Nullità ed annullamento di delibera societaria tra rilevabilità di ufficio da parte del giudice e potere dispositivo della parte

Cass. sez. I del 18.04.2023 n. 10.233, rel. Dongiacomo:

<<4.11. Vanno, dunque, affermati i seguenti principi:

– il giudice, se investito dell’azione di nullità di una delibera assembleare, ha sempre il potere (e il dovere), in ragione della natura autodeterminata del diritto cui tale domanda accede, di rilevare e di dichiarare in via ufficiosa, e anche in appello, la nullità della stessa per un vizio diverso da quello denunciato;

– se, invece, la domanda ha per oggetto l’esecuzione o l’annullamento della delibera, la rilevabilità d’ufficio della nullità di quest’ultima da parte del giudice nel corso del processo e fino alla precisazione delle conclusioni dev’essere coordinata con il principio della domanda per cui il giudice, da una parte, può sempre rilevare la nullità della delibera, anche in appello, trattandosi di eccezione in senso lato, in funzione del rigetto della domanda ma, dall’altra parte, non può dichiarare la nullità della delibera impugnata ove manchi una domanda in tal senso ritualmente proposta, anche nel corso del giudizio che faccia seguito della rilevazione del giudice, dalla parte interessata;

– nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, tale potere (e dovere) di rilevazione non può essere esercitato dal giudice oltre il termine di decadenza, la cui decorrenza è rilevabile d’ufficio e può essere impedita solo dalla formale rilevazione del vizio di nullità ad opera del giudice o della parte, pari a tre anni dall’iscrizione o dal deposito della delibera stessa nel registro delle imprese ovvero dalla sua trascrizione nel libro delle adunanze dell’assemblea>>.

Si noti poi la negazione della contrattualità (parrebbe, anche se solo in relazione al processo) dei rapporti societari:

<<4.5. In effetti, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il principio per cui il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare in via ufficiosa, ove emergente dagli atti, l’esistenza di un diverso vizio di nullità, è suscettibile di applicazione estensiva anche nel sottosistema societario, e, precisamente, nell’ambito delle azioni di impugnazione delle deliberazioni assembleari, benché non assimilabili ai contratti, trattandosi, tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, di domanda pertinente ad un diritto autodeterminato (cfr., sul primo punto, Cass. SU n. 26242 del 2014, in motiv., punti 6.13.3. e ss. e, in particolare, 6.13.6., lì dove di evidenzia che “il giudizio di nullità/non nullità del negozio… sarà, così, definit(iv)o e a tutto campo indipendentemente da quali e quanti titoli di nullità siano stati fatti valere dall’attore”, e, sul secondo punto, Cass. n. 8795 del 2016), e cioè individuata a prescindere dallo specifico vizio (rectius, titolo) dedotto in giudizio: come, in effetti, accade per la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, individuati, appunto, sulla base della sola indicazione del relativo contenuto, con la conseguenza che, per un verso, la causa petendi delle relative azioni giudiziarie si identifica con i diritti stessi e non con il relativo titolo (contratto, successione ereditaria, usucapione, ecc.) che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non ha, per l’effetto, alcuna funzione di specificazione della domanda, e, per altro verso, non viola il divieto dello ius novorum in appello la deduzione da parte dell’attore ovvero il rilievo ex officio iudicis di un fatto costitutivo del tutto diverso da quello prospettato in primo grado a sostegno della domanda introduttiva del giudizio (Cass. n. 23565 del 2019)>>.

Il punto andava spiegato un poco, dato che in linea di principio il rapporto di società è pienamente contrattuale: anche se l’esito non sarebbe cambiato, valorizzando i giudici il comune profilo dell’autodeterminazione.

Sulla sostituzione di deliberazione invalida con nuova deliberazione

Trib. Roma n° 17476/2022 del 25.11.2022, RG 53880/2018, rel. Goggi, sull’oggetto:

<<Secondo, infatti, l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale maggiormente
condivisibile che si è affermato in materia (cfr. Trib. di Monza 5/3/2001), dopo la
sostituzione, l’annullamento della prima delibera è precluso, in ogni caso, per effetto della cessazione della materia del contendere, essendo riservato al giudice della impugnazione della seconda delibera, specie nell’ipotesi, come quella per cui è causa, in cui il giudizio sia tuttora pendente, ogni sindacato sulla legittimità dell’atto di rinnovo.
Tale tesi si fonda sul presupposto, di cui non sembra potersi dubitare, dell’efficacia estintiva degli effetti della deliberazione sostituita da attribuirsi alla nuova deliberazione avente lo stesso oggetto della prima: la nuova delibera, invero, priva di ogni effetto la delibera che ha sostituito e tale sua efficacia mantiene fin tanto che non venga annullata per essere, a sua volta, contraria alla legge o allo statuto. Ne consegue che la sua eventuale non conformità alla legge o allo statuto – prevista dall’art. 2377 c.c. quale condizione per l’operatività della preclusione all’annullamento della delibera impugnata – potrebbe privarla di tale efficacia estintiva degli effetti della prima delibera solo se venisse annullata a seguito di un autonomo giudizio di impugnazione, giudizio che non può essere introdotto nell’ambito del giudizio di impugnazione avente per oggetto la delibera sostituita – stante la diversità dell’oggetto e la conseguente novità dell’eventuale domanda così introdotta in tale giudizio – né essere oggetto di un accertamento incidentale, ai soli fini della verifica delle condizioni di operatività della norma contenuta nell’ottavo comma dell’art. 2377 c.c., stante la necessità, allo scopo di privare di efficacia la delibera successivamente adottata, di una pronuncia costitutiva di annullamento, per sua natura incompatibile con un accertamento incidenter tantum. Al giudice dell’impugnazione della prima delibera, pertanto, è preclusa ogni valutazione circa la validità della delibera sostitutiva, con la sola eccezione, come è stato correttamente osservato in dottrina, della possibilità di rilevare, ove ricorrano, vizi comportanti la nullità della stessa delibera a norma dell’art. 2379 c.c.; tale nullità, infatti, comportando l’improduttività di qualsiasi effetto della (seconda) delibera, rilevabile anche d’ufficio, senza necessità di alcuna pronuncia costitutiva, potrebbe essere assoggettata, indipendentemente dall’impugnazione da parte degli interessati, a sindacato incidentale in seno al processo originato dall’impugnazione della delibera originaria>>

OK, può essere sia così. Solo che  nel caso sub iudice si tratta di rapporto tra delibere di organi diversi (Cda e assemblea soci), mentre la legge regola la sostituzione tra delibere dello stesso organo: il Tribunale avrebbe dovuto motivare sul punto.

Andrebbe poi approfondito il fatto che la delibera sostiotutiva dell’assemblea dei soci era solo “ratificante” l’indicazione del CdA

Domanda di annullamneto di delibera societaria per abuso di maggioranza: altro caso di rigetto

Sono rari gli accoglimenti di domande di annullameno di delibere societarie per abuso di maggioranza, sopratutto per il requisito di un intento soggettivo pravo (ma sarebbe da esplorare se bastasse l’assenza di un -qualunque- giovamento prospettico all’attività sociale).

Il Trib. di Milano con sent. 804/2022 del 31.0’1.2022 , RG 50629/2018, rel. MaRCONI, rientra tra i rigetti.  E a ragione, se si condivide l’accertamento fattuale e delle ragini di business alla base dello stesso.

Così accerta e motiva il giudice:

<<Come noto la fattispecie di creazione giurisprudenziale dell’abuso del diritto di voto da parte del socio di maggioranza che determina l’annullabilità della deliberazione assembleare si configura allorché ilsocio eserciti consapevolmente il suo diritto di voto in modo tale da ledere le prerogative degli altri soci senza perseguire alcun interesse sociale, in violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nell’esecuzione del contratto sociale.

La ravvisabilità dell’interesse sociale all’adozione delle delibera esclude, quindi, in radice laconfigurabilità dell’abuso di potere dei soci di maggioranza, fermo restando che, in ogni caso, ilsindacato sull’esercizio del potere discrezionale della maggioranza, reputata dall’ordinamento migliore interprete dell’interesse sociale in considerazione dell’entità maggiore del rischio che corre nell’esercizio dell’attività imprenditoriale comune, deve arrestarsi alla legittimità della deliberazione attraverso l’esame di aspetti all’evidenza sintomatici della violazione della buona fede senza spingersi acomplesse e retrospettive valutazioni di merito in ordine all’opportunità delle scelte di gestione eprogramma dell’attività comune sottese alla delibera adottata.

Nel caso in esame come risulta dal verbale dell’assemblea del 20 luglio 2018 la deliberazione di aumento di capitale da € 400.000 a € 800.000 “ a pagamento e alla pari, nel pieno rispetto del diritto diopzione spettante ai Soci” è stata adottata allo scopo di consentire alla società di sottoscrivere e liberare azioni ordinarie ed uno strumento finanziario partecipativo della Cooperativa EditorialeLariana per consentirle a sua volta di sottoscrivere l’aumento di capitale della Editoriale s.r.l., il tutto finalizzato, previa revoca dello stato di liquidazione delle due società, allo sviluppo di nuove iniziative imprenditoriali nel mondo dell’editoria sfruttando le sinergie fra le due società ( v. doc. 2 di parteattrice a pag. 4).

Come chiaramente spiegato dalla difesa della società convenuta la delibera tendeva a realizzare l’interesse sociale alla ripresa della piena attività ed al salvataggio della società partecipata Editoriale s.r.l., che era stata posta in liquidazione ed iscritta a bilancio al valore simbolico di € 1, con uninvestimento attuato indirettamente, attraverso l’aumento di capitale nella Cooperativa EditorialeLariana, che ne era già socia di maggioranza, finalizzato ad assicurarle la possibilità di godere anche in futuro del contributo governativo riconosciuto, a partire dal 2021, alle società editrici di quotidiani eperiodici solo se integralmente partecipate da una società cooperativa.La ripresa dell’attività della Editoriale s.r.l. avrebbe, poi, consentito alla società convenuta non solo ilrecupero di valore e redditività della partecipazione che diveniva indiretta all’esito dell’operazione ma anche la migliore tutela del suo patrimonio immobiliare, costituito dalla porzione dell’edificio di prestigio in cui esercita l’attività di impresa adiacente alla porzione di proprietà di Editoriale s.r.l., scongiurando il rischio dell’impatto negativo della materiale separazione fra le due porzioni, utilizzate promiscuamente, conseguente alla vendita in sede di liquidazione della parte di proprietà di Editoriales.r.l.

La complessa operazione di finanziamento sottesa alla deliberazione di aumento di capitale era, quindi,chiaramente concepita in funzione dell’evidente interesse della società alla ripresa dell’attività della partecipata Editoriale s.r.l. e la circostanza è sufficiente ad escludere la stessa configurabilità dell’abusodella maggioranza senza che rilevi in alcun modo l’esito negativo dell’operazione, constatato ex post, corrispondente alla realizzazione del normale rischio di impresa che si è, peraltro, risolto in pregiudizioeconomico solo per i soci che hanno partecipato alla ricapitalizzazione.

La diluizione della partecipazione dei soci di minoranza, dunque, costituisce l’effetto naturale dellegittimo esercizio del potere discrezionale della maggioranza di deliberare l’aumento di capitale nell’interesse della società e della libera scelta di non sottoscriverlo degli altri soci che, del resto, neanche hanno mai dedotto in giudizio di essersi trovati nell’impossibilità nota alla maggioranza di far  fronte al relativo impegno finanziario.

Né contrariamente a quanto sostenuto dagli attori la previsione dell’aumento di capitale “alla pari” cioè senza la previsione del sovrapprezzo corrispondente al maggior valore del patrimonio sociale rispetto alcapitale nominale può costituire sintomo di abuso della maggioranza, in presenza della previsione del diritto di opzione a favore di tutti i soci ( v. Tribunale di Milano 6.8.2015 n. 9296).>>