Revisione dell’assegno di mantenimento del figlio, titolare di contratto di apprendistato (sull’art. 337 septies cc)

Cass. sez. I, Ord. 19/12/2023  n. 35.494, rel. Meloni (da Onelegale):

<Si deve premettere che la modifica dei provvedimenti adottati con la sentenza di divorzio è subordinata alla condizione del sopravvenire di fatti nuovi rispetto alle circostanze valutate in sede di emissione degli stessi provvedimenti: ebbene la Corte ha già valutato e vagliato le nuove condizioni patrimoniali del ricorrente e ridotto a 200,00 Euro l’assegno originario di 350,00. Infatti, la Corte ha, nel provvedimento impugnato, compiutamente valutato la situazione economica del sig. A.A. e ritenuto che, pur essendo allo stato Egli disoccupato, a far data dal 10.01.2022, “non è verosimile che per la sua età e per la sua capacità lavorativa, non riesca a trovare lavoro avendo dimostrato anche capacità imprenditoriali – sia pur intraprese in (Omissis) – ove ha costituito una scuola di lingua inglese per bambini (doc 17, fasc. primo grado) ed ove ha gestione anche una pizzeria “(Omissis)” (docc. nn. 16-22) attività per le quali, come già anche rilevato dal Tribunale di Monza non ha documentato i suoi redditi.

La Corte di merito ha poi accertato che attualmente egli vive con gli anziani genitori a Monza, ai quali presta assistenza ed è mantenuto dalla madre e dal fratello come dallo stesso dichiarato in udienza alla Corte; che la disdetta del contratto di locazione dell’immobile di cui era proprietario sita in (Omissis) non gli avrebbe impedito di locarlo nuovamente – come rilevato già dal Tribunale – ma comunque la vendita del predetto immobile – avvenuta nel 2020 – per l’importo di Euro 57.000,00 ed il successivo acquisto per l’importo di Euro 42.000,00 di altra casa – in località (Omissis) – fanno presumere che lo A.A. non versi in serie condizioni di ristrettezze economiche proprio per la scelta di investimento in un altro immobile che non è escluso che possa essere messo a reddito tenuto conto del fatto che lui vive con i genitori a Monza – come dallo stesso dichiarato all’udienza del 24 febbraio 2022.

La Corte ha poi valutato, con apprezzamento legittimo, sulla base della certificazione resa dal centro per l’impiego di Milano (che attesta che la figlia C.C. – ancora studentessa – svolge lavoro di apprendistato con decorrenza 01.09.2021) che “la tipologia di contratto di lavoro di apprendistato non consente di considerare un figlio economicamente autosufficiente, non essendo stati provati – nella presente fattispecie – una serie di parametri ed in particolare l’importo del reddito percepito e la durata del contratto medesimo”. Il ricorrente, di contro, non ha dimostrato che il trattamento economico ricevuto dalla figlia C.C. – quale apprendista – è non solo proporzionato e sufficiente, ma anche idoneo ad assicurare la sua autosufficienza economica e pertanto, tenuto conto di quanto sopra esposto, la Corte d’Appello ha legittimamente ritenuto di poter accogliere solo parzialmente il reclamo paterno riducendo ad Euro 200,00 l’importo per il mantenimento mensile che lo A.A. deve versare per la figlia C.C..

Tutte le valutazioni del giudice di merito sopra riportate non contrastano con la giurisprudenza di questa Corte che più volte ha affermato il principio secondo cui il mantenimento del figlio resta a carico dei genitori fintanto che non si sia esaurito in congruo termine, la fase di formazione ed inserimento nel mondo del lavoro. Nella specie, tale progressione, ancora in corso, non si è del tutto completata, onde il giudice di merito ha limitato ma non escluso completamente la contribuzione genitoriale>>.

La convivenza more uxorio anteriore al matrimonio rileva ai fini della determinazione dell’assegno divorzile

Ripasso significaivo dei principi in mafteria da aprrte di Cass. sez. un. 35385 del 18.12.2023, rel. Iofrida:

<<6.8. In definitiva, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi, in ragione di un progetto di vita comune, a una convivenza prematrimoniale della coppia, vertendosi, al più, in “fasi di un’unica storia dello stesso nucleo familiare” (si è parlato, in dottrina (a) di una convivenza che si distingue da tutte le altre, in quanto “scrutata retrospettivamente essa quasi muta sostanza e partecipa della natura del matrimonio che l’ha seguita” ovvero (b) del fatto che, nell’ipotesi in cui le nozze siano state precedute da una significativa convivenza prematrimoniale, “la decisione di sposarsi includa anche la volontà di compensare (nel caso di futuro divorzio) i sacrifici effettuati in attuazione di un indirizzo comune già concordato ed attuato per un significativo periodo precedente alle nozze” ovvero ancora della circostanza (c) che ” le parti, contraendo un’unione formalizzata, hanno dimostrato la volontà non soltanto di impegnarsi reciprocamente per il futuro, ma anche di dare continuità alla vita familiare pregressa, inglobandone l’organizzazione all’interno delle condizioni di vita del matrimonio o dell’unione civile”), va computato, ai fini dell’assegno divorzile, il periodo della convivenza prematrimoniale solo ai fini della verifica dell’esistenza di scelte condivise dalla coppia durante la convivenza prematrimoniale, che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare sacrifici o rinunce alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio.

Ovviamente, resta necessaria una previa allegazione e prova rigorosa, giovando ribadire che: a) la convivenza prematrimoniale rileverà, ai fini patrimoniali che interessano, ove poi consolidatasi nel matrimonio, se assuma “i connotati di stabilità e continuità”, essendo necessario che i conviventi abbiano elaborato ” un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio)”, dal quale inevitabilmente discendono anche reciproche contribuzioni economiche; b) l’assegno divorzile, nella sua componente compensativa, presuppone un rigoroso accertamento del nesso causale tra l’accertata sperequazione fra i mezzi economici dei coniugi e il “contributo fornito dal richiedente medesimo alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali”, in quanto solo un rigoroso accertamento del fatto che lo squilibrio, presente al momento del divorzio fra la situazione reddituale e patrimoniale delle parti, sia l’effetto del sacrificio da parte del coniuge più debole a favore delle esigenze familiari può, invece, giustificare il riconoscimento di un assegno perequativo, tendente a colmare tale squilibrio, mentre in assenza della prova di questo nesso causale, l’assegno può essere solo eventualmente giustificato da una esigenza assistenziale, la quale tuttavia consente il riconoscimento dell’assegno solo se il coniuge più debole non ha i mezzi sufficienti per un’esistenza dignitosa e versi in situazione di oggettiva impossibilità di procurarseli; c) sarà necessario verificare poi l’effettivo nesso tra le scelte compiute nella fase di convivenza prematrimoniale e quelle compiute nel matrimonio.

6.9. Nella fattispecie in esame, la Corte d’appello, ai fini della determinazione dell’assegno divorzile dovuto dall’ex marito alla ricorrente, non ha effettivamente considerato, nella valutazione del contributo al me’nage familiare dato dalla M., anche con il ruolo svolto di casalinga e di madre, per come allegato, il periodo (dal 1996 al 2003), continuativo e stabile, di convivenza prematrimoniale (nell’ambito del quale era nato anche un figlio della coppia), avendo incentrato il giudizio, oltre che sulle disponibilità economiche del soggetto onerato, solo sulla “durata legale del matrimonio”.

Deve essere quindi enunciato il seguente principio di diritto: “Ai fini dell’attribuzione e della quantificazione, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dell’assegno divorzile, avente natura, oltre che assistenziale, anche perequativo-compensativa, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi a una convivenza prematrimoniale della coppia, avente i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase “di fatto” di quella medesima unione e la fase “giuridica” del vincolo matrimoniale, va computato anche il periodo della convivenza prematrimoniale, ai fini della necessaria verifica del contributo fornito dal richiedente l’assegno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi, occorrendo vagliare l’esistenza, durante la convivenza prematrimoniale, di scelte condivise dalla coppia che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o rinunce, in particolare, alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio“>>.

Che precisa pure: <<I presupposti dell’assegno divorzile, quali individuati dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, come interpretato dalle Sezioni unite nella sentenza n. 18287/2018, costituiscono, nel loro complesso, il parametro di riferimento tanto della valutazione relativa all’an debeatur quanto di quella relativa al quantum debeatur: l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente, prescritto ai fini della prima operazione, deve aver luogo mediante complessiva ponderazione dell’intera storia familiare, in relazione al contesto specifico, e una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, che tenga conto anche del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dello avente diritto, tutto ciò in conformità della funzione non solo assistenziale, ma anche compensativa e perequativa dell’assegno divorzile, discendente direttamente dal principio costituzionale di solidarietà>>.

Come da me già scritto altrove, peccato che le SS.UU. dimentichino che il presupposto, per far operare detti parametri, sia l’ “assenza di mezzi adeguati” (art. 7.5 legge divorzio): “mezzi”  dunque rilevanti solo in negativo e cioè in caso di loro assenza per fare operare i parametri, a null’altro servendo. Il ternore letterale è decisamente chiaro

Sulla opportunità o meno nei singoli casi del riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio (art. 250 c.c.)

Cass. sez. I   del 28/11/2023 n. 33.097, rel. Iofrida:

<<Il diritto al riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio può essere sacrificato solamente in presenza di motivi gravi ed irreparabili tali da compromettere in modo irreversibile lo sviluppo psico-fisico del minore. Tale è il discrimen che il giudice deve vagliare in concreto al fine di valutare il bilanciamento tra opposti interessi, quali l’esigenza di affermare la verità biologica e l’interesse di preservare i rapporti familiari nonché lo sviluppo del minore.

Il suddetto principio trova fondamento nella distinzione dei concetti giuridici di “riconoscimento” ed “esercizio della responsabilità genitoriale”. Il riconoscimento inteso come status genitoriale non può essere mai eluso, a meno che il minore non possa subire un pregiudizio gravissimo – da accertarsi in concreto – da parte del padre, dato ad esempio dal “suo inserimento in un ambiente di criminalità organizzata ed attualmente detenuto per tali gravi reati” (cfr. Cass. 23074/2005). Non sono sufficienti mere pendenze penali né la sola “valutazione del rischio di un eventuale distacco del minore dall’attuale contesto di affidamento deve costituire interferenza ostativa al riconoscimento, posto che non vi è alcun nesso con l’esercizio del diritto alla genitorialità, potendo invece tale valutazione costituire oggetto di giudizio in diverso procedimento “ad hoc” ” (Cass. 2645 del 2011).

La titolarità dell’esercizio della responsabilità genitoriale, al contrario, può essere – successivamente al riconoscimento effettuato – soggetta a limitazione fino alla decadenza, ove venga evidenziata una situazione di pregiudizio grave o comunque di interferenza negativa con il benessere del minore (nell’ipotesi in cui si adottino provvedimenti conformativi).

Sul tema, la Suprema Corte si è poi espressa ritenendo che “nel giudizio volto al riconoscimento del figlio minore di anni quattordici da parte del secondo genitore, nell’ipotesi di opposizione del primo che lo abbia già effettuato, occorre procedere ad un bilanciamento, il quale non può costituire il risultato di una valutazione astratta, ma deve procedersi ad un accertamento in concreto dell’interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di un suo sviluppo armonico, dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale” (Cass. 18600/2021). Nella fattispecie con cui si è misurata la sentenza, veniva in questione “l’abituale condotta violenta e prevaricatrice del padre biologico nei confronti della madre e dei suoi familiari, frutto di un modello culturale di rapporti di genere, che doveva invece essere posta in evidenza nell’operazione di bilanciamento”: bilanciamento – quello tra l’esigenza di affermare la verità biologica e l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari (sostanzialmente equivalente a quello tra il diritto soggettivo di colui che vuole riconoscere il figlio e l’interesse del minore a non subire una forte compromissione del proprio sviluppo psico-fisico, di cui si è in precedenza detto) – che la pronuncia postula non poter essere declinato in astratto, come, invece, accaduto nella motivazione della sentenza di appello impugnata in quel giudizio.

Nella successiva sentenza n. 24718/2021, questa Corte ha ulteriormente precisato che “Il diritto, come quello alla vita familiare, stabilito all’art. 8 Cedu, non presenta carattere assoluto ma, al contrario, può essere sacrificato all’esito di un giudizio di bilanciamento con il concreto interesse del minore a non subire per effetto del riconoscimento un grave pregiudizio per il proprio sviluppo psico fisico. L’accertamento da svolgersi, tuttavia, deve essere rigoroso perché non qualsiasi turbamento può incidere sull’indicato diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto ma solo il pericolo, fondato su un giudizio prognostico concretamente incentrato sulla situazione personale e relazionale del genitore e del minore che abbia ad oggetto la verifica del pericolo per lo sviluppo psico-fisico non traumatico del minore stesso, derivante dal riconoscimento richiesto. Non può essere assunto come elemento di comparazione il concreto esercizio della responsabilità genitoriale, per modulare il quale vi sono strumenti di tutela diversi, ma deve trattarsi di un grave pregiudizio causalmente determinato dall’esistenza sopravvenuta dello status genitoriale. Poiché la corretta e veritiera rappresentazione della genitorialità costituisce elemento costitutivo dell’identità del minore e del suo equilibrato sviluppo psico-fisico, la sottrazione radicale del rapporto giuridico paterno o materno, conseguente al diniego di riconoscimento ex art. 250 c.c., può essere giustificata soltanto dalla valutazione prognostica di un pregiudizio superiore al disagio psichico indubitabilmente conseguente dalla mancanza e non conoscenza di uno dei genitori, da correlarsi alla pura e semplice attribuzione della genitorialità” (in applicazione di tale principio, questa Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che, nel rigettare la domanda proposta ex art. 250 c.c., aveva del tutto omesso di effettuare il predetto bilanciamento, limitandosi a considerare i vari precedenti penali del padre e l’intervenuta revoca del permesso di soggiorno).

Di recente (Cass. 8762/2023), si è ribadito che “nel giudizio volto al riconoscimento del figlio naturale, l’opposizione del primo genitore che lo abbia già effettuato non è ostativa al successivo riconoscimento, dovendosi procedere ad un accertamento in concreto dell’interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di un suo sviluppo armonico, dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale; del pari, è ammissibile l’attribuzione del cognome del secondo genitore in aggiunta a quello del primo, purché non arrechi pregiudizio al minore in ragione della cattiva reputazione del secondo e purché non sia lesiva della identità personale del figlio, ove questa si sia già definitivamente consolidata, con l’uso del solo primo cognome, nella trama dei rapporti personali e sociali” (cfr. anche Cass. 5634/2023).

In definitiva, nel caso in cui l’altro genitore (che abbia già effettuato il riconoscimento) non presti il consenso, il giudice deve operare un bilanciamento tra il diritto soggettivo di colui che vuole riconoscere il figlio e l’interesse del minore a non subire una forte compromissione del proprio sviluppo psico-fisico, da compiersi operando un giudizio prognostico, che valuti non già il concreto esercizio della responsabilità genitoriale, per modulare il quale vi sono diversi strumenti di tutela, ma la sussistenza, nel caso specifico, di un grave pregiudizio per il minore che derivi dal puro e semplice acquisto dello status genitoriale e che si riveli superiore al disagio psichico conseguente alla mancanza o non conoscenza di uno dei genitori>>.

Questgo oper il giudice a quo che aveva malamnte applicato queste regole:

<<Il giudice di secondo grado non ha fatto buon governo dei principi sopra esposti, confermando la decisione di primo grado che aveva respinto la domanda di riconoscimento della figlia naturale da parte del padre.

La Corte di merito, dopo avere descritto, sulla base delle informative assunte, la personalità del padre biologico, dando atto che lo stesso, tossicodipendente (e la condizione di tossicodipendenza non risultava, all’epoca, risolta, come emergeva dalla relazione del Servizio Dipendenze del carcere di (Omissis)), aveva già riportato, nonostante la giovane età, molteplici condanne in sede penale (anche per atti persecutori ai danni della madre della minore di cui è chiesto il riconoscimento e danneggiamento seguito da incendio all’autovettura della di lei madre), si è soffermata, dovendo verificare l’interesse in concreto della minore al riconoscimento da parte del ricorrente, su questioni concernenti l’esercizio della responsabilità genitoriali, estranee al giudizio de quo, e costituenti oggetto di separato giudizio (sospeso) di dichiarazione dello stato di adottabilità della minore.

La Corte d’appello ha dato atto, infatti, che, anzitutto, anche a causa del riavvicinamento del M. alla C., nel (Omissis), già la madre della minore aveva deciso di interrompere il percorso comunitario in atto con la figlia e qualche mese dopo si allontanava anche dalla comunità, con conseguente fallimento del tentativo di recupero delle capacità genitoriali della stessa e che, alla luce di quanto rilevato dal consulente tecnico d’ufficio, in una consulenza, acquisita agli atti del primo grado, nel luglio 2019, vi era l’urgente necessità di inserimento della bambina in adeguato ambiente famigliare e la stessa, in comunità dai primi mesi di vita e ivi rimasta da sola da (Omissis), era stata positivamente inserita nel (Omissis) in una famiglia affidataria “a rischio giuridico”, con la quale aveva ormai costruito un legame di fiducia e di attaccamento ed aveva recuperato una condizione di benessere, costituendo ormai un rapporto identitario e familiare in abito diverso da quello biologico: a fronte dell’assenza di rapporti significativi della bambina con il padre e la rete parentale paterna (dovuti, peraltro, alla storia stessa della bambina, nata allorché il padre era in carcere e collocata in comunità sin dai primi mesi di vita), l’evoluzione della minore (che, nel 2019, mostrava “ritardo nelle tappe evolutive ed un alto rischio evolutivo”) doveva ritenersi incompatibile con l’attribuzione della paternità al M., risolvendosi in una frattura nel difficile equilibrio e nei progressi nello sviluppo psico-fisico raggiunti.

La Corte d’appello, dunque, ha negato il diritto al riconoscimento da parte del padre – in assenza del consenso della madre, che non si è espressa, rimanendo contumace – tenendo conto prevalentemente dei precedenti penali dei quali è gravato (uno soltanto in danno della madre e della nonna della minore), da alcuni dei quali egli risulta, peraltro, essere stato assolto.

E’ mancato qualsiasi accertamento in concreto – da espletarsi anche mediante consulenza tecnica d’ufficio – in ordine al pregiudizio effettivo che possa derivare alla minore dal puro e semplice acquisto dello status genitoriale, che – nel bilanciamento con il diritto soggettivo del padre al riconoscimento – risulti effettivamente prevalente, e che si riveli anche superiore al disagio psichico conseguente alla mancanza o non conoscenza di uno dei genitori>>.

Diritto di marchio vs. diritto alla parodia del marchio stesso : la lite sul marchio VANS

Lisa Ramsey su Twitter (X)  segnala  un articolo da Bloomberg law che offre il link all‘Appello del 2 circuito 5 dicembre 2023, docket No. 22-1006, Vans v. MSCHF.

Il caso è intreressante , affrontando un tema di attualità: il rapporto tra diritto di marchio e quello di parodia, da inserire nel diritto alla libetà di parola.

Il problema nasce quando il secondo è esercitato da imprenditori (anche gli artisti allora possono esserlo ed anzi lo sono nel diritto della concorrenza): c’è infatti il sospetto che vogliano lucrare sulla notorietà altrui.

La corte fa qui prevalere il diritto di marchio, appellandosi alla sentenza Supreme Court del 2023  Jack Daniel’s Properties, Inc. v. VIP Products LLC e a un precedente imprtante in del 2 circuito Rogers v. Grimaldi dek 1989  per cui la parodia va bene solo se e fino a che non generi confondibilità:

<<The Supreme Court’s decision in Jack Daniel’s forecloses MSCHF’s argument
that Wavy Baby’s parodic message merits higher First Amendment scrutiny under Rogers. As the Court held, even if a defendant uses a mark to parody the
trademark holder’s product, Rogers does not apply if the mark is used “‘at least in
part’ for ‘source identification.’” Id. at 156 (quoting Tommy Hilfiger Licensing, Inc.,
v. Nature Labs, LLC, 221 F. Supp. 2d 410, 414–15 (S.D.N.Y. 2002)).
Here, MSCHF used Vans’ marks in much the same way that VIP Products
used Jack Daniel’s marks—as source identifiers. As discussed above and
illustrated below, VIP Products used the Jack Daniel’s bottle size, distinctive
squared-off shape, and black and white stylized text to invoke an image of Jack
Daniel’s famous whiskey bottle.
Jack Daniel’s, 599 U.S. 148–49.
Likewise, MSCHF’s design evoked myriad elements of the Old Skool
trademarks and trade dress. Among other things, MSCHF incorporates, with
distortions, the Old Skool black and white color scheme, the side stripe, the
perforated sole, the logo on the heel, the logo on the footbed, and the packaging.
See Part I, above. MSCHF included its own branding on the label and heel of the
Wavy Baby sneaker, just as VIP Products placed its logo on the toy’s hangtag. But
even the design of the MSCHF logo evokes the Old Skool logo. And unlike VIP
Products, MSCHF did not include a disclaimer disassociating it from Vans or Old
Skool shoes. See Jack Daniel’s, 599 U.S. at 150 (noting the dog toy included a
disclaimer that read: “This product is not affiliated with Jack Daniel Distillery”).
A trademark is used as a “source identifier” when it is used “to identify or
brand a defendant’s goods or services” or to indicate the “‘source or origin’ of a
product.” Id. at 156 (alterations adopted). MSCHF used Vans’ trademarks—
particularly its red and white logo—to brand its own products, which constitutes
“quintessential ‘trademark use’” subject to the Lanham Act. Id. at 155 (citation
omitted); see also Harley-Davidson, Inc. v. Grottanelli, 164 F.3d 806, 812–13
(mechanic’s use of Harley-Davidson’s bar and shield motif in his logo, despite
the “humorous[]” message, was traditional trademark use subject to the
likelihood of confusion analysis).
Moreover, although MSCHF did not purport to sell the Wavy Baby under
the Vans brand, it admitted to “start[ing]” with Vans’ marks because “[n]o other
shoe embodies the dichotomies—niche and mass taste, functional and trendy,
utilitarian and frivolous—as perfectly as the Old Skool.” Jt. App’x at 353. In
other words, MSCHF sought to benefit from the “good will” that Vans—as the
source of the Old Skool and its distinctive marks—had generated over a decades-
long period. See Jack Daniel’s, 599 U.S. at 156. Notwithstanding the Wavy Baby’s
expressive content, MSCHF used Vans’ trademarks in a source-identifying
manner. Accordingly, the district court was correct when it applied the
traditional likelihood-of-confusion test instead of applying the Rogers test>>.

La composizione del conflitto di interssi è ragionevole: ok alla parodia e alla libertà di espressine, ma in termini chiari e non equivoci (cioè senza alcun rischio di confondibilità).

La parodia come interesse antagonista della privativa di marchio è tema ancora non affrontato sistematicamente.

Pur se non espressamente previsto  (art. 14 dir. 2015/2436; a differenza dal diritto di autore: dir. 29-2001 art. 5.3.k), è però in generale da ammettere. Resta il compito di individuarne i confini e cioè di conciliarlo con il diritto di marchio.

Sul dovere della banca di vigilare su operaizoni anomale confliggenti con l’interesse del cliente: la base giuridica è il consueto dovere di buona fede in executivis

Cass. 03.11.2023  n. 30.588, rel. Catallozzi:

<<- si osserva che, secondo la giurisprudenza di codesta Corte, nonostante la banca non abbia alcun dovere generale di monitorare la regolarità delle operazioni ordinate dal cliente, nondimeno, in presenza di circostanze anomale idonee a ledere l’interesse del correntista, questa, in applicazione dei doveri di esecuzione del mandato secondo buona fede, deve rifiutare l’esecuzione o almeno informare il cliente (Cass. 31 marzo 2010, n. 7956);
tale obbligo di protezione si attiva alla ricorrenza cumulativa di due presupposti: che l’operazione sia ictu oculi anomala e che non risponda agli interessi del cliente;

– può aggiungersi che il dovere di astenersi dall’esecuzione di un’operazione – o almeno di informare il cliente prima di eseguirla – si riferisce a singole operazioni precisamente individuate, non estendendosi l’anomalia di un’operazione, idonea a far sorgere l’obbligo di protezione della banca, a quelle successive;

– la Corte di appello, ha espressamente richiamato tale giurisprudenza facendone discendere la responsabilità della banca in ragione del fatto che quest’ultima – su cui gravava il relativo onere probatorio – non aveva sempre informato preventivamente la cliente di determinate operazioni che andavano considerate ictu oculi «anomale» ed estranee ai suoi interessi;
– per l’esattezza, facendo proprio l’accertamento operato dal Tribunale in sede di liquidazione del danno, ha riconosciuto che una serie di operazioni effettuate sui rapporti intestati alla Audisio, costituite da assegni incassati da Stefano e Corrado Bortolotti quali beneficiari o giratari, prelievi in contanti, bonifici in loro favore, incasso del ricavato della vendita dell’imbarcazione «Clara» e assegni emessi in favore di terzi, erano state poste in essere dai Bortolotti «nel loro interesse esclusivo e in assenza di un interesse della Audisio» (cfr. pagg. 16-17
e 81-82);
– ha, poi, rilevato che sin dal primo semestre 2004 i funzionari della banca si erano resi conto delle anomalie dei movimenti riguardanti la gestione patrimoniale e i conti correnti intestati alla Audisio – in particolare, delle frequenti operazioni del Bortolotti sia di utilizzo della giacenza esistente sui conti correnti, sia di passaggi di liquidità dalla gestione al conto corrente – e avevano segnalato tale circostanza alla Direzione (nella persona dell’Amministratore delegato Pietro D’Aquì), la quale, però si era attivata solo tardivamente, nonostante la Audisio fosse stata individuata quale «cliente di direzione», da seguire con «massima assistenza nel servizio» in quanto segnalata quale «cliente
problematica» in relazione alle sue abnormi spese e alla necessità di prevenire la progressiva erosione del suo patrimonio (cfr. pag. 74-76);

– ha, sul punto, osservato che a far data dal momento in cui il carattere anomale delle disposizioni impartite dal Bortolotti, quale delegato a operare sulla gestione patrimoniale e sui conti correnti, si era reso evidente la banca, in osservanza degli obblighi di protezione sulla stessa gravanti, avrebbe dovuto astenersi dall’esecuzione delle stesse, se non previa informazione della cliente che, nei casi rilevati, era stata omessa;
– dall’esame congiunto dei richiamati passaggi motivazionali, nonché dal complessivo tenore della sentenza impugnata, emerge che la Corte di appello ha riconosciuto che le operazioni poste in essere dal Bortolotti con riferimento alla gestione patrimoniale e ai conti correnti della Audisio, così come individuate quali voci di danno in sede di liquidazione dell’importo risarcitorio, presentassero carattere di operazioni ictu oculi anomale e non rispondenti agli interessi del cliente e ha accertato che la banca avesse dato corso a tali esecuzioni pur in assenza di una previa specifica informazione della cliente;
– così argomentata la sentenza di appello si sottrae alla censura prospettata, avendo accertato sia l’esecuzione da parte della banca di disposizioni impartite sulla gestione patrimoniale e sui conti correnti – da parte del delegato Bortolotti – caratterizzate dalla presenza di circostanze anomale idonee a ledere l’interesse del correntista, provvedendo alla loro individuazione, sia la mancata relativa
preventiva informazione specifica alla correntista prima della loro
esecuzione;

– le medesime considerazioni svolte con riferimento alla responsabilità contrattuale valgono con riferimento alla responsabilità per fatto illecito, in relazione alla ritenuta cooperazione nell’illecito del terzo, atteso che l’accertata inosservanza degli obblighi informativi gravanti sulla banca possono essere espressivi di un atteggiamento negligente o, comunque, imprudente della banca e, in quanto tale, idoneo a integrare il contestato requisito dell’elemento soggettivo>>

I gravi motivi per il recesso del conduttore da locazione commerciale ex art. 27 c. 8 L. 392/1978

Cass. sez. III, 17.07.2023 n. 20.503, rel.  Condello.

<<Trattandosi di recesso ‹‹titolato››, e in ciò distinguendosi dal recesso ad nutum, la comunicazione del conduttore non può, tuttavia, prescindere dalla specificazione dei motivi, con la conseguenza che tale requisito inerisce al perfezionamento della stessa dichiarazione di recesso e, al contempo, risponde alla finalità di consentire al locatore la precisa e tempestiva contestazione dei relativi motivi sul fattuale o della loro idoneità a legittimare il recesso medesimo (Cass., sez. 3, 17/01/2012, n. 549; Cass. 26/11/2002, n. 16676; Cass. 29/03/2006, n. 7241; Cass., 24/04/2008, n. 10677), dovendo conseguentemente escludersi che il conduttore possa esplicitare successivamente le ragioni della determinazione assunta (Cass., sez. 3, 30/06/2015, n. 13368). In tal senso si è espressa anche la sentenza di questa Corte n. 24266/2020, richiamata dalla ricorrente nella memoria illustrativa a supporto della doglianza.
Le ragioni che consentono al locatario di liberarsi del vincolo contrattuale devono, inoltre, essere determinate da avvenimenti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la sua prosecuzione. Inoltre, con riferimento
all’andamento dell’attività aziendale, può integrare grave motivo, legittimante il recesso del conduttore, non solo un andamento della congiuntura economica sfavorevole all’attività di impresa, come è di intuitiva evidenza (Cass., sez. 3, 24/09/2019, n. 23639; Cass., sez.  3, 09/05/2023, n. 12461), ma anche uno favorevole – purché sopravvenuto e oggettivamente imprevedibile (al momento della stipula del contratto) – che lo obblighi ad ampliare la struttura aziendale in misura tale da rendergli particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo (cfr. Cass., sez. 3, 10/12/1996, n. 10980; Cass., sez. 3, 20/02/2004, n. 3418; Cass., sez. 3, 21/04/2010, n. 9443).
Nel caso di sopravvenuto andamento favorevole della congiuntura aziendale, i fatti, per essere tali da rendere oltremodo gravosa la prosecuzione del contratto, devono innanzitutto presentare una connotazione oggettiva, non potendo risolversi nella unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine all’opportunità ed alla mera vantaggiosità di continuare a occupare l’immobile locato, poiché, in tal caso, si ipotizzerebbe la sussistenza di un recesso ad nutum, contrario all’interpretazione letterale, oltre che allo spirito della suddetta norma (cfr. Cass., sez. 3, 28/02/2008, n. 5293; Cass., sez. 3, 08/03/2007, n. 5328).
In tal caso, pertanto, la gravosità della persistenza del rapporto locativo deve essere valutata oggettivamente ed in concreto utilizzando come parametri comparativi, da una parte, la dimensione e le caratteristiche del bene locato e del nuovo locale e, dall’altra, le sopravvenute nuove esigenze di produzione e di commercio dell’azienda. Ne consegue che il giudice del merito non può limitarsi a prendere in considerazione il fatto che vi sia stato un aumento del fatturato aziendale o un aumento del personale lavorante, indici di per sé soli, utili ma non sufficienti al fine propostosi, ma deve altresì verificare, sulla base delle prove raccolte – il cui onere spetta al conduttore recedente secondo i principi generali in materia di ripartizione dell’onere probatorio – se nello specifico ed in concreto le caratteristiche dell’immobile oggetto di locazione siano divenute inadeguate alla accresciuta dimensione dell’azienda così da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la prosecuzione del rapporto locativo (Cass., sez. 3, 26/06/2012, n. 10624; Cass., sez. 3, 29/04/2015, n. 8706)>>

Il ruolo di Facebook nella presenza (conosciuta) di marchi contraffatti sul suo marketplace

Direct liability no, ma contributory si, dice il tribunale del Distr. Nord di New York 7.11.2023, caso 5:22-CV-1305 (MAD/ML), Car-Freshner v. Meta.

Si tratta del marchio del noto alberello deodorante di largo uso negli autoveicoli.

responsabilità diretta, no: <<In Tiffany, the Second Circuit concluded that eBay did not directly infringe on Tiffany’s
trademark where it resold genuine Tiffany goods. Tiffany, 600 F.3d at 103. Tiffany argued that
some of the goods being sold on eBay were counterfeit, which the Second Circuit explained “is
not a basis for a claim of direct trademark infringement against eBay, especially inasmuch as it is
undisputed that eBay promptly removed all listings that Tiffany challenged as counterfeit and
took affirmative steps to identify and remove illegitimate Tiffany goods.” Id. The Second Circuit
continued, “[t]o impose liability because eBay cannot guarantee the genuineness of all of the
purported Tiffany products offered on its website would unduly inhibit the lawful resale of
genuine Tiffany goods.” Id.
Although Plaintiffs allege that Meta did not promptly remove the infringing products from
its websites, there are no allegations that Meta “placed” the infringing marks on any goods. 15
U.S.C. § 1127(1)(A); see also Lops v. YouTube, LLC, No. 3:22-CV-843, 2023 WL 2349597, *3
(D. Conn. Mar. 3, 2023) (footnote omitted) (“[T]he exhibits indicate that the videos were created
or posted by third parties rather than by YouTube. But YouTube cannot be subject to direct
liability for trademark infringement based on videos uploaded by third parties”);
Nike, Inc. v. B&H Customs Servs., Inc., 565 F. Supp. 3d 498, 508 (S.D.N.Y. 2021) (“[T]he
infringer must have some intention to sell, advertise, or distribute the infringing product or service
in order for strict liability to attach. Mere unwitting transportation of another’s goods is not enough . . . “). As such, the Court grants Meta’s motion and dismisses the direct liability claims>>.

ma contributory liability, si, visto che Meta sapeva delle dopcumentate contestazioni dell’attore:

<<Plaintiffs’ allegations are different from those in Business Casual Holdings because Plaintiffs allege that Meta did not remove the infringing post or products from Facebook or Instagram until Plaintiffs filed their original complaint with this Court. See Dkt. No. 13 at ¶¶ 114-
15, 117, 119, 121. Plaintiffs allege that even after they notified Facebook and Instagram of the alleged infringement, both websites advertised and offered the infringing products. See id. at ¶¶ 110. Accepting Plaintiffs’ allegations as true, they have sufficiently stated a contribution claim as they allege that Meta had knowledge of the alleged infringement and instead of removing the posts or products from its websites, it continued to advertise the products. Thus, the Court denies Meta’s motion to dismiss>>.

La sentenza riproduce pure i marchi a confronto (p. 48-49), ravvisandone la sufficiente confondibilità per rigettare l’istanza di dismiss di Meta e per proseguire il processo

Risarcimento del danno alla persona da fatto illecito e già erogato indennizzo INAIL: come coordinarli?

Risponde con ordinanza, assai utile a fini pratici, Cass. 31.10.2023 n. 30.293, rel. Iannello, sez. 3:

<<Secondo il principio affermato, in tema di compensatio lucri cum damno, da Cass. Sez. U. n. 12566 del 22/05/2018, i pagamenti effettuati dall’assicuratore sociale riducono il credito risarcitorio vantato dalla vittima del fatto illecito nei confronti del responsabile, quando l’indennizzo abbia lo scopo di ristorare il medesimo pregiudizio del quale il danneggiato chiede di essere risarcito.

Ciò posto, e considerata la diversità strutturale e funzionale dell’indennizzo corrisposto dall’assicuratore sociale (Inail) nel caso di infortunio rispetto al risarcimento civilistico del danno da lesione della salute, il criterio più coerente al detto principio per calcolare il credito risarcitorio residuo del danneggiato nei confronti del terzo responsabile (e cioè il c.d. danno differenziale) non è certo quello – che di fatto risulta applicato dai giudici di merito – di sottrarre tout court per intero l’indennizzo Inail dal credito risarcitorio che sia stato “a monte” calcolato e non è nemmeno quello di operare tale sottrazione secondo “poste omogenee” (vale a dire distinguendo all’interno dell’indennizzo Inail le soli due grandi poste del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale e sottraendo tout court l’importo complessivamente liquidato per quest’ultima categoria di danno), ma è piuttosto quello di sottrarre l’indennizzo Inail dal credito risarcitorio solo quando l’uno e l’altro siano stati destinati a ristorare pregiudizi identici (criterio per “poste identiche” e non per “poste omogenee”: v. Cass. Sez. 3 n. 26117 del 27/09/2021)><.

Assai commendevolmente la SC si pone il problema dell’applicazione conseguente:

<<Per meglio comprendere l’importanza di tale operazione sarà utile ricordare quali pregiudizi sono indennizzati dall’Inail, per poi esaminare in che conto debbano essere tenuti i relativi indennizzi al momento della liquidazione del danno differenziale>>.

E subito dopo dettaglia :

<<5. Nel caso di infortunio non mortale, l’Inail esegue in favore della vittima quattro prestazioni principali:

a) eroga una somma di denaro a titolo di ristoro del danno biologico permanente (D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13); tale importo viene liquidato in forma di capitale per le invalidità comprese tra il 6 e il 16%, ed in forma di rendita per le invalidità superiori;

b) eroga una somma di denaro a titolo di ristoro del danno (patrimoniale) da perdita della capacità di lavoro; tale danno è presunto juris et de jure nel caso di invalidità eccedenti il 16% e viene indennizzato attraverso una maggiorazione della rendita dovuta per il danno biologico permanente (art. 13, comma 2, lett. b), D.Lgs. cit., a tenore del quale: “le menomazioni di grado pari o superiore al 16 per cento danno diritto all’erogazione di un’ulteriore quota di rendita… commisurata… alla retribuzione dell’assicurato… per l’indennizzo delle conseguenze patrimoniali”); tale maggiorazione è calcolata moltiplicando la retribuzione del danneggiato per un coefficiente stabilito dall’Allegato 6 al D.M. 12 luglio 2000;

c) eroga una indennità giornaliera per il periodo di assenza dal lavoro, commisurata alla retribuzione e decorrente dal quarto giorno di assenza (D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 68);

d) si accolla le spese di cura, di riabilitazione e per gli apparecchi protesici (D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 66).

L’Inail, dunque, non indennizza il danno biologico temporaneo, non accorda alcuna “personalizzazione” dell’indennizzo per tenere conto delle specificità del caso concreto, non indennizza i pregiudizi non patrimoniali non aventi fondamento medico-legale (ovvero i pregiudizi morali).>>

Utilissima precisaizone :

<<Ne discende che:

a) se l’Inail ha pagato al danneggiato un capitale a titolo di indennizzo del danno biologico, il relativo importo va detratto dal credito risarcitorio vantato dalla vittima per danno biologico permanente, al netto della personalizzazione e del danno morale (Cass. n. 26117 del 2021, cit.; n. 9112 del 02/04/2019; n. 13222 del 26/06/2015);

b) se l’Inail ha costituito in favore del danneggiato una rendita, occorrerà innanzitutto determinare la quota di essa destinata al ristoro del danno biologico, separandola da quella destinata al ristoro del danno patrimoniale da incapacità lavorativa; la prima andrà detratta dal credito per danno biologico permanente, al netto della personalizzazione e del danno morale, la seconda dal credito per danno patrimoniale da incapacità di lavoro, se esistente;

c) poiché il credito scaturente da una rendita matura de mense in mensem, il diffalco di cui al punto b) che precede dovrà avvenire, con riferimento al danno biologico:

c’) sommando e rivalutando i ratei di rendita già riscossi dalla vittima prima della liquidazione;

c”) capitalizzando il valore della rendita non ancora erogata, in base ai coefficienti per il calcolo dei valori capitali attuali delle rendite Inail, di cui al D.M. 22 novembre 2016 (in Gazz. Uff. 19 dicembre 2016, n. 295, Suppl. Ord.) (Cass. n. 26117 del 2021, cit.; Cass. n. 25618 del 15/10/2018; n. 5607 del 07/03/2017; n. 26913 del 23/12/2016; n. 17407 del 30/08/2016);

ovviamente l’una e l’altra di tali operazioni andranno compiute sulla quota-parte della rendita omogenea al danno che si intende liquidare: e dunque la quota-parte destinata all’indennizzo del danno biologico o quella destinata all’indennizzo del danno patrimoniale, a seconda che si tratti di liquidare l’uno o l’altro;

d) il risarcimento del danno biologico temporaneo, del danno morale e della c.d. “personalizzazione” del danno biologico permanente in nessun caso potranno essere ridotti per effetto dell’intervento dell’assicuratore sociale;

e) il credito per inabilità temporanea al lavoro e quello per spese mediche di norma non porranno problemi di calcolo del danno differenziale, essendo i suddetti pregiudizi integralmente ristorati dall’Inail, salvo ovviamente che la vittima deduca e dimostri la sussistenza di pregiudizi eccedenti quelli indennizzati dall’Inail (ad esempio, per la perduta possibilità di svolgere lavoro straordinario, o per spese mediche non indennizzate dall’Inail)>>.

Così deve essere lo ius dicere: aiutare e immaginare l’applicazione reale delle regole proposte, non creare riflessioni astratte.

Marchio “Emoji” usato solo a fini descrittivi della propria attività

Eric Goldman dà notizia di NORTHERN DISTRICT Court OF ILLINOIS
EASTERN DIVISION 29 settembre 2023, No. 22-cv-2378, Emoji company v. vari soggetti .

La convenuta aveva usato il marchio denominativo (la parola) “Emoji” nel descrivere i propri prdotti, dato che vendeva stickers che ricordavano la forma di emojis.

Si tratta di fair use secondo il diritto dei marchi usa  (da noi art. 21 c.1 c.p.i., xa vedere se lettere b) o c)), dice la corte.

Là è l’argt. 15 US Core § 1115.b. (4): << That the use of the name, term, or device charged to be an infringement is a use, otherwise than as a mark, of the party’s individual name in his own business, or of the individual name of anyone in privity with such party, or of a term or device which is descriptive of and used fairly and in good faith only to describe the goods or services of such party, or their geographic origin;>> (la Corte non menziona la fattispecie sub (4), ma altre paiono non adatte)

Interessante è anche la questione della volgarizzazione del segno.

La corte dice che, impregiudicato se lo sia per digital icons, non lo è per altri prodottio come gli stickers fisici sub iudice: <<But those facts do not strip Emoji Company of trademark protection for the term “emoji”
on classes of products other than digital icons, such as, as relevant here, stickers. That’s because
“emoji” is not a generic term for stickers or emoji-themed stickers. See McCarthy, supra at 12:1
(stating that when a name is generic, “the name of the product answers the question ‘What are
you?’”); see also H.D. Michigan, Inc., 496 F.3d at 760 (“A company’s name may be generic as to
one of its products, but not generic as to its other products, even those related to the first
product. Two Second Circuit decisions illustrate this principle. In one, the court . . . held that the
word ‘safari’ is generic as applied to a type of khaki hat and jacket, but not generic as applied to
boots, shoes, shirts, ice chests, and tobacco. See Abercrombie & Fitch Co. v. Hunting World Inc.,
537 F.2d 4, 11-12 (2d Cir. 1976). In another, the court held that the word ‘self-realization’ is a
generic name for a yoga organization (people performing yoga attempt to attain self-realization),
but descriptive as applied to yoga books and classes. See Self–Realization Fellowship Church v.
Ananda Church of Self–Realization, 59 F.3d 902, 909-10 (9th Cir. 1995).”). Thus, Winlyn has not
shown that Emoji Company has a less-than-likely shot at success on the merits on the basis that its
mark is generic and therefore unprotectable>>.

Questa la pubblicità della covnenuta (su Amazon; immagine rpesa dal blog di Eric Goldman):

Violazione di copyright (fornendo link a opere protette) da parte della piattaforma

Eric Goldman posta un commento (dandone pure il link, che segue, al testo) a US Appels Court del 10 circuito 16 ottobre 2023, caso No. 21-4128, Greer v. Moon e Kiwi Farms.

Si tratta di azione contro la pericolosissima piattaforma Kiwi Farms che nel caso permise l’upload da parte di terzi di materiale in violazione di copyright.

IL punto giuridico è se ricorra o meno un suo contributory infringement e in particolare l’elemento della material coontribution: cioè del terzo dei tre richiesti dalla giurisprudenza usa (“Mr. Greer had to plausibly allege: (1) his copyrighted work was directly infringed by a third party, (2) Mr. Moon and Kiwi Farms “kn[ew] of the infringement,” and (3) Mr. Moon and Kiwi Farms “cause[d] or materially contribute[d] to [third parties’] infringing activities.” Diversey, 738 F.3d at 1204.9 We address each in turn“).

Nel caso specifico la piattafroma non solo non rimosse il materiale, anzi dichiarandolo apertamente, ma pure irrise la vittima (tra l’altro affetta da facial paralysis)

Ecco il passaggio:

<<When Mr. Greer discovered the book had been copied and placed in a Google Drive on Kiwi Farms, he “sent Mr. Moon requests to have his book removed . . . .” RI.18. Mr. Moon pointedly refused these requests. RI.18. In fact, instead of honoring the requests, Mr. Moon posted his email exchange with Mr. Greer to Kiwi Farms, belittling Mr. Greer’s attempt to protect his copyrighted material without resort to litigation. RI.18–19.
After the email request, Kiwi Farms users continued to upload audio recordings of Mr. Greer’s book, followed by digital copies of his song. When Mr. Greer discovered the song on Kiwi Farms, he sent Mr. Moon a takedown notice under the DMCA. Mr. Moon not only refused to follow the DMCA’s process for removal and protection of infringing copies, he “published [the] DMCA request onto [Kiwi Farms],” along with Mr. Greer’s “private contact information.” RI.22. Mr. Moon then “emailed Greer . . . and derided him for using a template for his DMCA request” and confirmed “he would not be removing Greer’s copyrighted materials.” RI.23. Following Mr. Moon’s mocking refusal to remove Mr. Greer’s book and his song, Kiwi Farms users “have continued to exploit Greer’s copyrighted material,” including two additional songs and a screenplay. RI.23>>.