza nella sentenza impugnata – relativo al dedotto fallimento della società debitrice o semplicemente di una sua difficoltà nei pagamenti, va ritenuto che, differentemente da quanto statuito dalla Corte territoriale, eventi successivi al perfezionamento delle operazioni – quali il mancato pagamento di crediti – possono assumere rilevanza nella parte in cui esprimono il risultato effettivo dell’attività oggetto dell’associazione in partecipazione e, dunque, incidono sull’utile derivante dalla stessa;>>

La delibera della SRL sul compenso amministratori è viziata da conflitto di interessi?

Cass. sez. I, 23/04/2024, ord. n. 10.889, rel. Catallozzi:

<<- con particolare riferimento al primo requisito si osserva che il conflitto di interessi, da accertarsi non in termini astratti e ipotetici, ma con riferimento alla singola delibera, sussiste quando vi è, di fatto, un conflitto tra un interesse non sociale – quindi un interesse che non è in alcun modo riconducibile al contratto di società – e uno qualsiasi degli interessi che sono riconducibili a tale contratto e, quindi, che sono comuni ai soci (cfr. Cass. 13 marzo 2023, n. 7279; Cass. 12 dicembre 2005, n. 27387)

– la situazione di conflitto di interessi tra socio e società presuppone, dunque, che il primo si trovi nella condizione di essere portatore, con riferimento a una specifica delibera, di un duplice e contrapposto interesse – da un lato il proprio interesse di socio [NO: di persona non socia: come socio può perseguire solo l’interesse sotteso al contratto sociale] e dall’altro l’interesse della società – e che questa duplicità di interessi sia tale per cui il socio non possa realizzare l’uno se non sacrificando l’altro;

– pertanto, la circostanza che una siffatta delibera consenta al socio il conseguimento (anche) di un suo personale interesse non comporta, di per sé, un pregiudizio all’interesse sociale (cfr. Cass. 21 marzo 2000, n. 3312);

– in applicazione di tale principio è stato affermato che la deliberazione determinativa del compenso dell’amministratore non può considerarsi invalida per il mero fatto che essa sia stata adottata col voto determinante espresso dallo stesso amministratore che abbia preso parte all’assemblea in veste di socio, se non ne risulti altresì pregiudicato l’interesse sociale (così, Cass. 3 dicembre 2008, n. 28748);

– ne consegue che, con riferimento al caso in esame, la mera circostanza che il socio privato, per il tramite dell’amministratore della società, abbia votato la delibera avente a oggetto la determinazione del compenso dell’amministratore medesimo non è idonea a dare luogo a una situazione di conflitto di interesse, rilevante ai fini che qui interessano, non avendo la Corte territoriale accertato – né la parte ricorrente dedotto di aver allegato – la presenza di elementi significativi di una incompatibilità dell’interesse sociale con l’interesse individuale perseguito;

– al contrario, il giudice di appello, nell’argomentare l’insussistenza della denunciata situazione di conflitto di interesse, ha valorizzato il fatto che con la impugnata delibera di approvazione del compenso degli amministratori l’assemblea ha disposto la riduzione dello stesso – da Euro 58.800,00 a Euro 41.040,00 – per il periodo decorrente dal 1° aprile 2015 al 31 dicembre dello stesso anno, in ragione delle difficoltà economiche della società;

– si osserva, inoltre, che non risulta decisiva la dedotta ripetuta sollecitazione rivolta dal socio privato al socio pubblico ad alienare la propria quota, ritenuta dal ricorrente strumentale a determinare un deprezzamento del valore della quota medesima e un suo più conveniente acquisto della stessa, atteso che la Corte di appello ha accertato che il socio privato si è limitato a chiedere al socio pubblico di procedere alla indizione di una gara a evidenza pubblica per la cessione di tale quota, in conformità con gli obblighi di legge, e che, dunque, la riferita finalità di deprimere il valore della quota per poi acquistarla a trattativa diretta non era ipotizzabile, stante l’incertezza dell’esito di una procedura a evidenza pubblica;

– con il secondo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 2477 e 2479-ter, secondo comma, cod. civ. e degli artt. 2,3 e 4D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, per avere la sentenza impugnata ritenuto insussistente il danno alla società e il conflitto di interessi del socio privato in relazione alla mancata nomina dell’organo di controllo;>>

L’operare della collazione deetermina ujn obbligo restitutorio ex lege

Cass. sez. II, sent. 21/06/2024  n. 17.198, rel. Picaro:

<<Ed invero l’impugnata sentenza, non avendo correttamente e compiutamente riportato il contenuto dei motivi dell’appello incidentale proposto da In.Gi. sopra descritti, non ha adottato una specifica statuizione, né ha addotto una sia pur minima motivazione sulla ragione per la quale, malgrado l’obbligo della collazione imposto dal testatore a tutti i legittimari, e benché l’imputazione dei beni immobili donati dal de cuius ad In.En. avesse fatto registrare alla data dell’apertura della successione (9.4.1991) un consistente superamento della quota di legittima riservata dal testatore ad In.En., il che ha giustificato la mancata attribuzione di beni immobili al predetto nel piano di riparto, non abbia disposto la restituzione in denaro di tale eccedenza da parte di In.En. a favore della massa ereditaria ai sensi dell’articolo 724 comma 2 cod. civ. per consentirne il prelevamento ex art. 725 cod. civ. da parte degli altri legittimari (Vi.Gi., In.An. ed In.Er.) fino a raggiungere insieme ai beni loro donati il valore delle rispettive quote di legittima, e per il residuo, il prelevamento pro quota della disponibile da parte dei coeredi testamentari (Va. In. In.Gi., Va.In., In.Gi. ed In. Lu.In. junior). Il piano di riparto, invece, ha lasciato In.En. nella piena proprietà dei beni immobili donatigli per un valore ampiamente superiore a quello della quota legittima a lui riservata dal testatore, in violazione della volontà di quest’ultimo, ricostruita nel senso di attribuire ai soli nipoti la quota disponibile del suo intero patrimonio (relictum + donatum), imponendo a tutti i legittimari la collazione dei beni ricevuti per donazione.

La restituzione da parte di In.En. alla massa ereditaria dell’eccedenza del valore dei beni a lui donati corrisponde ad un effetto legale della collazione imposta dal testatore, e non richiedeva alcuna azione di riduzione per lesione di legittima da parte dei coeredi testamentari. D’altra parte, In.En., avendo accettato l’eredità devoluta per testamento del padre In.Lu., era tenuto a subire gli effetti della collazione, che comunque non intaccavano la quota a lui riservata per legge, costituente l’unico limite all’operatività della collazione stessa.>>

Affermazione però frettolosa, dato che è discusso se l’effetto da collazione sia automatico oppure obbligatorio (ad es. Capozzi, Successioni e donaizoni, t. II, Giuffrè, 2023, 5 ed a cura di Ferrucci e Ferrentino, § 352.b)

Vale tacita rinuncia ai crediti, sub iudice e illiquidi, e non compresi nel bilancio finale di liquidazione, estinguere la società tramite cancellazione dal registro imprese in pendenza di lite (con impossibilità di trasferimento ai soci anche ai fini dell’art. 110 cod. proc. civ.)?

Cass. sez. I ord interl. 13 giugno 2024 n. 16.477, rel. Terrusi, rinvia la questione alle sezioni unite per contrasto giurisprudenziale (e per la particolare importanza della questione stssa):

<< VIII. – In definitiva può osservarsi che, dopo le sentenze delle Sezioni Unite all’inizio citate, si è perpetuato un contrasto in seno alla Corte, vertente in particolare sulla possibilità di configurare la tacita rinuncia ad alcuni dei crediti della società, sub iudice e illiquidi, e non compresi nel bilancio finale di liquidazione, ove questa venga cancellata dal registro delle imprese in pendenza di lite, con conseguente estinzione e impossibilità di trasferimento ai soci anche ai fini dell’art. 110 cod. proc. civ.

Secondo l’orientamento sotteso alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 6070 del 2013, condiviso da altre immediatamente susseguenti anche non massimate, andrebbe constata in casi del genere una presunzione pressoché assoluta di rinuncia, correlata a un intento abdicativo di per sé discendente dalla cancellazione.

Cosa peraltro determinativa di non secondarie criticità: (a) per l’irrazionalità della configurazione che pone a elemento distintivo l’idoneità della posta creditoria a essere iscritta nel bilancio finale, in contrasto col principio contabile generale per cui ogni credito, in verità, ancorché illiquido o incerto, va iscritto (e quindi può essere iscritto) in bilancio al valore presumibile di realizzo (art. 2426 cod. civ.); (b) per l’automatica riconduzione della formalità pubblicitaria (la cancellazione dal registro delle imprese) alla fattispecie della rinuncia, pur in presenza di circostanze logicamente non compatibili, come la coltivazione del giudizio per l’accertamento del credito da parte del liquidatore; (c) per l’oggettiva difficolta di sostenere l’assunto sul piano degli effetti pratici, giacché mantenendosi l’automatismo ne deriverebbe una perdita potenziale in pregiudizio degli stessi creditori, in ragione della impossibilità di far conto della posta attiva in esito a una scelta abdicativa a loro estranea.

In ragione di tanto le due decisioni citate, della Prima sezione (Cass. Sez. 1 n. 9464-20) e della Prima sottosezione delle Sesta (Cass. Sez. 6-1 n. 30075-20), hanno ritenuto di poter trovare un punto di equilibrio nell’affermazione di una presunzione inversa, escludente (di fatto) ogni automatismo: la cancellazione della società non determina la automatica rinuncia del credito controverso, perché la remissione del debito presuppone una volontà inequivoca in tal senso, che deve essere specificamente allegata e provata.

Di contro, l’arresto della Terza sezione ha posto nuovamente al centro del problema l’automatismo discendente dalla distinzione operata dalle Sezioni Unite del 2013, ridimensionandone il profilo – certo – ma sull’opposto versante della ripartizione dell’onere della prova: la volontà abdicativa si presume fintanto che non sia dimostrato il contrario, vale a dire che il credito, originariamente azionato dalla società e per definizione illiquido, non è stato implicitamente rinunciato>>.

La S.C. sul dolo contrattuale

Cass. sez. II, ord. 01/07/2024 n. 17.988, rel. Trapuzzano, circa la manomissione dei contachilometri in una vendita di auto:

<<Ora, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1439 e 1440 c.c., il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da uno dei contraenti siano stati tali che senza di essi l’altra parte non avrebbe contrattato mentre, ove i raggiri non siano stati tali da determinare il consenso, il contratto è valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse.

Con la conseguenza che – contrariamente all’assunto incomprensibile della sentenza impugnata – sarebbe stato determinante stabilire se il dolo fosse stato causam dans o meramente incidens ai fini della declaratoria di annullamento del contratto.

Ed invero il dolo, quale vizio del consenso, inteso in senso oggettivo, in contrapposizione al dolo in senso soggettivo, si concretizza nei raggiri perpetrati ai fini di alterare la volontà negoziale della vittima, inducendola così in errore. In questa dimensione il dolo è sinonimo di inganno e causa di annullamento del contratto quando i raggiri adoperati abbiano ad oggetto circostanze essenziali del negozio, nel senso di determinanti per la prestazione del consenso del raggirato.

Pertanto, il dolus causam dans, ossia tale che senza di esso l’altra parte non avrebbe contrattato (sull’an), si distingue dal dolus incidens, ossia che influisce sulle sole condizioni della contrattazione (sul quomodo), ma non è determinante del consenso, il quale non può dar luogo ad invalidità del contratto, ma solo alla riparazione dei danni.

Ne discende che, ai fini dell’annullamento del contratto, il raggiro posto a fondamento del dolo, per un verso, deve ingenerare nella parte che lo subisce una rappresentazione alterata della realtà e, per altro verso, deve provocare un errore influente sull’an della prestazione del consenso.

Sicché affinché vi sia dolo devono sussistere le seguenti condizioni: a. che vi sia una condotta, commissiva od omissiva, materializzata da raggiri, ossia da un complesso di manovre e artifizi; b. che tale condotta sia riconducibile ad un animus decipiendi del deceptor, ossia che vi sia una specifica intenzione di ingannare; c. che in conseguenza il deceptus sia caduto in errore; d. che vi sia un nesso di causalità sia tra i raggiri e l’errore sia tra la condotta fraudolenta e la decisione del deceptus di stipulare il contratto.

Quindi, il dolo può essere commissivo od omissivo.

Il dolo commissivo richiede la realizzazione di una condotta attiva, in cui siano ravvisabili gli estremi di un complesso di artifizi integranti i raggiri, che alterino il processo di formazione della volontà del deceptus. Segnatamente il dolo commissivo postula che un contraente sia stato ingannato per il tramite di una macchinazione fraudolenta e attiva posta in essere da un altro soggetto. Rientra in tale condotta ogni artifizio, ogni menzogna, purché grave e non facilmente smascherabile. E ciò anche quando tali raggiri siano utilizzati non per suscitare nella controparte l’intento di contrarre, bensì per indurla a tenere un comportamento del quale l’autore dei raggiri ignorava il contenuto negoziale. Sul piano oggettivo l’idoneità a trarre in inganno richiede l’impiego di mezzi adeguati.

Mentre la reticenza e silenzio possono acquistare rilevanza in relazione alle circostanze e al contegno che determina l’errore. È necessario però che il silenzio sia intenzionalmente ingannevole ovvero che la reticenza del contraente si inserisca in una condotta che si configuri nel complesso quale malizia o astuzia diretta a realizzare un inganno (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 11605 del 11/04/2022; Sez. 6-2, Ordinanza n. 11009 del 08/05/2018; Sez. L, Sentenza n. 8260 del 30/03/2017; Sez. L, Sentenza n. 7751 del 17/05/2012; Sez. 2, Sentenza n. 9253 del 20/04/2006; Sez. 2, Sentenza n. 5549 del 15/03/2005; Sez. L, Sentenza n. 2104 del 12/02/2003; Sez. 1, Sentenza n. 8295 del 11/10/1994; Sez. 1, Sentenza n. 11038 del 18/10/1991).

La prova che il raggiro abbia provocato sul meccanismo volitivo un errore da considerarsi essenziale ricade sulla parte che lo deduce (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5734 del 27/02/2019; Sez. 3, Sentenza n. 21074 del 01/10/2009; Sez. L, Sentenza n. 16679 del 24/08/2004; Sez. 2, Sentenza n. 3065 del 19/04/1988).

Per l’effetto, affinché si produca l’annullamento del contratto, non è sufficiente una qualunque influenza psicologica sull’altro contraente, ma sono necessari artifici o raggiri, o anche semplici menzogne, che abbiano avuto comunque un’efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte e quindi sulla prestazione del consenso di quest’ultima (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 20231 del 23/06/2022; Sez. 1, Sentenza n. 1585 del 20/01/2017; Sez. 3, Sentenza n. 12892 del 23/06/2015; Sez. 3, Sentenza n. 12424 del 25/05/2006; Sez. 3, Sentenza n. 20792 del 27/10/2004; Sez. U, Sentenza n. 1955 del 11/03/1996).

Alla stregua dei precedenti rilievi, il giudice del rinvio dovrà chiarire se i raggiri abbiano avuto un’incidenza determinante sulla stipulazione del contratto oppure abbiano inciso sulle sole condizioni del contratto (e segnatamente sulla quantificazione del corrispettivo)>>.

Innovazioni e/o uso della cosa comune da parte del condomino, che vi installa un condizionatore

Cass. sez. II, sent.  01/07/2024  n. 17.975, rel. Caponi:

<<Nel merito, questa Corte ha più volte affermato che la naturale destinazione all’uso della cosa comune, può tener conto di specificità – che possono costituire ulteriore limite alla tollerabilità della compressione del diritto del singolo condomino – solo se queste, costituiscano una inevitabile e costante caratteristica di utilizzo (cfr. Cass. n. 15319 del 2011). Ed è stato affermato il principio secondo il quale “nell’identificazione del limite all’immutazione della cosa comune, disciplinato dall’art. 1120 co. 2 c.c., il concetto di inservibilità della stessa non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione – coessenziale al concetto di innovazione – ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità, per cui si può tener conto di specificità – che possono costituire ulteriore limite alla tollerabilità della compressione del diritto del singolo condomino – solo se queste costituiscano una inevitabile e costante caratteristica di utilizzo” (Cass. n. 24960 del 2016).

Nella fattispecie la Corte distrettuale non è scesa all’analisi degli aspetti tecnici della installazione, quali un apprezzabile deterioramento del decoro architettonico ovvero una significativa menomazione del godimento e dell’uso del bene comune, omettendo anche di valutare che si tratta di obbligo introdotto solo successivamente alla installazione di cui si discute. La delibazione dei dati istruttori da parte del giudice del gravame, a ben vedere, parte da una non condivisibile interpretazione del limite alle innovazioni consentite della cosa comune, là dove lo pone nella trascurabilità del pregiudizio del singolo condomino o nella “corrispettività” di un qualche vantaggio per lo stesso, non meglio definito.

In altri termini, ai sensi dell’art. 1120 c.c., l’installazione, sulle parti comuni, di un impianto per il condizionamento d’aria a servizio di una unità immobiliare, che non presupponga la modificazione di tali parti, può essere compiuta dal singolo condomino per conto proprio, in via di principio senza richiedere al Condominio alcuna autorizzazione. Il rilascio o il diniego di una siffatta autorizzazione può tutt’al più significare l’inesistenza o l’esistenza di un interesse di altri condomini a fare uso delle cose comuni in modo pari a quello del condomino determinatosi all’installazione. Nel caso di specie non emerge dagli atti che sia stato accertato che l’installazione su parti comuni di condizionatori al servizio di un’unità immobiliare determini alterazione della destinazione delle cose comuni, né impedisca ad altri condomini di farne parimenti uso (anzi ciò è anche avvenuto, in precedenza)>>.