Diritto morale d’autore e obbligo di menzione del nome dell’autore

Il tribunale di Milano (sent.  11037/2018 del 31.10.2018, RG 41630/2016, rel. Dal Moro, Carrubba Pintaldi c. Giorgio Armani spa) affronta la questione del se l’impresa committente (e cessionaria di ogni diritto) debba menzionare il nome dell’autore nel pubblicizzare i gioielli da lui creati. La risposta è negativa. Una cosa infatti è il dovere di menzionare e quindi -nel caso in cui non esista- il tacere sul nome del creatore (condotta omissiva); altra cosa invece è usurpare la paternità affermando di essere l’autore (condotta commissiva).

Il dato normativo non è chiarissimo, limitandosi a dire <<l’autore conserva il diritto di rivendicare la paternità dell’opera>> (art 20 c. 1 legge d’autore; del resto è irrilevante l’ammettere le  domande di accertamento del diritto, diverse dalla pretesa di essere sempre menzionati). Tuttavia applicando il tralatizio canone ermeneutico ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, si può forse concludere che l’obbligo di menzione sussista solo nei casi espressamente previsti. Si pensi ad esempio nella legge di autore a: -art. 40 c. 1, -art. 48, -art. 54 c. 2, -art. 98 c. 2, -art. 138 e, per le libere utilizzazioni, art. 65 c. 1, -art. 67, -art. 70 c. 3, -art. 71 bis c. 2 septies.

L’altro punto interessante è il giudizio sui fatti di causa, relativo al se l’apposizione del marchio Armani sui gioielli -senza menzione della stilista creatrice- abbia costituito usurpazione e cioè attribuzione a sé della paternità oppure semplicemente apposizione di marchio per la commercializzazione: condotta, quest’ultima, che nulla lascia intendere sulla paternità. La risposta del Tribunale è stata nel secondo senso.

Ecco i passi  più rilevanti della sentenza.

<<La tesi attorea fonda la sua difesa sull’erroneo presupposto per cui l’omessa menzione del nome di un autore costituisca invariabilmente una manifestazione concreta di violazione del diritto autorale; al contrario, l’essenza del diritto morale d’autore consiste nel diverso diritto a non vedere disconosciuto il proprio ruolo di autore; tale diritto negativo non necessariamente si traduce nell’obbligatoria indicazione del nome dell’autore (aspetto la cui regolamentazione è nella disponibilità delle parti); quindi, l’omessa menzione del nome dell’autore di un’opera nella sua diffusione non implica di per sé che sia messa in discussione la paternità della stessa. Peraltro nel caso di specie non sussiste un diritto alla menzione del disegnatore di gioielli né per contratto né in considerazione degli usi invalsi nel settore della gioielleria e bigiotteria; in tal senso il Tribunale condivide la giurisprudenza sul punto 3. Peraltro una comune volontà delle parti nel senso della non menzione della disegnatrice o quantomeno una tacita acquiescenza della signora, può desumersi dal fatto che per circa 12 anni dalla pubblicazione del primo catalogo nessuna contestazione è mai stata mossa da parte attrice nei confronti di Armani in punto di modalità di pubblicizzazione/presentazione dei gioielli. Sicchè il prolungato periodo di inerzia di parte attrice corrobora la tesi della infondatezza della domanda>>

Ed inoltre: <<Non è stata offerta da parte della attrice prova idonea di un avvenuto disconoscimento della propria opera creativa. Infatti, premesso che – come già visto – l’omessa menzione dell’autore di per sé sola non costituisce una prova di disconoscimento, tutte le altre prove addotte riguardano immagini che si limitano a evidenziare come i gioielli in questione siano associati al marchio Armani e non alla persona dello stilista quale loro creatore. Il fatto che il nome Armani contraddistingua i gioielli sui cataloghi non significa che lo stilista ne rivendichi la creazione a sé, disconoscendo il ruolo della disegnatrice, al contrario costituisce prassi diffusa e ovvia nonché strategia commerciale più fruttuosa che il brand – ciò che agli occhi del pubblico dei consumatori rende immediatamente riconoscibile il prodotto – sia posto in evidenza da solo. Né valgono in senso opposto gli articoli giornalistici che riportano la notizia del lancio della nuova linea di gioielli “Armani” tanto più che il documento più significativo risale al 2011 e si riferisce ad una collezione pertanto di molto successiva a quelle create nel corso della collaborazione con l’attrice. In ogni caso, come correttamente osserva la convenuta, sono reperibili in atti anche documenti ove il ruolo della signora Carrubba è riconosciuto e reso noto al pubblico e da cui si può altresì evincere come parte attrice dovesse essere consapevole del vantaggio di immagine conseguito grazie alla collaborazione con Armani>>

Singolarmente elevata la liquidazione delle spese di lite: euro 21.387,00+15% per spese forfettarie.

Sull’esaurimento del diritto d’autore relativo a libro digitale (il caso Tom Kabinet)

La questione della assoggettabilità ad esaurimento del diritto d’autore (del solo diritto di distribuzione (art. 4 § 2 dir. 29/2001; art. 17 c. 2 l. aut.) su libro digitale ha trovato -per ora, almeno- definizione. La Corte di Giustizia con sentenza 19.12.2019, C-263/18, NUV-GAU c. Tom Kabinet, dopo le accurate conclusioni dell’avvocato generale Szpunar 10.09.2019, ha preso posizione ed ha risposto negativamente: la fornitura di un libro elettronico per uso permanente (cioè senza limiti di tempo) rientra nella comunicazione al pubblico (in particolare nella messa a disposizione del pubblico delle loro opere in maniera tale che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente ex art. 3/1 dir. 29/2001) e non nella distribuzione. Di conseguenza non opera l’esaurimento, che è limitato al diritto di distribuzione. Quindi il mercato dell’usato di libri elettronici non può svilupparsi, essendo soggetto al consenso del titolare del diritto.

La sentenza richiederà meditazione accurata per la complessità degli interessi in gioco e le difficoltà ermeneutiche, per cui qui propongo solo brevissime considerazioni ad una prima lettura.

La Corte inizia ricordando le disposizioni del  WCT (WIPO Copyright Treaty 20.12.1996) , di cui la Direttiva 29 è anche attuazione (cons. 15) le quali nelle agreed statements agli articolo 6 e 7 riferiscono il diritto di distribuzione (e di noleggio) solo alle copie fisiche. Tuttavia è comunemente accettato che le Agreed Statements non possiedono forza interpretativa vincolante.

Inoltre la Corte si riferisce alla relazione sulla proposta di direttiva sfociata nella direttiva 29 da cui emerge che  <<che la proposta di direttiva mirava a far sì che qualsiasi comunicazione al pubblico di un’opera, diversa dalla distribuzione di copie materiali di quest’ultima, rientrasse non nella nozione di «distribuzione al pubblico» di cui all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, bensì in quella di «comunicazione al pubblico» ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, di tale direttiva.>>§ 45.

Solo che anche qui si può dire che il materiale preparatorio è sempre di dubbia utilizzabilità in sede ermeneutica potendosi anche  argomentare in senso opposto: ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit . Cioè  proprio perché la precisazione in sede di lavori preparatori non è stata ripetuta nel testo definitivo, può dirsi che non sia stata voluta.

Altro argomento è quello della tutela estesa del diritto d’autore (paragrafi 46-48): anche qui però  la genericità di queste considerazioni non è di ausilio interpretativo

A questo proposito La Corte ricorda i considerando 28 e 29 dir. 29 i quali parlano di “supporto tangibile” per la distribuzione  e di esclusione dell’esaurimento per i servizi e le copie materiali realizzate dall’utente del servizio stesso. Anche queste considerazioni non sono persuasive. Da un lato i considerando non sono vincolanti; dall’altro il concetto di servizio è diverso da quello di libro digitale. A nulla rileva che si parli nel paragrafo 29 di “copie tangibili” realizzate dagli utenti di un servizio: si presuppone infatti che ricorra un servizio, il che non avviene nel caso de quo.

Ancora (§ 52 seguenti) per la CG il concetto di distribuzione si riferisce ai supporti tangibili in base non al dettato dell’art. 4 -muto sul punto- ma alla giurisprudenza. C’è però giurisprudenza contraria, come ricorda la stessa CG. Nella nota sentenza Usedsoft del 2012 ( C‑128/11, del 03.07.2012), relativa alla distribuzione di software, la CG assimilò la distribuzione su supporto a quella via internet, per cui l’esaurimento per allo stesso modo in entrambi i casi. Qui la situazione è diversa perché il libro digitale non è un software, per cui la ripresa del ragionamento è dubbia. Vi sono infatti differenze economiche e funzionali e il discorso richiederebbe approfondimenti qui non possibili. Mi limito a dire che nella dir. sul software 2009 n. 24 manca il diritto di comunicazione al pubblico (salvo dire che lo si può invocare dalla normativa generale ex dir. 21/2001), essendo esplicitati solo la riproduzione i diritti di elaborazione e di distribuzione (art. 4 comma 1).

Da ultimo la Corte affronta l’obiezione per cui non ricorre il concetto usuale di comunicazione al pubblico (§ 60 seguenti).   La Corte lo supera dicendo che <<nel caso di specie, è pacifico che la Tom Kabinet mette le opere di cui trattasi a disposizione di qualunque persona si registri sul sito Internet del club di lettura, la quale può avervi accesso dal luogo e nel momento individualmente scelto, sicché si deve considerare che la fornitura di un tale servizio configura la comunicazione di un’opera ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, senza che sia necessario che detta persona si avvalga di tale possibilità scaricando effettivamente il libro elettronico da detto sito Internet >>, § 65.

Però  l’ostacolo non è in realtà superato: il libro acquistato viene rivenduto ad un solo soggetto e dunque non è a disposizione scaricabile per chiunque. E ciò non costituisce certo “pubblico”, trattandosi di trasferimento ad un unico soggetto. La Corte supera questo ostacolo precisando che, oltre che per la possibilità di qualunque interessato di poter divenire membro del club di lettura [e quindi Acquistare il libro], nella comunuicazione al pubblico  rileva -per ravvisare il “pubblico”- anche <<l’assenza di misure tecniche, nell’ambito della piattaforma di tale club, che consentano di garantire che possa essere scaricata un’unica copia di un’opera durante il periodo in cui l’utente di un’opera ha effettivamente accesso a quest’ultima e che, scaduto tale periodo, la copia scaricata da tale utente non sia più utilizzabile da quest’ultimo (v., per analogia, sentenza del 10 novembre 2016, Vereniging Openbare Bibliotheken, C‑174/15, EU:C:2016:856), si deve considerare che il numero di persone che possono avere accesso, contemporaneamente o in successione, alla stessa opera tramite tale piattaforma è notevole. Pertanto, fatta salva una verifica da parte del giudice del rinvio che tenga conto di tutti gli elementi pertinenti, l’opera di cui trattasi deve essere considerata come comunicata a un pubblico ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 >>, § 69.

Non è chiaro il riferimento alla sentenza Vereniging Openbare Bibliotheken, C‑174/15, la quale si limita a dire che l’eccezione di prestito pubblico  ex art. 6 dir. 115/06 si applica pure ai libri digitali (purchè uno alla volta e con successiva inutilizzabilità di quello “scaduta”): ciò perchè non vi ostan il WCT WIPO Copyright Treaty 20.12.1996, che nell’Agreed Statement all’art. 7 pone il requisito della copia tangibile solo per il noleggio, non per il prestito (sentenza C-174/15, Prima Questione, § 39 e §§ 53-54).

Qui però la sentenza in esame dà per provato ciò che in realtà era da provare e cioè che nel caso specifico più persone contestualmente o in successione potevano acquistare copia del libro.

La Corte conclude al § 69 dicendo che, <<tenuto conto della circostanza, rilevata al punto 65 della presente sentenza, che qualsiasi interessato può divenire membro del club di lettura, nonché dell’assenza di misure tecniche, nell’ambito della piattaforma di tale club, che consentano di garantire che [1] possa essere scaricata un’unica copia di un’opera durante il periodo in cui l’utente di un’opera ha effettivamente accesso a quest’ultima e che [2] , scaduto tale periodo, la copia scaricata da tale utente non sia più utilizzabile da quest’ultimo (v., per analogia, sentenza del 10 novembre 2016, Vereniging Openbare Bibliotheken, C‑174/15, EU:C:2016:856)>>, ricorre la comunicazione al pubblico (numeri in rosso da me aggiunti). Aggiunge in coda, però, che va  <<fatta salva una verifica da parte del giudice del rinvio che tenga conto di tutti gli elementi pertinenti>> (§ 69, in fine)

Il punto è importante. Par infatti di capire che, se si accerta che nel caso specifico ricorrono misure tecniche tali da garantire il download di una sola copia per volta, in modo che non ci sia mai più di una copia del libro acquistgato da quel rivenditore, allora si rientra nel diritto di distribuzione (soggetto ad esaurimento) e non di comunicazione al pubblico.

La Corte però non dà indicaizoni di dettaglio su quest’ultimo punto e in particolare su chi incomba l’onere di provare che il libro è soggetto non ad una sola vendita bensì a alla possibilità di plurimi download. Verosimilmente toccherà all’acquirente/rivenditore provarlo, quantomeno per la sua maggior vicinanza alla prova.

Queste osservazioni descriverebbero <<in maniera puntuale l’evoluzione di modelli di gestione della proprietà intellettuale e del diritto d’autore mediante sistemi blockchain, che consentono di creare artificialmente condizioni di scarsità in senso economico – creando dunque copie digitali “uniche” di un determinato asset digitale-, favorendo nel contempo modalità di trasferimento univoche di tale asset tra i partecipanti>> (Galli M.-Bardelli E., Il mercato secondario degli ebook tra distribuzione, comunicazione al pubblico e principio dell’esaurimento, Riv. dir. dei media, 12.02.2020, p. 3, § 5).

La Corte infine non considera un ostacolo all’assoggettamento alla distribuzione (e quindi ad esaurimento), che era invece stato acutamente rilevato dall’avvocato generale:  quello del diritto di riproduzione. Infatti mentre nel mondo analogico la rivendita del libro non comporta alcuna riproduzione, in quello digitale si. Ed è certo che la prima vendita non ha attribuito all’acquirente il diritto di riprodurre i fini delle rivendite. per cui questo obiezione potrebbe essere risolutiva. In senso negativo. Si potrebbe forse ragionare su un’interpretazione evolutiva nel senso che la riproduzione temporanea è ammessa al solo scopo di poter rivendere il libro: con la conseguenza che l’acquirente/rivenditore dovrebbe subito poi cancellare la copia rimasta sul proprio dispositivo.

Il vero problema allora è come evitare che le dichiarazioni di intenti relative a tali cancellazioni siano eseguite nella pratica e provate in causa. Secondo la regola generale dell’onere probatorio potrebbe dirsi che -visto che è una riproduzione c’è-  toccasse all’acquirente/rivenditore dare prova di ciò. Certo che qui emerge la differenza vera tra mondo analogico e mondo digitale. Anche nel primo l’acquirente prima di rivendere teoricamente poteva farsi una copia del libro per tenerla per sé: solo che era improbabile, data  la fatica del lavoro di copiatura, a meno di detenere le fantasmagoriche tecniche di copiatura di Google Books.

Sembra quindi che sia questo il punctum dolens dell’assoggettabilità al diritto di distribuzione (e quindi all’esaurimento) della rivendita di libri digitali.