La rappresentazione del disegno o modello in domanda deve essere univoca, pena la nullità

Marcel Pemsel su IPKat ci notizia di un particolare ma interessante caso  deciso da Trib. UE 23.10.2024, T-25/23, Orgatex c. EUIPO+Lawrence Longtont.

Il ricorrente aveva chiesto la registrazione di un segnale orizzontale, ma con rappresentazioni grafiche, che non era chiaro se concernessero il medesimo oggetto.

Non c’è bisogno di soffermarsi sull’esigenza che nella domanda di registrazione invece dette rapresentazioni devono concernere proprio un solo oggetto, dato che su quello vanno resi i giudizi  di novità e carattere individuale (v. § 36 ss sulla ratio di questa ovvia regola).

Ebbene il Trib. conferma che non paiono riguardare il medesimo oggetto e quindi conferma pure il rigetto amministrativo

Quindi fare mlta attenzione nella redazione della domanda.

Marcel offre due saggie indicazioni: <<1. Simple means: Show only the product or product part that incorporates the design to be protected. Avoid including additional items, a background, any stylistic means (such as lighting or reflections) or trade marks (in particular figurative marks).

Also, unless necessary to obtain the desired scope of protection, filing a single view can be sufficient. In the case above, it seems that views 1.2 or 1.4 would have adequately protected Orgatex’ interest in the designs.

2. Consistent means: If you are a lawyer and get pictures of the goods from your client, play a complex version of the game ‘spot the difference’ between all views. If put together in one’s mind, the representations must form a coherent product design.

Even minor discrepancies between the views should be avoided, even though they do not necessarily lead to the invalidity of the design, provided they can be explained, for instance by different lighting (for an example see here).>>

Mancanza di distintività del noto marchio figurativo CHIQUITA

Questo il marchio chiesto in registrazione da Chiquita Brands per alimenti.

 TRIB UE 13.11.2024 , T-426/23, Chiquita Brands v. EUIPO, rigetta la domanda perchè privo di distintività.

Dal comunicato stampa del Trib.:

<<Nella sua sentenza, il Tribunale respinge il ricorso e conferma quindi la nullità del marchio per la frutta fresca.
Il Tribunale ritiene che né la forma né lo schema di colori blu e giallo del marchio gli conferiscano carattere distintivo. Infatti, la forma del marchio corrisponde a quella di una semplice figura geometrica (una variazione di un ovale), senza caratteristiche facilmente e immediatamente memorizzabili. Inoltre, le etichette di forma ovale sono comunemente utilizzate nel settore delle banane, in quanto sono facili da applicare su frutti incurvati. Di conseguenza, tale forma non sarà idonea ad attirare l’attenzione del pubblico né permetterà a quest’ultimo di identificare l’origine commerciale della frutta fresca contrassegnata dal marchio.
Quanto allo schema dei colori, il Tribunale rileva che si tratta di una combinazione di colori primari frequente nel commercio della frutta fresca e il suo uso nel marchio non la rende particolarmente caratteristica o significativa. Tali colori non sarebbero quindi idonei a individualizzare detti prodotti.

Secondo il Tribunale, la Chiquita Brands non è riuscita a dimostrare che il suo marchio, così come è stato registrato, avesse acquisito in tutto il territorio dell’Unione un carattere distintivo in seguito all’uso che gli avrebbe consentito di identificare l’origine commerciale dei prodotti in parola. Infatti, da un lato, la maggior parte delle prove presentate si riferisce solo a quattro Stati membri, e non è stato dimostrato che la situazione del mercato della frutta fresca in tali paesi sarebbe stata la stessa negli altri Stati membri. Dall’altro, nella quasi totalità delle prove, il marchio appare assieme ad  elementi figurativi o denominativi aggiuntivi, in particolare la parola «chiquita» >>

Lo slogan politico non è segno sufficientemente distintivo dell’origine per potere essere registrato come marchio

Trib. UE 13.11.2024, T-82/24, Administration of the State Border Guard Service of Ukraine, con sede in Kiev (Ucraina) c. EUIPO affronta un interessante quesito.

<<35  (…) la commissione di ricorso non è incorsa in alcun errore di diritto ritenendo che il principio generale secondo cui il pubblico di riferimento è poco attento nei confronti di un segno che non gli fornisce immediatamente un’indicazione sulla provenienza dei prodotti e dei servizi di cui trattasi, dato che non lo percepirebbe né lo memorizzerebbe come marchio, si applichi anche a segni il cui messaggio principale è di natura politica.

36 Orbene, tenuto conto della funzione essenziale di un marchio, quale ricordata al precedente punto 16, un segno non è in grado di svolgere tale funzione se il consumatore medio non percepisce, in sua presenza, l’indicazione dell’origine del prodotto o del servizio, bensì unicamente un messaggio politico.

(…)

38 Nel caso di specie, la commissione di ricorso ha considerato, ai punti 34 e 37 della decisione impugnata, che il marchio richiesto non sarebbe percepito dal pubblico di riferimento come indicativo di un’origine commerciale. Peraltro, essa ha precisato, al punto 36 della decisione impugnata, che la frase ripresa nel marchio richiesto sarebbe interpretata anzitutto come un messaggio politico e che tale percezione sarebbe identica per tutti i prodotti o i servizi designati da tale marchio.

39 Conseguentemente la commissione di ricorso ha ritenuto che i prodotti e i servizi oggetto del marchio richiesto costituissero un gruppo sufficientemente omogeneo, tenuto conto dell’impedimento assoluto alla registrazione in cui ricadeva, a suo avviso, la registrazione di detto marchio.

40 Avendo, correttamente, considerato che il marchio richiesto non sarebbe percepito dal pubblico di riferimento come indicativo di un’origine commerciale, ma come un messaggio politico che promuove il sostegno alla lotta dell’Ucraina contro l’aggressione militare della Federazione russa, la commissione di ricorso poteva validamente raggruppare tutti i prodotti e i servizi oggetto del marchio richiesto in un’unica categoria, sebbene essi presentassero caratteristiche intrinseche diverse.

41 Pertanto, tenuto conto della specificità del marchio richiesto e della sua identica percezione da parte del pubblico di riferimento rispetto all’insieme dei prodotti e dei servizi oggetto della domanda di registrazione, la commissione di ricorso non è incorsa in alcun errore di valutazione nel ritenere che detti prodotti e servizi facessero parte di un solo gruppo al quale si applicava, alla stessa maniera, l’impedimento alla registrazione da essa individuato.

42 In terzo luogo, secondo una giurisprudenza costante, il carattere distintivo di un marchio ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), del regolamento 2017/1001 dev’essere valutato in funzione, da un lato, dei prodotti o dei servizi per i quali è chiesta la registrazione e, dall’altro, della percezione che ne ha il pubblico di riferimento (v. sentenza del 29 aprile 2004, Henkel/UAMI, C‑456/01 P e C‑457/01 P, EU:C:2004:258, punto 35 e giurisprudenza ivi citata).

(…)

44 Da quanto precede risulta che la commissione di ricorso ha correttamente concluso che il marchio richiesto era privo di carattere distintivo ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), del regolamento 2017/1001>>.

Problem- solution approach in una valutazione veneziana di originalità dell’invenzione

Trib. Venezia 15.03.2024, RG 3212/2021, rel. Guzzo, Vem spa v. SACCARDO ELETTROMECCANICA s.r.l.u. :

<<Il metodo problem- solution approach, prevede che si debba procedere dopo l’
individuazione dell’arte nota più vicina (closest prior art) che nel caso di specie è
proprio l’elettromandrino EFL , all’identificazione del problema tecnico affrontato dal brevetto e alla valutazione circa il fatto se, partendo dall’anteriorità più prossima e dalla considerazione del problema tecnico, il trovato fatto oggetto del brevetto sarebbe risultato ovvio o meno per la persona esperta del ramo.

Quanto al problema tecnico le stesse linee Guida dell’EPO prevedono che debba essere individuato il problema tecnico che effettivamente l’invenzione risolve sulla base dell’effetto tecnico delle caratteristiche distintive del trovato; di tal che qualora emerga come nel caso di specie che l’ arte nota più vicina al brevetto non sia stata considerata nel brevetto, il problema tecnico non potrà essere confinato necessariamente al problema tecnico “soggettivamente” ivi indicato ma dovrà esser “riformulato” al fine di individuare il problema tecnico oggettivo che l’invenzione è idonea a risolvere sulla base delle sue caratteristiche distintive.
In tal senso è corretto e ben motivato l’operato del CTU che proprio in base alle caratteristiche distintive del trovato brevettuale già sopra illustrate ha individuato il problema tecnico oggettivo identificato “ in come montare in maniera semplice la testa  portautensile sull’albero motore 3 dell’elettromandrino con l’impiego di un inserto 10, il quale possa essere realizzato in materiale differente dal materiale, con il quale è realizzato l’albero motore 3, e possa preservare questo da possibili danneggiamenti legati all’uso dell’elettromandrino”.
Non è abbisognevole di ulteriori chiarimenti la individuazione del problema tecnico da risolvere effettuata dal CTU non essendo condivisibile il rilievo di parte attrice secondo cui le caratteristiche distintive non risolverebbero detto problema tecnico (che sarebbe dunque non correttamente formulato) stanti altri inconvenienti presenti (“il vincolo indiretto della testata all’albero motore tramite l’inserto” comporta lo svantaggio di richiedere “la rimozione dell’intera testata quando si deve rimuovere l’inserto in caso sia necessaria la sua sostituzione”) : invero non è raro che la soluzione al problema tecnico oggettivo, possa introdurre inconvenienti di diversa natura ma la presenza di altri inconvenienti- che potrà esser se del caso ovviata da altre soluzioni – non esclude
che le nuove caratteristiche trovate sia solutive di quel problema.
Infine è stato adeguatamente utilizzato il c.d. “could – would approach“, per verificare se alla luce dell’arte nota e della anteriorità più prossima l’esperto del ramo sarebbe stato spinto logicamente e quasi certamente (“would”), a risolvere il problema tecnico oggettivo come rivendicato in IT027 ovvero avrebbe solo potuto (“could”) giungere a detta soluzione>>.

Il diritto di riproduzione dei beni culturali è una privativa pubblicistica e non privatistica: per cui non è avvicinabile al diritto di autore

Gilberto Cavagna ci informa di un’interessante sentenza di appello, App. Bologna , Aceto Balsamico del Duca di Adriano Grosoli srl c. Min. Beni culturali, RG 162/2020, rel. Donofrio, relativo all’ormai importante tema dello sfruttamento commerciale (non autorizzato)  della riproduzione di beni culturali (art. 106 ss TU 42/2004).

Si trattava dell’inserimento in un marchio della riproduzione del quadro di Velasquez, raffigurante il Duca Francesco I di Este.

In primo grado la domanda di danno del Ministero era stata accolta e la srl aveva appellato.

In appello la sentenza viene in sostanza confermata, anche se per alcuni anni viene affermata la prescrizione (quinquennale) del credito per canoni omessi.

I punti più importanti :

i) la privativa cit. è pubblicistica , per cui non avvicinabile a quelle privatistiche tipiche (autore, marchi etc.). Ne segue che non sottosta alla necessità di pubblico dominio confermata dall’art. 14 Dir. Copyright (nella stessa ottica la disposizione nazionale attuativa, art. 32 quater l. aut.,  esenta ilcod. beni culturali).

Ci si potrebbe naturalmente chiedere se la disciplina nazionale fosse compatibile con la cit. norma UE.

ii) la sua disciplina non contrasta con alcuna disposizione costituizionale interna (“Si deve inoltre ritenere totalmente infondata la questione di costituzionalità come prospettata dall’appellante in rapporto all’asserito contrasto tra la normativa in materia di beni culturali e gli articoli 3, 9 10, 41,76 e 77 della Costituzione, giacchè, come già sopra evidenziato, i beni sottoposti a vincolo culturale ricevono dall’ordinamento una tutela pubblicistica in quanto espressione di un’identità collettiva che l’ordinamento intende preservare. Pertanto, la durata temporale illimitata dei diritti relativi ai beni culturali non appare irragionevole, ma risponde a prevalenti ragioni costituzionali di valorizzazione e fruizione collettiva degli stessi, escludendo, di conseguenza, una qualsiasi disparità di trattamento tra enti pubblici e privati nella gestione di tali beni, poiché soltanto i primi possono assicurarne un uso compatibile con le esigenze dell’ordinamento“).

iii) essa è avvicianabile invece al diritto al nome e al ritratto, per cui è ammessa l’inibitoria.

Il punto iii) è però assai dubbio ed anzi errato: parificare un diritto sulla res (seppur per ragioni di pubblica utilità) ad un diritto personalissimo come nome ed immagine non ha fondamento. L’insistere sulla sua ratio pubblicistica impedisce di (e contasta col) ravvisare l’eadem ratio, necessaria per invocare l’analogia coi citt. diritto a nomne e immagine.

Grazie a Gilberto per l’utile aggiornamento.

Sulla disciplina della fotografia semplice ex art. 87 ss l. aut.

Trib. Milano 31.08.2023 , RG 43030/2019, Appetito c. RSC, rel. Marangoni, sull’uso di una fotografia di Alberto Sordi sscatata nel 1979 durante le riprese di Il malato immaginario.

Il T. qualifica come fotografia semplice:

<<La valutazione della fotografia nel suo complesso non può che condurre ad assegnare alla stessa la più
limitata tutela di cui agli artt. 87 e ss. l.a.
Invero, l’immagine è pacificamente quella eseguita nel corso delle riprese del film “Il malato
immaginario” e rappresenta il protagonista del personaggio principale dell’opera interpretato
dall’attore Alberto Sordi in una posa della narrazione stessa, e cioè in un letto e in camicia da notte.
L’immagine ripresa dall’Appetito costituisce con evidenza la mera ripresa della rappresentazione del
personaggio nei termini e nell’aspetto scelti per la raffigurazione filmica di esso, senza che sia in effetti
individuabile l’aggiunta o l’integrazione in tale fotografia di scena di profili di caratterizzazione o di
creatività specificamente attribuibili al fotografo, al di là cioè di quelli che possono ritenersi pertinenti
alle scelte registiche, comprendenti anche gli aspetti scenografici e i costumi prescelti per la
rappresentazione stessa di quella particolare scena>>

A nulla serve che sia inserita in un Archivio storico: la valtuazione va fatta solo a sensi della l. aut.

Ne segue però che l’usoda parte di RCS, non menzinante il nome del fotografo, essendo avvenuto nel 2018 e cioè decorso il ventennio di protezione ex lege (art. 92), fu lecito.

Innteressante  è l’aggancio a tale temrine anche di quello del diritto morale di essere menzioanto ex art. 90 n. 1 l. aut.:

<<La disposizione dell’art. 90, comma 1 l.a. – che esige che gli esemplari della fotografia debbano essere
diffusi con la menzione dell’autore (o del soggetto titolare dei diritti di utilizzazione economica, quali
ad esempio il committente della stessa) – è evidentemente predisposta al fine di consentire
l’opponibilità dei diritti connessi del fotografo (o dei titolari dei diritti sull’immagine) ai terzi, sicchè –
a mente del secondo comma della medesima disposizione di legge – la mancanza di tali indicazioni
determina la libera riproducibilità dello scatto da parte di terzi.
Se, dunque, tale ipotesi comunque non pare attenere in sé alla tutela del diritto morale dell’autore della
fotografia – in quanto specificamente rivolta a consentire l’opponibilità dei diritti connessi
sull’immagine ai sensi degli artt. 88 e ss. l.a. – deve rilevarsi che l’imporre in epoca successiva alla
scadenza fissata dall’art. 92 l.a. ad un utilizzatore di un’immagine in libera riproduzione l’onere di
menzionare il nome dell’autore, oltre ad non essere stabilito da alcuna disposizione attinente alle
fotografie “semplici”, sarebbe evidentemente eccessivo e di fatto inesigibile, laddove – come nel caso
di specie – l’immagine sembrerebbe essere circolata priva di tale indicazione.
La semplice omissione del nome dell’autore – ove intervenuta la scadenza prevista dall’art. 92 l.a. –
non può costituire dunque fonte di illecito, mentre il richiamo a principi generali che consentono ad
ogni individuo di rivendicare la paternità del frutto delle proprie attività potrebbe trovare un
fondamento nella particolare ipotesi (qui non sussistente) in cui la paternità dell’immagine sia stata attribuita a persona diversa>>

 

Keyword advertising e avvedutezza del consumatore medio online nel diritto dei marchi

L’appello del 9 circuito n. 23-16060 del 22.10.2024, Lerner&Rowe v. Brown Engstrand&Shely decide una lite per violazione di marchio tra due studi legali avvenuta tramite keyword advertising (k.a.).

Il Panel non affronta le legittimità di quest’ultimo strumento secondo la legge marchi, limitandosi a dire che non ricorre confondibilità tra gli esiti della ricerca Google e il nome/i segno dello studio attore.

Rigetta quindi la domanda.

E’ infatti assai  fiducioso sull’avvedutezza dell’utente medio di internet:

<<Google’s search engine is so ubiquitous that we can be confident that the reasonably prudent online shopper is familiar with its layout and function, knows that it orders results based on relevance to the search term, and understands that it produces sponsored links along with organic search results. Moreover, in this case, the relevant consumers specifically typed in “Lerner & Rowe” as a search term, suggesting that they would be even more discerning of the results they received. Therefore, because this case involves shopping on Google by using the precise trademark at issue, this factor weighs in favor of ALG.>>

E poi:

<The district court was correct to conclude that this is one of the rare trademark infringement cases susceptible to summary judgment. The generally sophisticated nature of online shoppers, the evidence demonstrating that there is not an appreciable number of consumers who would find ALG’s use of the mark confusing, and the clarity of Google’s search results pages, convince us that ALG’s use of the “Lerner & Rowe” mark is not likely to cause consumer confusion.>>.

Del che c’è da dubitare, come avverte Eric Goldman (dal cui blog prendo notizia della e link alla sentenza)

L’opinione concorrente di  J. Desai invece esamina se il k.a. costituisca “uso del marchio”. Ricorda un importante precedente del 2011 del 9 ciruito, che rispose in senso affermativo: ma ora intende rovesciarlo,  perchè non esatto.

<<Whether an action, like bidding
on keywords, that involves no display or presentation of a
mark whatsoever satisfies the “use in commerce” definition.
In other words, does a buyer of advertising keywords who
bids on certain terms and phrases “use” its competitor’s
mark when bidding on it?
In Network Automation, we answered, yes. 638 F.3d at
1144–45. But we provided no analysis to support this
holding, id. at 1145, and we relied on cases with
meaningfully different facts. >>

Chiede quindi un riesame della questione.

La tutela del software copre solo i codici sorgente e oggetto, non le variabili ulteriori, sulle quali i concorrenti possono apportare modifiche con applicaizoni integrative

Importante (perchè non scontata) ed esatta precisazione di Corte Giust. 17/10/2027, C-159/23, Sony c. DAtel .

Il fatto:

<<15 La Sony commercializza, in qualità di licenziataria esclusiva per l’Europa, consolle per videogiochi Playstation nonché videogiochi per tali consolle. Fino al 2014, la Sony commercializzava, tra l’altro, la consolle PlayStationPortable (in prosieguo: la «consolle PSP») nonché taluni videogiochi per questa consolle, fra cui il videogioco MotorStorm Arctic Edge (in prosieguo: il «videogioco di cui trattasi»).

16 La Datel sviluppa, produce e distribuisce software, in particolare prodotti integrativi delle consolle per videogiochi della Sony, tra cui il software Action Replay PSP nonché un dispositivo, il Tilt FX, corredato di un software avente lo stesso nome, che consente di comandare la consolle PSP mediante movimento nello spazio. Tali software funzionano esclusivamente con i giochi originali della Sony.

17 L’esecuzione del software Action replay PSP avviene collegando la consolle PSP a un elaboratore ed inserendo in tale consolle una chiavetta USB che carica detto software. Dopo il riavvio di detta consolle, l’utilizzatore dispone, nell’interfaccia, di una funzione supplementare «Action replay» che offre all’utilizzatore opzioni di gioco non previste nell’attuale fase del videogioco da parte della Sony. In tale scheda figurano, ad esempio, per quanto riguarda il videogioco di cui trattasi, opzioni che consentono di eliminare qualsiasi restrizione nell’utilizzo del «turbo» (booster) o di disporre non soltanto di una parte dei conducenti, ma anche della parte di essi che, altrimenti, potrebbe essere attivata solo dopo aver ottenuto un determinato punteggio.

18 Per quanto riguarda il Tilt FX, l’utilizzatore dispone di un sensore che è collegato alla consolle PSP e che consente di comandare tale consolle grazie ai movimenti di quest’ultima nello spazio. In tale consolle deve essere introdotta anche una chiave USB allo scopo di predisporre l’intervento del sensore di movimento, il che rende disponibile, nell’interfaccia, una funzione supplementare che elimina, in particolare, talune restrizioni. Così, per il videogioco di cui trattasi, tale funzionalità consente un utilizzo illimitato del turbo>>.

La CG:

37  Risulta quindi dalla formulazione dell’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2009/24, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 37 delle sue conclusioni, che il codice sorgente e il codice oggetto rientrano nella nozione di «forma di espressione» di un programma per elaboratore, ai sensi di tale disposizione, in quanto consentono la riproduzione o la realizzazione di tale programma in una fase successiva, mentre altri elementi di quest’ultimo, quali in particolare le sue funzionalità, non sono tutelati da tale direttiva. Detta direttiva non tutela neppure gli elementi mediante i quali gli utilizzatori sfruttano tali funzionalità, senza tuttavia consentire una simile riproduzione o realizzazione del programma in una fase successiva.

38 Come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 38 e 40 delle sue conclusioni, la tutela garantita dalla direttiva 2009/24 è limitata alla creazione intellettuale quale essa si riflette nel testo del codice sorgente e del codice oggetto e, pertanto, all’espressione letterale del programma per elaboratore in tali codici, che costituiscono rispettivamente una serie di istruzioni in base alle quali l’elaboratore deve svolgere i compiti previsti dall’autore del programma. (…)

50  Nel caso di specie, il giudice del rinvio osserva che il software della Datel è installato dall’utilizzatore sulla consolle PSP ed è eseguito contemporaneamente al software di gioco. Detto giudice aggiunge che tale software non modifica e non riproduce né il codice oggetto, né il codice sorgente, né la struttura interna e l’organizzazione del software della Sony, utilizzato sulla consolle PSP, ma si limita a modificare il contenuto delle variabili temporaneamente inserite dai videogiochi della Sony nella memoria RAM della consolle PSP, che sono utilizzate durante l’esecuzione del videogioco, cosicché quest’ultimo viene eseguito sulla base di tali variabili dal contenuto modificato.

51 Inoltre, come risulta dalla motivazione della decisione di rinvio, risulta che il software della Datel, modificando unicamente il contenuto delle variabili inserite da un programma per elaboratore tutelato nella memoria RAM di un elaboratore ed utilizzate da tale programma nel corso della sua esecuzione, non consente, in quanto tale, di riprodurre tale programma né una parte di esso, ma presuppone, al contrario, che tale programma sia eseguito in contemporanea. Come sostanzialmente sottolineato dall’avvocato generale al paragrafo 48 delle sue conclusioni, il contenuto delle variabili costituisce quindi un elemento di detto programma, attraverso il quale gli utilizzatori sfruttano le funzionalità di tale programma, elemento che non è protetto in quanto «forma di espressione» di un programma per elaboratore ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2009/24, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare>>.

La tutela concerne le forme diespressioone di unprogramma le quali << sono quelle che consentono di riprodurlo in diversi linguaggi informatici, quali il codice sorgente e il codice oggetto >>, § 34.

Nel keyword search advertisement il mero acquisto del nome altrui non è violazione di marchio

App. del 2 circuito 08.10.2024, 1-800 contacts inc. d. Jand inc. afferma quanto nel titolo.

<<As outlined above, three components to a search advertising campaign are
relevant for our analysis of whether 1-800 has sufficiently alleged trademark
infringement by Warby Parker: first, the defendant’s purchase of a competitor’s
marks as keywords; second, the ads placed on the search results page for the
competitor’s marks; and third, the defendant’s landing webpage to which its ads
are linked. Thus, the central question in this case is whether 1-800 has sufficiently alleged a likelihood of confusion arising from Warby Parker’s use of 1-800’s Marks (i.e., 1800 Contacts,” “1 800 Contacts,” “1800contacts.com,” and “1800contacts”) in the keyword bidding process, the search ads, and/or the linked landing webpage. (….)
Further, in the search advertising context, an alleged infringer’s
purchase of a keyword comprising a competitor’s trademark constitutes a “use in
commerce” of such trademark under the Lanham Act. See Rescuecom Corp., 562
F.3d at 127 (holding that complaint regarding Google’s AdWord’s
recommendation of plaintiff’s trademark to plaintiff’s competitors “adequately
plead[ed] a use in commerce” under the Lanham Act)
(…)
1-800 alleges that Warby Parker made an infringing use of 1-800’s Marks in
the first component of its search advertising campaign: the keyword purchase.
However, as described above, the mere act of purchasing a competitor’s
trademarks as keywords in the search advertising context does not constitute
trademark infringement or unfair competition. See id. at 130. Warby Parker’s
purchase of 1-800’s Marks, standing alone, does not infringe 1-800’s Marks because “a defendant must do more than use another’s mark in commerce to violate the Lanham Act.” Id. The statute requires a showing that the defendant’s use caused consumer confusion. (….)

we conclude that 1-800 has failed to sufficiently plead that Warby Parker’s advertising plan was likely to confuse consumers at any point in the sales process because 1-800 does not claim that Warby Parker actually used the former’s Marks other than by buying them as keywords in the search engine auctions, and such use alone does not create a likelihood of consumer confusion>>

analoga soluzione probabilmente anche in base al nostro art. 20.2 cpi.-

La sentenza poi passa ad esaminare la confondibilità delle “landing pages”, negandola.

(notizia e link da Eric Goldman blog)

La malafede dell’utilizzatore posteire nella convalida del marchio ex art.- 28 cpi

Sorprendente interpretazione del concetto di “malafede” nell’art. 28 da parte di Trib. Milano rel. Bellesi, r.g. 26866/2020 , 07.09.23-27.03.24, FIORENTINA S.P.A. c. Zaffiro srl.

<<Benché debba ritenersi non sufficiente a integrare la malafede prevista dalla norma la semplice conoscenza dell’esistenza del marchio anteriore altrui, essendo anche necessaria l’intenzione di approfittare dell’accreditamento presso il pubblico da quello conseguito (in tal senso, Cass. civ. Sez. I Ord., 13/7/2018, n. 18736), va tenuto presente che l’istituto della convalidazione ha natura eccezionale e presuppone il rigoroso accertamento dei suoi presupposti.
Considerata la notorietà dei marchi della Fiorentina, che sono celebri e conosciuti in Italia e all’estero, per effetto dei successi sportivi della squadra, che è il simbolo della città di Firenze, può ritenersi provato che la dante causa della convenuta Zaffiro fosse a conoscenza dell’esistenza e dell’uso del marchio “Fiorentina”.
Non è ipotizzabile neppure che la stessa, pur essendo a conoscenza dei marchi dell’attrice, ritenesse senza sua colpa che fra i rispettivi segni non sussistesse confondibilità o che fra i rispettivi prodotti o servizi non vi fosse affinità.
Al contrario, la diffusione, la notorietà e l’affermazione presso il pubblico del segno anteriore consentono di affermare che vi fosse, in capo alla titolare del marchio posteriore, la volontà di confondersi o di agganciarsi a un segno anteriore precedentemente affermatosi sul mercato.
Del resto, la somiglianza fra i marchi di cui si controverte è incontestabile; si potrebbe parlare di identicità, se non fosse per la presenza del top level domain “.it” che è comunque irrilevante sotto il profilo distintivo>>.

Interpretazione soprendente dato che la mala fede è la consapevolezza di ledere l’altrui diritto e null’altro (argomenta dalla definizione di buona fede posta dall’art. 1147 cc sul possesso)