Ancora la Corte di Giustizia sul marchio rinomato: il caso Burlington

Con la sentenza 4 marzo 2020 nelle cause riunite da C-155/18 P fino a C-158/18 P la CG interviene su alcuni aspetti sostanziali e procedurali del diritto dei marchi.

La normativa applicata ratione temporis è per alcune registrazioni il regolamento UE 40/94 e per un’altra il regolamento UE 207 del 2009.

Sappiamo che l’articolo 8/5  del regolamento 207/2009 dice: <<In seguito all’opposizione del titolare di un marchio anteriore registrato ai sensi del paragrafo 2, la registrazione del marchio depositato è altresì esclusa se il marchio è identico o simile al marchio anteriore, a prescindere dal fatto che i prodotti o i servizi per i quali si chiede la registrazione siano identici, simili o non simili a quelli per i quali è registrato il marchio anteriore, qualora, nel caso di un marchio UE anteriore, quest’ultimo sia il marchio che gode di notorietà nell’Unione o, nel caso di un marchio nazionale anteriore, quest’ultimo sia un marchio che gode di notorietà nello Stato membro in questione e l’uso senza giusto motivo del marchio depositato possa trarre indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio anteriore o recare pregiudizio agli stessi.>>

I marchi a confronto sono quelli anteriori di Burlington Arcade da una parte e quelli posteriori di Burlington (figurativi e denominativi), dall’altra: si vedano rispettivamente i punti 21 e 19 della sentenza.

I prodotti per i quali sono stati registrati , come sempre nel diritto dei marchi, sono essenziali: a prima vista sotto il profilo merceologico però non c’è sovrapposizione o meglio affinità.

Qui mi fermo solo sul profilo della tutela e in particolare sulla fattispecie astratta di cui all’articolo 8 paragrafo 5 regolamento 207 cit. (la norma è del tutto simile anche nel regolamento 40 del 94). La Corte interviene pure su altri aspetti soprattutto procedurali, dei quali qui non mi occupo.

Le messe a punto della CG non sono particolarmente innovative ma ma vale la pena di ripassarle

La Corte ricorda gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’articolo 8 paragrafo 5 regolamento 207, paragrafo 73 e ricorda che una sola di queste tre violazioni è sufficiente, paragrafo 74

Ricorda poi che <<sebbene il titolare del marchio anteriore non sia tenuto a dimostrare l’esistenza di una violazione effettiva e attuale del suo marchio ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 5, del regolamento n. 207/2009, egli deve, tuttavia, dimostrare l’esistenza di elementi che permettano di concludere per un rischio serio che la violazione abbia luogo in futuro>>, paragraph 75

Come al solito, ricorda pure che la valutazione va eseguita complessivamente <<tenendo conto di tutti gli elementi rilevanti del caso di specie, fra i quali compaiono, in particolare, il livello di notorietà e il grado di distintività del marchio anteriore, il grado di somiglianza fra i marchi in conflitto, nonché la natura e il grado di prossimità dei prodotti o dei servizi interessati (sentenza del 27 novembre 2008, Intel Corporation, C‑252/07, EU:C:2008:655, punto 68)>> paragrafo 76

 in particolare circa il pregiudizio <<arrecato al carattere distintivo del marchio anteriore, detto anche «diluizione», «corrosione» o «offuscamento», esso si manifesta quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato, per il fatto che l’uso del marchio posteriore fa disperdere l’identità del marchio anteriore e la sua capacità di far presa nella mente del pubblico. Ciò si verifica, in particolare, quando il marchio anteriore non è più in grado di suscitare un’associazione immediata con i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato (sentenza del 27 novembre 2008, Intel Corporation, C‑252/07,EU:C:2008:655, punto 29).>>, § 77

Sotto il profilo probatorio, <<la prova che l’uso del marchio posteriore rechi o possa recare pregiudizio al carattere distintivo del marchio anteriore richiede che siano dimostrati una modifica del comportamento economico del consumatore medio dei prodotti e dei servizi per i quali il marchio anteriore è registrato, dovuta all’uso del marchio posteriore o un rischio serio che una tale modifica si produca in futuro (sentenza del 27 novembre 2008, Intel Corporation, C‑252/07, EU:C:2008:655, punto 77).>>, § 78.    E’ forse l’indicazione più utile per la pratica.

Lo scioglimento della comunione ereditaria è atto traslativo (Cass. sez. un. 25021 del 07.10.2019)

La antica questione circa la traslatività o dichiaratività dello scioglimento della comunione ereditaria è stata sciolta dalle sezioni unite della Corte di Cassazione con la sentenza in oggetto (rel.: Lombardo):

La fattispecie riguardava immobili abusivi costruiti tra il 1970 e il 1976, per cui si applicava ratione temporis l’art. 40.2 dell L. 47/1985 secondo cui:“”Gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali, esclusi quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, relativi ad edifici o loro parti, sono nulli e non possono essere rogati se da essi non risultano, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell’art. 31 ovvero se agli stessi non viene allegata la copia per il richiedente della relativa domanda, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione, ovvero copia autentica di uno degli esemplari della domanda medesima, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione e non siano indicati gli estremi dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione di cui al comma 6 dell’art. 35. Per le opere iniziate anteriormente al 1 settembre 1967, in luogo degli estremi della licenza edilizia può essere prodotta una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, rilasciata dal proprietario o altro avente titolo, ai sensi e per gli effetti della L. 4 gennaio 1968, n. 15, art. 4, attestante che l’opera risulti iniziata in data anteriore al 1 settembre 1967” (§ 2)

Si badi che nella norma successiva (art. 46 c.1 dpr 380/2001), che ha sostituito quella citata, lo scioglimento delle comunioni è espressamente contemplato.

Il motivo di ricorso in Cassazione sottoponeva le seguenti due questioni di diritto collegate tra di loro : <<innanzitutto …  si tratta di stabilire se, tra gli atti tra vivi per i quali la L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, commina la sanzione della nullità al ricorrere delle condizioni ivi previste, debbano ritenersi compresi o meno gli atti di scioglimento delle comunioni (“prima questione di diritto”). Ove la risposta a tale questione risulterà positiva (ove cioè debba ritenersi che lo scioglimento delle comunioni sia ricompreso tra gli atti tra vivi per i quali la L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, commina la sanzione della nullità), si tratterà di risolvere un’altra conseguente questione di diritto: se possano considerarsi atti inter vivos, come tali soggetti alla comminatoria di nullità prevista dalla L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, (ma anche dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, comma 1), solo gli atti di scioglimento della comunione “ordinaria” o anche quelli di scioglimento della comunione “ereditaria” (“seconda questione di diritto”).>>

Circa la prima questione , secondo la SC va preso atto che << la L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, sia pure attraverso un diverso percorso semantico, ha la medesima estensione applicativa dell’art. 46 del D.P.R. n. 380 cit. (e della disposizione che lo ha preceduto). Nulla autorizza a ritenere che la comminatoria di nullità prevista dalla L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, abbia un ambito oggettivo diverso da quello della comminatoria prevista dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, comma 1; nulla autorizza a ritenere che gli atti di scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici abusivi o loro parti siano esclusi, alle condizioni stabilite, dalla comminatoria di nullità, considerato che essi rientrano comunque nella classe degli atti contemplati nella disposizione di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2; nulla autorizza a ritenere che il legislatore abbia inteso prevedere una disciplina differenziata per gli atti di scioglimento di comunione aventi ad oggetto edifici, a seconda che la costruzione sia stata realizzata in data anteriore o successiva rispetto all’entrata in vigore della L. n. 47 del 1985. 

Alla stregua di quanto sopra, deve concludersi che la L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, è applicabile anche agli atti di scioglimento della comunione. Restano fuori dal campo di applicazione della L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, così come – d’altra parte – dal campo di applicazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, comma 1, (e prima della L. n. 47 del 1985, art. 17, comma 1), gli atti mortis causa e, tra quelli inter vivos, gli atti privi di efficacia traslativa reale (ossia quelli ad effetti meramente obbligatori), gli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù (espressamente esclusi dalle richiamate disposizioni) e – come si vedrà nel prosieguo – gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, comma 5, e L. n. 47 del 1985, art. 40, commi 5 e 6)>>

La seconda questione, come detto, attiene invece al se lo scioglimento della comunione ereditaria sia atto mortis causa o tra vivi. Precisamente riguarda il <<se nel novero degli atti tra vivi, per i quali la L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, (come sopra interpretato) commina la sanzione della nullità, possa includersi solo l’atto di scioglimento della comunione ordinaria, dovendo ritenersi l’atto di divisione della comunione ereditaria un negozio assimilabile agli atti mortis causa, ovvero debba includersi anche l’atto di scioglimento della comunione ereditaria, da qualificarsi invece come negozio inter vivos.>> § 3

Nel § 4 la Corte ricorda le caratteristiche generali della comunione ereditaria e i suoi rapporti con quella ordinaria (ex art. 1100 cc)

Il primo argomento, per cui sarebbe atto mortis causa, è quello per cui sarebbe ad essi assimilabile,  non avendo natura automnoma.  La Corte ha buon gioco nel respingerlo (§ 5.1).

Il secondo argomento è quello per cui la tesi della natura inter vivos crerebbe disparità di trattamento con la divisione del testatore ex art. 734 cc.  Anche qui è facile motivarne il rigetto: la divisione del testtatore evita la divisione , per cui non c’è alcuna omogeneità di effetti tra i due atti (tant’è che è disposta dal testatore invece che dai comunisti) (§ 5.3)

Il terzo argomento è -apparentemente- il più difficile da superare ed è quello basato sulla norme che dispone la retrattività della divisione erditaria. Si tratta dell’art. 757 c.c. , secondo cui  “Ogni coerede è reputato solo e immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla successione, anche per l’acquisto all’incanto, e si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli altri beni ereditari“.

La Corte, tuttavia,  precisa che tale efficacia retroattiva opera <<solo sul piano dell’effetto distributivo proprio della divisione (il c.d. “apporzionamento”), ossia solo per quanto riguarda l’acquisto della titolarità dei beni assegnati; ma essa non cancella gli altri effetti della comunione e le situazioni attive e passive acquisite dal condividente o dai terzi durante lo stato di comunione: ad es., i frutti naturali della cosa comune già separati al momento della divisione restano acquisiti alla comunione e non competono all’assegnatario del bene che li aveva prodotti (cfr., Cass., Sez. 2, n. 2975 del 20/03/1991); i condividenti sono tenuti a reciproca garanzia per l’evizione (art. 759 c.c.); sopravvivono pure i diritti reali costituiti in favore di terzi durante la comunione (salva la garanzia ipotecaria costituta dal compartecipe che, ai sensi dell’art. 2825 c.c., si trasferisce sui beni a lui assegnati); restano opponibili i rapporti di locazione>> (§ 5.3).

La motivazione si  basa sui seguenti argomenti.

In primo luogo già <<sul piano della teoria generale, … il fenomeno della retroattività di un atto giuridico si accompagna, per sua natura, all’efficacia costitutiva dell’atto stesso ed è incompatibile con l’efficacia meramente dichiarativa del medesimo.>> (§ 5.3.1).

In secondo luogo -e soprattutto, direi-  lo scioglimento della comunione non accerta o dichiara affatto una situazione giuridica preesistente, ma <<immuta sostanzialmente la realtà giuridica. Con la divisione, infatti, ogni condividente perde la (com)proprietà di tutti i cespiti costituenti l’asse ereditario e concentra il proprio diritto su uno solo o su alcuni di essi (“aliquid datum, aliquid retentum”); sorgono, dunque, tante proprietà individuali laddove, prima, esisteva una comproprietà. E’ chiaro, dunque, che l’idea secondo cui la divisione non costituirebbe titolo di acquisto dei beni assegnati in proprietà esclusiva può essere condivisa solo a patto di restringerne il significato al piano puramente economico, essendo chiaro che il passaggio dalla contitolarità pro quota dei beni comuni alla titolarità esclusiva della porzione non si traduce in un incremento patrimoniale per il condividente. Tuttavia, sul piano della modificazione della sfera giuridica dei condividenti, è indubbio come nel fenomeno divisorio sia insito un effetto costitutivo, sostanzialmente traslativo, perchè con la divisione ogni condividente perde la (com)proprietà sul tutto (che prima aveva) e – correlativamente – acquista la proprietà individuale ed esclusiva sui beni a lui assegnati (che prima non aveva): le quote ideali spettanti a ciascun condividente su tutti i beni facenti parte della comunione sono convertite in titolarità esclusiva su taluni singoli beni. Deve, pertanto, riconoscersi che la divisione ha una natura specificativa, attributiva, che impone di collocarla tra gli atti ad efficacia tipicamente costitutiva e traslativa (efficacia, peraltro, della quale non si dubitava nè nel diritto romano nè in quello intermedio)>> (§ 5.3.2).

In conclusione dall’efficacia retroattiva disposta dall’art. 757 c.c. <<non può argomentarsi la natura meramente dichiarativa del contratto di divisione ereditaria e, tantomeno, la sua natura di atto mortis causa. La divisione non ha causa ricognitiva di effetti giuridici già verificatisi, ma – al contrario – ha causa attributiva e distributiva, in quanto ciascun condividente può divenire l’unico titolare di questo o di quel bene ricadente in comunione solo se vi sia stato un procedimento (contrattuale o giudiziale) che abbia determinato, con effetti costitutivi, lo scioglimento di quella comunione. Essa costituisce, pertanto, un atto assimilabile a quelli di natura traslativa, per i quali la L. n. 47 del 1985 e il D.P.R. n. 380 del 2001 comminano la sanzione della nullità ove abbiano ad oggetto edifici abusivi o parti di essi>> (§ 5.3.4).

L’insegnamento è condivisibilissimo: anche se per vero le tesi contrarie erano veramente poco fondate, confondendo efficacia retroattiva e natura dichiarativa.

La S.C. fa infine due importanti precisazioni:

1) questa disciplina si applica pure alla divisione giudiziale e non solo a quella contrattuale (§ 6.1);

2) è possibile disporre anche una divisione parziale, omettendo gli immobili abusuvi, e nessun coerede può opporvisi (§ 6.2).

Dalla natura costitutivo-traslativa della divisione potrebbero però seguire altre conseguenze, che dovranno essere studiate. Ad es. emerge la necessità di una nuova lettura dell’art. 2646 cc, relativo alla trascrizione della divisione: la quale non potrà più essere considerata una pubblicità notizia a solo fine  di continuità delle trascrizioni, ma una ordinaria pubblicità dichiarativa ex art. 2644 c.c. (come ipotizza F.M. Bava in La divisione ereditaria quale atto inter vivos avente natura costitutiva, in nota alla sentenza,  in I contratti, 2019/6, 623, che esamina altre conseguenze discendenti dalla riconosciuta natura traslativa). In senso contrario, proprio facendo valere la natura dichiarativa  alla luce dell’art. 757 cc, intende invece l’art. 2646 come trascrizione a soli fini di continuità Ciacci Caimi, Della trascrizione degli atti relativi ai beni immobili (Artt. 2643-2645 bis, 2646-2651), Il Cod. Civ. Comm., dir. da Busnelli, 2018, 267-269).

Si è fatto riferimento allo scopo di apporzionamento (<<endodivisionale>>), proprio della divisione ereditaria, per dedurne alcune conseguenze: i) non c’è obbligo di allegare l’attestato di prestazione energetica; ii) il bene attribuito in proprietà esclusiva non entra nell’eventuale comunione legale esistente in capo al condividente (Romano C., Natura giuridica della doivisione ereditaria;: la posizione selle Sezioni Unite, Notariato, 2019/6, 674-675). A me pare che la divisione ereditaria vada trattata come la divisione che pone fine ad una comunione ordinaria (fino a che non ci sia norma in senso contrario).

Competenza giurisdizionale per violazioni di marchio UE, consistenti in offerta in vendita su internet

Interviene la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul tema in oggetto, decidendo una questione pregudiziale  sollevata dalla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) e relativa all’art. 97 (rubricato <<Competenza internazionale>>) § 5 del reg. 207/2009.

Secondo l’art. 97 § 1 sono competenti i Tribunali del domicilio del convenuto.

Secondo l’art. 97 § 5,  l’azione può essere promossa  anche <<dinanzi ai tribunali dello Stato membro in cui l’atto di contraffazione è stato commesso>>.

Nel caso specifico il presunto contraffattore era domiciliato in Spagna ed offriva in vendita prodotti contraffatti su internet. I titolari hanno fatto valere la violazione nel Regno Unito e solo per quanto riguarda il territorio britannico (§ 19 e § 55).

La questione riguarda l’interpretazione del concetto di “luogo di commissione della contraffazione“. Precisamente consiste nel capire se con ciò si intenda solo il luogo, in cui il convenuto abbia organizzato la messa on line, oppure anche il luogo (anzi i luoghi), in cui si trovano consumatori e professionisti cui pubblicità ed offerte di vendita sono rivolte, pur se diverso dal primo.

La Corte ha risposto nel secondo senso e ciò, oltre che per altre ragioni, anche tramite una corretta interpretazione della norma sull’ambito oggettivo di protezione conferito dalla privativa.

Secondo l’art. 9 § 2 lett. b) e d) [§ 3 lett. b) ed e) nell’ultima versione consolidata], infatti, costituisce contraffazione anche l’offerta in vendita e l’uso del segno nella pubblicità. Quindi il luogo di commissione della contraffazione in tali casi è laddove la pubblicità o l’offerta vendono percepite dai [“rese accessibili ai”] destinatari (§ 54).

In sintesi , ne segue che <<il titolare di un marchio dell’Unione (…) può introdurre un’azione per contraffazione (…) dinanzi a un tribunale dei marchi dell’Unione europea dello Stato membro sul cui territorio si trovano consumatori o professionisti cui si rivolgono tali pubblicità o dette offerte di vendita, nonostante il fatto che il suddetto terzo abbia adottato le decisioni e le misure finalizzate a tale pubblicazione elettronica in un altro Stato membro>> (§ 65)

Si tratta della sentenza 05.09.2019, causa C-172/18AMS Neve Ltd-Barnett Waddingham Trustees-Mark Crabtree contro Heritage Audio SL-Pedro Rodríguez Arribas.

Aceto Balsamico di Modena: questioni in tema di tutela del segno distintivo

Il Consorzio Tutela Aceto Balsamico di Modena è interessato da due recenti vertenze giudiziarie, in sede nazionale ed europea.

1) Nella prima è stato deciso che non può pretendere di registrare il marchio collettivo denominativo riferendosi alle tipologie merceologiche rivendicate con le diciture «Aceto balsamico di Modena» e «Condimenti all’Aceto balsamico di Modena>>  per contraddistinguere i prodotti della classe 30.

La classe 30 dell’Accordo di Nizza, nella versione temporalmente pertinente,  prevedeva: «Caffè, tè, cacao e succedanei del caffè riso tapioca e sago; farine e preparati fatti di cereali pane, pasticceria e confetteria gelati; zucchero, miele, sciroppo di melassa lievito, polvere per fare lievitare; sale senape; aceto, salse [condimenti]; spezie; ghiaccio».

Il Consorzio (parrebbe) pretendeva di indicare come classe merceologica direttamente e solamente il proprio prodotto: «Aceto balsamico di Modena» e «Condimenti all’Aceto balsamico di Modena>> , quasi costituisse un genere merceologico autonomo.

La Cassazione ha però confermato che questo contrasta con la classificazione di Nizza, la ottemperanza alla quale è però prevista dall’art. 156 c.p.i. (e comunque -vien da aggiungere-  contrasta con esigenze di armonizzazione tra Stati aderenti.

Così si legge in motivazione (sub § 2): <<Il riferimento  specifico al prodotto rivendicato («Aceto balsamico di Modena» e «Condimenti all’Aceto balsamico di Modena»), all’interno della classe 30 della Classificazione internazionale di Nizza (che, anche nell’elenco alfabetico dei prodotti inclusi, non comprende tali diciture), avrebbe comportato una sorta di rimodulazione dell’elenco dei prodotti o servizi oggetto della Classificazione Internazionale di Nizza, non per genere dei prodotti ma per caratteristiche specifiche ulteriori (non incluse nella classificazione stessa) non consentita. (…) La ricorrente assume che il prodotto aceto balsamico di Modena non possa rientrare nel genere «aceto», presente nella classe 30, costituendo una sorta di genere autonomo di prodotto ben definito, sulla base di elementi differenziali, peraltro non chiaramente indicati in ricorso; la ricorrente non spiega perché la dicitura «aceto», presente nella classe 30 (che accorpa i prodotti merceologici in base a caratteristiche generali comuni), non potrebbe ricomprendere anche l’aceto balsamico di Modena. Ed invero non si trattava di negare tutela ad un genere autonomo, non previsto nella Classificazione di Nizza, ma di ricondurre il prodotto ad un genere già classificato, nella Classe 30>>.

Si tratta di Cass. 12.848 del 14.05.2019, Rel. Iofrida.

2) Quanto alla sede europea  , il Consorzio ha fatto valere invece la IGP <<Aceto Balsamico di Modena (IGP)>> presso la Corti tedesche contro l’uso di etichetta contenente le scritte «Balsamico» e «Deutscher Balsamico» e pure la scritta «Theo der Essigbrauer, Holzfassreifung, Deutscher Balsamico traditionell, naturtrüb aus badischen Weinen» [Theo l’acetificatore, invecchiamento in botti di legno, Aceto balsamico tedesco tradizionale, naturalmente torbido, ottenuto da vini del Baden] oppure «1. Deutsches Essig-Brauhaus, Premium, 1868, Balsamico, Rezeptur No. 3» [1° acetificio tedesco, Premium, 1868, Balsamico, Ricetta n. 3] su aceti prodotti dalla Balema GmBH..

La Corte Suprema tedesca BGH (Bundesgerichtshof) ha sollevato la seguente questione pregiudiziale interpretativa del reg. 583/2009 recante iscrizione nel registro delle denominazioni d’origine protette e delle indicazioni geografiche protette della denomnazione Aceto Balsamico di Modena (IGP) (e delle pertinenti norme del reg. 1151/2012 , spt. artt. 13 e 41)  : «se la tutela di cui beneficia la denominazione “Aceto Balsamico di Modena” nel suo insieme si estenda anche all’utilizzazione dei singoli termini non geografici che compongono tale denominazione (“Aceto”, “Balsamico”, “Aceto Balsamico”)» (v. § 22 Conclusioni A.G.).

Sono da poco state presentate la conclusioni dell’Avvocato Generale Hogan, sfavorevoli al Consorzio, avendo dato risposta risposta negativa alla domanda posta dal BGH.

Secondo l’ A.G.  (v. § 14) la denominazione è protetta solo nella sua interezza, mentre non è  protetta nella sue singole parole non geografiche “Aceto”, “Balsamico” e “Aceto Balsamico”. Pertanto la Balema GmBH può continuare a scrivere sull’etichetta «Balsamico» e «Deutscher Balsamico» (AG in causa C-432/18 nelle sue conclusioni 29.07.2019)

TAR Lazio conferma il provvedimetno dell’AGCM a carico di Volkswagen nel caso “dieselgate”

Il fatto è così esposto nel provvedimento 26.137 del 4 agosto 2016 dell’AGCM contro Volkswagen Group Italia S.p.A. e Volkswagen AG:

<<1. Il procedimento concerne il comportamento posto in essere dai professionisti, consistente nella  commercializzazione, a partire dall’anno 2009, sul mercato italiano di autoveicoli e veicoli commerciali, con motorizzazioni sia diesel che benzina, le cui emissioni inquinanti o concernenti l’ambiente non sarebbero conformi ai  valori dichiarati in sede d i omologazione, ovvero la cui omologazione è stata ottenuta attraverso l’utilizzo di un software nella centralina di controllo del motore (cosiddetto “ impianto di manipolazione ” o defeat device ), in grado di far sì che il comportamento del veicolo sia dive rso durante i test di banco per il controllo  delle emissioni rispetto al normale impiego su strada>>.

L’AGCM ritenne la pratica scorretta ai sensi degli artt. 20, comma 2, 21 comma 1, lettera b ), e 23, comma 1, lettera d ), del Codice del Consum.

L’art. 20 c. 2 così recita: <<Divieto delle pratiche commerciali scorrette – (…) ; 2. Una pratica commerciale e’ scorretta se e’ contraria alla diligenza professionale, ed e’ falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale e’ diretta o del membro medio di un gruppo  qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di  consumatori.>>

L’art. 21 c. 1 lett. b) così recita:<<Azioni ingannevoliE’ considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o e’ idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o piu’ dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o e’ idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso:
a) …; b) le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilita’, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneita’ allo scopo, gli usi, la quantita’, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto;>>

L’art. 23 c. 1 lett. d) così recita: <<Pratiche commerciali considerate in ogni caso ingannevoli –  Sono considerate in ogni caso ingannevoli le seguenti pratiche commerciali:

a) ..; b) …; c) …; d) asserire, contrariamente al vero, che un professionista, le sue pratiche commerciali o un suo prodotto sono stati autorizzati, accettati o approvati, da un organismo pubblico o privato o che sono state rispettate le condizioni dell’autorizzazione, dell’accettazione o dell’approvazione ricevuta;>>

Pertanto ne vietò la diffusione o continuazione e irrogò in solido alle predette società  una sanzione amministrativa pecuniaria di 5.000.000 € (cinquemilioni di euro).

La società sanzionate ricorsero al TAR Lazio, il quale il quale però,  con provvedimento della sez. I datato 31 maggio 2019 (N. 06920/2019 REG.PROV.COLL. N. 12293/2016 REG.RIC.), reperibile nel database del sito www.giustizia-amministrativa.it,  ha confermato totalmente il provvedimento dell’AGCM, rigettando il ricorso.

Questioni in tema di decadenza di marchio per non uso quinquennale (art. 24 C.p.i.): la guerra commerciale tra Mediaset-RTI e ITV

Il Tribunale di Torino con sentenza n. 19/2019 del 04.01.2019, RG 4851/2017, affronta il caso di decadenza dei marchi dennominativi/figurativi “Passaparola” per non uso quinquennale, relativamente a servizi media e televisivi principalmente, ma anche a beni e servizi di altro tipo.

i fatti in breve.

La società ITV GLOBAL ENTERTAINMENT LTD (di seguito solo “ITV”) cita RETI TELEVISIVE ITALIANE – R.T.I. – S.p.A.,(di seguito solo “RTI” davanti al Tribunale di Torino per sentire dichiarare la decadenza dei marchi <<Passaparola>>, in titolarità alla convenuta, per non uso quinquennale, registrati non solo per telecomunicazioni ma anche per settori molto diversi, evidentemente allo scopo di valorizzarli tramite merchandising.

ITV , appartenente ad uno dei pricipali gruppi di produttori e emittenti televisive del Regno Unito, aveva creato un format, chiamato <<The Alphabet Game>>,  che aveva concesso in licenza per l’Italia alla società Einstein Multimedia SRL , la quale lo aveva sublicenziato a RTI ( realizzando per questa anche la produzione esecutiva di varie edizioni del relativo programma). La versione italiana di <<The Alphabet Game>> era stata trasmessa su Canale 5 a partire dall’ 11 gennaio 1999 col titolo “Passaparola”. Il medesimo format era stato concesso in licenza da ITV anche in altri paesi, tra cui ad esempio in quelli di lingua spagnola col titolo “Pasapalabra”.  Successivamente Einstein Multimedia non aveva rinnovato la licenza a RTI e lo show “Passaparola” venne interrotto, dopo la realizzazione di un’edizione speciale tra il 2007 e l’inizio del 2008 (l’ultima delle quali esattamente il 27 gennaio 2008 sempre su Canale 5).

Il 20 maggio 2009 ITV deposita domanda di marchio UE <<Pasapalabra>> per servizi  televisivi e di intrattenimento (classi 38 e 41), domanda accolta dall’EUIPO il 28 gennaio 2016.

Il 26 ottobre 2016 però RTI propone all’EUIPO stesso domanda di nullità di tale  marchio di ITV , perché richiesto in malafede (secondo ITV, come reazione ad un’azione giudiziaria promossa in Spagna da ITV c. Mediaset Espana che avrebbe usato il marchio <<Pasalabra>>: p. 9).

In diritto

Alla luce di tali fatti, segnalo quattro passaggi della sentenza (il secondo di diritto processuale generale):

1)   Sull’interesse ad agire per proporre la domanda di decadenza –

Tra le altre difese, RTI eccepisce la mancanza di interesse di ITV (art. 122 .c.2 c.p.i.) per le classi merceologiche relative al merchandising e cioè per quelle diverse dai servizi televisivi. RTI basa l’eccezione sul fatto che: <<1…. il marchio UE di controparte copre unicamente le classi mediatiche 38 e 41; 2. in relazione a tale marchio, quest’ultima è attiva unicamente nel settore televisivo e mediatico; 3. la giurisprudenza (costante) è preclara nell’interpretare l’art. 122 CPI2, affermando che esso interesse consta unicamente in presenza di un ostacolo (anche solo potenziale) alla propria attività dall’esistenza del titolo altrui, cosa che, nella specie, è evidentemente da escludere in relazione ai prodotti e servizi non mediatici (prodotti e servizi che non siano nelle classi 38 e 41), visto che non sono oggetto delle attività imprenditoriali riferibili a parte attrice, né sono in alcun modo rivendicati dalla medesima>>.

In breve, la mancanza di interesse deriverebbe dal fatto che ITV non è presente attualmente in quei settori merceologici.

[RTI per vero afferma la mancanza di tale interesse anche per i servizi televisivi, affermando che la “caduta” dei marchi di RTI non era necessaria a ITV per difendersi presso ‘EUIPO: RTI aveva infatti ivi chiesto la nullità del marchio <<Pasapalabra>> di ITV perchè domandato in mala fede, non  per carenza di novità (p. 11-12)]

La Corte Torinese respinge l’eccezione, dicendo che <<che la legittimazione e l’interesse ad agire competono a tutti gli operatori economici del settore cui si riferisce la privativa e, in particolare, a qualsiasi imprenditore concorrente, anche in via potenziale e futura, del titolare sulla sola base dell’affermazione che egli trova nella presenza della stessa un ostacolo all’esercizio della propria attività e senza che debba essere richiesta anche la dimostrazione di un interesse di tipo più specifico. In particolare, l’interesse ad agire della parte attrice deve ritenersi sussistente anche con riferimento alle classi di registrazione dei Marchi RTI n. 9, n. 14, n. 16, n. 18, n. 35, n. 39 e n. 42. Invero, la parte attrice, essendo concorrente di RTI, è ovviamente interessata a operare nei medesimi settori di attività, anche collaterali a quello televisivo.>> (p. 12-13, § 3.3).

Il principio è importante: la decadenza può essere chiesta da qualunque imprenditore concorrente, anche se attualmente non operante in questi settori merceologici: non si chiede altro. Quindi si potrebbe anche riformulare affermando che, per aversi interesse ad agire ex art,. 122 c. 2 cpi, basta che l’istante sia concorrente del titolare del marchio impugnato in qualunque settore merceologico, anche se diverso da quelli per il quale chiede la decadenza.

2) Sull’onere di contestazione ex art. 115 c. 1 c.p.c.

Secondo la Corte, l’allegazione di ITV sulla data finale di uso del segno distintivo “passaparola” da parte di RTI, contenuta nell’atto di citazione, non è stata specificamente contestata da RTI in comparsa di costituzione e risposta: ne segue che deve considerarsi pacifica in causa in base alla’rt. 115 c. 1 cpc.

L’affermazione della Corte lascia perplessi. E’ vero che secondo l’articolo 167 CPC il convenuto deve propore le sue difese <<prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda>>.

E’ però anche vero che ciò non è previsto a pena di decadenza, a differenza di quanto previsto nel seg. c. 2 per riconvenzionali ed eccezioni non rilevabili di ufficio.

Secondo la dottrina, infatti, la contestazione ex art. 115 c. 1 cpc può  avvenire fino alle memorie ex art. 183 c. 6 cpc.

3) Sulla ripresa dell’uso del segno, secondo l’articolo 24 c. 3 c.p.i.

Secondo RTI, la domanda di decadenza va respinta poichè , a prescindere dal non uso quinquennale, essa aveva comunque ripreso l’uso effettivo dei marchi contestati (sia pure solo per le classi 38 e 41) tramite repliche del programma sul canale Mediaset Extra dal 9 dicembre 2013 ai primi mesi del 2014.

La Corte accoglie l’eccezione, poichè tali repliche configurano infatti l’ “uso effettivo” richiesto dalla citata norma. I fatti valorizzati per giungere a questa conclusione sono: << – Mediaset Extra è un importante canale tematico specificamente dedicato alle repliche dei programmi Mediaset nella fascia assegnata nel palinsesto e, dunque, è uno dei canali tramite il quale RTI esercita la propria consistente attività imprenditoriale; – gli ascolti totalizzati da Passaparola su Mediaset Extra, risultano comparabili a molti dei principali canali tematici italiani; – in particolare, nel mese di dicembre 2013, Passaparola ha avuto un’audience comparabile ai risultati di canali come Boing, Italia 2, Sky Cinema 1, Focus, Giallo, Frisbee, TV2000 e superiori a canali notissimi come TG24, La7d, Rai 5, Rai News, Rai Sport, MTV Music, Alice, Arturo, Leonardo e Marco Polo; – inoltre, nel gennaio 2014, Passaparola ha avuto un’audience comparabile ai risultati di canali come Rai News e TV 2000 e superiori a canali come Italia 2, TG 24, Rai Storia, 7Gold; – infine, nel febbraio 2014, Passaparola ha avuto un’audience comparabile ai risultati di canali come Rai News, L2 e TV 2000 e superiore a canali come 7 Gold, Rai 5, Rai Sport, Rai Storia, Italia 2, TG Com 24 e La7D>>.

La Corte conclude sul punto osservando: <<del resto, come chiarito da autorevole dottrina, non è possibile pretendere di predefinire delle soglie quantitative minime di uso del segno, dovendosi invece stabilire di volta in volta, in relazione alle variabili del caso concreto, se l’uso possa ritenersi sufficiente ed essendo sufficiente l’uso, quando (come nel caso di specie) il marchio conserva, in relazione alla natura del prodotto che ne è contraddistinto e al consumo che di questo si vuole fare, la sua individualità e testimonia la persistente presenza dell’impresa sul mercato>> (p. 15-16, § 3.6)

La Corte però salva il segno solo per le classi 38 e 41, le sole per le quali è stato documentata la rispresa dell’uso; per le altre la decadenza non è evitata.

4) Sulla salvezza per il caso di “diritti acquisiti sul marchio da terzi col deposito o con l’uso” (incipit dell’art. 24 c. 3 c.p.i.)

ITV fa presente che la sanatoria della decadenza (il non uso è stato accertato tra il 27 gennaio 2008 e il 9 dicembre 2013: v. sub 3.5, p. 15) non può operare, dato che il 20 maggio 2009 essa ha depositato domanda di marchio europeo <<Pasapalabra>>, del tutto confondibile con <<Passaparola>> (di cui è anzi la traduzuione in lingua spagnola). Diverrebbe quindi invocabile la clausola di salvezza, posta all’inizio dell’articolo 24 comma 3 cpi, ostativa alla sanatoria del marchio.

La Corte rigetta la controeccezione di ITV: e ciò a prescindere dalla sovrapponibilità di “Pasapalabra” a “Passaparola” e quindi dalla astratta idoneità  del primo a dar luogo a diritti sul secondo.

Il marchio “Pasapalabra” di ITV, infatti,  pur depositato nel 2009, è stato però registrato solo nel 2016: dunque successivamente agli utilizzi del marchio <<Passaparola>> in Italia, che lo hanno  sanato, evitandone la decadenza.

Per stabilire detto rapporto cronologico di anteriorità/posteriorità per i marchi UE, infatti, ciò che conta è la data di registrazione e non quella di deposito. Infatti, da un lato, secondo l’art. 9 c. 1 del reg. UE 2017/1001, è la registrazione a conferire il diritto esclusivo; dall’altro, secondo l’art. 11 c. 1 del medesimo Reg., tale  diritto <<è opponibile ai terzi solo a decorrere dalla data della pubblicazione della registrazione del marchio>>.

Pertanto l’acquisto del diritto sul marchio UE da parte di ITV ex art. 24 c. 3 cpi  ha avuto luogo solo con l’avvenuta registrazione (cioè nel 2016).

Quindi non può trovare applicazione il riferimento al deposito, presente nell’incipit dell’art. 24 c. 3 c.p.i., che sarà semmai riferibile ai depositi nazionali: per questi infatti l’art. 15 c. 2 CPI fa retroagire gli effetti della registrazione alla data della domanda.

In sintesi, dunque, la registrazione retroagisce alla data della domanda solo per i marchi nazionali, non per quelli UE (pag. 17-18, sub 3.8).