Access provider responsabile per le violazioni di copyright dei suoi utenti: non vicariously bensì contributory

Così l’analitica e interessante Sony, Arista, Warner Bros ed altri v. Cox Communications , 4° circuito d’ appello, n. 21.-1168, 20.02.2024 , promossa dalle major dell’industria culturale contro un access provider:

<<A defendant may be held vicariously liable for a third party’s copyright infringement if the defendant “[1] profits directly from the infringement and [2] has a right and ability to supervise the direct infringer.”>>

– I –

Vicarious liability:

<<As these cases illustrate, the crux of the financial benefit inquiry is whether a causal relationship exists between the infringing activity and a financial benefit to the defendant.
If copyright infringement draws customers to the defendant’s service or incentivizes them to pay more for their service, that financial benefit may be profit from infringement. See, e.g., EMI Christian Music Grp., Inc. v. MP3tunes, LLC, 844 F.3d 79, 99 (2d Cir. 2016).
But in every case, the financial benefit to the defendant must flow directly from the third party’s acts of infringement to establish vicarious liability. See Grokster, 545 U.S. at 930 & n.9; Nelson-Salabes, 284 F.3d at 513.
To prove vicarious liability, therefore, Sony had to show that Cox profited from its
subscribers’ infringing download and distribution of Plaintiffs’ copyrighted songs. It did not.
The district court thought it was enough that Cox repeatedly declined to terminate infringing subscribers’ internet service in order to continue collecting their monthly fees.
Evidence showed that, when deciding whether to terminate a subscriber for repeat infringement, Cox considered the subscriber’s monthly payments. See, e.g., J.A. 1499 (“This customer will likely fail again, but let’s give him one more chan[c]e. [H]e pays 317.63 a month.”). To the district court, this demonstrated the requisite connection between the customers’ continued infringement and Cox’s financial gain.
We disagree. The continued payment of monthly fees for internet service, even by repeat infringers, was not a financial benefit flowing directly from the copyright infringement itself. As Cox points out, subscribers paid a flat monthly fee for their internet access no matter what they did online. Indeed, Cox would receive the same monthly fees even if all of its subscribers stopped infringing. Cox’s financial interest in retaining subscriptions to its internet service did not give it a financial interest in its subscribers’ myriad online activities, whether acts of copyright infringement or any other unlawful acts.
An internet service provider would necessariily lose money if it canceled subscriptions, but that demonstrates only that the service provider profits directly from the sale of internet access. Vicarious liability, on the other hand, demands proof that the defendant profits directly from the acts of infringement for which it is being held accountable>>

– II –

<<We turn next to contributory infringement. Under this theory, “‘one who, with
knowledge of the infringing activity, induces, causes or materially contributes to the infringing conduct of another’ is liable for the infringement, too.”>>

<<The evidence at trial, viewed in the light most favorable to Sony, showed more than mere failure to prevent infringement. The jury saw evidence that Cox knew of specific instances of repeat copyright infringement occurring on its network, that Cox traced those instances to specific users, and that Cox chose to continue providing monthly internet access to those users despite believing the online infringement would continue because it wanted to avoid losing revenue. Sony presented extensive evidence about Cox’s increasingly liberal policies and procedures for responding to reported infringement on its
network, which Sony characterized as ensuring that infringement would recur. And the jury reasonably could have interpreted internal Cox emails and chats as displaying contempt for laws intended to curb online infringement. To be sure, Cox’s antiinfringement efforts and its claimed success at deterring repeat infringement are also in the record. But we do not weigh the evidence at this juncture. The evidence was sufficient to support a finding that Cox materially contributed to copyright infringement occurring on its network and that its conduct was culpable. Therefore we may not disturb the jury’s verdict finding Cox liable for contributory copyright infringement>>

(notizia e link dal blogi di Eric Goldman)

Sul luogo del danno da illecito ai fini della giurisdizione ex reg. UE 1215 del 2012, art. 7 n° 2

Trib. Milano 5 luglio 2023 n° 5553/2023 sez. 14 Trib. IMpr., rel. Fazzini Elisa, rigetta una domanda di misure di diritto di autore avanzata da soggetto italiano contro pretesi contraffattori inglesi per carenza di giurisdizione.

Ciò perchè il criterio di colelgasmento del luogo del dannn (“in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire;” art. 7 n. 2 del reg. cit.) non va inteso come danno conseguenza ma solo come danno evento.

<<A tale riguardo, il Collegio rileva che la Corte di Giustizia identifica, in generale, detto luogo sia in quello in cui ha avuto luogo la condotta lesiva, sia in quello in cui il danno si è concretizzato, sicché il convenuto può essere citato, a scelta dell’attore, dinanzi al giudice dell’uno o dell’altro (Corte UE 28 gennaio 2015, causa C-375/13; Corte UE 16 giugno 2016, causa C-12/15; Corte UE 5 luglio 2018, causa C27/17; Corte UE 29 luglio 2019, causa C-451/18). Alla luce degli insegnamenti della Suprema Corte, il tribunale ritiene che occorra tenere presente che “per luogo in cui il danno si è concretizzato” si deve aver riguardo al «danno iniziale», l’unico ad essere destinato ad assumere rilievo ai fini della giurisdizione, senza che assumono rilevanza i diversi luoghi ove si asserisce patito il pregiudizio patrimoniale (cfr. Cass. S.U. 13504/2023; Cass. S.U. 8571/2015; Cass. S.U. 23593/2010), in quanto il criterio del locus commissi delicti non può dilatarsi fino a ricomprendere qualsiasi luogo in cui possano
essere risentite le conseguenze negative a valle di un danno verificatosi altrove (cfr. Corte UE 10 giugno 2004, causa C-168/02), né tantomeno detto luogo può coincidere con il domicilio del danneggiato, laddove la condotta dannosa si sia verificata altrove (cfr. Corte UE 16 giugno 2016, causa C-12/15). In considerazione dei principi espressi dai giudici di legittimità e da quelli europei, è, dunque, evidente che la disposizione di cui all’art. 7.2 del Regolamento deve essere interpretata nel senso che per ‘luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire’ debba intendersi il luogo in cui “si è prodotta la lesione del diritto della vittima, senza avere riguardo al luogo dove si sono verificati o potranno verificarsi le conseguenze future della stessa” (cfr. Cass., S.U. 24245/2015), in quanto tale espressione non può riguardare il luogo del domicilio del ricorrente, in cui è localizzato il centro principale del suo patrimonio, per il solo motivo che egli avrebbe ivi subìto un danno finanziario derivante dalla perdita di elementi del suo patrimonio avvenuta e subìta in un altro Stato membro (cfr. Corte UE 10 giugno 2004, causa C-168/02).
Alla luce di tali principi, il tribunale ritiene che il “danno iniziale”, nel caso di specie, debba collocarsi nel Regno Unito a seguito della pubblicazione del libro “The Good Mothers”, essendosi verificate in Italia esclusivamente le eventuali conseguenze patrimoniali, che rappresentano il c.d. danno conseguenza o danno risarcibile, non contemplate dall’art. 7 n. 2 del Regolamento. Nessuna rilevanza,
assume, ai fini della sussistenza di una giurisdizione in capo al giudice italiano, la circostanza che il libro, attraverso la piattaforma e-commerce Amazon, sia acquistabile anche in Italia (cfr. nota 4, pag. 6 dell’atto di citazione), atteso che è circostanza pacifica che esso sia stampato esclusivamente in lingua inglese, non destinato, pertanto, a un pubblico italiano>>

Solo che la legge parla di evento dannoso: quindi fino a che una conseguenza negativa nel patrimoniio della vittima non ci sia, non c’è evento di danno. Quindi deve trattarsi del luogo del danno conseguenza, non della condotta.   La legge avrebbe dobuto dire “l’autorità giurisdizionale del luogo in cui la condotta poi risoltasi in danno è stata tenuta …> .

Il che dovrebbe valere per l’azione sia su danno patrimoniale che non patrimoniale.

Da notare che il giudice riesce ad applicare il reg. citato UE contro un soggetto di un paese che dal 2016 non è più in UE

Elaborazione creativa di opera fotografica: il caso del ritratto del giudice Ruth Bader Ginsburg, fermatosi però ai preliminari …

Il NOrth. Dist. of Georgia , Atlanta Division, del 13 marzo 2023, giudice Boulee, Creative Photographers, Inc. v. Julie Torres Art, LLC et al, civil action n° 1:22-CV-00655-JPB, esamina una interessante fattispecie concreta di creazione elaborativa di una fotografia della giurista Ruth Bader Ginsburg.

Solo che attore non è il fotografo ma un’associazione di categoria, in base a contratto di mandato/licenza.

Notizia riportata da molte fonti giuridiche sul web : ad es. da The art newspaper da C. Porterfiled. 17.03.2023.

Questi i due lavori a paragone :

Sarebbe stato interessante leggere la decisione. Solo che il giudice non ravvisa legittimazione nell’attore (l’associazione di categoria) e rigetta per il momento la domanda (gli concede 14 gg per modificarla).

In particolare non ravvisa l’esistenza di una licenza esclusiva, unica possibilità per chi non è owner. Si tratta, da noi, di carenza di legittimazione attiva (condizione dell’azione), da sempre riconosciuta al licenziatario esclusivo e solitamente negata a quello non esclusivo.

Clausola del contratto tra il fotografo e l’associazione

<<You retain [Plaintiff] as your exclusive agent to sell, syndicate,
license, market or otherwise distribute any and all
celebrity/portrait photographs and related video portraits,
submitted to us by you and accepted by us for exploitation for
sale or syndication during the term of this Agreement (the
“Accepted Images”). You must be the sole owner of the
copyright for all such photographs and may not offer any
celebrity/portrait photographs for sale or syndication to or
through any other agent, representative, agency, person or
entity during the Term of this Agreement.>>

Errore non piccolo da parte di chi preparò il contratto, probabilmente.

Faranno bene gli operatori a prendere nota e a verificare i loro conntratti alla luce del diritto nazionale.-

Sul risarcimento del danno da violazione di copyright (art. 158 legge d’autore)

Interviene con buon dettaglio sul tema in oggetto Cass. sez. I ord. n. 39762 del 13.12.2021 rel. Scotti (caso Mondadori-Saviano: l’attore originario – editore locale campano- aveva lamentato  l’illecita riproduzione di propri articoli).

Vediamo in passaggi più significativi:

– <2.6. Secondo la giurisprudenza di questa Corte in tema di tutela del diritto d’autore, la violazione di un diritto di esclusiva integra di per sé la prova dell’esistenza del danno da lucro cessante e resta a carico del titolare del diritto medesimo solo l’onere di dimostrarne l’entità (Sez. 3, n. 8730 del 15.4.2011, Rv. 617890 01; Sez. 1, n. 14060 del 7.7.2015, Rv. 635790 – 01), a meno che l’autore della violazione fornisca la prova dell’insussistenza nel caso concreto di danni risarcibili nei limiti di cui all’art. 1227 c.c. (come ha avuto cura di precisare Sez. 1, n. 12954 del 22.6.2016, Rv. 640103 – 01)>.

Affermazione poco coerente con la disciplina comune civilsitica e che andrebbe spiegata.

– <2.7. Questa Corte, con l’ordinanza n. 21833 del 29.7.2021, ha recentemente affrontato in modo sistematico l’interpretazione delle regole fissate dall’art. 158 l.d.a. in tema di determinazione e quantificazione del danno conseguente alla violazione del diritto d’autore, chiarendo che:

a) il risarcimento del danno è liquidato nel rispetto degli artt. 1223,1226 e 1227 c.c., disposizione questa fin anche pleonastica, che serve solo a manifestare espressamente l’esigenza del rispetto delle regole comuni di liquidazione del danno, quanto a nesso causale, potere di liquidazione equitativa e concorso del fatto dello stesso debitore;

b) il lucro cessante è valutato dal giudice ai sensi dell’art. 2056 c.c., comma 2, ossia “con equo apprezzamento delle circostanze del caso”, dunque ancora una volta ex art. 1226 c.c., cui si aggiunge però l’indicazione di un parametro esplicito, relativo agli “utili realizzati in violazione del diritto”;

c) è prevista infine la possibilità di liquidazione “in via forfettaria sulla base quanto meno dell’importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l’autore della violazione avesse chiesto al titolare l’autorizzazione per l’utilizzazione del diritto”.

La norma prevede quindi due criteri alternativi, iscritti entrambi nella cornice di una liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c.; anche se non è scandito esplicitamente un ordine rigido di preferenza fra i due criteri, l’espressione utilizzata dal Legislatore (“quanto meno”) sta ad indicare che il criterio del cosiddetto “prezzo del consenso” di cui al terzo periodo del comma 2, (detto anche della “royalty virtuale”) rappresenta una soglia minima della liquidazione.

Si è dunque osservato che due criteri si pongono come cerchi concentrici, in cui il secondo permette una liquidazione minimale, mentre il primo, che associa nella funzione risarcitoria anche una componente deterrente e dissuasiva, permette di attribuire al danneggiato i vantaggi economici che l’autore del plagio abbia in concreto conseguito, certamente ricomprendenti anche l’eventuale costo riferibile all’acquisto dei diritti di sfruttamento economico dell’opera, ma ulteriormente aumentati dai ricavi conseguiti dal plagiario sul mercato.>

Che la royalty ragionevole sia il minimo , la legge non lo dice e pure questo è poco coerente con la disciplioa comune, in assenza di dato testuale; per cui l’affermaziuobne andrebbe meglio argomentata.

– <2.13. Si è detto in precedenza che il criterio del prezzo del consenso ha natura sussidiaria e residuale.

In tal senso si impone una interpretazione del diritto nazionale armonizzata con la Direttiva Europea che per le violazioni dolose o colpose pretende che l’entità del risarcimento da riconoscere al titolare tenga conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali la perdita di guadagno subita dal titolare dei diritti o i guadagni illeciti realizzati dall’autore della violazione e considera solo come alternativa – da esperirsi ad esempio, in caso di difficoltà di determinazione dell’importo dell’effettivo danno subito la parametrazione dell’entità dal risarcimento alla royalty virtuale.

Il diritto Europeo esige infatti un risarcimento effettivo e proporzionalmente adeguato, calibrato su di una accurata considerazione di tutti gli elementi specifici e pertinenti del caso, tra i quali debbono essere inclusi il mancato guadagno subito dalla parte lesa e i benefici realizzati illegalmente dall’autore della violazione.

Che gli utili realizzati dal contraffattore siano un criterio fondamentale nella liquidazione completa ed effettiva del danno è dimostrato anche dal paragrafo 2 dell’art. 13 della Direttiva che permette agli Stati membri di disporre il recupero dei profitti fin anche nel caso di violazioni non dolose o colpose (violazioni c.d. inconsapevoli).

Le disposizioni della legge nazionale sono ispirate allo stesso criterio, come sopra ricordato, con l’inequivoco impiego della formula “quanto meno”, che colora il criterio alternativo del prezzo del consenso con il tratto della residualità.

In questo senso, sia pur con riferimento all’art. 125 c.p.i., comunque riconducibile anch’esso alla matrice della stessa disposizione della Direttiva enforcement, è stato osservato nella recente giurisprudenza di questa Corte che il criterio della “giusta royalty” o “royalty virtuale” segna solo il limite inferiore dei risarcimento del danno liquidato in via equitativa e che però esso non può essere utilizzato a fronte dell’indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi ragionevoli criteri equitativi, il tutto nell’obiettivo di una piena riparazione del pregiudizio risentito dal titolare del diritto di proprietà intellettuale (Sez. 1, n. 5666 del 2.3.2021, Rv. 660575 – 01).

2.14. Tale scansione preferenziale fra i due criteri ben si comprende, ove ci si soffermi a riflettere sull’esigenza di un pieno, completo ed effettivo ristoro risarcitorio del danno subito dal titolare di un diritto di proprietà intellettuale o industriale, perseguito dalla Direttiva Europea e si consideri la ratio del criterio del “prezzo del consenso”.

Questo criterio infatti finisce con l’imporre al contraffattore o al plagiario il pagamento all’esito del contenzioso di quello stesso importo che avrebbe potuto pattuire in via negoziale ove si fosse comportato correttamente, tanto che la giurisprudenza merito, tenuto conto del riferimento normativo al limite minimo indicato dalla norma e dell’esigenza di evitare la “premialità” di tale tecnica liquidatoria per il contraffattore, ritiene equa una congrua maggiorazione dell’importo rispetto alle tariffe di mercato.>

Solo che la legge prescrive il <quanto meno> solo per il prezzo del consenso e non per il risarcimento ordinario.

Diritto all’immagine e riproduzione abusiva in DVD musicale

Una signora viene riprodotta in un DVD musicale mentre si intrattiene in spazio pubblico con un signore che non è il marito, palesando una relazione che doveva restare nascosta.

La signora agisce per il risarcimento dei danni (patrimoniali e non, parrebbe).

In primo grado la domanda è rigettata, ravvisando il Tribunale un consenso tacitto, dovendosi interpretare la ripresa visiva come messa in scena concordata per la commercialzizazine del  DVd.

In appello la sentenza è riformata e viene riconosciuto alla signora il c.d. prezzo del consenso ipotizzabile.  Pertanto il titolare del diritto sul dvd (casa discografica) ricorre in cassazione: la quale decide con sentenza 25.11.2021 n°  36.754, rel. Vella    , rigettando il ricorso.

Tre punti:

1) la SC implicitamente ritiene che la competenza delle sezioni specializzate ex art. 3 d. lgs. 168/2003, laddove riferita al diritto di autore, comprende pure la riprodizone dell’immagine altrui ex art. 96 e 97 l. aut..  Conferma infatti la competenza solo perchè non di immaguine si discuteva ma di riservatezza (§ 3.3).

 Ora, che il diritto alla riservatezza sia diverso da quello sulla propria immagine (ex art. 10 cc e citt. artt. l. aut.) è possibile , ma richiederebbe approfondimento.

Che invece la competenza giurisdizionale, relativa al diritto di autore ex art. 3,.1.b d. l.g. s 168 cit (<<b) controversie in materia di diritto  d’autore  e  di  diritti connessi al diritto d’autore;>>; v-. pure ora il c. 3 bis dell’art. 156 l. aut.) comprenda pure le questioni sul diritto all’immagine ex art. 96-97 l. aut.,  è errato.    Il diritto all’immagine è certamente altro dal diritto di autore e dai diritti connessi; a nulla rileva la sedes materiae e cioè che sia regolato (anche) nella legge che regola il diritto di autore

2) interessante per i pratici, poi, è la distinzione tra l’affermare che il danno non patrimoniale sia in re ipsa e l’affermare invece che possa ritenersi presuntivamente provato (§ 6.1).

3) c’è una (nota) difficoltà logico-concettuale nel riconoscere il danno (patrimoniale, naturalmetne) ex prezzo del consenso a favore di chi mai avrebbe dato il consenso (come nel caso de quo di relazione sentimetnale da tenere nascosta). Non può infatti dirsi ristorare un pregiudizio (lucro cessante)  e cioè restituiRE un’opportunità di guadagno che era stata tolta. La somma in realtà ha carattere penale , ma allora c’è un duplice problema: 1) l’art. 156 l. aut. non prevede una sanzione ma solo una compensazione (dubbio parecchio che possa estendersi analogicamente l’art. 125/3 cod. propr. ind.); 2) come che sia, la medesima disposizione , riferendosi a <violazione di un diritto di utilizzazione economica>) è assai dubbio che comprenda pure il diritto all’immagine ex art. 96-97 l. aut. (e art. 10 cc)

Copyright sull’unicorno e riproduzione su zaini

La US DC southern district court di New York, 25.03.2021, OMG Accessories c. Mystic apparel, 19 CV 11589 (ALC) (RWL),  decide un caso di diritto d’autore in cui era stata riprodotta su zaini una creazione artistica (design) raffigurante con motivo seriale la figura mitologica dell’Unicorno  (unicorn pattern), registrato per il copyright (come succede in US).

L’originale e la pretesa violazione son riprodotte in sententa.

VEdiamo l’esame sul se ricorra la substantial similarity: la corte dice di sì, almeno in cvia cautelare (la motion to dismiss è respinta).

<<To determine substantial similarity, courts ask “whether an ‘ordinary observer, unless he set out to detect the disparities, would be disposed to overlook them, and regard [the] aesthetic appeal as the same.’” Id. at 66. (quoting Yurman Design, Inc. v. PAJ, Inc., 262 F.3d 101, 111 (2d Cir. 2001)). In other words, the question becomes “whether ‘an average lay observer would recognize the alleged copy as having been appropriated from the copyrighted work.’” Id. (quoting Knitwaves, Inc. v. Lollytogs Ltd. (Inc.), 71 F.3d 996, 1002 (2d Cir. 1995))  .

However, if the protected work in question includes “both protectible and unprotectible elements,” courts may apply a “more discerning” standard that requires the court to “‘extract the unprotectible elements from [its] consideration and [to] ask whether the protectible elements, standing alone, are substantially similar.’” Id. (quoting Knitwaves, Inc., 71 F.3d at 1002). However, in no event must the court “dissect [the works] into their separate components, and compare only those elements which are in themselves copyrightable.” Id. (internal citations omitted). Instead, the Court “‘compar[es] the contested design’s “total concept and overall feel” with that of the allegedly infringed work,’ as instructed by ‘[its] good eyes and common sense.’” Id. (first quoting Tufenkian Import/Export Ventures, Inc. v. Einstein Moomjy, Inc., 338 F.3d 127, 133 (2d Cir. 2003), then quoting Hamil Am. Inc., 193 F.3d a t 102>> (p. 5/6)

I convenuti avevano allegato che alcuni elementi del design attoreo non erano proteggibili,  in quanto motivi comuni. La corte bensì concorda : <Defendants allege that Plaintiff’s use of a close-eyelash line to express the eye of a unicorn, rainbow forelocks, and depiction of the horn of a unicorn are not protectable elements. The Court agrees. The unicorn is a mythical creature and it is often depicted with rainbow colored elements …  or other glamorized features regarding its horn and eyes>>.

Tuttavia precisa anche che i lavori sub iudice <<do “share a similarity of expression” or a similarity in their “total concept or feel” sufficient to survive a motion to dismiss. Hogan v. DC Comics, 48 F. Supp. 2d 298, 309 (S.D.N.Y. 1999) (quoting Williams v. Crichton, 84 F.3d 581, 589 (2d Cir. 1996)). The cumulative effect of the closed eyes with distinctive eyelashes, rainbow colored locks, glittered horn, and pink hearts on the face or cheek of the unicorn1 present a concept that is similar to the Unicorn Pattern Design and alleged infringing design. With this in mind, the Court finds that it would be premature to decide, at this stage, that “no reasonable jury, properly instructed, could find that the two works are substantially similar” based on their “total concept and overall feel.” Peter F. Gaito, 602 F.3d at 63>>

La corte rigetta pure -allo stato- la difesa da fair use.

Pinterest corresponsabile per violazione di diritto di autore?

Il Northern District della California affronta la questione del ruolo di Pinterest (P.) in possibili violazioni di copyright (decisione 9 marzo 2021, caso 19-cv-07650-HSG, Davis c. Pintereset inc.).

(non è chiara la fonte delle immagini su P.:  <<These images may be captured by Defendant’s users, or may be copied from other sources on the internet>> p. 3. Copiate da altre sources da parte di chi? da P.?).

L’attore, fotografo professionista, cita P. per correponsabilità (contributory infringement) in violazione di copyright.

Allo scopo, <<to establish a claim for contributory copyright infringement, Plaintiff “must establish that there has been direct infringement by third parties…. Once this threshold issue has been established, Plaintiff must further allege that Defendant “(1) has knowledge of another’s infringement and (2) either (a) materially contributes to or (b) induces that infringement.”>> p. 3.

La material contribution <<“[i]n the online context” requires the defendant to have “actual knowledge that specific infringing material is available using its system, and . . . simple measures [would] prevent further damage to copyrighted works, yet [the defendant] continues to provide access to infringing works.” Id. at 671 (quotation omitted). And inducement requires the defendant to “distribute[] a device with the object of promoting its use to infringe copyright, as shown by clear expression or other affirmative steps taken to foster infringement.” See id. at 672. Here, Plaintiff alleges theories of liability premised on both material contribution and inducement, and Defendant challenges both theorie>>, ivi.

Sebbene riconoscendo la debolezza della propria prova di knowledge, l’attore afferma che -almeno in quello stadio processuale- poteva bastare il  constructive knowledge and willful blindness, p. 4 .

Ma la corte esclude pure la prova di questo elemento soggettivo alleggerito, facilitato. Bisogna infatti che la sua prova riguardi lo specifico atto in violazine dedotto in casua, p. 5 .

Si tratta del passaggio più importante a fini pratici, pure per il nostro ordinamento.

Non è <conoscenza presunta>  lo scambio pregiudiziale di email con l’azienda P., dice la corte: che anzi danneggia l’attore, perchè l’azienda gli aveva chiesto informazioni di dettaglio, che lui non aveva poi inviato, ivi.

Nemmeno è willful blindness la consapevolezza della generica possibilità di materiali illeciti , dovendo anche qui riguardare materiali specifici, p. 5/6.

Infine l’attore allega che P. rimuove metadati, che che potrebbero far capire la provenienza illecita dei materiali ospitati. Ma ciò -conclude la corte- al più rappresenta una indifferenza al rischio di P. alle violazioni, non una sua consapevolezzaa di quella specificamente dedotta in lite, p. 6

Eccezione probabilmente esatta a fil di legge, ma troppo penalizzante per i titolari dei diritti lesi.

Non è menzionata la questione del safe harbour (qui del § 512 DMCA, trattandosi di copyright).

(notizia e link alla notizia tratti dal blog di Eric Goldman)

Sulla willfull blindness , pur se nel diritto dei marchi, v. ora il saggio di Andrew Ligon Fant, Reconsidering the Willful Blindness Doctrine in Contributory Trademark Infringement, 29 J. Intell. Prop. L. 318 (2022).

Risarcimento del danno e violazione di software: interessante caso di “colosso” che copia il concorrente “piccolo”

Altro passo in avanti verso la definizione del rapporto processuale  nella lite Facebook c. Business Competence circa il software <<Faround>> (il primo: Fb; il secondo: Bc).

Mentre ancora pende (in Cassazione) l’impugnazione sulla sentenza non definitiva circa l’an della violazione (dopo due gradi di merito sfavorevoli a Fb), viene definita in appello la sentenza definitiva sul risarcimento del danno. Si tratta di Appello Milano 5 gennaio 2021 n. 9/2021, RG 3878/2019.

E’ appellante Bc poiché aveva ottenuto in primo grado un risarcimento di €350.000,00 capitali , ritenuto molto riduttivo. Csì stimò il tribunale sia per la fase iniziale di sviluppo software in cui si trovava Bc, sia perché il prodotto contraffattore di Facebook (Nearby) veniva concesso a titolo gratuito e quindi non era possibile valutare i benefici economici per Facebook stesso (nella sentenza d’appello è riportato il passaggio motivatorio centrali di quella di primo grado, v.  sub 4).

Trattandosi di sentenza sulla liquidazione del danno, la parte centrale e più interessante dell’iter motivatorio riguarda i metodi di liquidazione: è la questione tre. Vale la pena riproporre i passaggi dei CTU a cui la Corte aderisce:

<<il pregiudizio economico subito da parte attrice per effetto delle condotte illecite delle convenute ricomprende sia i danni correlati allo svilimento di valore dell’intangibile (Faround), sia i mancati guadagni relativi al periodo 2013-2016;

. sulla base dei dati disponibili (Investor Memorandum), è congruo, per la valutazione dei suddetti valori, l’utilizzo di un income approach, attraverso il metodo dell’attualizzazione delle royalties presunte con valore terminale a capitalizzazione perpetua;

. il metodo reddituale delle c.d. “royalties presunte”, che il titolare di un’app avrebbe richiesto per autorizzare dei terzi allo sfruttamento della stessa (detto anche metodo del “prezzo di consenso”) è, infatti, particolarmente indicato laddove si voglia arrivare alla determinazione di un valore di scambio della risorsa immateriale; il presumibile valore di mercato di una risorsa immateriale è pertanto stimabile come somma delle royalties presunte (che l’impresa licenziataria pagherebbe, se la risorsa immateriale non fosse di sua proprietà), attualizzate, in un orizzonte temporale tendenzialmente di 3-5 anni, oltre a un terminal value;

. questa metodologia di stima di un intangibile, ampiamente riconosciuta dalla prassi professionale e dalla dottrina, nel caso di specie consente di limitare i profili di incertezza insiti nella valutazione, in quanto non considera i costi previsti nel suddetto Investor Memorandum (come nel caso dei metodi finanziari o reddituali) o altri parametri non facilmente verificabili (come nel caso di metodi empirici basati sugli utenti giornalieri);

. per la determinazione della royalty equitativa è congrua una percentuale del 5% dei ricavi, percentuale che si colloca nei dintorni del limite superiore della royalty proposta da Facebook ed è sensibilmente inferiore a quanto indicato da Business Competence, con il richiamo alla c.d. regola del 25%, tenuto conto che anche la Circ. Min. del 22.9.1980, n. 32 (“Prezzo di trasferimento e valore normale nella determinazione dei redditi di imprese assoggettate a controllo estero”), in attuazione dei principi generali, da ultimo rivisti dall’OCSE nel luglio 2010, indica, come canoni congrui, percentuali fino al 5% del fatturato.>>

Sulla base di ciò , la stima del danno proposta dai CTU è articolata. A fronte di un minimo e un massimo, propongono una soluzione intermedia:

<<. l’ipotesi A), formulata sulla base dei ricavi, indicati da Business Competence nell’ipotesi più conservativa (c.d. “seconda stima”), portava alla individuazione del valore complessivo di € 18.805.000;

. l’ipotesi B), formulata sulla base dei correttivi, proposti a titolo esemplificativo dai C.T.P. di Facebook secondo “ipotesi ottimistiche”, ai ricavi indicati da parte attrice, portava all’individuazione del valore complessivo di € 1.614.000.

I CTU hanno evidenziato che l’intervallo considerato tra l’ipotesi massima A) e quella minima B) era ampio e ogni valore contenuto al suo interno poteva essere preso in considerazione per la stima del danno, graduando diversamente i parametri relativi ai ricavi; pertanto hanno ritenuto equo formulare l’ulteriore ipotesi C), ricompresa nel predetto intervallo, che portava all’individuazione del valore di € 3.831.000, avendo positivamente valutata l’attendibilità dei dati previsionali proposti da Business Competence, ancorché considerata con l’applicazione di scenari particolarmente conservativi, che tenevano conto di un profilo di rischio adeguato al caso di specie e della sostenibilità del modello di business, ed evidenziando che le rettifiche prudenziali adottate, che avevano fortemente ridotto il petitum di parte attrice, trovavano la loro ragione d’essere in un insieme di elementi e concause, in cui rilevava, in senso lato, anche la giovane età di Faround e il suo modello di business promettente, ma ancora in fieri.

Infatti, a parere dei CTU, in questa fase – in buona parte, peraltro, da ritenersi successiva a quella che nelle start up viene definita “valle della morte” – la trasformazione dell’idea in applicazione commerciale era già cominciata, ma non ancora consolidata attraverso una stabilità dei flussi reddituali/finanziari e quindi soggetta ad un rischio, che, anche in prospettiva, rimaneva elevato>>

La Corte aderisce alla soluzione intermedia.

E’ poi molto interessante esaminare le tre obiezioni di Fb e la replica della Corte. Ecco quanto eccepisce Fb:

<<1) I CTU hanno fondato la propria valutazione del lucro cessante su di un documento, l’Investor Memorandum, di provenienza di parte (essendo stato redatto da Business Competence) e quindi, come tale del tutto inattendibile.

2) I CTU hanno utilizzato per la determinazione dei ricavi presumibili, delle royalty richiedibili e del terminal value, dati e criteri ipotetici e del tutto irrealistici.

3) I CTU hanno errato nel ritenere che l’app Faround avrebbe avuto una vita utile, cioè produttiva di vantaggi economici, di durata indeterminata, circostanza che risulterebbe smentita:

. dal fatto che, se avessero considerato la struttura del mercato, i CTU avrebbero agevolmente concluso che Faround non poteva avere alcuna vita utile o che avrebbe avuto, al più, una vita utile molto ridotta, pari al massimo a qualche mese;

. dal fatto che, a partire da settembre 2016, dopo l’emanazione della sentenza non definitiva, Business Competence avrebbe potuto riavviare il progetto Faround e rendere l’app profittevole, ma non lo ha fatto, sebbene la “concorrente” di Faround, cioè Nearby Places, non fosse più attiva;

. dal fatto che eventuali e potenziali clienti non avrebbero avuto alcuna ragione per pagare per l’utilizzo di Faround, quando vi erano sul mercato altre e ben più consolidate realtà, come Yelp, che offrivano sostanzialmente lo stesso servizio gratuitamente.>>

Sarebbe istruttivo analizzarle partitamente, cosa qui non possibile. Vediamo solo la 1, cui la Corte così replica:

<<1) In ordine all’obiezione sub. 1), già formulata nelle osservazioni alla relazione preliminare della consulenza, la Corte ritiene condivisibile quanto evidenziato nella CTU: “In assenza di altri dati (che ben avrebbero potuto essere forniti dai convenuti, dotati di strutture organizzative intrinsecamente orientate alla raccolta e gestione capillare di dati sugli utenti, che per Facebook costituiscono l’essenza del vantaggio competitivo aziendale), la stima del pregiudizio economico subito dall’attore si è basata sull’Investor Memorandum di Business Competence; come già evidenziato infra nel par. 8.3., ‘l’attendibilità dei dati previsionali proposti da parte attrice è stata positivamente valutata (…) ancorché considerata con l’applicazione di scenari particolarmente conservativi, che tengano conto di un profilo di rischio adeguato al caso di specie e della sostenibilità del modello di business. Le rettifiche prudenziali adottate, che hanno fortemente ridotto il petitum di parte attrice, trovano la loro ragione d’essere in un insieme di elementi e concause in cui rileva, in senso lato, anche la giovane età di Faround e il suo modello di business promettente ma ancora in fieri’.

La stima dei ricavi può, in assenza di ulteriori elementi, essere basata su scenari probabilistici, che i C.T.U. ritengono nel caso di specie verosimili. Si noti come i convenuti rappresentino una delle più note società a livello mondiale per la produzione ed elaborazione di big data che, nel caso di specie (si vedano i due affidavit) solo in minima parte sono risultati ancora disponibili. Quanto alla lamentata assenza di dati storici, si rileva che essa non è certo imputabile a parte attrice, né che essa sia necessaria per confortare ipotesi, che comunque mantengono la loro validità e che sono tipiche di start up. Contrariamente a quanto affermato, l’Investor Memorandum è stato verificato da un soggetto terzo indipendente (i sottoscritti C.T.U.), che ha formulato numerosi rilievi critici, pervenendo a soluzioni, in termini di stima del quantum, ben diverse e assai più conservative rispetto a quelle prospettate dagli attori.”

Alla chiarezza e correttezza degli argomenti sopra riportati, la Corte ritiene solo di aggiungere che:

. la valutazione dell’entità di un mancato guadagno di una parte non può che fondarsi su una previsione in ordine a ciò che sarebbe ragionevolmente potuto accadere, qualora non fosse intervenuto il fatto illecito della controparte, che ha impedito il successivo concretizzarsi dell’attività progettata;

. nel caso in cui si tratti di valutare il ritorno economico, ragionevolmente prevedibile, derivante dall’attuazione di un progetto innovativo, è pertanto indispensabile assumere come dato di partenza, da sottoporre ad esame, proprio la previsione di ricavo formulata dal soggetto nel momento in cui intraprende l’esecuzione del progetto ipotizzato;

. nella fattispecie in esame, come evidenziato dai CTU, Facebook (rifugiandosi nell’inverosimile dichiarazione di conservare solo per 90 giorni, e quindi di non averne più la disponibilità nel momento in cui le sono stati richiesti, i dati inerenti la sua attività, cioè proprio quei dati da cui trae tutti i suoi ricavi aziendali) ha fatto del tutto mancare la sua collaborazione nel fornire dati che avrebbero potuto rivelarsi utili per valutare la correttezza delle previsioni di ritorno economico formulate da Business Competence, ad esempio anche solo comunicando se e in che misura fossero eventualmente aumentati (ovviamente fornendo i dati relativi e non limitandosi ad affermazioni unilateralmente definiteinconfutabili) i suoi utenti e/o i suoi inserzionisti in seguito all’introduzione della funzionalità Nearby, che come accertato, forniva le medesima utilità, che era previsto sarebbero state fornite da Faround;

. ciò che rileva, in ogni caso, è il fatto che, come accaduto nella fattispecie in esame, la previsione di ritorno economico, formulata dal soggetto interessato, sia sottoposta alla valutazione di un soggetto tecnicamente competente e terzo indipendente rispetto alle parti interessate.>>

In  conclusione, arriviamo alla liquidazione del danno nel dispositivo: <<Condanna Facebook Inc., Facebook Ireland Ltd. e Facebook Italy s.r.l. a pagare, a titolo di risarcimento del danno, in solido tra loro, a Business Competence s.r.l. la somma di € 3.831.000, con interessi legali dal 17.9.2019 (data della sentenza impugnata) al saldo>> (oltre il decuplo della liquidazione di primo grato)..

(liquidazione spese per il giduzio di appello non particolarmente alta: euro 29.792 oltre spese generali 15% e accessori di legge).

La violazione di un contratto di licenza di software rientra nell’ambito applicativo della direttiva 2004/48? Si, per la Corte di Giustizia

E’  capitato in Francia che un soggetto, dopo aver licenziato un software, abbia citato in giudizio il licenziatario per violazione del contratto di licenza (per modifica non autorizzata del programma).

Ivi vige il divieto di cumulo tra tutela aquiliana e tutela contrattuale: per il medesimo fatto non si può rispondere sia per l’uno che per l’altro titolo; inoltre, se il contratto è valido e il danno deriva dall’inadempimento, è esclusa la responsabilità aquiliana ( §  23 della sentenza cit. infra).

Processualmente era capitato -se ben intendo- che era stata chiesta la condanna al risarcimento per contraffazione (responsabilità aquiliana), pur emergendo dagli atti che il danno era conseguenza di una violazione contrattuale (§ 18).

la corte d’Appello di Parigi sollevava dunque la seguente questione:

«Se il fatto che un licenziatario di software non rispetti i termini di un contratto di licenza di software (per scadenza di un periodo di prova, superamento del numero di utenti autorizzati o di un’altra unità di misura, quali i processori utilizzabili per far eseguire le istruzioni del software, o per modifica del codice sorgente allorché la licenza riserva tale diritto al titolare originario):

–        costituisca una contraffazione (ai sensi della direttiva [2004/48]) subita dal titolare del diritto d’autore del software riservato dall’articolo 4 della direttiva [2009/24] relativa alla tutela giuridica dei programmi per elaboratore,

–        oppure possa essere soggetto a un regime giuridico distinto, come quello della responsabilità contrattuale di diritto comune».

In breve, si chiede se la violazione di un contratto di licenza di software sottosti alla disciplina posta dalla direttiva 2004/48 oppure se questa si riferisca solo alle violazioni commesse da terzi privi di rapporti contrattuali col titolare.

E’ allora intervenuta la Corte di Giustizia con sentenza 18.12.2019, C-666/18,  IT Development SAS c Free Mobile SAS.

La questione può essere risolta in termini semplici, anche se presenta spazi interessanti di approfondimento.

La soluzione è infatti senz’altro nel senso che pure le violazioni contrattuali della proprietà intellettuale sottostanno alla dir. 2004/48.

Come ricorda la Corte  (§ 35-36), la dir.,  parlando di “rispetto” e di “violazione” dei “diritti di proprietà intellettuale”, non c’è dubbio che si riferisca non solo ai diritti ex lege ma anche a quelli conformati o modulati da atto dispositivo (quindi da contratto).

Nè c’è dubbio che si riferisca anche ai diritti sul software ex dir. 2009/24

Dopo che l’atto contrattuale ha disposto della privativa, infatti, violarla nella modalità così conformata rimane una violazione. Cioè violare l’atto pattizio conformativo della privativa significa violare la privativa stessa, seppur nella conformazione emersa dall’atto dispositivo.

Lo spazio di approfondimento a cui accennavo riguarda il caso, in cui il titolare leso scelga la tutela contrattuale, anziché aquiliana. Poichè anche la prima, come appena visto, rientra nell’ambito della direttiva 2004/48, ci si può chiedere se la tutela offerta dalla disciplina del contratto (nazionale anzichè armonizzata; essendo difficile pensare all’incidenza della normativa consumeristica che eventualmente prevarrebbe come norma speciale) risponda alle prescrizioni della direttiva medesima. Profilo nuovo e meritevole di approfondimento.

Il concorso tra le due responsabilità,  in linea generale, è tema assai risalente e trova un’applicazione nazionale in materia di marchi: precisamente nel comma 3 dell’articolo 23 c.p.i. Tale disposizione viene interpretata  come regola che permette la scelta a favore dell’azione contrattuale, anziché di quella aquiliano/contraffattoria (quantomeno l’interpretazione preferibile) .

Violazione del diritto d’autore su banca dati: processo per la liquidazione del danno (altro episodio nella lite Business Competence c. Facebook)

Con sentenza 17.09.2019, n. 8244/2019, RG 68360/2013, il Tribunale di Milano sez. spec. impresa A, ha deciso la lite per la liquidazione del danno nella lite Business Competence (di seguito: BC) contro Facebook (di seguito : FB), relativa ad un’applicazione che offriva informazioni presenti in FB (su esercizi commerciali nei dintorni) in base ad un sistema di geolocalizzazione.

Con sentenza del 2016  non definitiva (da poco confermata in appello) il Tribunale di Milano  aveva accertato la violazione in capo a FB per aver riprodotto nella propria applicazione Nearby l’applicazione Faround di BC e aveva quindi condannato la prima al risarcimento del danno, disponendo la prosecuzione del processo per la determinazione del quantum (verosimilmente ex art. 278 cpc).

La sentenza (rel. Marangoni) è interessante per la motivazione inerente la stima del danno (profilo centrale nella pratica). Il Collegio:

  • stima come royalty persa quella conseguente ad un tasso lordo del 5 (cinque) %  , desunto dai CTU  dal settore computer software e internet (§§ 3-4);
  • ritiene non significativi i ragionamenti sulla stima condotti da BC, dato che il suo progetto commerciale all’epoca dei fatti di causa era ancora in fase di iniziale sviluppo ed inolre soggetto ai necessari adeguamenti, in un settore con elevata e costante innovazione (§ 2, p. 6)
  • non dà importanza al fatto che FB abbia disatteso l’ordine giudiziale di trasmettere ai CTU i dati sulla diffusione di Nearby. Ciò perchè il successo economico di Nearby non è comunque utilizzabile per calcolare le chanche di Faraound in sede di giudizio controfattuale, dato che (§ 2 e § 5) i due business sono incomparabili: Nearby era distribuito grauitamente  ed inserito automaticametne nella piattaforma principale FB, mentre Faraound era/sarebbe stato a pagamento sia per utenti che per inserzionisti;
  • limita il periodo su cui calcolare le royalties mancate a due anni. I CTU invece -se ben capisco- avevano calcolato un periodo  temporalmente illimitato, dato che -come app di FB- si doveva correlarla alla vita utile di FB stessa. Il Collegio ha deciso così in base al quadro di vivace concorrenzialità delle app inerenti a FB (§ 6/7).
  • pertanto la liquidazione del Tribunale,  a fronte di una liquidazione: -di € 18.805.000,00  chiesta da BC; -di € 1.614.000,00 come corretta dalle osservazioni di FB; -di € 3.831.000,00 suggerita in via intermedia ed equitativa dai CTU, si è assestata (pure equitativamente) su € 350.000,00 (§ 8): meno di 1/10 del suggerimento del CTU e quasi 1/5 della somma che tiene conto delle correzioni apportate dalla stessa  FB.
  • ha compensato per intero le spese dei due gradi cautelari sia per l’esito, sia “per la obiettiva impossibilità in tale fase di pervenire ad un effettivo giudizio di interferenza tecnica tra le contrapposte applicazioni” (§ 9)