Risarcimento del danno e violazione di software: interessante caso di “colosso” che copia il concorrente “piccolo”

Altro passo in avanti verso la definizione del rapporto processuale  nella lite Facebook c. Business Competence circa il software <<Faround>> (il primo: Fb; il secondo: Bc).

Mentre ancora pende (in Cassazione) l’impugnazione sulla sentenza non definitiva circa l’an della violazione (dopo due gradi di merito sfavorevoli a Fb), viene definita in appello la sentenza definitiva sul risarcimento del danno. Si tratta di Appello Milano 5 gennaio 2021 n. 9/2021, RG 3878/2019.

E’ appellante Bc poiché aveva ottenuto in primo grado un risarcimento di €350.000,00 capitali , ritenuto molto riduttivo. Csì stimò il tribunale sia per la fase iniziale di sviluppo software in cui si trovava Bc, sia perché il prodotto contraffattore di Facebook (Nearby) veniva concesso a titolo gratuito e quindi non era possibile valutare i benefici economici per Facebook stesso (nella sentenza d’appello è riportato il passaggio motivatorio centrali di quella di primo grado, v.  sub 4).

Trattandosi di sentenza sulla liquidazione del danno, la parte centrale e più interessante dell’iter motivatorio riguarda i metodi di liquidazione: è la questione tre. Vale la pena riproporre i passaggi dei CTU a cui la Corte aderisce:

<<il pregiudizio economico subito da parte attrice per effetto delle condotte illecite delle convenute ricomprende sia i danni correlati allo svilimento di valore dell’intangibile (Faround), sia i mancati guadagni relativi al periodo 2013-2016;

. sulla base dei dati disponibili (Investor Memorandum), è congruo, per la valutazione dei suddetti valori, l’utilizzo di un income approach, attraverso il metodo dell’attualizzazione delle royalties presunte con valore terminale a capitalizzazione perpetua;

. il metodo reddituale delle c.d. “royalties presunte”, che il titolare di un’app avrebbe richiesto per autorizzare dei terzi allo sfruttamento della stessa (detto anche metodo del “prezzo di consenso”) è, infatti, particolarmente indicato laddove si voglia arrivare alla determinazione di un valore di scambio della risorsa immateriale; il presumibile valore di mercato di una risorsa immateriale è pertanto stimabile come somma delle royalties presunte (che l’impresa licenziataria pagherebbe, se la risorsa immateriale non fosse di sua proprietà), attualizzate, in un orizzonte temporale tendenzialmente di 3-5 anni, oltre a un terminal value;

. questa metodologia di stima di un intangibile, ampiamente riconosciuta dalla prassi professionale e dalla dottrina, nel caso di specie consente di limitare i profili di incertezza insiti nella valutazione, in quanto non considera i costi previsti nel suddetto Investor Memorandum (come nel caso dei metodi finanziari o reddituali) o altri parametri non facilmente verificabili (come nel caso di metodi empirici basati sugli utenti giornalieri);

. per la determinazione della royalty equitativa è congrua una percentuale del 5% dei ricavi, percentuale che si colloca nei dintorni del limite superiore della royalty proposta da Facebook ed è sensibilmente inferiore a quanto indicato da Business Competence, con il richiamo alla c.d. regola del 25%, tenuto conto che anche la Circ. Min. del 22.9.1980, n. 32 (“Prezzo di trasferimento e valore normale nella determinazione dei redditi di imprese assoggettate a controllo estero”), in attuazione dei principi generali, da ultimo rivisti dall’OCSE nel luglio 2010, indica, come canoni congrui, percentuali fino al 5% del fatturato.>>

Sulla base di ciò , la stima del danno proposta dai CTU è articolata. A fronte di un minimo e un massimo, propongono una soluzione intermedia:

<<. l’ipotesi A), formulata sulla base dei ricavi, indicati da Business Competence nell’ipotesi più conservativa (c.d. “seconda stima”), portava alla individuazione del valore complessivo di € 18.805.000;

. l’ipotesi B), formulata sulla base dei correttivi, proposti a titolo esemplificativo dai C.T.P. di Facebook secondo “ipotesi ottimistiche”, ai ricavi indicati da parte attrice, portava all’individuazione del valore complessivo di € 1.614.000.

I CTU hanno evidenziato che l’intervallo considerato tra l’ipotesi massima A) e quella minima B) era ampio e ogni valore contenuto al suo interno poteva essere preso in considerazione per la stima del danno, graduando diversamente i parametri relativi ai ricavi; pertanto hanno ritenuto equo formulare l’ulteriore ipotesi C), ricompresa nel predetto intervallo, che portava all’individuazione del valore di € 3.831.000, avendo positivamente valutata l’attendibilità dei dati previsionali proposti da Business Competence, ancorché considerata con l’applicazione di scenari particolarmente conservativi, che tenevano conto di un profilo di rischio adeguato al caso di specie e della sostenibilità del modello di business, ed evidenziando che le rettifiche prudenziali adottate, che avevano fortemente ridotto il petitum di parte attrice, trovavano la loro ragione d’essere in un insieme di elementi e concause, in cui rilevava, in senso lato, anche la giovane età di Faround e il suo modello di business promettente, ma ancora in fieri.

Infatti, a parere dei CTU, in questa fase – in buona parte, peraltro, da ritenersi successiva a quella che nelle start up viene definita “valle della morte” – la trasformazione dell’idea in applicazione commerciale era già cominciata, ma non ancora consolidata attraverso una stabilità dei flussi reddituali/finanziari e quindi soggetta ad un rischio, che, anche in prospettiva, rimaneva elevato>>

La Corte aderisce alla soluzione intermedia.

E’ poi molto interessante esaminare le tre obiezioni di Fb e la replica della Corte. Ecco quanto eccepisce Fb:

<<1) I CTU hanno fondato la propria valutazione del lucro cessante su di un documento, l’Investor Memorandum, di provenienza di parte (essendo stato redatto da Business Competence) e quindi, come tale del tutto inattendibile.

2) I CTU hanno utilizzato per la determinazione dei ricavi presumibili, delle royalty richiedibili e del terminal value, dati e criteri ipotetici e del tutto irrealistici.

3) I CTU hanno errato nel ritenere che l’app Faround avrebbe avuto una vita utile, cioè produttiva di vantaggi economici, di durata indeterminata, circostanza che risulterebbe smentita:

. dal fatto che, se avessero considerato la struttura del mercato, i CTU avrebbero agevolmente concluso che Faround non poteva avere alcuna vita utile o che avrebbe avuto, al più, una vita utile molto ridotta, pari al massimo a qualche mese;

. dal fatto che, a partire da settembre 2016, dopo l’emanazione della sentenza non definitiva, Business Competence avrebbe potuto riavviare il progetto Faround e rendere l’app profittevole, ma non lo ha fatto, sebbene la “concorrente” di Faround, cioè Nearby Places, non fosse più attiva;

. dal fatto che eventuali e potenziali clienti non avrebbero avuto alcuna ragione per pagare per l’utilizzo di Faround, quando vi erano sul mercato altre e ben più consolidate realtà, come Yelp, che offrivano sostanzialmente lo stesso servizio gratuitamente.>>

Sarebbe istruttivo analizzarle partitamente, cosa qui non possibile. Vediamo solo la 1, cui la Corte così replica:

<<1) In ordine all’obiezione sub. 1), già formulata nelle osservazioni alla relazione preliminare della consulenza, la Corte ritiene condivisibile quanto evidenziato nella CTU: “In assenza di altri dati (che ben avrebbero potuto essere forniti dai convenuti, dotati di strutture organizzative intrinsecamente orientate alla raccolta e gestione capillare di dati sugli utenti, che per Facebook costituiscono l’essenza del vantaggio competitivo aziendale), la stima del pregiudizio economico subito dall’attore si è basata sull’Investor Memorandum di Business Competence; come già evidenziato infra nel par. 8.3., ‘l’attendibilità dei dati previsionali proposti da parte attrice è stata positivamente valutata (…) ancorché considerata con l’applicazione di scenari particolarmente conservativi, che tengano conto di un profilo di rischio adeguato al caso di specie e della sostenibilità del modello di business. Le rettifiche prudenziali adottate, che hanno fortemente ridotto il petitum di parte attrice, trovano la loro ragione d’essere in un insieme di elementi e concause in cui rileva, in senso lato, anche la giovane età di Faround e il suo modello di business promettente ma ancora in fieri’.

La stima dei ricavi può, in assenza di ulteriori elementi, essere basata su scenari probabilistici, che i C.T.U. ritengono nel caso di specie verosimili. Si noti come i convenuti rappresentino una delle più note società a livello mondiale per la produzione ed elaborazione di big data che, nel caso di specie (si vedano i due affidavit) solo in minima parte sono risultati ancora disponibili. Quanto alla lamentata assenza di dati storici, si rileva che essa non è certo imputabile a parte attrice, né che essa sia necessaria per confortare ipotesi, che comunque mantengono la loro validità e che sono tipiche di start up. Contrariamente a quanto affermato, l’Investor Memorandum è stato verificato da un soggetto terzo indipendente (i sottoscritti C.T.U.), che ha formulato numerosi rilievi critici, pervenendo a soluzioni, in termini di stima del quantum, ben diverse e assai più conservative rispetto a quelle prospettate dagli attori.”

Alla chiarezza e correttezza degli argomenti sopra riportati, la Corte ritiene solo di aggiungere che:

. la valutazione dell’entità di un mancato guadagno di una parte non può che fondarsi su una previsione in ordine a ciò che sarebbe ragionevolmente potuto accadere, qualora non fosse intervenuto il fatto illecito della controparte, che ha impedito il successivo concretizzarsi dell’attività progettata;

. nel caso in cui si tratti di valutare il ritorno economico, ragionevolmente prevedibile, derivante dall’attuazione di un progetto innovativo, è pertanto indispensabile assumere come dato di partenza, da sottoporre ad esame, proprio la previsione di ricavo formulata dal soggetto nel momento in cui intraprende l’esecuzione del progetto ipotizzato;

. nella fattispecie in esame, come evidenziato dai CTU, Facebook (rifugiandosi nell’inverosimile dichiarazione di conservare solo per 90 giorni, e quindi di non averne più la disponibilità nel momento in cui le sono stati richiesti, i dati inerenti la sua attività, cioè proprio quei dati da cui trae tutti i suoi ricavi aziendali) ha fatto del tutto mancare la sua collaborazione nel fornire dati che avrebbero potuto rivelarsi utili per valutare la correttezza delle previsioni di ritorno economico formulate da Business Competence, ad esempio anche solo comunicando se e in che misura fossero eventualmente aumentati (ovviamente fornendo i dati relativi e non limitandosi ad affermazioni unilateralmente definiteinconfutabili) i suoi utenti e/o i suoi inserzionisti in seguito all’introduzione della funzionalità Nearby, che come accertato, forniva le medesima utilità, che era previsto sarebbero state fornite da Faround;

. ciò che rileva, in ogni caso, è il fatto che, come accaduto nella fattispecie in esame, la previsione di ritorno economico, formulata dal soggetto interessato, sia sottoposta alla valutazione di un soggetto tecnicamente competente e terzo indipendente rispetto alle parti interessate.>>

In  conclusione, arriviamo alla liquidazione del danno nel dispositivo: <<Condanna Facebook Inc., Facebook Ireland Ltd. e Facebook Italy s.r.l. a pagare, a titolo di risarcimento del danno, in solido tra loro, a Business Competence s.r.l. la somma di € 3.831.000, con interessi legali dal 17.9.2019 (data della sentenza impugnata) al saldo>> (oltre il decuplo della liquidazione di primo grato)..

(liquidazione spese per il giduzio di appello non particolarmente alta: euro 29.792 oltre spese generali 15% e accessori di legge).

Discriminazione su YouTube e Primo Emendamento

La Corte Distrettuale californiana-divisione San Jose, 06.01.2021, nel caso n. 19-cv-04749-VKD, Divino Group e altri contro Google, esamina il caso del se un’asserita discriminazione tramite la piattaforma YouTube possa essere tutelata con ricorso al Primo Emendamento

Gli attori, esponenti della comunità LGBTQ+, si ritenevano discriminati dalla piattaforma di condivisione YouTube in due modalità: i) non gli era permessa la monetizzazione  dei video caricati, che invece è normalmente ammessa da YouTube per i video di maggior successo come introito dalla relativa pubblicità; ii) erano immotivatamente stati qualificati video in <Restricted Mode> (vedi sub pagina 4/5 e pagina 2/3 sulle modalità di funzionamento di queste caratteristiche YouTube)

Gli attori dunque lamentavano la violazione del diritto di parola secondo il Primo Emendamento in relazione al § 1983 del Chapter 42 Us Code, che così recita <<every person who, under color of any statute, ordinance, regulation, custom, or usage, of any State or Territory or the District of Columbia, subjects, or causes to be subjected, any citizen of the United States or other person within the jurisdiction thereof to the deprivation of any rights, privileges, or immunities secured by the Constitution and laws, shall be liable to the party injured in an action at law, suit in equity, or other proper proceeding for redress, except that in any action brought against a judicial officer for an act or omission taken in such officer’s judicial capacity, injunctive relief shall not be granted unless a declaratory decree was violated or declaratory relief was unavailable. For the purposes of this section, any Act of Congress applicable exclusively to the District of Columbia shall be considered to be a statute of the District of Columbia>>

Le ragioni dell’invocazione del Primo Emendamento erano due.

Per la prima, YouTube costituisce uno state actor , quindi sottoposto ai vincoli del primo emendamento . Cio anche perché è la stessa Google/YouTube a dichiararsi Public forum for free Expression (p. 7).

Per la seconda ragione, Google , per il fatto di invocare <<the protections of a federal statute—Section 230 of the CDA—to unlawfully discriminate against plaintiffs and/ortheir content, defendants’ private conduct, becomes state action “endorsed” by the federal government>>, p. 8

Circa il primo punto,  qui il più interessante, la Corte risponde che la domanda è espressamente  ostacolata dal campo di applicazione del Primo Emendamento, così come delineato dalla nota sentenza Praeger University versus Google del 2020: le piattaforme non svolgono le tradizionali funzioni governative, pagina 8/9.

La seconda ragione non è molto chiara.   Sembra di capire che, per il solo fatto che la legge (§ 230 CDA) permetta la censura e quindi la selezione dei post, l’avvalersi di tale norma costituisce esercizio di pubblici poteri, sicchè tornerebbe l’applicabilità del primo emendamento.

La Corte però rigetta anche questa ragione (agina 9/11): <<plaintiffs nevertheless argue that government action exists whereCongress permits selective censorship of particular speech by a private entity>>, p. 11.  Il caso Denver Area del 1996, invocato dagli attori, è molto lontano dalla fattispecie sub iudice, ove manca  un incarico di svolgere pubbliche funzioni (pagina 11).

A parte altre causae petendi (ad es. false association e false advertising ex Lanham Act, sub 2, p. 12), gli attori avevano anche chiesto la dichiarazione di incostituzionalità del §   230 CDA. Anche qui, però,  la corte rigetta, seppur  per ragioni processuali , p .17-18

(sentenza e link tratti dal blog di Eric Goldman, che ora aggiorna su nuova decisione con post 14 luglio 2023).

Impegni antitrust verso la Commissione in caso di intese vietate e diritti di terzi

La Corte di Giustizia (CG) ha cassato la pronuncia del Tribunale con cui era stato escluso che la decisione della Commissione ex art .9 reg. 1/2003 (sull’applicazione delle regole di concorrenza ex art. 101 e 102 TFUE)  pregiudicasse i diritti di terzi: in particolare, i diritti delle controparti contrattuali i quelle imprese i cui impegni  proconcorrenziali erano stati receputui nella decisione della commissione.

Sempre che detti terzi non si fossero assunti volontariamente anche essi i medesimi impegni, ça va sans dire.

Si tratta di C.G.  09.12.2020, C-132/19 P, Groupe Canal + SA (GC+) c. Commissione ed altri.

La Commissione aveva aperto un’indagine sui contratti di licenza e distribuzione in UE praticati da Paramount e altre major cinematografiche usa, asseritamente restrittivi della concorrenza tramite le clausole imponenti restrizioni territoriali (esclusive nazionali). Aveva censurato in particolare quelle di Paramount con  Sky circa UK e Irlanda (§ 5 e ivipunti 2-3 del riepilogo del Tribunale). Aveva poi concordato con Paramount degli impegni, consacrato in decisione ex art. 9 cit. 26.07.2016

Le contestazioni dunque riguardavano <possibili restrizioni [che ostacolavano] la fornitura di servizi televisivi a pagamento nell’ambito di accordi di licenza [conclusi] fra sei case di produzione cinematografica americane e le principali emittenti [televisive] di contenuti a pagamento dell’Unione europea.>, § 5 punto 1 del cit. riepilogo operato dalla sentenza del Tribunale.

Il Tribunale aveva rigettato la istanza di annullamento della decisione , proposta da GC+ , asserendo che essa comubnque avrebbe potuto far rendere inefficace le clausole pregiudizievoli tramite azione giudiziale presso un giudice  nazionale.

La CG però, mentre rigetta gli altri motivi, accoglie il quarto seconda parte, § 94 ss

Ricorda infatti che, secondo l’art. 16 § 1 del cit. reg. 1/2003, <<quando le giurisdizioni nazionali si pronunciano su accordi, decisioni e pratiche ai sensi dell’articolo [101] o [102] [TFUE] che sono già oggetto di una decisione della Commissione, non possono prendere decisioni che siano in contrasto con la decisione adottata dalla Commissione. Esse devono inoltre evitare decisioni in contrasto con una decisione contemplata dalla Commissione in procedimenti da essa avviati. A tal fine le giurisdizioni nazionali possono valutare se sia necessario o meno sospendere i procedimenti da esse avviati. Tale obbligo lascia impregiudicati i diritti e gli obblighi di cui all’articolo [267 TFUE]».>>

Questo è successo nel caso de quo: due sono gli errori compiuti dal tribunale (§§ 111 e 114).

Infatti <<l’intervento del giudice nazionale non è in grado di ovviare in modo adeguato ed effettivo alla mancata verifica, nella fase di adozione di una decisione emessa sulla base dell’articolo 9 del regolamento n. 1/2003, della proporzionalità della misura rispetto alla tutela dei diritti contrattuali dei terzi>>, § 115..

Non resta allora che <<affermare che il Tribunale ha erroneamente ritenuto, in sostanza, ai punti da 96 a 106 della sentenza impugnata, che la possibilità per le controparti contrattuali di Paramount, tra cui Groupe Canal +, di adire il giudice nazionale sia tale da rimediare agli effetti degli impegni di Paramount, resi obbligatori dalla decisione controversa, sui diritti contrattuali di dette controparti contrattuali, constatati al punto 95 della suddetta sentenza>, § 116..

Annulla quindi sia sentenza che decisione della Commissione.

L’algoritmo di Deliveroo (per l’assegnazione degli slot delle consegne ai riders) è discriminatorio?

 Interessante sentenza del tribunale del lavoro di Bologna sul software di Deliveroo per l’assegnazione degli slot e delle zone di consegna ai riders, leggibile qui:    https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/algoritmo-discriminatorio-deliveroo-condannata-risarcire-sindacati-ADGYrbBB

Si tratta di Trib. bologna sez. lavoro RG 2949/2019 , ord. 31.12.2020, attori FILCAMS CGIL BOLOGNA-NIDIL CGIL BOLOGNA-FILT CGIL BOLOGNA.

Si applica la normativa del lavoro subordinato pur con lavori formalmente autonomi, quanto meno per le discriminazioni, se si tratta di <rapporti le cui modalità di esecuzione sono organizzati dal committente>> (decreto legislativo 81 del 2015 articolo 2, novellato dalla legge 2 novembre 19 n 128) (§ 2).

Viene poi al paragrafo 3 precisata la legittimazione dei sindacati attori

Entra nel merito al paragrafo 4  precisando l’onere della prova in tema di antidiscriminazione: incombe sul datore di lavoro , una volta che dalla domanda attorea si può presumere in base a dati statistici l’esistenza di condotte discriminatorie (articolo 28 comma 4 del decreto 150/2011).

Sempre nel medesimo paragrafo 4 è spiegato dove sta la discriminazione: sta nel fatto che, da un lato,  i primi riders a prenotarsi le fasce orarie penalizzano i successivi e, dall’altro, che il tempo a disposizione per la prenotazione è così ridotto che impedisce o pregiudica la posssibilità di svolgere attività sindacali. Quindi in pratica eventuali scioperi che cadessero nel periodo in cui vanno prenotati gli slot , penalizzano pesantemente i Riders che intendono parteciparvi.

Del resto la piattaforma Deliveroo non è riuscita a ribaltrea l’onere della  prova: <<sul punto anzitutto si osserva che la mancata allegazione e prova, da parte della società resistente, del concreto meccanismo di funzionamento dell’algoritmo che elabora le statistiche dei rider preclude in radice una più approfondita disamina della questione. Ed invero, in corso di causa la società – sulla quale evidentemente gravava l’onere della relativa prova, se non altro sulla base del generale principio di vicinanza della stessa – non ha mai chiarito quali specifici criteri di calcolo vengano adottati per determinare le statistiche di ciascuna rider, né tali specifici criteri vengono pubblicizzati sulla piattaforma, laddove si rinviene unicamente un generico riferimento agli ormai noti parametri della affidabilità e partecipazione>>

Pertanto <<ne discende logicamente che il rider che aderisca ad uno sciopero, e dunque non cancelli almeno 24 ore prima del suo inizio la sessione prenotata, può quindi subire un trattamento discriminatorio, giacché rischia di veder peggiorare le sue statistiche e di perdere la posizione eventualmente ricoperta nel gruppo prioritario, con i relativi vantaggi… Il sistema di profilazione dei rider adottato dalla piattaforma (…), basato sui due parametri della affidabilità e della partecipazione, nel trattare nello stesso modo chi non partecipa alla sessione prenotata per futili motivi e chi non partecipa perché sta scioperando (o perché è malato, è portatore di un handicap, o assiste un soggetto portatore di handicap o un minore malato, ecc.) in concreto discrimina quest’ultimo, eventualmente emarginandolo dal gruppo prioritario e dunque riducendo significativamente le sue future occasioni di accesso al lavoro.>>

Il tribunale quindi,  applicando la speciale regola di onere della prova vigente in materia, non ha avuto modo di ispezionare le istruzioni algoritmiche (che costituisce -il punto teoricametne più interessante sugli algoritmi guidanti l’attività dele piattatforme digitali). I due parametri decisivi (c.d. indice di affidabilità + c.d. indice di partecipazione nei picchi cioè nelle fascie orarie di maggior lavoro) sono infatti stati ammessi dalla convenuta.

C’è però da vedere se penalizzare il rider, quando intenda aderire a scioperi casualmente fissati proprio nelle ore in cui deve prenotarsi i turni, costituisca discriminazione. Spulciando l’art. 2 del d. lgs. 216 del 2003, potrebbe rientrare nel concetto di discrminazione basata su <convinzioni personali>.  Forse è un’intepretazione un pò tirata (ad es. già lo contestano Tosi P.-Puccenti E., Rider, fuori luogo invocare la disciplina antidiscriminatoria, Il sole 24 ore, 06.01.2021, p. 22), ma potrebbe starci. Mi domando se non sia più problematica l’assenza di qualunque intenzionalità: la tesi infatti presuppone che lo sciopero venga fissato proprio in quella fascia oraria (la quale è determinata a priori, a prescindere dalla collocazione temporale degli scioperi eventuali futuri): in tutte le altre fasce non vale. Per cui , mancando ogni intenzionalità “ostacolante”, è da vedere se si possa ravvisare “discrminzione” : può rispondersi positivamente, se si concorda che valga l’elemento oggettivo e non quello soggettivo. Mi domando se allora potrebbe dirsi che discriminazione non ci fosse quando l’ostacolo/pregiudizio è  minimo: nel caso specifico,  solo in quella ristretta fascia oraria del lunedì in cui il rider deve prenotare i propri slot .

Infine, potrebbe essere condotta antisindacale ex art. 28 Statuto lav.?

Sentenza-scuola sul modo di condurre il giudizio intorno al rischio di confondibilità tra marchi

La recente sentenza del Tribunale UE 2 dicembre 2020, caso T-687/19, InMusic Brands C. Euipo-Equipson, può essere considerata un promemoria di come vada condotto il giudizio di confondibilità in materia di marchi registrati

Il marchio posteriore (quello contestato) era denominativo (<MarQ>, § 2)  mentre quello anteriore (l’opponente) era “complesso”, in  quanto  costituito da una componente denominativa quasi identica (solo la Q era sostituita dalla K) preceduta da una componente figurativa, contenente una M stilizzata in bianco su fondo rosso

Il marchio posteriore è stato registrato per classi 9 e 11, mentre il marchio anteriore per classe 9. Sostanzialmente si trattava di materiali elettrici o da concerto (speaker amplificatori eccetera)

La normativa di riferimento è costituita dal regolamento 207 del 2009 , articoli 8.1.b relativamente all’articolo 53. 1. a.

L’opponente contesta la novità del secondo marchio, stante la propria registrazione anteriore

Non ci sono insegnamenti eclatanti.  Si ricordano regole consuete come quelle per cui:

– è sufficiente che i motivi di rifiuto ci siano solo per una parte dell’Unione, § 22;

– deve guardarsi al consumatore medio dei beni sub-judice ragionevolmente informato e attento, § 24;

– il marchio complesso non viene esaminato nelle sue componenti singolarmente prese (una alla volta) , ma come una totalità, § 54 – 55;

– la somiglianza tra i segni deve essere esaminata sotto i tre soliti profili visuale-fonetico-concettuale, § 54;

– la maggior/minor somiglianza tra segni si compensa con la maggior/minor affinita merceologica , § 90.

Interessano semmai alcune peculiarità del caso specifico.

Per i prodotti sub iudice il consumatore di riferimento è sia il pubblico generale sia i professionisti del settore della preparazione dei concerti, § 29-33. Nei paragrafi successivi poi si tiene conto anche della frequenza di acquisto e dell’importanza del fattore costo.       Per l’ufficio amministrativo, sebbene <‘lighting mixers’ were not purchased on a daily basis, they were not, however, necessarily particularly expensive. It concluded that the level of attention of the relevant public in respect of all the goods in question varied from average to high depending on the price and technical sophistication of the goods concerned>, § 34.

Ne segue che bisogna capire come giudicare quanto il consumatore appartiene a categorie diverse, come nel caso de quo. Il Tribunale è assai chiaro : circa il giudizio confusorio, <<where the relevant public consists of consumers who are part of the general public and of professionals, the section of the public with the lowest level of attention must be taken into consideration >>, § 39.

Altra peculiarità è che i <sound and Lighting mixers> costituiscono due prodotti separati, non potendo essere ritenuto un unico prodotto,  paragrafo 48.

In presenza di un marchio composto di elementi figurativi e verbali, sono i primi maggiormente distintivi dei secondi poichè è più semplice ricordare e citare un marchio col nome che descriverne gli elementi figurativi , § 63.

Le differenze tra i due Marchi (vedili meglio nelle riproduzioni presenti in sentenza) non eliminano la somiglianza visiva, § 72.

Quanto alla somiglianza fonetica, anche questa è accertata come esistente paragrafo 82

La somiglianza concettuale, infine, secondo il Tribunale manca, dal momento che il marchio anteriore Marc con la Q non ha un significato specifico e per questo motivo non può essere stabilito un giudizio di somiglianza o di similianza concettuale.

Quanto al giudizio sul rischio di confusione, i tre profili della somiglianza tra segni non sempre vanno necesariamente “pesati” allo stesso modo, potendo variare in base alle qualità intrinseche dei segni o alle condizioni di vendita.  paragrafo 97 .   In particolare,  <if the goods covered by the marks in question are usually sold in self-service stores where consumers choose the product themselves and must therefore rely primarily on the image of the trade mark applied to the product, the visual similarity between the signs will as a general rule be more important. If, on the other hand, the product covered is primarily sold orally, greater weight will usually be attributed to any phonetic similarity between the signs (judgment of 6 October 2004, New Look v OHIM – Naulover (NLSPORT, NLJEANS, NLACTIVE and NLCollection), T‑117/03 to T‑119/03 and T‑171/03, EU:T:2004:293, paragraph 49).>.

Questo è forse il passaggio più interessante.

Nel caso specifico, viene respinta l’istanza del titolare contestato, secondo cui la vicinanza fonetica ha poca importanza:  <sebbene in beni siano <<‘sold as seen’ in self-service stores or through catalogues, they are also likely to be recommended or purchased orally. Consumers could seek assistance from a salesperson or be led to choose goods from the categories in question because they have heard them being spoken about, in which case they might retain the phonetic impression of the mark in question as well as the visual aspect. Therefore, in the assessment of the likelihood of confusion, the phonetic identity between those signs is, in this case, at least as important as their visual similarity)>>, § 98..

Il giudizio di confondibilità dato dall’ufficio amministrativo, quindi, va confermato, § 99