Sul concetto di sfruttamento commerciale e di uso “indebito” del nome e/o dell’immagine altrui (art. 7 segg. c.c.)

Cass. sez. I, ord. 08/04/2024  n. 9.289, rel. Catallozzi sul non semplice problema della possibilità di riconoscere il diritto di informare a chi lo fa solo per promuovere le vendite (che tocca temi di vertice come quello dei diritti fondamentali agli enti commerciali).

<<- giova rammentare che l’art. 7 cod. civ. riconosce il diritto della persona, alla quale si contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, di chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni;

– il successivo art. 8 estende, poi, la legittimazione ad agire per la tutela del nome anche a chi, pur non portandolo, abbia un interesse fondato su ragioni familiari degne d’essere protette;

– la tutela apprestata dalle richiamate disposizioni non si risolve solo nella facoltà di reazione avverso condotte usurpative del nome, in ossequio a una concezione di stampo proprietario, ma si estende sino a comprendere ogni possibile utilizzazione del nome altrui che sia tale da arrecare al suo titolare un pregiudizio ingiustificato, in quanto preordinata ad assicurare l’effettivo rispetto dell’interesse della persona, fisica o giuridica, a preservare la propria identità personale “di essere rappresentato, nella vita di relazione, con la sua identità, così come questa nella realtà sociale, generale o particolare, è conosciuta o poteva essere conosciuta con l’applicazione dei criteri della normale diligenza e della buona fede soggettiva” (così, Cass. 22 giugno 1985, n. 3769);

– l’art. 7 cod. civ. può essere invocato anche per reagire a indebite utilizzazioni a fini commerciali del proprio nome – così gli artt. 10 cod. civ. e 96-98 L. n. 633 del 1941 con riferimento a indebite utilizzazioni per le medesime finalità della propria immagine -, in particolare laddove associato nella comunicazione promozionale a prodotti posti in vendita, in relazione al pregiudizio derivante sia dall’annacquamento del nome (o dallo svilimento dell’immagine), sia dalla perdita delle relative facoltà di sfruttamento economico (cfr. Cass. 11 agosto 2009, n. 18218; nonché, con riferimento alla lesione del diritto al conseguimento di un corrispettivo per la prestazione del consenso all’utilizzazione del proprio ritratto, Cass. 2 maggio 1991, n. 4785; Cass. 11 novembre 1979, n. 5790);

– affinché l’utilizzo del nome altrui possa ritenersi illecito è necessario che lo stesso risulti “indebito”, ossia non costituisca l’esercizio di un diritto o una facoltà o l’assolvimento di un obbligo ovvero non rappresenti la manifestazione di un interesse giuridicamente apprezzabile;

– ai fini dell’individuazione del perimetro degli usi indebiti del nome altrui e, al contrario, di quelli leciti, può venire in soccorso la menzionata disciplina relativa al diritto d’autore, secondo cui non è consentita la divulgazione del ritratto di una persona senza il consenso di questa a meno che la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico ricoperto dalla persona, dalla necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o da fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico e sempre che la divulgazione non rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione o anche al decoro della persona ritrattata;

– da ciò è stato fatto discendere, condivisibilmente, che la divulgazione dell’immagine senza il consenso dell’interessato è illecita quando sia rivolta a fini puramente commerciali, pubblicitari o, comunque, di lucro e non risponda a finalità informative o alle altre finalità indicate nell’art. 97 L. n. 633 del 1941 (cfr. Cass. 19 febbraio 2021, n. 4477; Cass. 29 gennaio 2016, n. 1748);>>

Ok, ma fin qui tutto semplice.

Poi viene la parte difficile.

<<- deve, tuttavia, osservarsi che sovente, come nel caso in esame, le esimenti finalità informative, didattiche o culturali coesistono con finalità di lucro, in relazione al fatto che tali finalità vengono soddisfatte mediante l’esercizio di un’attività imprenditoriale con finalità lucrativa;

– in proposito, è stato recentemente evidenziato che “non si possono pertanto equiparare alle finalità commerciali (per cui sarebbe sempre necessario il consenso) l’uso propagandistico della fotografia del personaggio famoso per indurre all’acquisto di altri prodotti o l’applicazione dell’immagine sul prodotto stesso, alla vendita di un prodotto informativo (latamente didattico-culturale) in cui viene inserita la fotografia a fini di documentazione e integrazione delle informazioni fornite agli acquirenti” (così, Cass. 16 giugno 2022, n. 19515);

– in realtà, con riferimento all’utilizzo del nome o dell’immagine altrui nello svolgimento di un’attività di impresa, il pertinente quadro normativo è articolato, venendo in rilievo il diritto al rispetto del proprio nome e della propria identità personale (artt. 2 e 22 Cost. e 8CEDU), la libertà d’impresa di cui godono gli operatori economici (artt. 41 Cost. e 16 Carta di Nizza) e l’interesse degli individui a essere informati (artt. 2 e 21 Cost., 10 CEDU e 11Carta di Nizza);

– ciò impone all’interprete di operare un bilanciamento tra i diversi interessi in conflitto, ossia tra quelli sottesi al diritto esclusivo sul proprio nome (e ritratto) e quelli sottesi a una sua libera utilizzazione (cfr., in tema, Cass. 1° febbraio 2024, n. 2978);

non sembra condivisibile, dunque, la tesi secondo cui la sussistenza di uno scopo commerciale o pubblicitario valga di regola ad escludere qualsiasi fine informativo e, conseguentemente, la legittimità dell’utilizzo dell’immagine altrui;

– in tali situazioni predicare l’irrilevanza delle finalità informative e culturali in chiave scriminante dell’illiceità della riproduzione non autorizzata dell’immagine significherebbe pervenire alla inaccettabile conclusione, in quanto contraria allo spirito del legislatore, di una sostanziale compressione del diritto di informazione, che verrebbe riservato solo ad iniziative prive di scopo di lucro e, dunque, a iniziative poste in essere da enti pubblici o da soggetti privati che intendano dare vita ad attività benefiche;

– piuttosto, nei casi di confine in cui si riscontra una combinazione fra uso informativo e uso commerciale in senso lato deve condursi un’attenta ponderazione degli interessi in gioco, lasciando aperta la possibilità che l’interesse informativo prevalga su quello pubblicitario determinando la liceità dell’uso; [solo che manca il parametro per eseguire la ponderazione ,….!!]>>

E’ utile riportare l’applicazione delle regole ai fatti di causa (nel caso si trattava di uso del nome per tre modelli di scarpe da donna Ferragamo:

<<- orbene, con riferimento al caso in esame è opportuno distinguere la fattispecie della “Ballerina Au.” da quelle del “Sandalo Gondoletta” e della “Ballerina Idra”;

– quanto alla prima ipotesi, secondo quanto accertato dalla Corte di appello, l’utilizzo del nome Au. da parte della Fe.Sa. Spa era stato oggetto di pattuizione tra tale società e la He.Au. Children’s Fund (la fondazione benefica creata nel 1994 dai figli di He.Au.);

– per l’esattezza, con il contratto concluso nel 2000, in occasione della mostra organizzata in Giappone, era stato pattuito che la Fe.Sa. Spa avrebbe potuto continuare a vendere, anche dopo la scadenza della licenza d’uso a fini pubblicitari del nome e del ritratto di He.Au., i prodotti oggetto del contratto, tra cui la ballerina chiamata “Au.”, con il loro nome commerciale;

– quanto alle altre due calzature, sempre secondo quanto accertato dalla Corte territoriale, il nome He.Au. compariva nella descrizione del prodotto sul sito Internet della Fe.Sa. Spa (più precisamente, con riferimento al sandalo “Gondoletta” si leggeva che “il modello venne indossato da He.Au.”; mentre con riferimento alla ballerina “Ira”, che “il modello originale fu creato da Fe.Sa. nel 1959. È uno dei numerosi modelli inventati da Fe.Sa. per l’attrice He.Au.”), nonostante il suo utilizzo non fosse coperto da alcun accordo tra le parti;

– tuttavia, la sentenza impugnata ha ritenuto che l’uso del nome He.Au. da parte della controricorrente abbia avuto una funzione essenzialmente informativa, correlata all’esigenza di indicare “la prestigiosa origine della calzatura” e il contesto nel quale era stata realizzata;

– pertanto, pur non negando la “connotazione latamente commerciale” della divulgazione di tali informazioni, ha ritenuto, nella sostanza, prevalente la predetta funzione descrittiva;

– ha, dunque, correttamente operato il giudizio di bilanciamento tra le concorrenti funzioni informative e commerciali e concluso per la prevalenza delle prime all’esito di una valutazione di merito che, investendo un accertamento riservato al giudice di merito, non è sindacabile in questa sede sotto il paradigma della violazione o falsa applicazione della legge;>>

 

Diritto al nome e cognomi di entrambi i genitori: depositata la sentenza della Corte Costituzionale

Oggi 31 maggio 2022 è stata depositata la sentenza della corte costitizinale n. 131/2022 sull’oggetto.

Qui ricordo solo l’invito duplice della Corte al legislatore, per evitare che proliferi il numero di cognomi, via via assunti dalle generazioni successive, e per tutelare l’interesse del figlio ad un cognome uguale a quello di fratelli e sorelle:

<< 15.– A corollario delle declaratorie di illegittimità costituzionale, questa Corte non può esimersi dal formulare un duplice invito al legislatore.

15.1.– In primo luogo, si rende necessario un intervento finalizzato a impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome.

Simile intervento si dimostra impellente, ove si consideri che, a partire dal 2006, varie fonti normative hanno contribuito al diffondersi di doppi cognomi.

Dapprima la prassi amministrativa (Ministero dell’interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, circolare n. 21 del 30 maggio 2006, recante «Problematiche inerenti all’attribuzione del cognome materno», circolare n. 15 del 12 novembre 2008, recante «Chiarimenti in merito alle istanze di cambiamento del nome e del cognome di cui agli art. 84 e seguenti del D.P.R. n. 396/2000», e circolare n. 14 del 21 maggio 2012, recante «D.P.R. n. 54 del 13 marzo 2012. Modifiche al D.P.R. n. 396/2000 in materia di procedimento di cambiamento del cognome») e, di seguito, la puntiforme modifica dell’art. 89 del d.P.R. n. 396 del 2000, a opera dell’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 13 marzo 2012, n. 54 (Regolamento recante modifica delle disposizioni in materia di stato civile relativamente alla disciplina del nome e del cognome prevista dal titolo X del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396) hanno allentato i requisiti sulla base dei quali è ammesso il cambio del cognome anche con l’aggiunta di un secondo cognome (che di regola è quello della madre).

A seguire, la sentenza n. 286 del 2016 di questa Corte ha consentito, sulla base di un accordo fra i genitori, l’attribuzione del cognome della madre in aggiunta a quello del padre e, da ultimo, il presente intervento rende l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori regola di carattere generale.

A fronte di tale disciplina, occorre preservare la funzione del cognome, identitaria e di identificazione, a livello giuridico e sociale, nei rapporti di diritto pubblico e di diritto privato, che non è compatibile con un meccanismo moltiplicatore dei cognomi nel succedersi delle generazioni.

La necessità, dunque, di garantire la funzione del cognome, e di riflesso l’interesse preminente del figlio, indica l’opportunità di una scelta, da parte del genitore – titolare del doppio cognome che reca la memoria di due rami familiari – di quello dei due che vuole sia rappresentativo del rapporto genitoriale, sempre che i genitori non optino per l’attribuzione del doppio cognome di uno di loro soltanto.

15.2.– In secondo luogo, spetta al legislatore valutare l’interesse del figlio a non vedersi attribuito – con il sacrificio di un profilo che attiene anch’esso alla sua identità familiare – un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle. Ciò potrebbe ben conseguirsi riservando le scelte relative all’attribuzione del cognome al momento del riconoscimento contemporaneo del primo figlio della coppia (o al momento della sua nascita nel matrimonio o della sua adozione), onde renderle poi vincolanti rispetto ai successivi figli riconosciuti contemporaneamente dagli stessi genitori (o nati nel matrimonio o adottati dalla medesima coppia).>>

Circa il diritto intertemporale:

<< 16.– Infine, è doveroso precisare che tutte le norme dichiarate costituzionalmente illegittime riguardano il momento attributivo del cognome al figlio, sicché la presente sentenza, dal giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, troverà applicazione alle ipotesi in cui l’attribuzione del cognome non sia ancora avvenuta, comprese quelle in cui sia pendente un procedimento giurisdizionale finalizzato a tale scopo.

Il cognome, infatti, una volta assunto, incarna in sé il nucleo della nuova identità giuridica e sociale, il che comporta che possibili vicende che incidano sullo status filiationis o istanze di modifica dello stesso cognome siano regolate da discipline distinte rispetto a quelle relative al momento attributivo.

Eventuali richieste di modifica del cognome, salvo specifici interventi del legislatore, non potranno, dunque, che seguire la procedura regolata dall’art. 89 del d.P.R. n. 396 del 2000, come sostituito dall’art. 2, comma 1, del d.P.R. n. 54 del 2012>>

Il cognome del figlio non è più automaticamente quello del padre : interviene la Corte Costituzionale

Il comunicato di oggi 27.04.2022 della Corte costituzionale fa sapere che è stato dichiarata <<discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre>>.
Pertanto, ora la regola diventa che <<il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due.

In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico.

La Corte ha, dunque, dichiarato l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre, con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi>>
(v. comunicato nel sito della Corte).

La cosa notevole è che l’attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo non era stabilita da alcuna norma espressa ma solo dalla consuetudine (per quelli naturali invece dispone l’art. 262 cc).

Si tratta di modifica da tempo suggerita da più parti.

Marchi rinomati, scissioni aziendali e liti tra familiari

La corte di appello di Venezia nel 2017 aveva giudicato la lite tra esponenti della nota famiglia di ristoratori Cipriani intorno a marchi denominativi contenenti il detto cognome (APP. Venezia 2798/2017 del 30.11.2017, rel. Bazzo).

Non si ripercorrono qui le complesse vicende fattuali.  Solo si riporta il passaggio ove si dice che la fama della persona e quindi l’uso del proprio nome non può andare ad incidere su marchi anteriori: la tutela civile del nome  è altro dalla tutela del suo valore commerciale. Si tratta di tema spesso ricorrente per cui vale la pena di leggere le analitiche considerazione della Corte:

<<Ciò premesso, va rilevato che una volta avvenuta la scissione (vuoi a seguito dell’accordo del 1967, vuoi per effetto di vicende successive) tra la figura di Giuseppe Cipriani senior ed i segni “Cipriani”, ed “Hotel Cipriani” – il primo concesso su domanda risalente già al 1969 per le classi 43 (alberghi, ristoranti caffetteria), 35 (gestione d’alberghi) e 16 (stampati) – la notorietà del suddetto e del figlio Arrigo quali personaggi di rilievo (ed imprenditori di successo grazie alla fama dell’Harry’s Bar) non potrà minimamente giustificare l’uso del patronimico in contrasto con la tutela da assicurare ai citati marchi (italiani e comunitari), divenuti celebri, e che in quanto tali non possono tollerare interferenze ed agganciamenti di sorta, apparendo anzi irrilevante quanto ipotizzato dal tribunale circa la preesistente notorietà delle iniziative economiche nel settore della ristorazione della famiglia Cipriani (asseritamente anteriore ai marchi registrati, in capo ad Hotel Cipriani); basti rimarcare che – come già detto – detta notorietà va semmai ricollegata all’esercizio del locale suindicato (Harry’s Bar), e si rivela a ben vedere ininfluente dopo che Giuseppe Cipriani senior (con l’adesione del figlio) ebbe a disporre del suo nome al momento dell’uscita dalla compagine dell’Hotel Cipriani lasciando che la Società conservasse in esclusiva il nome Cipriani (giusta l’accordo del 1967: si veda al riguardo la recente pronuncia resa in data 29 giugno 2017 dal Tribunale dell’Unione a definizione del ricorso di Arrigo Cipriani sulla richiesta di annullamento del marchio comunitario, depositata all’udienza di conclusioni, laddove la statuizione di accertamento resa dal Tribunale di Venezia in altra controversia tra Arrigo Cipriani e l’odierna appellante – con sentenza n. 1838/2011 – non appare sufficiente a consentire diverse conclusioni).
Si osserva dunque che la diversa interpretazione prospettata dal Tribunale (coerente con la possibilità per gli odierni appellati di svolgere attività di ristorazione sotto un segno distintivo incentrato sul loro nome anagrafico poiché di per sé non decettivo, sempre che proposto in dimensioni grafiche “contenute”), presuppone che sia del tutto conforme alla correttezza professionale l’uso del suddetto nome al fine di veicolare un valore di qualità e tradizione (asseritamente “sinonimo di qualità, eleganza e stile in tutto il mondo”, come puntualizzato nella memoria di costituzione degli appellati, ricollegabile in modo esplicito al segno de quo), ma ciò avverrebbe in concorrenza ed aggancio con i marchi celebri “Cipriani” ed “Hotel Cipriani”, con ogni conseguente rischio di confusione e di associazione tra le attività contraddistinte dai segni in conflitto, in presenza di attività imprenditoriali svolte nello stesso settore o comunque in settori affini.>>

Poi così prosegue la Corte: <<Né risulta decisiva in contrario la sottolineata esigenza di comunicare al pubblico le competenze e professionalità acquisite, consentendo agli appellati di “firmare” in qualche modo le loro attività, dando loro una precisa impronta; i predetti a ben vedere non possono essere annoverati tra gli artisti o i “creatori” di moda, o “stilisti” che si affermino in attività artistiche o professionali che richiedano una puntuale informazione al pubblico della provenienza dell’attività creativa realizzata, appartenendo al mondo della ristorazione (per quanto di fascia alta) e provvedendo in detta veste ad aprire e gestire ristoranti nelle più disparate località, sulla base di personali scelte imprenditoriali, alle quali risultano non pertinenti i profili di “creatività” nel senso sopra indicato.
In definitiva, per quanto ogni valutazione concreta non sia stata resa agevole dalla scarsezza del materiale offerto in causa, gli argomenti addotti nell’impugnata sentenza per consentire l’utilizzo delle espressioni “by Arrigo Cipriani”, “by Giuseppe Cipriani”, “by famiglia Cipriani” e consimili (“managed by” o “directed by”), al fine di indicare la gestione di attività di ristorazione da parte delle persone delle persone individuate nelle stesse (o individuabili con esse), non si rivelano idonei a configurare l’asserita valenza descrittiva, ipotizzata sulla base di astratte (ed opinabili) considerazioni, a fronte di una indubbia valenza distintiva delle medesime, le quali – per loro natura – sono destinate (quali sinonimi di elevata ospitalità, convivialità e buon vivere) non certo a comunicare mere informazioni essenziali relative alla “specie, alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca,,,” del servizio, bensì ad attirare l’attenzione dei potenziali clienti sul nome anagrafico sotto il quale il servizio è proposto e dunque sulla origine e sulla qualità dello stesso, in quanto tale in grado di connotarlo con il richiamo ad un patronimico divenuto famoso, poiché oggetto dei marchi celebri in legittima titolarità dell’appellante (nel settore alberghiero e della ristorazione).
In tal senso deve escludersi che l’utilizzo del patronimico Cipriani corrisponda ai principi di correttezza professionale ovvero alle consuetudini di lealtà in campo commerciale e industriale, tenuto conto dell’inevitabile rischio di aggancio e di confusione con i segni distintivi propri delle affini attività alberghiere e di ristorazione esercitate dalla società appellante mediante iniziative imprenditoriali sostenute da marchi celebri e tra l’altro rivolte alla medesima fascia alta di clientela.>>.